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Autore: admin

Soltanto acciaio e ossa

Le preghiere dei bambini

Non brucino più interi quartieri.
Non si vedano più bombardieri.
La notte sia per dormire.
Si cancelli la parola punire.
Le madri non debbano piangere.
Nessuno più debba ammazzare.
Che ognuno possa qualcosa creare.
Che di tutti ci possa fidare.
Che i giovani ottengano tutto questo,
e anche i vecchi…ma presto.

Bertolt Brecht

Lia Levi, Cecilia va alla guerra, Storie d’Italia, Mondadori, 2000

In forma di diario e quindi raccontato in prima persona, il racconto della prima guerra mondiale attraverso gli occhi di Cecilia, undicenne friulana. La storia è piacevole e fa intravedere come si viveva a quei tempi nelle zone di confine. E’ però una storia poco credibile, soprattutto nella seconda parte quando Cecilia, insieme all’amico Marco, insegue una spia che ha sottratto il diario del padre. E’ costruita in modo da “appassionare” e poter nello stesso tempo descrivere in modo meno “noioso” cosa succedeva tra i civili e i militari. Ma resta poco convincente e non sembra probabile che i ragazzini di oggi (a quasi un secolo di distanza!) possano immedesimarsi nei ragazzi protagonisti.

Gary Paulsen, L’uomo delle volpi, Superjunior, Mondadori, Milano, 1999

Intenso anche se breve, questo romanzo di Paulsen, uno dei più grandi scrittori americani per ragazzi, non è un libro che parla di guerra ma questo tema, anche se sullo sfondo, non è affatto secondario. Il bellissimo rapporto che si crea fra il ragazzo protagonista (un adolescente ospitato dagli zii, per allontanarlo dai genitori alcolizzati e violenti) e un vecchio dal viso sfigurato che vive isolato nei boschi, offre numerosi spunti sul tema della diversità, dell’amicizia e della crescita. Ma anche permette di vedere la guerra da due diversissimi punti di vista. L’uno, quello dell’Uomo delle Volpi, che ne rappresenta tutto l’orrore: “Hai sentito parlare di Verdun? (…) E’ stata la definitiva sconfitta della bellezza per mano della scienza; il trionfo delle macchine sulla carne” – indicò i libri – “In un certo senso ha cancellato ogni cosa contenuta là dentro, tutta la conoscenza umana (…). Ferro, ragazzo mio….acciaio contro carne, scienza contro bellezza. A Verdun pioveva ferro dal cielo, una pioggia di morte che durò mesi e mesi, uccidendo migliaia di uomini e storpiandone altrettanti, finchè non restò altro che ossa e acciaio (…). Acciaio, tanto di quell’acciaio che, perfino ora, dopo anni e anni, a Verdun non cresce nulla, neanche l’erba. Soltanto acciaio e ossa”. (p.61) L’altro, quello dei due vecchi zii che, nelle sere d’inverno, intorno al camino raccontano della guerra cercando di divertire. E anche di questo punto di vista sarà proprio l’Uomo delle Volpi a spiegare la ragione: “Quelle storie che raccontano alla fattoria…non lasciarti buttare giù. Vedi, per loro è semplicemente un tentativo di trovare una rosa in mezzo al letame. Gli uomini che le raccontano, tentano di ricordare quelle parti della guerra che può valere la pena evocare; tentano di scovare in mezzo a tutto quello spreco qualcosa di utile.” Ci pensai su e annuii. “Forse, ma non capisco come possano trovarci qualcosa di minimamente divertente quando tu…bè…” “Lo so, lo so, – la voce diventò sommessa e dolce – ma devono tentare, devono provarci; altrimenti è stato tutto per niente, e a nessuno piace fare qualcosa per niente” (p. 62).

David Kherdian, Lontano da casa, Gaja Junior, Mondadori, Milano, 1997

Il 16 settembre 1916, il Ministro dell’Interno turco ordinò “…la totale eliminazione di tutti gli armeni residenti in Turchia (dichiarando che) è necessario liquidarli completamente, per quanto tragiche siano le misure adottate, senza riguardo per età, sesso o scrupoli di coscienza”. L’autore è figlio di una donna, allora bambina, sopravvissuta allo sterminio, e in questo bel romanzo ne racconta la storia dal 1907 al 1924, accompagnando la madre, e noi insieme a lei, nel disperato viaggio verso i deserti della Mesopotamia, i campi di raccolta, le epidemie e le fughe fino alla sua partenza per l’America e la salvezza. Nel raccontarci una pagina di storia sconosciuta, Kherdian ci fa immergere nella vita e nella cultura di un popolo di cui molti ignorano l’esistenza, descrivendone con vivezza e partecipazione riti, usanze e tradizioni.

Sook Nyul Choi, Impossibile dirsi addio, Ex libris, E.Elle, Trieste, 1994

Pochi ragazzi saprebbero dare qualche informazione sulla Corea che non riguardi la produzione di scarpe da tennis o automobili. Eppure la storia di questo paese assomiglia tragicamente a quella di altri paesi più vicini, dominati da popoli “più potenti” e convinti di avere ragione. L’autobiografia dell’autrice si apre all’epoca della dominazione giapponese e si conclude dopo la divisione della Corea in due parti, tagliate dal Trentottesimo Parallelo e dal filo spinato che Sook riuscirà a scavalcare per sfuggire alla nuova dominazione russa, più subdola ma sostanzialmente opprimente come quella giapponese. E attraverso i suoi occhi di ragazzina vediamo la morte di una cultura antica e le sofferenze di un popolo cui non viene riconosciuta la dignità di esistere autonomamente e poter scegliere la libertà. Si viene catturati fin dalle prime pagine dalle vicende della famiglia di Sook e, seguendone le sorti, ci si ritrova a riconoscere il valore universale della libertà e della dignità dell’uomo, a qualsiasi etnia e religione appartenga.

Theodore Taylor, La bomba, Super Junior, Mondadori, Milano, 1995

Il primo pensiero, prendendo in mano questo bel libro, potrebbe essere che gli esperimenti nucleari nell’atollo di Bikini sono storia vecchia. Ma anche per questo è necessario rinfrescare la nostra memoria e far conoscere ai più giovani una pagina nera della storia americana che ha fornito ben poche informazioni in più rispetto a quanto già si sapeva sulle capacità distruttive delle bombe atomiche. In compenso, come ben racconta l’autore, che ha partecipato alle operazioni preliminari di sistemazione della laguna, ha segnato la fine di un piccolo paradiso e di tante persone cui è stato tolto tutto quello che avevano in cambio di niente.

Elizabeth Laird, La patria impossibile, Ex libris, E Elle, Trieste, 1993

Pochi ragazzi sanno (ma quanti adulti?) chi sono esattamente i curdi e dove vivono, perché sono sempre in guerra e fuggono sempre. Questo libro, attraverso le vicende di Tara e della sua famiglia, ci proietta nella vita e nella storia di questo popolo dimenticato, costretto a cercare rifugio in altri paesi dove non è ben accolto e deve vivere in campi profughi poverissimi. E proprio il racconto di Tara alle prese con le code per l’acqua e per il bagno, con la poca pulizia e il poco cibo, ci riportano ad altri campi dove altri popoli sono costretti a vivere. Leggere libri del genere potrebbe aiutare a formare una cultura dell’accoglienza vera e profonda che tenga conto della dignità delle persone. In tempi difficili in cui le idee sono confuse e molti parlano di patria, ma spesso a sproposito, è bene rileggere la riflessione finale di Tara, ormai emigrata a Londra, ma che non vuole dimenticare la sua terra.

“Sto dimenticando la mia casa. Sto dimenticando il Kurdistan. – pensò chiudendo gli occhi assonnata. Poi, quando aveva rinunciato a sforzarsi, incominciarono a presentarsi alla sua mente delle immagini chiare, come in un sogno. Vide gruppi di ragazze che ridevano correndo giù per il pendio di una collina, coi vestiti di tutti i colori dell’arcobaleno che si gonfiavano nel vento come enormi fiori. Vide pastori con il turbante e con le spalle incurvate, che guidavano gli agnelli attraverso pascoli disseminati di fiori vicini a sorgenti gorgoglianti. Vide vecchie nonne piene di rughe circondate da bambini, che sedevano serene in un cortile ascoltando Baji Rezan dalle mani irrequiete che disegnavano nell’aria i personaggi delle storie che raccontava. Vide un gruppo di ragazzi dalle camicie bianche appena stirate che leggevano il giornale vicino al muro della moschea. Adesso il sogno diventava troppo frenetico, non riusciva più a controllarlo. Sembrò che le ragazze salissero nell’aria e fossero portate via dal vento. I pastori e le pecore si disperdevano mentre un’esplosione squarciava il pendio. Le nonnine soffocavano mentre le inghiottiva una nuvola di gas asfissiante. I ragazzi alzavano le braccia tutti insieme mentre quel foglio di carta cadeva a terra svolazzando, poi cadevano in ginocchio e baciavano la polvere, la polvere del Kurdistan, mentre sotto di loro si allargava una pozza di sangue, e un corvo si staccava da un albero e sbatteva le ali scendendo a librarsi sopra di loro. E poi, mentre Tara si rigirava e si dibatteva nel sonno, da due porte gigantesche che sbarravano la via verso le montagne, uscì una figura. Ashti, che zoppicava leggermente, venne avanti e si unì alla famiglia mentre il Kurdistan del sogno di Tara lentamente svaniva. “Siamo noi il Kurdistan, tu, io, Baba e Daya e Hero – diceva Ashti – Il Kurdistan è dove siamo noi. Il Kurdistan è la sua gente. La terra del Kurdistan è il nostro cuore. E tutto questo non potranno mai portarcelo via” (pp. 308-309).

Billi Rosen, La guerra di Anna, Gaja Junior, Mondadori, Milano, 1989

E’ quasi un’autobiografia la storia di Anna, ragazzina greca che deve confrontarsi con gli interrogativi e le difficoltà della guerra civile. Siamo in Grecia, subito dopo la seconda guerra mondiale. I partigiani comunisti, divisi e nascosti su montagne e colline, combattono contro i monarchici al potere. E la vita è difficile per una bambina i cui genitori sono sui monti e che deve fare i conti con la realtà di tutti i giorni, le rivalità tra ragazzi, l’odio e l’inimicizia che riflettono quelle dei grandi. Come tutti i romanzi usciti dalla penna di chi ha vissuto sulla sua pelle le vicende che racconta, anche questo è appassionante e in grado di coinvolgere profondamente, mentre racconta pagine di storia vere e poco conosciute, di cui sarebbe bene non perdere il ricordo.

Billi Rosen, Oltre la montagna, Ex libris, E Elle, Trieste, 1993

Chi è curioso di sapere che fine ha fatto Anna può leggere anche questo libro in cui si racconta della sua vita in Svezia dove si è rifugiata con il padre. E’ un romanzo centrato sulla “fatica di diventare grandi” ma lascia intravedere anche le difficoltà dei profughi politici ad adattarsi ad una nuova vita e le difficoltà dei paesi ospitanti ad accettare le loro diversità e le loro sofferenze.

Robert Westall, Golfo, Superjunior,Mondadori, Milano, 1994

In questo periodo in cui incombe la minaccia di una nuova guerra contro l’Iraq è bene rileggere questo bel romanzo in cui Tom, un adolescente inglese racconta la storia del fratello Andy detto Figgis, dotato di una misteriosa e fortissima capacità di immedesimarsi e restare in contato telepatico con altre persone. Lo scoppio della guerra del Golfo lo trasporta nei panni del giovane iracheno Latif che deve difendersi dall’attacco americano. E nei panni di Latif soffre e trasmette con forza inconsapevole al fratello tutto il non senso, l’assurdità di una guerra che ha travolto e ucciso troppi civili, troppi poveri. E troppo poveri ha lasciato i sopravvissuti. Sarà Tom con l’aiuto di un medico, unici in grado di capire, a sostenere il fratello, fino al tragico epilogo. Latif morirà nei combattimenti e dalla memoria di Andy si cancellerà ogni ricordo mentre svanisce il suo potere telepatico. Vale la pena riportare le riflessioni finali di Tom che rimpiange la perduta sensibilità del fratello “Figgis era la nostra coscienza. Fisse o no, ci era indispensabile. Il deserto non è solo nel Golfo, è nel cuore della gente. Figgis era colui che vi portava la vita. Sono rimasto l’unico a preoccuparsi? Li sento, i ragazzi a scuola. Metà hanno già dimenticato la guerra del Golfo e gli altri sperano che Saddam commetta qualche sciocchezza, così potremo far saltare in aria il suo paese una volta per tutte” (pp. 80-81).

John Marsden, La guerra che verrà, Super Junior Mondadori, Milano, 1998

Siamo in un paesino australiano e sette ragazzi decidono di andare per qualche giorno a campeggiare in una zona isolata. Al loro ritorno scopriranno che il loro paese è stato invaso da nemici sconosciuti e che sono soli. La storia è avvincente e ha il pregio di stimolare una riflessione senza diventare didascalica. E’ attraverso le parole, i sentimenti e le azioni dei ragazzi che si può cercare di capire la differenza fra il bene e il male, il senso della guerra e della sofferenza e le inaspettate risorse dell’animo umano.

Arianna Papini, Pare un gioco, Edizioni Lapis, Roma, 2002 È un libro che si riallaccia all’attentato dell’11 settembre 2001 a New York per raccontare la realtà di tutte le atrocità. E’ scritto nella lingua dei sogni, dei ricordi, dei pensieri di una testa di bambina che non si sottrae di fronte alla tragedia di ciò che è successo. E’ un testo capace di intrecciare i fili delle guerre raccontando in modo pacato e deciso ciò che vedono e sentono i bambini quando, spettatori indiretti o protagonisti, passano attraverso il tempo della guerra. I bambini sanno della guerra, ne hanno istintivamente paura. Il libro esprime fino in fondo il loro bisogno di essere accolti in questa grande ansia, di non essere soli davanti al vuoto. Il libro, attraverso splendide illustrazioni e testi incisivi, diventa un’occasione di richiamo per tutti a ragionare sulle ferite indelebili che ogni guerra lascia e un invito ad imparare, in mezzo a tanto rumore mediatico, dal silenzio di chi le subite.

Cento proiettili per un uovo

Bambini dell’ex Jugoslavia e del Kosovo

 

Ha una scheggia piantata nel cervello,
portate pietà a vostro fratello.
Io sono il parto della guerra.
Io sono il senza nome, casa e terra.
Tra dentro e fuori hanno schiantato
il nesso, la lingua comune
hanno strappato.

Testo di Franco Marcoaldi per il brano “Terra comune” di Fabio Vacchi

Zlata Filipovic, Diario di Zlata, Rizzoli, Milano, 1994

2 settembre 1991 – 19 ottobre 1993, Sarajevo. In questi due anni la vita di Zlata cambia completamente. E, come la sua, cambia per sempre la vita di migliaia e migliaia di persone in tutta la ex Jugoslavia. Il diario raccoglie le confidenze di una bambina come tante altre. Di una bambina che vorrebbe vivere una vita normale, andare a scuola e in vacanza, giocare. Solo che non può. Perché vive in una città che viene distrutta giorno dopo giorno da una guerra di cui lei non capisce le ragioni: “…mi sforzo in continuazione di capire cosa sia questa stupida politica (…) mi pare che questi politici parlino di serbi, croati e musulmani (…). Fra i miei compagni di scuola, fra i nostri amici, nella nostra famiglia, ci sono serbi, croati e musulmani. E’ un gruppo molto eterogeneo, e io non ho mai saputo chi fosse serbo, croato o musulmano. Adesso, però, la politica si è immischiata in queste cose. Ha messo una “s” sui serbi, una “m” sui musulmani e una “c” sui croati, li vuole separare. E per scrivere queste lettere ha utilizzato la peggiore delle matite, quella più sinistra, la matita della guerra, che semina solo dolore e morte. Perchè la politica ci rende infelici, ci vuole separare, quando noi sappiamo distinguere da soli i buoni dai cattivi? E fra i buoni ci sono i serbi, i croati e i musulmani, così come ce ne sono tra i cattivi.” (p. 91) Agli adulti di oggi è stato messo tra le mani, quando erano ragazzini, un altro diario, quello di Anna Frank che li ha aiutati a capire qualcosa di quello che era successo negli anni della seconda guerra mondiale e del nazismo. Li ha aiutati anche, crediamo, a crescere con la convinzione che bisogna fare di tutto perché vicende come quella di Anna non si ripetano. Ai ragazzi di oggi, nello stesso modo, consegniamo il diario di Zlata.

Christobel Mattingley, Asmir di Sarajevo, Junior + 10, Mondadori, Milano, 1994

Sono tutti veri i personaggi che popolano questo romanzo scritto, dopo averli conosciuti nel loro esilio viennese, da una delle più note autrici australiane per ragazzi. Asmir con gli zii, la mamma e il fratellino riesce a rifugiarsi in Austria, dopo un periodo in cui vive a Belgrado. Il libro racconta la loro fuga e aiuta, con molta semplicità, a capire come ci si sente lontani da casa, in un paese di cui non si conosce la lingua e in cui è difficile ricostruirsi una vita. L’assurdità di questa guerra, come di tutte le altre, si riassume bene in questa frase di Milan, uno dei protagonisti: “A Sarajevo un uovo costa dieci volte di più di un proiettile. E per ogni uovo ci sono cento proiettili”. (p. 70)

Nenad Velickovic, Diario di Maja, Editori Riuniti, Roma, 1995

“Io mi chiamo Maja. (…) Scrivo perché non mi resta altro da fare. Non andiamo a scuola, non guardiamo la televisione, non ci allontaniamo dai rifugi. Non possiamo uscire perché sopra c’è la guerra. (…) Probabilmente (questa guerra) si fa come tutte le altre guerre per la conquista dei territori e per i saccheggi. Ma perché stiano bombardando una città di mezzo milione di abitanti dalla mattina alla sera dalle montagne vicine, a questa domanda non ho nessun “probabilmente”. Per quale motivo qualcuno (nel nostro caso l’artiglieria serba) distrugge le case, incendia le biblioteche, abbatte i minareti e i pioppi intorno? Perché questa primavera invece di ciliegie i bambini raccolgono schegge di granate e le barattano come se fossero figurine?” (p. 11-12) Un romanzo molto particolare, adatto ai ragazzi più grandi perché, con una scrittura ironica e disincantata, descrive la guerra, la situazione di Sarajevo e dei suoi abitanti, in modo quasi caricaturale, tanto che si potrebbe pensare che là non succedeva poi niente di grave. Ricordano un po’ i personaggi dei film di Kusturica, infatti, i parenti di Maja e le persone che le ruotano attorno, ma il sorriso resta solo sulle labbra e dietro le parole si può intravedere la tragedia di un popolo e di una città.

Hermann, Sarajevo tango, Eura editoriale, Roma, 1997

Mosso dall’indignazione e dalla rabbia per l’impossibilità di aiutare l’amico Ervin, bloccato a Sarajevo con moglie e figli, l’autore disegna d’impulso questo fumetto. La storia è completamente inventata ma lo sfondo in cui si muovono i personaggi è quello delle rovine di Sarajevo e della disperazione della sua gente. Era arrabbiato Hermann quando disegnava e non ha risparmiato nessuno, dai militari serbi ai cecchini della domenica, dalle potenze internazionali fino all’Onu dove Boutros Ghali danza improbabili tanghi mentre vengono diffuse le sue generiche dichiarazioni. E’ chiaramente un’immagine sbilanciata ma che dice bene le ipocrisie del mondo occidentale e l’assurdità di tutte le guerre. E per farlo utilizza un mezzo, il fumetto, di sicuro gradimento fra i ragazzi.

Adriana Pedron Pulvirenti, I bambini di Hans, Città Nuova, Roma, 2000

E’ dedicata ai bambini, soprattutto ai bambini che vivono nei paesi in guerra questa fiaba che cerca di non far dimenticare la speranza, raccontando di Hans, soldato mercenario che, fra gli spari dei cecchini e le rovine dell’ex Jugoslavia, porta in salvo più bambini che può. E anche se la fiaba ha un lieto fine, come vuole la fantasia, ben più concrete e reali sono le descrizioni dei bambini dispersi e abbandonati a se stessi in una città fantasma. E’ l’autrice stessa che ci dice com’è nato questo libro: “Turbata dalla guerra nella ex Jugoslavia, dopo aver letto un articolo sul Corriere della Sera, rimasi colpita dalla figura di Heinz, un mercenario morto in Bosnia nel giugno 1993. Scrissi d’impulso il primo e l’ultimo capitolo della storia; mi rifiutavo di accettare la sconfitta del giovane mercenario che riassumeva in sé quella di molti altri giovani. (…) Non ho fatto nomi né individuato responsabilità, né mi sono schierata da una parte o dall’altra, perché la sofferenza, specie quella dei bambini, è di tutti. Ho preferito la speranza, perchè credo nel “giorno dopo”. (pp. 99-100)

Luigi Garlando, La vita è una bomba!, Battello a vapore serie arancio, Piemme, Casale Monferrato, 2001

Milan ha otto anni, ha perso a Sarajevo tutto quello che un bambino ha bisogno di avere per crescere: i genitori, gli amici, il suo paese e una gamba. Vive a Milano dove gli hanno messo un arto artificiale. Potrebbe essere una storia straziante e senza speranza e invece fin dalle prime pagine si viene catturati dalla voglia di vivere e dalla fiducia in un futuro migliore. Milan, con un espediente narrativo indovinato, ci racconta contemporaneamente della sua vita a Milano, della sua vita di prima della guerra e anche della guerra e di quello che può aver significato per lui e più in generale per i bambini. E allora lasciamo a Milan la parola: “Ma che razza di partita è questa se Marko Grobovic, che lavorava nel forno del mio papà vecchio da una vita, poi ci ha bruciato la macchina? Che partita è, se la mia mamma vecchia ha cucito gratis un bellissimo vestito da prima Comunione per la figlia della signora Kostulic, che piangeva perché non aveva i soldi, e adesso la signora Kostulic, quando passa mia mamma sputa per terra? Mamma una volta le ha detto: “ Risparmi la saliva, signora, presto ci toglieranno l’acqua!” Che razza di partita è questa, signor arbitro, se degli uomini con uno straccio in testa e coltellacci al fianco hanno preso a pugni e a calci il dottor Juric, e Radovan Topic che era lì non ha mosso un dito? Io ero sicuro che si metteva a parlare delle vedove di Sarajevo, invece ha detto solo: “Milan, torna a casa. Un consiglio, dottore: guarisci solo quelli del tuo sangue”. Il dottor Juric, il nostro portiere gli ha risposto che il sangue che esce dalle ferite ha tutto lo stesso colore. Io non sono andato a casa, ma ho bagnato il fazzoletto nella fontana e l’ho portato al dottor Juric. Che razza di partita è se i tuoi compagni improvvisamente ti giocano contro, e improvvisamente tu non puoi più giocare con loro? Che partita è se vado da Goran con la canna da pesca e lui mi dice: “Non so perché, Milan, ma non puoi più venire a casa mia?” (pp. 31-33)

Arianna Papini, Jovan non sa di Vlora, Fatatrac, Firenze, 2001

Bellissime illustrazioni accompagnano questo breve libro: la storia di due bambini e della guerra nel Kosovo. Jovan e Vlora, senza sapere l’uno dell’altra, hanno sogni comuni, “la stessa memoria. Ricorderanno il vento, la sera fresca e i pomi rossi sotto il sole d’estate. Sogneranno il fuoco e la paura, il viaggio e le farfalle di plastica e pietra che con ali grandi hanno protetto la loro storia piccola dai falchi infuocati della notte”. Pur non essendo un testo facile, può essere presentato ai bambini un po’ più grandi perché con grande poesia sa trasmettere i sentimenti che nella realtà tanti bambini, non solo dei Balcani, hanno provato e provano tuttora.

Emanuela Nava, Ciliegie e bombe, Supergru, Giunti, Firenze, 2002

Quando abbiamo chiuso questo libro ci è rimasto un dubbio: sarà vera la storia di Dragan? C’è qualcosa di stonato in questo libro che si dichiara adatto a ragazzini di 9/11 anni ma che poi indulge troppo sulla fantasia e su situazioni assolutamente irrealistiche che non aiutano, forse neanche i più piccoli, a capire e a partecipare a queste vicende. Un’occasione sprecata per raccontare come i piccoli e i ragazzi dell’ex Jugoslavia hanno vissuto durante la guerra e cosa può aver significato per loro essere trasferiti in Italia.

Gaye Hicylmaz, Il sorriso strappato, Buena vista, Milano, 2002

Nina vive con il nonno sulle montagne sopra Sarajevo da cui è dovuta scappare dopo aver perso i genitori. Anche da qui dovrà scappare per raggiungere l’Inghilterra e l’unica persona che, forse, potrà prendersi cura di lei. E noi seguiamo Nina in questo viaggio drammatico, pericoloso e disperatamente solitario che tanti piccoli hanno intrapreso alla ricerca di una salvezza non sempre certa.

All’ombra del lungo camino

La storia di un popolo: ebrei, ghetti e campi di sterminio

 

La farfala

Cuntent propri cuntent
A so sté una masa ad volti tla voita
mo piò di ttot quand ch’i m’a liberè
in Germania
ch’a m do mes a guardè una farfala
senza la voia ad magnela.

La farfalla
Contento proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando mi hanno liberato
in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla.

Tonino Guerra

Uri Orlev, Gioco di sabbia, Salani Editore, Milano, 2000

“Papà, e tu come hai fatto a scappare dai tedeschi?” E’ per rispondere a questa domanda che Uri Orlev, oggi scrittore conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, racconta la propria storia di bambino ebreo. Con parole semplice, tono pacato, momenti di ironia ci riporta agli anni terribili vissuti prima, insieme alla madre e al fratello, nel ghetto di Varsavia e poi , rimasti orfani, nel campo di deportazione di Bergen- Belsen. Orlev è uno scrittore molto bravo nel trovare il modo giusto di porgere ai suoi giovani lettori una storia così drammatica e triste. Sono molti i momenti in cui comunque la voglia di essere bambino riesce ad essere espressa e leggiamo così di giochi inventati nel buio del nascondiglio segreto, di grandi battaglie inventate dai due fratellini usando i nomi dei personaggi dei libri letti; anche Robin Hodd, Tarzan, il capitan Nemo e molti altri eroi fantastici fanno compagnia ai protagonisti reali di Gioco di sabbia. E’ la forza vitale dell’infanzia che non molla e inaspettatamente compare a ridare fiato e speranza ma anche l’unico modo per Orlev per fare della sua memoria una storia. “I ragazzi spesso mi domandano : scrivere ti aiuta a superare tutto quello che ti è successo in passato?” Non so. Non so se scrivere mi aiuti a superare il passato. So solo che non posso parlare, raccontare o pensare a quanto è successo come un adulto. In altre parole: quando ricordo, torno ad essere il bambino che ero, e tutto mi ricompare davanti agli occhi”.

Hans Peter Richter, Si chiamava Friederich, Junior +10, Mondadori, Milano, 1994

Siamo in Germana nell’anno 1925 e in una cittadina qualsiasi, nella stessa casa, nascono due bambini. Uno, la voce narrante, è tedesco, l’altro ebreo. Ma non sembra che questo faccia alcuna differenza. All’inizio, la storia scorre veloce seguendo la vita e la crescita dei due ragazzi, amici per la pelle. Ogni capitolo è scandito, quasi un rintocco, dall’anno in cui si svolge ciò che viene descritto. E anche i lettori sono trascinati nella follia della persecuzione nazista e provano a farsi domande cui è difficile dare risposte. E’ un libro semplice in cui i fatti sono narrati senza fronzoli e sentimentalismi e proprio per questo sono così difficili. In pochi tratti ci viene presentata una folla di persone “normali” che non vollero e non seppero fare nulla per fermare qualcosa di più grande di loro. La famiglia del ragazzo che racconta non ha nome, non ne conosciamo le caratteristiche fisiche, è anonima…. La famiglia di Friederich invece è descritta con grande vivezza e simpatia. Ci vengono raccontati i momenti più significativi come la celebrazione del Sabbath e la festa del Bar Mitzvà cui sempre Friederich invita l’amico che osserva stupito, come probabilmente faremmo anche noi, lo svolgimento di riti antichi ma con profondi significati. E, anche se fra le due famiglie, e in particolare fra i due ragazzi, c’è amicizia e solidarietà, è sempre più chiaro che il destino si compirà, prima per i genitori poi per lo stesso Friederich che muore durante un bombardamento perché viene cacciato dal rifugio dove si trovano anche gli amici. Con una scrittura asciutta, l’autore riesce a farci rivivere la tragedia di un popolo che non “volle” capire (…“che cosa andremmo a fare all’estero? Crede veramente che altrove gli ebrei siano più ben visti che qui? E poi, con il tempo, la situazione migliorerà (…). Noi ebrei dobbiamo adattarci: nel Medioevo questi pregiudizi minacciavano la nostra vita, ma nel frattempo gli uomini sono diventati più ragionevoli”, dice il papà di Friederich all’amico che lo esorta ad andarsene) ma soprattutto punta il dito verso un popolo che non seppe fare altro che stare a guardare.

Enrico Deaglio, La banalità del bene, Feltrinelli, Milano, 2002

“Vedevo delle persone che venivano uccise e semplicemente non potevo sopportarlo. Ho avuto la possibilità di fare, e ho fatto. Tutti, al mio posto, si sarebbero comportati come me. Si dice: l’occasione fa l’uomo ladro ma di me ha fatto un’altra cosa.” Questo rispondeva Giorgio Perlasca a chi gli chiedeva perché lo fece. La storia vera e incredibile di un commerciante padovano che si finse console spagnolo a Budapest e salvò centinaia di ebrei dalla deportazione e dalla morte. Una storia che i ragazzi devono conoscere perché possano crescere pensando che non sono solo gli eroi che salvano il mondo e perché possano rispondere a testa alta alla domanda “Che cosa avresti fatto al mio posto?”. E se è vero che non sempre è possibile fare qualcosa è altrettanto vero che qualcosa è sempre meglio di niente.

Irene Dische, Le lettere del sabato, Feltrinelli Kids, Milano, 1999

E’ attraverso gli occhi di un bambino ebreo ungherese, ignaro delle sue origini e di quello che sta accadendo, che vediamo il nazismo prendere il potere, le prime persecuzioni, la notte dei cristalli… Tutto è raccontato con tocco leggero ma senza nulla nascondere della tragedia di quegli anni. E Peter, che da tutto questo uscirà “indenne” e che, apparentemente, capisce poco di quello che succede intorno a lui, porterà sempre con sé l’insegnamento del padre: “Chi è l’ebreo? E’ quel mostriciattolo che la tua maestra ha disegnato sulla lavagna? O forse è Herr Bauer? (…) Oppure, l’ebreo non esiste. Esiste una “persona ebrea”. In ungherese si dice zsidoember. E’ una parola che suona bene. Si può usare, per esempio, per Herr Bauer. Perché pratica la religione ebraica. (…) Non hai mai notato quella strana stella dipinta sulla sua vetrina? E’ la stella degli ebrei. I nazisti l’avevano dipinta per far vedere ai clienti che Herr Bauer era ebreo. Perché sennò non ce ne saremmo accorti. Perché naturalmente Herr Bauer è prima di tutto e soprattutto un abitante della Renania”. (pp. 52-53)

Judith Kerr, Quando Hitler rubò il coniglio rosa, Delfini Fabbri, Milano, 1995

Anna è tedesca e vive a Berlino. Ma è anche ebrea e viene il giorno in cui deve lasciare la sua città per salvarsi. Siamo nel 1933. Anna andrà in Svizzera poi a Parigi e, infine, in Inghilterra. Il libro racconta la sua vita di tutti i giorni, la vita di una semplice bambina di undici anni, le nuove amicizie, la scuola, i litigi con il fratello… Hitler, l’avvento del nazismo, le leggi razziali restano sullo sfondo come un’ombra minacciosa che non si può dimenticare. Ma l’elemento chiave di questo bel romanzo, quello che lo rende attuale, è la condizione di profuga di Anna e della sua famiglia. Faeti, nell’introduzione, ben sottolinea questo elemento: “E di profughi sappiamo che ce ne sono, anche oggi, e anche nelle strade delle nostre città. Tutto intero, questo libro, è una storia di profughi (…) La vita del profugo, del resto, interessa tutti noi, soprattutto quando è raccontata in questo modo, quando è distillata giorno dopo giorno come nelle pagine di questo libro”.

Helga Schneider, Stelle di cannella, Salani, Milano, 2002

“Stelle di cannella” è un libro denso e forte. Con tono pacato e per questo ancora più incisivo l’autrice racconta di come il tranquillo e benestante quartiere di Wilnersdoft si trasformi, nella Germania dei primi anni ’30 in un luogo di inimicizia e rancori razziali, vero e propri preludio alla persecuzione che di li a poco seguirà. David, il ragazzino ebreo protagonista insieme alla sua famiglia della storia, vive e subisce questo cambiamento tanto inaspettato e violento quanto più colpisce gli affetti più cari. Emblematica in questo senso è la figura di Fritz l’amico per la pelle, il compagno di banco di David che nel giro di pochi mesi, entrato nella gioventù hitleriana, diventa il suo peggior nemico fino ad uccidere Kotz, l’amatissimo gatto di David. La scoperta di questo gesto impone, in una delle scene più strazianti del libro, la decisione di partire, di lasciare la Germania. Come si diceva un testo forte, bello , coinvolgente, non privo di speranza. Pieno di speranza è infatti l’epilogo dove scopriamo che la storia di David e dei suoi genitori ha origini reali e li seguiamo nei brevi ma significativi sviluppi nella terra che li ha accolti. Simbolo di fiducia sono infine le stelle di cannella, un dolce tradizionale tedesco tanto amato da David, che la madre ostinatamente prepara per lui: ricordo di casa, di dolcezza, qualcosa di buono da portarsi dietro oltre l’orrore del giorno presente.

Frediano Sessi, Ultima fermata: Auschwitz, Einaudi ragazzi, 1996

Attraverso il diario di Arturo, ragazzo ebreo di Bologna, trasferitosi con la famiglia a Roma dopo le leggi razziali del 1938, ci scorre davanti agli occhi la storia dell’Italia e delle persecuzioni, le diverse reazioni di fronte alle discriminazioni sempre più evidenti e i primi germi di ribellione che porteranno poi alla Resistenza. Il diario si conclude il 16 ottobre 1943 con la deportazione. Sarà Giulia, amica carissima cui Arturo ha giurato eterno amore, a raccontare cos’è successo dopo e concluderà il suo racconto dicendo che “ad Auschwitz non sono morti soltanto cloro che sono scomparsi senza lasciare traccia, inghiottiti dall’inferno nazifascista. La mia vita e quella di milioni di persone sopravvissute alla guerra e alla dittatura è stata segnata indelebilmente dall’Olocausto. Il mio, il nostro imperativo futuro è: non dimenticare. Nelle parole che Arturo mi scrisse, prima di raggiungere coraggiosamente la sua famiglia, questo è un imperativo ben chiaro e ogni uomo dovrebbe farlo suo nel presente, incaricandosi di tramandarlo alle generazioni che verranno” (p. 129).

Rose Lagercrantz, La ragazza che non voleva baciare, Grand’istrici, Salani, Milano, 1998

E’ avventurosa, divertente e drammatica la storia di Orge, ebreo tedesco di cui la figlia racconta in questo libro. Sì, perché Orge è esistito veramente e ha davvero fatto il pugile, ha davvero preso parte, ragazzo, alla prima guerra mondiale e ha resistito al nazismo a cui è riuscito a sopravvivere. Raccontata in chiave umoristica la storia lascia capire la realtà drammatica di quegli anni e come doveva essere difficile vivere, lavorare ed amare per chi era perseguitato. Il grande pregio di questo romanzo è la sua apparente “leggerezza” che lo rende adatto anche ai ragazzini più giovani cui però non nasconde le persecuzioni, gli arresti ingiustificati e i campi di lavoro e di concentramento, fino ai forni crematori. Orge si salva e permette di credere che la salvezza è possibile anche ai più giovani per i quali forse sarebbe insopportabile affrontare subito la verità di una salvezza riservata a troppo pochi. Ma non si salva Annie che a Orge aveva riservato tutti i suoi baci e di cui resta solo un nome sul muro della sinagoga di Praga. Un nome insieme a quello di altri 77.926 ebrei della Moravia e della Boemia, deportati e uccisi dai nazisti.

Annika Thor, Un’isola nel mare, Feltrinelli Kids, Milano, 2001

Forse la maggioranza dei bambini non sa quanti loro coetanei, ebrei, sono stati salvati dall’ospitalità di famiglie di altri paesi disposte ad accoglierli in attesa di poterli riconsegnare ai loro genitori. E’ per tutti loro questo bel romanzo che ci parla di Steffi e Nelli costrette a lasciare i genitori a Vienna per andare ad abitare in un’isola della Svezia. Incontreranno tante persone nuove, nasceranno amicizie ma dovranno anche fare i conti con la nostalgia e le difficoltà ad essere accettate da chi (come tanti) pensava che se gli ebrei erano perseguitati dovevano aver fatto qualcosa di male.

Annika Thor, Lo stagno delle ninfee, Feltrinelli kids, Milano, 2002

Chi ha amato Staffi e la sua sorellina Nelli, leggerà volentieri questo libro che racconta cosa è successo alle due ragazzine, in particolare a Staffi, accolta da una famiglia di Goteborg perché possa proseguire gli studi. E’ una storia che parla di ragazzine, di amicizie, primi amori e gelosie, che parla del diventare grandi e del doversi misurare con cose più grandi. Ma parla anche della fatica di “dover sempre essere riconoscenti a qualcuno”, parla della condizione di profugo, accolto sì ma senza un eccessivo sforzo di comprensione, e anche della disperata nostalgia di casa, permettendoci di ripensare ad un’ospitalità poco sentita e di rivedere quindi la nostra capacità di accoglienza nei confronti di quelli, e sono ancora tanti, che bussano alle nostre frontiere, alle nostre case.

Uri Orlev, L’isola in via degli Uccelli, Le Linci, Salani, Milano, 1993

E’ Alex, un ragazzino di undici anni, che racconta la sua vita nel ghetto di Varsavia dopo che il padre è stato catturato dai nazisti. Alex vive nascosto in un palazzo diroccato e osserva quello che succede attorno a lui. Nella sua ricerca di cibo e vestiti fa anche numerosi incontri, non sempre piacevoli. E’ costretto a crescere in fretta e a misurarsi con cose più grandi di lui ma riesce anche a trovare il modo di divertirsi, conoscere altri bambini e addirittura a innamorarsi. E soprattutto non perde mai la speranza nel ritorno del padre e quindi in un futuro migliore. Orlev è realmente vissuto nel ghetto di Varsavia prima di essere internato nel campo di Bergen Belsen e quello che racconta, pur romanzato, può essere successo realmente. Ed è vero che racconta del ghetto di Varsavia ma…”pensa alla città in cui vivi o a quella più vicina al posto in cui vivi. Immagina la città completamente occupata da un esercito straniero che ha separato una parte degli abitanti dal resto: per dire, tutti quelli con la pelle gialla o nera, o tutti quelli con gli occhi verdi…” (p. 5). Dice così Orlev, nell’introduzione che spiega ai lettori più giovani com’era il ghetto. Ma queste poche righe riportano agli occhi una realtà più vicina nel tempo, riportano altri nomi, diversi eppure accomunati dalla stessa disperazione, dalla stessa tragedia. Come non pensare a Sarajevo? Come non pensare a quanti bambini nelle città dell’ex Jugoslavia hanno dovuto cercare di sopravvivere come fa Alex in questo racconto?

Roberto Innocenti, Rosa Bianca, Edizioni C’era una volta…, Pordenone, 1990

Poche righe di testo e grandi, bellissime illustrazioni accompagnano la piccola Rosa Bianca a pochi passi dalla cittadina tedesca in cui vive, nei boschi, dove trova un campo di concentramento. Nessuno si accorge della sua scoperta e dei suoi tentativi di sfamare i piccoli prigionieri. Il silenzio la circonda come circondava allora i campi di cui tanti, troppi, non vollero sapere.

Claudine Vegh, Non gli ho detto arrivederci. I figli dei deportati parlano, Giuntina, Firenze, 1981

Segnaliamo questo libro a molti anni dalla sua pubblicazione per il prezioso lavoro che ridà voce a quei bambini, orfani ebrei i cui genitori sono morti nei campi di sterminio, che per molti anni non hanno potuto o voluto parlare. L’autrice, francese, è medico e psichiatra e ha due figli. I suoi genitori sono stati entrambi deportati e suo padre è morto nel lager. Claudine Vegh si è salvata grazie a una coppia di coniugi che l’ ha tenuta con sé dal 1942 sino alla liberazione. Da questa sua esperienza è partita per raccogliere diciassette brevi storie di vita vissuta, diciassette infanzie tra i cinque e i quattordici anni, narrate in poche pagine dai protagonisti, gli orfani dei deportati. E’ un libro toccante, i racconti brevi, densi, incisivi, permettono almeno in parte quella difficile identificazione che è premessa indispensabile per una compassione autentica e una ribellione inevitabile di fronte a tante analogie con situazioni di guerra a noi più vicine.

Jona Oberski, Anni d’infanzia. Un bambino nei lager, Giuntina, Firenze, 1989

Sono gli occhi di bambino, gli occhi di Jona, quelli attraverso cui vediamo cosa è stato un campo di sterminio. E’ la voce di sua madre che filtra e media fin dove si può, alcune volte oltre ciò che è possibile, quella terribile realtà. E tutto il libro è un dialogo d’amore e protezione dentro l’orrore. Non ci sono connotazioni geografiche o temporali, non sono fornite spiegazione. Tutto è detto, senza compiacimento o retorica, tutto è insopportabilmente vero, un peso durissimo da portare sulle spalle di Jona bambino. Che riesce a farcela proprio grazie alla presenza rassicurante dei genitori, che costituisce il filo a cui aggrapparsi e che permetterà a Jona di uscirne vivo. Un libro molto bello, anche duro nella sua semplicità, una storia verso cui accompagnare i bambini anche attraverso la voce e la partecipazione degli adulti.

Trudi Birger, Ho sognato la cioccolata per anni, Piemme pocket, Casale Monferrato, 2000

Il libro racconta la storia vera di una ragazzina sopravvissuta ai campi di sterminio e trasferitasi poi in Israele. Le sue parole bastano a spiegare perché ha scritto questo libro: “Spero che la mia storia sia letta da adulti e da bambini, perché nessuno al mondo possa dimenticare il destino dei sei milioni di ebrei vittime della ferocia nazista”. (p. 6) “Quanto all’opera di commemorazione è estremamente importante. Provo grande rispetto per coloro che hanno costruito lo Yad Va-Shem, l’istituzione in memoria dell’Olocausto a Gerusalemme, e altri luoghi simili in Israele e all’estero. Se non si fossero dedicati a raccogliere documenti, a creare musei, e a organizzare programmi educativi, il popolo ebraico avrebbe potuto lasciarsi tentare e far scivolare l’Olocausto nell’oblio. Se noi ebrei avessimo dimenticato la terribile ferita riportata, una ferita che probabilmente non si rimarginerà mai del tutto, sarebbe passata sotto vergognoso silenzio, un male segreto nel cuore dell’umanità, che avrebbe portato altro male”. (p 211-212) “…ogni giorno qualcosa mi ricorda l’Olocausto (…). Questi ricordi sono così intensi e oppressivi che a volte mi chiedo: a che serve parlarne? Chi non li ha vissuti può riuscire a capire? Mi ha procurato un certo sollievo scrivere questo libro, sebbene a volte sia stato anche molto penoso. Prima di iniziare a lavorarci, i miei ricordi erano molto vividi e immediati, ma quando ho cominciato ad approfondire i dettagli, ho scoperto che c’erano molti terribili eventi che mi ero quasi permessa di dimenticare. Ho dovuto riviverli per poterne parlare. Comunque sia, anche dopo che il lettore avrà chiuso e riposto questo libro, io resterò con la mia pena. Quando accade qualcosa a qualcun altro, è terribile. Ma quando accade a te, il dolore non ti abbandona. Tu sei solo con la tua sofferenza. Nessuno, eccetto un altro sopravvissuto all’Olocausto, può pienamente comprendere quello che ci è successo. Questi ricordi non sono come degli indumenti, qualcosa di cui ci si può spogliare e mettere nell’armadio. Sono incisi sulla nostra pelle. Non possiamo liberarcene”. (p. 222)

Art Spiegelman, Maus, Einaudi, Torino, 2000

Un padre scampato all’Olocausto, una madre che non c’è più da troppo tempo, un figlio che fa il cartoonist e cerca di ristabilire un rapporto con quel genitore anziano, malato, così lontano per mentalità e abitudini. Forse, l’unica via per ritrovarsi è ripercorrere insieme, padre e figlio, la lontana vicenda di Vladek e Anja Spiegelman: dall’epoca felice del loro fidanzamento e matrimonio nella Polonia degli anni Trenta fino all’incubo della guerra, dell’occupazione nazista, della persecuzione e dell’internamento ad Auschwitz. Così, la Polonia invasa dai tedeschi si intreccia agli Stati Uniti dei nostri giorni, una baracca di Auschwitz a una casa di New York. Così, la piccola struggente storia di una famiglia ebraica travolta dalla più immane tragedia del Novecento si intreccia alla piccola struggente storia di un giovane uomo che tenta di fare i conti con le sue origini. Ma quel passato non riguarda soltanto lui: riguarda tutti, e tutti costringe a confrontarsi con quanto è successo e con un sotterraneo, inevitabile senso di colpa. La colpa di essere, ancora e comunque, dei sopravvissuti. (risvolto di copertina) E tutto questo Spiegelman ce lo dice utilizzando il fumetto e trasformando tutti i protagonisti in animali. E così gli ebrei sono topi (Maus appunto, in tedesco), i tedeschi gatti, i polacchi maiali e così via. Il fumetto è un mezzo inconsueto e che molti associano solo a letture distensive e poco impegnate ma quando si chiude questo libro si può proprio dire con Moni Ovadia che l’autore è riuscito “a dire l’impossibile attraverso la pietas artistica”.

Alison Leslie Gold, Mi ricordo Anna Frank, Delfini, Fabbri, Milano, 1999

Il libro raccoglie la testimonianza di Hannah Pick-Goslar, la più cara amica di infanzia di Anna Frank, cui l’autrice fa una lunga intervista; da qui nasce il racconto, in terza persona, della vita di Hannah, prima in Olanda, poi nei campi di sterminio. La storia si snoda su due binari: da un lato la vicenda della piccola protagonista, e di milioni di persone insieme a lei, che diventa sempre più drammatica dal luglio del ’42 quando si apre il racconto alla primavera del ’45, la liberazione. Dall’altro lato, vividi e divertenti, i ricordi della vita di “prima”, quando le due amiche erano sempre insieme e crescevano come bimbi qualsiasi. Il libro è, in qualche modo, anche l’ideale conclusione del diario di Anna Frank che si interrompe quando la famiglia viene scoperta e deportata. Sarà Hannah a raccontare gli ultimi giorni dell’amica, morta poco prima della liberazione. E sarà ancora Hannah a lasciarci con un interrogativo: “Perché lei e non io?” che si potrebbe semplicemente tradurre in “perché è successo?”. Proprio per impedire che si dimentichi, Hannah ha accettato di ripercorrere con la memoria un periodo lontano e così drammatico.

Andrea Molesini, All’ombra del lungo camino, Super Junior Mondadori, Milano, 1992

Un ragazzo ebreo e uno zingaro. Insieme, in un campo di sterminio. Una storia avvincente e realistica pur se contrassegnata da una vena fantastica che crea personaggi magici in grado di aiutare i protagonisti a salvarsi ma in grado anche di rendere il libro leggibile dai ragazzini più giovani. E non con l’intento di nascondere la verità che comunque emerge da tutte le pagine ma per lasciare ai ragazzi la speranza e insieme il desiderio di non dimenticare. E Molesini lo esplicita fin dalle prime pagine quando fa dire allo zingaro Merlino, rivolto al ragazzo, Schulim: “Quello che davvero vogliono è farci simili a bestie così, quando ci uccideranno, uccideranno delle bestie non degli uomini. Ma finchè avremo memoria e sapremo dare il giusto nome a ogni cosa, noi resteremo uomini e, a dispetto delle botte, della fame e delle umiliazioni, li costringeremo a uccidere degli uomini: così, fino alla fine dei tempi, gli assassini verranno chiamati assassini” (pp. 12-13).

Uri Orlev, I soldatini di piombo, Fabbri, Milano, 2001

Non è un libro facile questo che racconta l’infanzia dell’autore, passato dalla libertà nella sua Polonia al ghetto per finire col fratello a Bergen Belsen cui riesce a sopravvivere per essere accolto in un kibbutz in Israele. Non è facile perché non si tratta di un romanzo vero e proprio. Piuttosto di tanti flash più o meno lunghi, accesi su momenti diversi, su figure significative, su ricordi dolorosi o divertenti. E così la lettura non è fluida ma si è costretti a “faticare” insieme a Yurek e Kazik per poter sopravvivere anche nelle condizioni più difficili, insieme a loro si devono ingoiare lacrime cocenti per la scomparsa di persone care, a partire dalla stessa madre. Ed è con senso di stupore che si legge di come i due fratelli potessero trovare il modo di giocare e divertirsi anche se solo con qualche soldatino di piombo. E’ un libro difficile perché ha il grande pregio di raccontare la tragedia di un popolo con la voce di un bambino i cui occhi hanno visto solo singoli episodi, apparentemente non collegati fra loro e che quindi ci permette davvero di capire come hanno vissuto tanti, troppi bambini di cui Orlev si fa portavoce ideale.

Steve Schnur, Il segreto di Mont Brulant, Shorts, Mondadori, Milano, 1997

E’ più indicato il titolo originale “I bambini ombra” per questo bel libro che affronta un nodo difficile ed estremamente doloroso: l’impossibilità di dimenticare le tragiche vicende della guerra e dello sterminio e il dover continuare a vivere con i sensi di colpa e il rimpianto per non aver fatto niente, per essere rimasti a guardare. Etienne, un ragazzino di città, passa le sue estati dal nonno in campagna e un anno incontra altri ragazzini laceri e tristi che non aveva mai visto. Quando ne chiede ai grandi si trova di fronte un muro di silenzio. Gli dicono che non esistono altri bambini oltre lui ma che “nei boschi vagano le anime di un migliaio di bambini smarriti. – Fantasmi? chiesi ancora sorridendo. – Sì, fantasmi, rispose lei, brusca. – Sono troppo grande per crederci. – Allora chiamali memorie.” (p. 26) In un’atmosfera rarefatta trascorre l’estate di Etienne, tra le reticenze degli adulti e gli incontri irreali coi bambini ombra, finchè il nonno decide di raccontare come il paese fosse diventato un nascondiglio sicuro per i bambini ebrei che vi arrivavano soli, sperando di scampare al massacro. “…Poi, un giorno dell’ultima estate di guerra i nazisti arrivarono con carri armati e mitragliatrici e ci ordinarono d consegnare tutti i bambini (…) Se non avessimo consegnato i bambini avrebbero arrestato anche noi o ci avrebbero fucilato. “E avete consegnato i bambini?” domandai incredulo. “Prego Dio che non l’avessimo fatto – ammise lentamente Grand-Père – ma in tempo di guerra non esistono scelte facili; sono sempre angosciose, strazianti”. (p. 61). Nel racconto del nonno emerge l’impotenza della gente, di tanta gente che sapeva, vedeva, ma non faceva niente, e la difficoltà di scegliere di agire piuttosto che di girar la testa. Un tema poco trattato nei libri per ragazzi ma invece di fondamentale importanza proprio per loro, perché la riflessione sull’impegno e la capacità di difendere le proprie idee e quindi anche la vita umana li deve accompagnare mentre crescono, deve diventare punto saldo e scelta irrinunciabile per futuri adulti consapevoli. Così è bene che i ragazzi leggano del nonno di Etienne e di tanti che, come lui, non seppero fare nulla e che, insieme ad Etienne, ne ricavino anche una nuova consapevolezza.

Gaye Hicyilmaz, Vietato rubare le stelle, Buena Vista, Milano, 2001

“Non ci resta altro che sperare che dovunque essi siano, anche loro possano ancora alzare lo sguardo e vedere le stelle” (p. 89) Proprio le stelle uniscono con una limpida luce le vicende di un ragazzino, Richard, la cui mamma sparisce misteriosamente, con la storia di un uomo, Stef, un anziano vicino di casa che gli racconta la sua vita e l’ombra che l’accompagna. Deportato in Unione Sovietica con la madre e il fratello minore, stremato dalla fatica e dalla vita del campo, Stef perde di vista i suoi durante un trasferimento in treno. Non li rivedrà più e di questo si sente responsabile tanto da essere quasi schiacciato, anche se a distanza di anni, dal senso di colpa. E se l’incontro con il ragazzo gli permetterà di “prendere le distanze” da una colpa inesistente, questo stesso incontro permette a noi di rileggere eventi tra i meno conosciuti della seconda guerra mondiale, sicuramente le pagine più belle dell’intero libro.

George Layton, Io da te e tu da me, Istrici Salani, Milano, 2001

Raccontati in prima persona da un ragazzino, il libro raccoglie diversi episodi di un anno scolastico, in un paesino vicino a Londra, poco dopo la fine della guerra. L’episodio centrale, il più lungo di tutto il libro, riflette l’esperienza dell’autore, ebreo austriaco, che scappa dalla sua terra ed evidenzia molti dei luoghi comuni che hanno contraddistinto quell’epoca. Luoghi comuni cui tanti hanno creduto (tutti i tedeschi sono nazisti….gli ebrei hanno ucciso Gesù…), respingendo ed escludendo quindi, come succede appunto al ragazzino del racconto, chi apparteneva a quei popoli. Il racconto è anche un invito a non omologarsi, a non seguire il gruppo, ma a ragionare con la propria testa. L’apparente debolezza di Passerotto non lo farà soccombere alle minacce e all’isolamento dei suoi compagni, anzi. La profonda convinzione di avere ragione gli permetterà di uscire vincitore dall’ultima discussione con il bullo della scuola. Se ne andrà, è vero, in una scuola frequentata da altri ragazzi ebrei, ma non se ne andrà da perdente e lascerà un segno profondo, una strada tracciata, tanto che il protagonista continuerà a frequentarlo.

Myron Levoy, Alan e Naomi, Junior Mondandori, Milano, 1998

Questo è il racconto di una speranza di guarigione, della scommessa di una seconda nascita attraverso il legame dell’amicizia. Alan, ragazzino ebreo che vive in un quartiere popolare di New York, incontra Naomi, anch’essa ebrea, scampata alla furia della Gestapo dopo aver assistito all’omicidio del padre e rifugiatasi negli Stati Uniti. Da questo incontro difficile e spiazzante “Naomi è pazza, Naomi è diversa, lontana da tutto e da tutti” nascono nuove possibilità. Per Naomi certo che può ricominciare ad avere fiducia, ritornare a giocare e sorridere ma anche per Alan che attraverso lo sconcerto prima e il coinvolgimento poi impara a non scappare davanti alle prove difficili che l’amicizia con Naomi gli impone. Anche la fine, non lieta, si inserisce in questo percorso di crescita e di apprendimento. E’ un libro bello, appassionante, in grado di far nascere emozioni intense. Per questo più che ad una lettura in solitudine si presta alla narrazione da parte di una voce adulta che accompagna e media il racconto.

La storia di Redattore Sociale

Prende il via con questo numero di HP-Accaparlante una rubrica dedicata all’informazione sociale. Con tale espressione si intendono tutte quelle notizie che nei vari mass media (quotidiani, televisioni, radio, siti internet) trattano “eventi sociali” legati alle varie forme del disagio e della marginalità (ad esempio immigrazione, handicap, minori, anziani, senza fissa dimora, tossicodipendenza…). Ma in che quantità e in che modo viene prodotta l’informazione sociale? Cercheremo, nel corso dei mesi, di analizzarne i vari aspetti, quantitativi e qualitativi, prestando un’attenzione particolare alle tematiche dell’handicap. Questa volta iniziamo parlando di “Redattore Sociale”, il primo e tuttora unico seminario di formazione sociale per giornalisti che ogni anno, dal 1994 ad oggi, viene organizzato dal C.N.C.A. – Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza in collaborazione con l’Agenzia di stampa Redattore Sociale (www.redattoresociale.it). Da nove anni i maggiori professionisti del giornalismo, gli addetti al lavoro della comunicazione sociale, i protagonisti del no-profit e chiunque sia interessato, si riuniscono per tre giorni alla Comunità Capodarco di Fermo (AP) per fare il punto sullo stato dell’informazione sociale in Italia. Gli aspetti che emergono sempre ad ogni incontro sono essenzialmente due: la scarsità di questo tipo di informazione, vale a dire che le notizie sociali compaiono di rado sui mass media, e se lo fanno hanno comunque uno spazio ridotto e marginale; oppure, le notizie sociali compaiono e hanno anche ampio risalto, ma solo per fare sensazionalismo e scalpore. Pensate ad esempio a come viene reso giornalisticamente un fatto di cronaca con un genitore che uccide un figlio, e a come la stessa notizia assume invece toni diversi se il figlio è disabile. La parola “disabile” o “handicappato” compare già nei titoli e diventa il punto chiave della vicenda, spostando l’attenzione non sul fatto in sé già grave (un genitore che uccide un figlio) ma sull’handicap e il disagio sociale. Disagio però raccontato in maniera rischiosa, cioè col pericolo di alimentare o addirittura generare stereotipi e pregiudizi. E’ proprio sulla prevenzione di questi rischi che si concentra, allora, il lavoro di Redattore Sociale, cercando di avvicinare il giornalismo a un modo di fare informazione diverso ma fondamentale, e ad approfondire al tempo stesso il contatto e il rapporto tra gli operatori della comunicazione e gli operatori del no-profit (spesso è necessario che anch’essi siano formati ad informare). Al recente seminario svoltosi nel dicembre 2002 e intitolato “Maschere” è emerso un punto chiave dell’informazione sociale: i nudi fatti non si danno mai. Nel costruire e raccontare una notizia sociale influiscono troppi fattori: il contesto, la disponibilità delle fonti informative, la cultura di chi scrive o filma, la necessità di descrivere i sentimenti dei protagonisti, le sensazioni e i pensieri stessi del giornalista, il linguaggio, i filtri applicati, gli strumenti… Insomma, l’informazione sociale rischia di diventare una maschera sul volto dei fatti. Anziché assumere, invece, quella che dovrebbe essere una vera e propria funzione pedagogica: una corretta e neutra informazione sociale servirebbe, infatti, a produrre probabilmente maggiore sensibilità e una “sana” cultura della diversità. Redattore Sociale cerca di fornire gli strumenti necessari ad un’informazione il più possibile divulgativa, documentativa e educativa, partendo da quello che forse è il punto più difficile: cambiare la forma mentis di chi fa informazione e uscire dalla logica del mercato, delle vendite e dell’audience. Troppo difficile? Forse. Però dal 1994 ad oggi le edizioni dei seminari si sono svolte con sempre maggiore successo di pubblico e di visibilità, segno evidente che di informazione sociale se ne sente il bisogno.

Spazio Calamaio

Come molti di voi già sapranno, il 2003 è stato proclamato dall’Unione Europea “Anno Europeo delle Persone con Disabilità”. Questa rubrica, che intende occuparsi di esperienze e problemi relativi alla disabilità in una prospettiva continentale, o per lo meno cercando di allungare il naso oltre i confini nazionali, non poteva trovare miglior battesimo che in una tale iniziativa. Cerchiamo pertanto di capire su quali basi ci si predispone a sottolineare il ruolo dei disabili nella società europea di inizio millennio. </p> <p>La dichiarazione di Madrid L’Anno Europeo delle Persone con Disabilità nasce da una proposta adottata dal Consiglio dell’Unione il 3 dicembre 2001. In questa scelta molto hanno inciso gli sforzi dell’European Disability Forum (EDF), un’organizzazione-ombrello di promozione dei diritti dei disabili con sede a Bruxelles, nata a metà degli anni ’90 (entro il progetto Helios II) come voce indipendente di supporto all’attività degli organi ufficiali dell’Unione. Per capire lo spirito dell’Anno Europeo, è essenziale analizzare la “Dichiarazione di Madrid”, elaborata con il contributo decisivo dell’EDF. La dichiarazione è stata pubblicata il 26 marzo 2002 a conclusione del 1° Congresso Europeo sulle Persone con Disabilità svoltosi nella capitale spagnola, ed è una sorta di manifesto politico e pratico per il 2003. Il testo integrale, nell’originale inglese/francese e in traduzione italiana, è disponibile presso il sito web www.madriddeclaration.org. Innanzitutto, la Dichiarazione si apre affermando che “la disabilità è una questione di diritti umani”; ciò per sottolineare che l’approccio non deve (più) essere di tipo pietistico e caritativo, o teso a riabilitare l’individuo per adeguarlo alla società esistente, e che al contrario la società deve modificarsi per garantire uguali opportunità ai disabili come a tutti i propri cittadini. Questa precisazione è rilevante perché è ancora diffusa socialmente una mentalità che vede il disabile come persona “in situazione di bisogno”, marcandone così la differenza, e non come “portatore di bisogni” come tutti coloro che vivono in un contesto sociale. L’Anno Europeo deve perciò contribuire a proporre l’immagine del disabile come soggetto cittadino e consumatore, e non più come oggetto di assistenza. Un’altra annotazione importante: le persone disabili sono “cittadini invisibili”. A differenza di quanto accade con altre fasce sociali, discriminate in base ad un pregiudizio di carattere negativo (tossicodipendenti, zingari…), i disabili sono emarginati in quanto vengono ignorati e dimenticati dalla società in senso vasto. Questa assenza di stigma può forse facilitare una campagna per i diritti umani, ma finora ha contribuito al mantenimento di barriere che di fatto escludono il disabile da una piena partecipazione alle proprie comunità. Per di più, con il carattere di “muro di gomma” che può avere questo genere di barriere: mentre per non assumere un sieropositivo devo esplicitare il mio pregiudizio nei suoi confronti, il rifiuto di un disabile può trincerarsi dietro questioni di opportunità pratica apparentemente più condivisibili. Un terzo e importante punto attiene al concetto di “società inclusiva”, che soggiace a questa nuova visione della disabilità. Infatti, se Maometto non va alla montagna, la montagna andrà da Maometto – ovvero, la società non deve portare il disabile al proprio livello ma portarsi al suo. Occorre dunque ridefinire molte pratiche fin banali, dalle modalità di trasporto alla disposizione degli scaffali nei supermercati, per “disegnare un mondo flessibile per tutti” e permettere l’inclusione di tutti gli individui. Nella dichiarazione, per dirla tutta, non mancano punti controversi e un po’ contraddittori. Ad esempio, l’attività da compiere nel 2003 appare concentrata su leggi e norme sociali da promuovere, il che sembra stridere con la (giustissima) constatazione che “le persone disabili formano un gruppo diversificato”, con esigenze spesso peculiari del singolo individuo e non inquadrabili in provvedimenti generici. Ma questo è un problema inevitabile in una dichiarazione di intenti. Più significativo è il fatto che la Dichiarazione di Madrid insista moltissimo su quanto sia cruciale per la piena cittadinanza del disabile l’accesso all’occupazione e la tutela da discriminazioni sul posto di lavoro. Purtroppo, la tendenza generale in Europa sembra essere quella alla precarizzazione dei lavoratori, in qualche caso non senza l’avallo implicito delle politiche comunitarie sulla “occupabilità”, ed è facile ritenere che di questo smantellamento delle tutele i primi a fare le spese saranno proprio i lavoratori di più complesso inserimento. In ogni caso, la Dichiarazione di Madrid è di grande interesse e di portata molto ampia (diversi punti altrettanto importanti devo tralasciarli per ragioni di spazio), e costituisce un punto di riferimento per chiunque intenda proporre iniziative legate all’Anno Europeo in modo non episodico. </p> <p>La lunga Marcia In queste ultime settimane il calendario delle iniziative sul sito ufficiale dell’Anno Europeo delle Persone con Disabilità, www.eypd2003.org, si sta popolando di segnalazioni relative a diverse nazioni. Gli eventi non sono tutti strettamente legati alla celebrazione, ma l’Anno Europeo serve soprattutto ad accendere i riflettori sui “cittadini invisibili” e sulle iniziative da loro – prima e più che per loro – organizzate, orientandole al contempo verso obiettivi di lunga portata nell’integrazione sociale. Su proposte di questo genere legate al 2003 è possibile reperire informazioni sul web – più che su altri media, la cui carente e distorta rappresentazione della disabilità è questione su cui l’EDF stessa propone diverse campagne di pressione. C’è però un’iniziativa direttamente integrata nell’Anno Europeo, che ne costituirà l’aspetto più evidente: la “Marcia delle Persone”, un autobus coloratissimo che attraverserà l’Unione Europea e concentrerà intorno alla propria vistosa presenza campagne di sensibilizzazione ed eventi. Il bus parte dalla Grecia il 23 gennaio, e concluderà il suo percorso in Italia dal 29 ottobre al 4 dicembre; ci sono dunque quasi 10 mesi di tempo per non farsi trovare impreparati al suo passaggio. Inoltre, se passate le vacanze estive a Londra o Stoccolma e vedete spuntare fuori un pullman che sembra uscito direttamente dalla copertina di Sgt. Pepper, saprete di cosa si tratta… Purtroppo, ad inizio 2003 ancora non c’è traccia di un sito ufficiale sulle campagne in Italia; l’Organismo nazionale di coordinamento è stato recentemente istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ma la sua comunicazione appare finora carente. Questo nonostante il nostro paese abbia un ruolo di primissimo piano nell’Anno Europeo, ospitandone a Roma la manifestazione di chiusura il 3-4 dicembre in concomitanza con la presidenza di turno dell’UE. Mi pare che l’Italia, nel suo complesso, non abbia finora proposto molte iniziative concrete entro questa cornice; ci si può augurare che molto “bolla in pentola”, o che ci sia un bombardamento di manifestazioni nei mesi finali del 2003 all’arrivo della Marcia, ma è legittimo temere che si stia un po’ snobbando l’evento. L’opportunità offerta dall’Anno Europeo delle Persone con Disabilità è molto importante per tutti coloro che vivono o operano in questo mondo; è auspicabile che i riflettori che si accenderanno su di esso si mantengano ben vivi anche nel 2004, 2005…, ma questa attenzione è tutt’altro che certa. Insomma: datevi una mossa, prima del prossimo Capodanno!

2003: anno europeo delle persone con disabilità

Come molti di voi già sapranno, il 2003 è stato proclamato dall’Unione Europea “Anno Europeo delle Persone con Disabilità”. Questa rubrica, che intende occuparsi di esperienze e problemi relativi alla disabilità in una prospettiva continentale, o per lo meno cercando di allungare il naso oltre i confini nazionali, non poteva trovare miglior battesimo che in una tale iniziativa. Cerchiamo pertanto di capire su quali basi ci si predispone a sottolineare il ruolo dei disabili nella società europea di inizio millennio.

La dichiarazione di Madrid L’Anno Europeo delle Persone con Disabilità nasce da una proposta adottata dal Consiglio dell’Unione il 3 dicembre 2001. In questa scelta molto hanno inciso gli sforzi dell’European Disability Forum (EDF), un’organizzazione-ombrello di promozione dei diritti dei disabili con sede a Bruxelles, nata a metà degli anni ’90 (entro il progetto Helios II) come voce indipendente di supporto all’attività degli organi ufficiali dell’Unione. Per capire lo spirito dell’Anno Europeo, è essenziale analizzare la “Dichiarazione di Madrid”, elaborata con il contributo decisivo dell’EDF. La dichiarazione è stata pubblicata il 26 marzo 2002 a conclusione del 1° Congresso Europeo sulle Persone con Disabilità svoltosi nella capitale spagnola, ed è una sorta di manifesto politico e pratico per il 2003. Il testo integrale, nell’originale inglese/francese e in traduzione italiana, è disponibile presso il sito web www.madriddeclaration.org. Innanzitutto, la Dichiarazione si apre affermando che “la disabilità è una questione di diritti umani”; ciò per sottolineare che l’approccio non deve (più) essere di tipo pietistico e caritativo, o teso a riabilitare l’individuo per adeguarlo alla società esistente, e che al contrario la società deve modificarsi per garantire uguali opportunità ai disabili come a tutti i propri cittadini. Questa precisazione è rilevante perché è ancora diffusa socialmente una mentalità che vede il disabile come persona “in situazione di bisogno”, marcandone così la differenza, e non come “portatore di bisogni” come tutti coloro che vivono in un contesto sociale. L’Anno Europeo deve perciò contribuire a proporre l’immagine del disabile come soggetto cittadino e consumatore, e non più come oggetto di assistenza. Un’altra annotazione importante: le persone disabili sono “cittadini invisibili”. A differenza di quanto accade con altre fasce sociali, discriminate in base ad un pregiudizio di carattere negativo (tossicodipendenti, zingari…), i disabili sono emarginati in quanto vengono ignorati e dimenticati dalla società in senso vasto. Questa assenza di stigma può forse facilitare una campagna per i diritti umani, ma finora ha contribuito al mantenimento di barriere che di fatto escludono il disabile da una piena partecipazione alle proprie comunità. Per di più, con il carattere di “muro di gomma” che può avere questo genere di barriere: mentre per non assumere un sieropositivo devo esplicitare il mio pregiudizio nei suoi confronti, il rifiuto di un disabile può trincerarsi dietro questioni di opportunità pratica apparentemente più condivisibili. Un terzo e importante punto attiene al concetto di “società inclusiva”, che soggiace a questa nuova visione della disabilità. Infatti, se Maometto non va alla montagna, la montagna andrà da Maometto – ovvero, la società non deve portare il disabile al proprio livello ma portarsi al suo. Occorre dunque ridefinire molte pratiche fin banali, dalle modalità di trasporto alla disposizione degli scaffali nei supermercati, per “disegnare un mondo flessibile per tutti” e permettere l’inclusione di tutti gli individui. Nella dichiarazione, per dirla tutta, non mancano punti controversi e un po’ contraddittori. Ad esempio, l’attività da compiere nel 2003 appare concentrata su leggi e norme sociali da promuovere, il che sembra stridere con la (giustissima) constatazione che “le persone disabili formano un gruppo diversificato”, con esigenze spesso peculiari del singolo individuo e non inquadrabili in provvedimenti generici. Ma questo è un problema inevitabile in una dichiarazione di intenti. Più significativo è il fatto che la Dichiarazione di Madrid insista moltissimo su quanto sia cruciale per la piena cittadinanza del disabile l’accesso all’occupazione e la tutela da discriminazioni sul posto di lavoro. Purtroppo, la tendenza generale in Europa sembra essere quella alla precarizzazione dei lavoratori, in qualche caso non senza l’avallo implicito delle politiche comunitarie sulla “occupabilità”, ed è facile ritenere che di questo smantellamento delle tutele i primi a fare le spese saranno proprio i lavoratori di più complesso inserimento. In ogni caso, la Dichiarazione di Madrid è di grande interesse e di portata molto ampia (diversi punti altrettanto importanti devo tralasciarli per ragioni di spazio), e costituisce un punto di riferimento per chiunque intenda proporre iniziative legate all’Anno Europeo in modo non episodico.

La lunga Marcia In queste ultime settimane il calendario delle iniziative sul sito ufficiale dell’Anno Europeo delle Persone con Disabilità, www.eypd2003.org, si sta popolando di segnalazioni relative a diverse nazioni. Gli eventi non sono tutti strettamente legati alla celebrazione, ma l’Anno Europeo serve soprattutto ad accendere i riflettori sui “cittadini invisibili” e sulle iniziative da loro – prima e più che per loro – organizzate, orientandole al contempo verso obiettivi di lunga portata nell’integrazione sociale. Su proposte di questo genere legate al 2003 è possibile reperire informazioni sul web – più che su altri media, la cui carente e distorta rappresentazione della disabilità è questione su cui l’EDF stessa propone diverse campagne di pressione. C’è però un’iniziativa direttamente integrata nell’Anno Europeo, che ne costituirà l’aspetto più evidente: la “Marcia delle Persone”, un autobus coloratissimo che attraverserà l’Unione Europea e concentrerà intorno alla propria vistosa presenza campagne di sensibilizzazione ed eventi. Il bus parte dalla Grecia il 23 gennaio, e concluderà il suo percorso in Italia dal 29 ottobre al 4 dicembre; ci sono dunque quasi 10 mesi di tempo per non farsi trovare impreparati al suo passaggio. Inoltre, se passate le vacanze estive a Londra o Stoccolma e vedete spuntare fuori un pullman che sembra uscito direttamente dalla copertina di Sgt. Pepper, saprete di cosa si tratta… Purtroppo, ad inizio 2003 ancora non c’è traccia di un sito ufficiale sulle campagne in Italia; l’Organismo nazionale di coordinamento è stato recentemente istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ma la sua comunicazione appare finora carente. Questo nonostante il nostro paese abbia un ruolo di primissimo piano nell’Anno Europeo, ospitandone a Roma la manifestazione di chiusura il 3-4 dicembre in concomitanza con la presidenza di turno dell’UE. Mi pare che l’Italia, nel suo complesso, non abbia finora proposto molte iniziative concrete entro questa cornice; ci si può augurare che molto “bolla in pentola”, o che ci sia un bombardamento di manifestazioni nei mesi finali del 2003 all’arrivo della Marcia, ma è legittimo temere che si stia un po’ snobbando l’evento. L’opportunità offerta dall’Anno Europeo delle Persone con Disabilità è molto importante per tutti coloro che vivono o operano in questo mondo; è auspicabile che i riflettori che si accenderanno su di esso si mantengano ben vivi anche nel 2004, 2005…, ma questa attenzione è tutt’altro che certa. Insomma: datevi una mossa, prima del prossimo Capodanno!

Salve sono un geranio

Per una cultura che valorizzi tutte le abilità

 

Vi racconto di un mio recente incontro al Centro Documentazione Handicap di Bologna, dove lavoro. Erano presenti un gruppo di insegnanti tedeschi che ogni anno trascorrono una settimana nel bolognese per incontrare alcune realtà operanti nel sociale, come scuole e associazioni; solitamente l’ultimo giorno che trascorrono in Italia ci fanno visita per una chiacchierata di conoscenza. Io preferisco sempre rendere attivi questi incontri, andare un po’ oltre le chiacchiere, giocare, così da far toccar con mano ciò di cui si sta parlando. Quest’anno avevo messo al centro della tavola una bellissima pianta e ho iniziato dicendo che quella pianta era il mio biglietto da visita. Ho raccontato come solitamente la mia presentazione ai convegni fosse “Salve, sono un geranio”. Immaginate lo stupore negli occhi dei tedeschi, lo sguardo perso ma attento di chi non capisce ma rimane concentrato per intuire dove voglio arrivare con i miei giochetti. Ho poi spiegato che mi presento così facendo memoria di ciò che era stato detto a mia madre al momento della mia nascita: “Signora, guardi, suo figlio è vivo, ma resterà per sempre un vegetale”. Allora io ho scelto come vegetale di essere una pianta di geranio. Le facce dei tedeschi si facevano sempre più sconvolte e curiose nello stesso tempo. Uscendo dalla mia esperienza personale ho deciso di instaurare un dialogo che stimolasse anche il loro contributo sulla questione “pianta o persona?” Si tratta infatti di una questione che non riguarda solo me, tutte le persone handicappate gravi vengono definite dei vegetali sin dalla nascita e così sono dunque costretti a presentarsi per il resto della loro vita. Dico spesso, a questo proposito, che sono contento di essere handicappato e di esserlo fino in fondo, così tutto si mette in discussione, si mette in crisi…altrimenti non mi sarei mai valso del titolo di geranio! Allora di fronte a questo dato di fatto chiedevo ai tedeschi di avanzare ipotesi o proposte concrete per trasformare queste piante in persone. Sono uscite un po’ tutte quelle solite cose che si fanno con una pianta: la si annaffia, la si tiene al sole, le si cambia la terra, la si concima. Ma non basta ancora, facendo tutto questo, assolutamente necessario, la pianta rimane sempre pianta. Allora escono le proposte più folli e, a mio avviso, anche un po’ patologiche: le si parla, la si tiene in compagnia, le si fa ascoltare la musica. Ok, ma sempre pianta rimane, forse più bella, forse anche un po’ più frustrata, ma sempre pianta è. I tedeschi non sanno più cosa dire, come gestire la situazione: si legge nei loro occhi lo smarrimento più totale. Decido di buttarmi e dare la soluzione dell’enigma che li sta rendendo sempre più pensierosi. Tutto quello che è stato proposto appartiene a quella che si chiama assistenza, ma abbiamo visto come con la sola assistenza, seppur necessaria, la pianta rimane ancora pianta. Per farla diventare persona bisogna abbassarsi al suo livello, guardarla dritto negli occhi e instaurare con lei una relazione alla pari: ecco che la pianta diventa persona. Non è comunque uno sforzo unilaterale! La relazione alla pari si crea con il contributo di tutte le parti; in certe situazioni questo contributo è messo a disposizione incondizionatamente. Non lo trovate affascinante? Tutti sono capaci di fare assistenza, anche il Presidente del Consiglio fa assistenza, ma la pianta rimane pianta. Se non ci rapportiamo alla diversabilità nel giusto modo rischiamo di copiare un modello già vecchio, bisogna cambiare la cultura. Dobbiamo insomma fare un salto di qualità che è insieme politico e culturale. Attenzione però: se la persona diversabile non è disposta giocarsi in una relazione autentica, uscendo dalla logica del mero farsi aiutare, non otterremo una vera reciprocità. Quasi mai si pensa che l’integrazione non è solo l’accoglienza da parte della “normalità” del “diverso”, ma anche il “diverso” deve accogliere la “normalità”. Il diversabile deve accettare i propri deficit, averne consapevolezza, e fare in modo che l’handicap non influenzi negativamente il rapporto con un’altra persona, che a sua volta si sforza di fare altrettanto: entrambi devono accettare i propri limiti. Dobbiamo insomma fare tutti insieme, diversabili e normabili, un salto di qualità che è insieme politico e culturale. Perché la pianta diventi persona si deve pensare adulta, come diceva spesso il mio amico Mario Tortello. Per questo credo che l’anno duemilatre, anno europeo delle persone con disabilità, si presti bene ad essere un momento propizio per lavorare a questa cultura da cambiare e migliorare. Come ho già detto mille volte la parola disabilità proprio non mi piace, allora perché non trasformare il 2003 in “anno europeo della diversabilità”. Sarebbe l’occasione per fare un salto di qualità culturale e politico anche per chi si sente solo una persona portatrice di deficit. Ultimamente ho scoperto quanto sia importante mettere in rete tutte le idee e tutte le esperienze, allora ecco il mio indirizzo di posta elettronica: claudio@accaparlante.it. Se proprio poi volete innaffiarmi…fatelo con la birra Adelscott! Claudio Imprudente a cura di Alessandra Pederzoli

Strumenti

 

“Se io potrò impedire
a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano
Se allevierò il dolore
o guarirò una pena
o aiuterò un pettirosso caduto
a rientrare nel nido
non avrò vissuto invano.
 

Emily Dickinson

Frediano Sessi, Sotto il cielo d’Europa, Einaudi ragazzi,Torino, 1998

Hans, Elisa, Remy, Pino, Simone, Franco, Cahia, Rom. Nomi qualsiasi di ragazzi qualsiasi, uniti dallo stesso tragico destino: il campo di concentramento dove insieme a loro sono morti migliaia di bambini e ragazzi. Raccontando le loro storie, l’autore ci accompagna in un viaggio molto particolare. Si fa tappa davanti ai cancelli dei più grandi campi di concentramento e sterminio d’Europa e, attraverso le semplici parole che ci richiamano agli occhi i ragazzi deportati, siamo costretti a rivivere quello che molti vorrebbero dimenticare. Ogni storia è accompagnata dalla descrizione del campo in cui si è svolta. Non ci sono commenti, bastano le cifre. Non è un libro facile, non lascia spazio a speranza e fantasia, parole sconosciute ai milioni di persone rinchiuse nei lager e proprio per questo è bene che i ragazzi non lo leggano da soli ma insieme ad adulti in grado di “fare memoria” di quello che è successo ma insieme in grado di crescere i ragazzi perché quello che è successo non deva più accadere. Accanto alle semplici storie di ragazzi veri che si possono ascoltare dalla voce di un adulto, si possono consegnare nelle mani dei giovani lettori romanzi che, seppur inventati, richiamano queste vicende. E così Cahia piccola contrabbandiera del ghetto di Varsavia potrà fra compagnia ad Alex di via degli Uccelli così come Rom rivive al fianco di Merlino e Schulim, nell’ombra del lungo camino.

Lia Levi, Che cos’è l’antisemitismo? Per favore rispondete, Mondadori, Milano, 2001

Lia Levi, forte della sua lunga esperienza di testimonianza nelle scuole, raccoglie in questo libro una ventina di domande cui risponde in maniera semplice e chiara, con molti riferimenti storici e culturali. L’obiettivo, centrato, è quello di eliminare dubbi, incertezze e perplessità su Israele, la religione ebraica e gli ebrei perché da qui nascono i pregiudizi più crudeli. Alcune domande sono più impegnative e affrontano i rapporti fra le religioni, il fascismo e il nazismo. Altre invece sono più legate agli stereotipi (gli ebrei sono ricchi, brutti, intelligenti, avari…) e potrebbero far sorridere se non riflettessero un credere diffuso che va combattuto in tutti i modi per crescere i ragazzi nel rispetto reciproco e nell’apertura a persone diverse di cui vanno scoperti i valori e le peculiarità piuttosto che le caratteristiche negative. Il libro è completato da una nota storica di Luciano Tas che ripercorre la storia degli ebrei dai tempi biblici al nostro secolo. Anche questa è semplice e chiara e può essere un ottimo strumento di lavoro e sicuramente un valido supporto ai testi scolastici, molto più sintetici e a volte imprecisi.

Annette Wievorka, Auschwitz spiegato a mia figlia, Einaudi tascabili, Torino, 1999

Attraverso le domande della figlia adolescente, l’autrice, una storica che ha dedicato molto tempo allo studio dell’ebraismo e della Shoah, cerca di spiegare che cosa è successo durante il nazismo e che cosa è stata la persecuzione nei confronti degli ebrei. Ma come lei stessa dice: “Una cosa mi ha colpito soprattutto mentre cercavo di rispondere a Mathilde, di spiegarle cos’era Auschwitz: il fatto che le sue domande fossero le stesse che continuano ad assillarmi. Le stesse che da più di mezzo secolo alimentano la riflessione degli storici e dei filosofi. Domande cui è difficile rispondere. Erano solo espresse in modo più crudo, più diretto. In qualità di storica, ovviamente, è piuttosto facile per me descrivere Auschwitz, raccontare come si è svolto il genocidio degli ebrei. A un certo punto ci si scontra, però, con un nocciolo assolutamente incomprensibile e quindi inspiegabile: perché i nazisti decisero di cancellare gli ebrei dalla faccia della terra? Perché spesero tanta energia per andare a scovare vecchi e bambini ai quattro angoli dell’Europa che occupavano – da Amsterdam a Bordeaux, da Varsavia a Salonicco – soltanto per sterminarli?” (pp. 4-5). “A questo punto saremmo tentati anche noi di porre una domanda alla Wievorka. La bambina, o meglio, l’adolescente Mathilde, si farà adulta, svolgerà forse la sua personale attività di intellettuale e – chissà? – anche di educatrice. Dal dialogo di cui siamo stati testimoni, ella avrà acquisito un patrimonio che non esitiamo a definire prezioso, per gli stimoli all’ulteriore riflessione e alla ricerca che sembrano lontani dall’essersi esauriti. Si continuano a pubblicare ricerche in proposito, ma il tema non è esaurito, perché la crudeltà umana si è nutrita e si nutre ancora, se funzionale a un disegno politico, di stermini di massa, di deportazioni, di torture. Non è esaurito perché a fronte di tali manifestazioni orribili, larghi strati di indifferenza continuano a manifestarsi. (dalla postfazione di Amos Luzzatto, pp. 76-77).

Andrea Canevaro, Elena Malaguti, Agostino Miozzo, Chiara Venier (a cura di), Bambini che sopravvivono alla guerra, Erickson, Trento, 2001

Questo libro è stato scritto con l’obiettivo di costruire un percorso di dialogo e di scambio con chi vive in paesi in guerra. Molto di rado si ha la possibilità di conoscere in modo diretto e approfondito la voce e le risorse delle persone che vivono tali realtà sulla propria pelle, soprattutto se bambini. In questo caso sono stati raccolti disegni e storie di bambini e ragazzi di Bosnia, Uganda e Ruanda che poi sono stati letti e commentati da alunni italiani. Lo studio e l’approfondimento, iniziati dal lavoro sui disegni, hanno portato alla conoscenza di ciascun paese che è stata approfondita anche cercando di spostare l’angolo di visuale e collocando la scuola in una dimensione più allargata, quella di un mondo in cui convivono, devono convivere, culture e stili di vita differenti. Il libro riporta i percorsi didattici accompagnati da una parte di approfondimento e da un’appendice con i disegni dei bambini. Come afferma Mozzo, nella prefazione, “Paradossalmente oggi, in un mondo non più delimitato dalle divisioni in blocchi, le condizioni dei bambini sembrano invece peggiorare in particolare in quei paesi che sono stati il teatro dell’esplosione di devastanti conflitti etnici, religiosi ed economici. (…) Il lavoro che ha generato questa pubblicazione va esattamente nel senso di testimoniare l’evoluzione del nostro agire, delle nostre azioni e del nostro percorso e risponde alla necessità di “storicizzare” un’esperienza significativa e attirare l’attenzione su tematiche che sono oggetto di grande attenzione mediatica, con tutti i limiti della semplificazione e della banalizzazione che i ritmi della comunicazione nell’era informatica impongono”.

Amnesty International, Quando i “grandi” fanno la guerra, Edizioni Cultura della Pace, 2000

Attraverso casi concreti e numerose testimonianze, il libro presenta il coinvolgimento dei minori nelle guerre di tutto il mondo, nelle sue varie sfaccettature, dal subire la guerra al diventarne protagonisti, dal fuggire dalle zone di guerra alla possibilità di crescere, malgrado tutto.

Leggere l’Olocausto, Idest, 1998

Una bibliografia accurata, suddivisa per fasce d’età e tipologie di racconto, accompagnata da un saggio di Frediano Sessi sull’atteggiamento che deve avere chi si avvicina alla lettura e alla comprensione dell’Olocausto.

Viaggio ad Auschwitz, Idest, 1998

Il resoconto di un gruppo di ragazzi di scuola media e le loro impressioni, insieme ad alcune testimonianze di sopravvissuti.

Mona Macksoud, I bambini e lo stress della guerra, Edizioni Scientifiche Magi, Roma, 1999

Un manuale pensato per i genitori e gli insegnanti di quei paesi in cui i bambini subiscono quotidianamente stress estremi dovuti alla guerra e ad altre forme di violenza sistematica. Semplici e pratici suggerimenti per non restare impotenti di fronte ai comportamenti problematici e distruttivi di tali bambini. Durante la guerra in Libano e in Kuwait, una prima versione di questo libro, tradotta in arabo, fu distribuita ad insegnanti, operatori della salute mentale nei campi giovanili e allo staff di svariati programmi di comunità.

Elena Camino, I bambini e la guerra, EGA, Torino, 1987

Il rapporto fra la realtà infantile e l’universo della guerra, vissuta, osservata o giocata, pone da tempo una lunga serie di controversi problemi psico-pedagogici, resi ancora più complessi dalla molteplicità degli aspetti della questione. Dopo quindici anni, è ancora attuale questo fascicolo che offre spunti per l’approfondimento e il dibattito, scegliendo di stare dalla parte dei bambini e della loro visione della guerra.

Daniele Novara, Silvia Mantovani (a cura di), Bambini ma non troppo, La Meridiana, Molfetta, 2000

Una prima possibile risposta al rapporto dei bambini con la memoria, la memoria del passato che diventa memoria del futuro: per garantire il futuro è necessario pensare in senso temporale, elaborare un concetto di tempo che permetta la rielaborazione delle esperienze vissute e la crescita. Questo il senso del libro che raccoglie esperti, psicologi, pedagogisti, scrittori con lo scopo di aprire un nuovo versante formativo che includa e integri l’educazione della memoria come obiettivo centrale nell’educazione alla pace e alla buona gestione dei conflitti.

Andrea Molesini, Nero latte dell’alba, Infanzie, Mondadori, Milano, 1993

Un percorso di conoscenza ed approfondimento bibliografico sull’Olocausto. Nel primo saggio, l’autore, ripercorre l’instaurasi del terrore hitleriano e puntualizza il peso delle responsabilità individuali di fronte a ciò che per la sua atrocità, profondità e costanza diventa emblema dello sterminio razziale sistematico ed organizzato. Segue poi la presentazione di quattordici schede che, attraverso una selezione ragionata fra la vastissima bibliografia esistente sul tema, indicano altrettanti percorsi di lettura particolarmente adatti per bambini e ragazzi, anche se non esclusivi. Per ogni volume, infatti, viene curata un’esposizione del contenuto e delle caratteristiche estetico-emotive che ne tratteggiano gli aspetti più significativi e anche i possibili collegamenti con altre letture.

Antonietta Marcucci, Ricordando…tra un asso di bastoni e un re di denari, Sovera Multimedia, Roma, 2001

Il testo presenta una raccolta di tredici testimonianze sulla seconda guerra mondiale raccolte nella località di Casteltodino in Umbria ed una commedia. Ad ogni storia è abbinata una breve scheda con alcune possibili indicazioni di lavoro didattico sia a livello individuale che per la discussione collettiva.

Brigitte Labbé, Michel Puech, La guerra e la pace, Piccoli filosofi, APEjunior, Milano, 2002

Nella collana “Piccoli filosofi” troviamo anche questo testo che si rivolge ai bambini tra i sei e gli otto anni per invitarli a ragionare sul tema della pace e della guerra. In modo diretto e concreto ma non banale si introduce il concetto che la pace non è una condizione naturale, anzi essa nasce e diventa stabile solo se ogni giorno, nei modi in cui ad ognuno è possibile, ci si impegna per costruirla. Il testo si presta molto bene ad una lettura guidata, in classe oppure in famiglia, da cui prendere lo spunto per rispondere e riflettere alle tante possibili domande che possono scaturirne.

Olek Mincer, Varsavia, viale Gerusalemme, 45, I mappamondi, Sinnos Editrice, Roma, 1999

La collana “I Mappamondi” presenta libri bilingui “scritti da autori immigrati per ragazzi italiani che hanno compagni di scuola stranieri e per ragazzi stranieri che hanno compagni di scuola italiani” Vogliono essere in qualche modo libri “ponte tra storie, lingue , tracce di culture diverse”. Questo testo in particolare presenta la storia dell’autore “ragazzo ebreo polacco così speciale e normale racconta se stesso con parole semplici di fanciullo adulto. Racconta agli adolescenti italiani di oggi il suo allora da un altro mondo”. Un mondo che non è solo personale o famigliare ma che porta il pegno di un’intera cultura, quella ebraica, segnata in modo indelebile dalla guerra, dalla deportazione, dalle cicliche ondate di persecuzione. Molto interessante è anche l’arrivo in Italia e la conoscenza con la comunità ebraica italiana che attraverso la testimonianza diretta dell’autore prende i colori vivi della convivenza quotidiana.

Angelo Ferrari, Luciano Scalettari, I bambini in guerra. Le storie, le stragi, i traumi, il recupero, EMI, Bologna,1996

Diamo la parola agli autori “L’idea di questo libro nasce di ritorno da una tavola rotonda, tenuta insieme, su questioni africane. Entrambi eravamo giunti alla consapevolezza che i bambini, nelle sempre più frequenti tragedie del Sud del mondo, erano “la notizia”, la foto da prima pagina, la storia d’apertura del servizio; ma regolarmente i media si dimenticavano di loro un attimo dopo. Quali erano veramente le conseguenze della guerra su di un bambino? Che gli accadeva, oltre a morire? Come superava i momenti più drammatici? E dopo, come si ricostruiva il suo mondo infantile, se ormai aveva attraversato il peggiore dei mondi d’adulto’ Che tracce rimanevano nella sua mente delle immagini di sangue, di morte, di sofferenza? Si sarebbero potuto dissolvere, o l’”ombra” avrebbe accompagnato per sempre la sua vita?” Da queste domande gli autori partono per raccontare, in modo documentato, l’emergenza della guerra (si fa particolare riferimento a quanto successo in Rwanda e in Bosnia) e il dopo-guerra, la vita azzerata, la psiche distrutta dai traumi, ma capace ancora di “volere la vita” e di saperla ricostruire.

Silvia Montevecchi, Vite sospese, EMI, Bologna, 2002

“Nascere in Africa oggi non è esattamente ciò che si dice un colpo di fortuna (…) ci sono ormai generazioni di persone che non hanno conosciuto nient’altro, se non la dimensione del perenne conflitto, del perenne odio, dell’eliminazione fisica del “nemico” (che poi non si sa neanche perché è nemico, né quando si è deciso che lo fosse). Ragazzi che oggi hanno 20-30 anni non sono mai andati a scuola, sanno leggere e scrivere sì e no, non conoscono nient’altro che il triste mondo che hanno avuto intorno, povero e belligerante, e non sanno che esistono mondi piacevoli e pacifici, in cui è possibile divertirsi, giocare, sentire musica…..” (p. 17). Un viaggio in Burundi, Sierra Leone, Somalia, devastate dalla guerra, realtà diverse ma rappresentative di tanti altri paesi non solo africani. Un viaggio per conoscere i progetti di sostegno e recupero degli ex bambini soldato e di scolarizzazione per tutti realizzati in questi paesi nella profonda convinzione che “i bambini hanno bisogno di luoghi protetti, di punti di riferimento per poter crescere con un minimo di serenità e quindi ricostruire il loro futuro, [hanno bisogno] di una buona scuola che dia la conoscenza e la forza per lottare sempre affinché la pace sia mantenuta, la giustizia raggiunta, l’odio etnico sconfitto e i diritti umani rispettati. Per tutti” (p. 154).

Angelo Ferrari (a cura di), Disegni di guerra, EMI, Bologna, 2000

Mentre ripercorre la storia della Sierra Leone e della guerra civile che l’ha devastata per otto anni, il libro punta l’attenzione sui bambini soldato di cui riporta disegni e drammatiche testimonianze. Illustra anche i programmi di sostegno e recupero il cui obiettivo principale è quello di “dare a questi bambini e queste bambine gli strumenti per costruirsi e scegliere il proprio futuro, all’interno delle loro comunità” (p. 104).

Paola Zannoner, La storia attraverso le storie, Infanzie/strumenti, Mondadori, Milano, 2002

Il manuale affronta l’argomento della storia interpretata dal romanzo contemporaneo per ragazzi, proponendo una metodologia che sviluppa percorsi di lettura in classe e a scuola. L’autrice propone quindi un approccio narrativo consapevole che l’apporto dei romanzi può contribuire a restituire l’impressione della storia come memoria di un vissuto e permanenza dei fatti che si arrivano a parlare in modo convincente ai ragazzi di oggi che, in questo modo, possono impadronirsene in modo personale e maggiormente duraturo.

Andrea Canevaro, Maria Grazia Berlini, Angela Camasta Pedagogia cooperativa in zone di guerra. Infanzia vulnerabile ed handicap, Erickson, Trento, 1998

Questo libro è frutto di elaborazioni e ricerche condotte nel corso degli anni di guerra in Bosnia e anche nel primo anno di pace. Elaborato tra i mesi di agosto 1996 e marzo 1997, contiene scritti, interviste e racconti in tempi diversi, con operatori e funzionari impegnati, a diversi livelli di intervento, attorno ai temi della cooperazione in emergenza, soprattutto per quel che riguarda il lavoro con bambine e bambini handicappati in Bosnia. E’ un libro di testimonianza che esprime una richiesta forte: “Non vi chiediamo aiuti, ma di provare a capire per non dimenticare, perché tutto questo non si ripeta in qualche altra parte della terra, per non dimenticare il mondo dell’infanzia ferita”. E ‘ uno strumento di formazione per chi lavora nell’ambito delle professioni di aiuto e di cura. La singolarità di questo intreccio, la capacità di tenere insieme due punti di vista (l’esperienza e la metodologia) fanno del testo un libro pieno di spunti di riflessione ed indicazioni di lavoro nonché di ampi squarci sulla terra di Bosnia nel tempo di guerra.

Walter Fochesato, La guerra nei libri per ragazzi, Mondatori, Infanzie/saggi, Milano, 1996

Walter Fochesato, uno dei più noti studiosi italiani di letteratura per l’infanzia e storia dell’illustrazione, propone un percorso storico- bibliografico fra la produzione editoriale rivolta a bambini e ragazzi sul tema delle guerre. L’autore, partendo dalla domanda su cosa sanno oggi i giovani della guerra (di quella vissuta dai nonni e di quella spettacolo fruita dagli schermi TV) ricostruisce i modi in cui autori e generi hanno affrontato il racconto di guerra attraversando la storia italiana del libro per bambini e ragazzi “movendo, perciò, dal processo risorgimentale per giungere ai nostri anni, passando attraverso la Prima Guerra Mondiale, l’avvento al potere di Mussolini, le guerre del fascismo, la Seconda Guerra Mondiale e la lotta di Liberazione”. Ampio spazio viene dato ai testi soprattutto a quelli in cui è possibile rintracciare la specificità dello “sguardo bambino” nei giorni della guerra. Per questo il testo non è solo utile a chi, insegnante o operatore culturale, voglia usare i libri segnalati come strumento di approfondimento didattico ma anche più in generale a chi è interessato ad un lavoro educativo sul “sopravvivere e crescere” visti come ”i nodi che, in tempo di guerra e in tempo di pace, l’infanzia deve sciogliere”.

Antonio Faeti, Dentro il rifugio, fuori dal guscio (p. 98 – 141), in I diamanti in cantina, Bompiani, Milano 1995

Faeti dedica alla guerra un intero capitolo di questo bel libro sulla letteratura per ragazzi e ne spiega molto chiaramente il motivo: “…so bene che non sono rari anche oggi quelli che, in buonissima fede, vorrebbero che il mostro fosse sempre occultato, che di esso solo si tacesse, che perfino la memoria si rendesse opaca, pur di privarlo del torvo, sanguinario, seducente sogghigno di cui è sempre dotato. Ho in mente, invece, che il rischio esista, ma vada corso: si deve rammentare, si deve testimoniare, si deve ammonire. C’è un altro rischio, a mio avviso, più grave: quello che porta alcuni proprio là, ancora là, sempre là, soprattutto perché non sanno, non temono, non conoscono…” (p. 101).

Maria Bacchi, Cercando Luisa, Sansoni, Milano, 2000

Uno strumento per insegnanti, bibliotecari, operatori culturali che possono affacciarsi sul mondo dei bambini italiani e, più in particolare, di quelli che vissero a Mantova fra il 1938 e il 1945. “I bambini e gli adolescenti passano leggeri nella storia, lasciano tracce che si cancellano facilmente, le loro parole vengono ascoltate distrattamente dagli adulti…” (p. 9) Ripercorrendo le loro strade, ascoltando le loro voci, si può costruire uno sfondo reale su cui collocare i molti romanzi che parlano ai ragazzi dello stesso periodo in forma più o meno romanzata, più o meno fantasiosa.

Gabriele Lo Iacono, Luigi Ranzato, Aiutare i bambini sopravvissuti a calamità: indicazioni per insegnanti e genitori, in Difficoltà di apprendimento vol. 7 n. 2, dicembre 2001 Le reazioni di stress dei bambini colpiti da una calamità e gli interventi scolastici e genitoriali che possono aiutarli a superare il trauma.

Autori vari, Arrendiamoci alla pace, in Bambini n. 10, dicembre 2001 (numero monografico) Un’antologia delle riflessioni sviluppate negli ultimi vent’anni dal Movimento Cooperazione Educativa, impegnato a riflettere sul tema dei conflitti, dell’intercultura, del dialogo e della solidarietà.

Autori vari, Parliamo di guerra, in Cooperazione educativa n. 1, gen-feb 2002 Il rientro a scuola dopo l‘attentato alle Torri Gemelle e le emozioni che chiedevano allo spazio scolastico di potersi esprimere ma che una corretta azione educativa non poteva lasciar andare senza aiutare i ragazzi a rielaborare. (Non bisogna smettere di insegnare a pensare).

Cinema e guerra

 

John Boorman – Anni ’40 – 1987 Lo scoppio della guerra visto dalla parte di un ragazzino che vive in un quartiere popolare di Londra.

Luis Malle – Arrivederci ragazzi – 1987 Nel gennaio 1944, vengono accolti e nascosti in un collegio francese alcuni ragazzi ebrei. Scoperti, saranno deportati insieme al direttore.

Steven Spielberg – L’impero del sole – 1987 Un ragazzino inglese, nato in Cina, perde di vista i genitori mentre inglesi e cinesi lasciano Shanghai occupata dai giapponesi. Dopo un lungo peregrinare raggiungerà un campo di prigionia dove resterà fino alla fine della guerra.

Agnieszka Holland – Europa Europa – 1991 Le vicende di un ragazzo ebreo tedesco, soldato scelto e profugo in un’odissea di incognite e rischi.

Roberto Faenza – Jona che visse nella balena – 1993 Dal libro di Jona Oberski, Anni d’infanzia. Un bambino nei lager, Giuntina, Firenze , 1989. La vita di un bambino in un campo di concentramento e il difficile successivo recupero.

Andrej Tarkovskji – L’infanzia di Ivan – 1962 Un ragazzino cui i tedeschi hanno sterminato la famiglia fa la staffetta per i partigiani russi dai quali cerca affetto e protezione.

Roberto Benigni – La vita è bella – 1997 Per proteggere il figlio e non fargli capire la realtà del campo di concentramento in cui sono rinchiusi, il padre gli fa credere che stanno facendo un gioco a premi. Mentre il figlio uscirà “indenne” da questa esperienza, il padre verrà scoperto e ucciso.

Radu Mihaileanu – Train de vie – 1998 Per evitare la deportazione, gli abitanti di un villaggio dell’est europeo allestiscono un treno sul quale alcuni di loro faranno davvero gli ebrei e altri i nazisti e partono verso la Russia.

Steven Spielberg – Schindler’s list – 1993 La storia di Oskar Schindler e della sua progressiva presa di coscienza che lo trasformerà da commerciante in affari con i nazisti in salvatore degli ebrei. Ne salverà più di mille dalla deportazione e dalla morte.

Jerry Schatzberg – L’amico ritrovato – 1989 Tratto dall’omonimo romanzo di Fred Uhlman, racconta con lunghi flash back l’amicizia fra due ragazzi, l’uno tedesco e l’altro ebreo.

Saren Kragh-Jacobsen – L’isola in via degli uccelli – 1997 Dal romanzo di Uri Orlev, la vita di un ragazzino ebreo che riesce a sopravvivere da solo nel ghetto di Varsavia.

Gérard Jugnot – Monsieur Batignole – 2002 Siamo a Parigi nel 1942 e un bambino, unico della famiglia scampato all’arresto, si rifugia presso il macellaio dello stabile dove viveva. L’uomo, che aveva sempre mantenuto una posizione di comodo, senza prendere posizione, in una progressiva presa di coscienza, si trova a dover scegliere da che parte stare.

Per le segnalazioni abbiamo fatto riferimento a: Bambini che sopravvivono alla guerra, cit. L’Europa delle guerre e dei conflitti: 1917-1945, a cura della Biblioteca comunale del Comune di Carpi, 2001 A. Faeti, I diamanti in cantina, cit.

Editoriale

All’origine di questo numero monografico ci sono alcune parole chiave: famiglia, difficoltà, bisogni, risorse. …e alcune domande a cui non abbiamo la pretesa e la presunzione di avere trovato delle risposte. Quando la famiglia si trova in una situazione di difficoltà e quando la famiglia non è in difficoltà? Quali sono i bisogni delle famiglie e quali sono le famiglie che hanno dei bisogni specifici? Chi ha le risorse per rispondere a questi bisogni? Quando la famiglia è risorsa di se stessa? Quando la famiglia è risorsa per la comunità? Mettersi in contatto con realtà diverse, situazioni ed esperienze è stata una occasione in più per fare una riflessione, per allargare le nostre conoscenze in merito al vasto e complesso mondo della famiglia, uscendo dalla dicotomia sano-malato, giusto-sbagliato, buono-cattivo, adeguato-inadeguato. La difficoltà, il bisogno sono elementi oggettivi legati alla vita e alla evoluzione di ogni singolo individuo. La famiglia in quanto comunità di vita nella quale si realizza in modo prioritario la formazione e la promozione umana e sociale delle persone, è il primo luogo dove l’individuo si misura con situazioni di crescita, di cambiamento che inevitabilmente danno luogo a piccole o grandi difficoltà e generano diversificati gradi di bisogni. Aristotele afferma che “la famiglia è il luogo della tragedia” perché vi accadono gli eventi più importanti: la nascita, la crescita, la morte e perché vi si intessono le relazioni fondamentali, quelle che legano i coniugi tra di loro e con i propri figli. (S. N.)

Oasis, una fantasia chiamata amore

 All’ultimo Festival del cinema di Venezia un piccolo, intenso film coreano proiettato sul finire della mostra rimescolò a sorpresa i dadi ma la partita non poteva vincerla. Oasis di Lee Chang-Dong ottenne il poco pertinente premio per la regia della giuria ufficiale e l’ancora marginale premio Cinemavvenire, riconoscimento della giuria giovani. A vincere sicuramente e tanto, fu chi ebbe la fortuna di vederlo in quella occasione, per il momento rimasta unica, dato che il film non è stato ancora distribuito in Italia. Se la critica ha il compito di servire l’arte, ha forse un valore parlare anche di un film che probabilmente non vedrete. Oasis è la storia di un uomo e di una donna che condividono una fantasia chiamata amore. Una fantasia invisibile, impalpabile, tragicamente soggettiva che non riesce a palesarsi al mondo, a farsi riconoscere, a legittimarsi. Hong Jong-Du (Sol Kyung-gu) è appena uscito di galera ed è portatore di un lieve ritardo mentale, Han Gong-Ju (Moon So-ri, la cui interpretazione va oltre ogni possibile descrizione) è affetta da una paralisi cerebrale e vive su una carrozzina in uno stato di semi-abbandono. Lui dal primo incontro ne rimane affascinato e le manda frutta e fiori. Lei non è mai stata amata come una donna. Nessuno avrà occhi buoni per riconoscere la natura di quel rapporto che finirà perseguitato come una violenza su un handicappato. Il film non vuole affatto essere un manifesto della dignità del disabile. Non ci sarebbe nulla di più discriminante che staccare una qualunque categoria e segnalandola nel suo specifico rivendicarne l’assoluta parità rispetto alle altre. Quella scritta da Lee Chang-Dong è una storia universale che racconta l’umanità. La grazia divina, l’immortale bellezza (come massimo compimento di quella istanza di spiritualità che non va identificata e ridotta solo alla fede), che l’uomo può creare quando decide di vivere amando se stesso e l’altro, oltre i limiti e la violenza del mondo: questo è il vero soggetto del film. Proprio come nella vita reale libertà e coercizione, felicità e dannazione, non si eliminano a vicenda ma convivono, così l’autore del superlativo Peppermint Candy, giustappone senza ricercare la sintesi brandelli di personalissime e intensissime visioni oniriche, a livide sequenze di oggettiva e inamovibile realtà e finisce per creare un’opera complessa quanto la vita che rifugge da ogni semplicistica scelta di genere. La poesia non scade nel lamento, la denuncia non diviene alibi per la dannazione. Piani sequenze e campi lunghi lasciano allo spettatore il tempo e la distanza per respirare e scegliere consapevolmente fino a che punto farsi coinvolgere, il burlesco ristora puntualmente dalla commozione senza però bloccare l’emozione. La sensazione finale è di aver partecipato in qualche modo ad una nuova prospettiva del mondo e del cinema e di averne ancora un disperato bisogno.

La maturità di Tatiana

La scoperta che sotto la membrana della disabilità grave ci stava nostra figlia che pensava, rifletteva, giudicava, ci ha aiutato a riparare la ferita prodotta dall’impatto con questa nuova realtà

 

. Questa consapevolezza è stata un supporto per affrontare le battaglie quotidiane per il riconoscimento dei basilari diritti di cittadinanza e l’abbattimento di barriere di esclusione sociale. Abbiamo cercato, nei limiti, di rimandare al nostro contesto di vita una immagine normalizzata di Tatiana e ciò ha rappresentato il nostro riscatto psicologico, relazionale e sociale. Abbiamo attivato una rete di relazioni simile, crediamo, a quella che crea la famiglia “normale” costruendo rapporti interpersonali, partendo dalla nostra famiglia, nella scuola, con l’ecosistema sociale in cui viviamo e con i servizi riabilitativi.

 

… Mi sto accarezzando la pancia, dentro c’è racchiuso il frutto di un amore desiderato e così tutte le sere prima di addormentarmi, penso, immagino, fantastico insieme a mio marito. Sarà maschio o femmina? Come lo/a chiameremo? Nel mio pensiero più lontano a volte qualche paura mi turbava: "E se non fosse normale?". Oggi so che la normalità non è un concetto così chiaro e definito e non penserei più così; allora ero troppo lontana, e pensavo che questo mondo non dovesse mai toccarmi? “Perché proprio a me deve capitare? è una cosa di altri, del vicino?”. I mesi passavano sereni, tutto era sotto controllo, ma a 6 mesi e mezzo di gestazione, per un distacco placentare, con un mio grosso rischio di vita è venuta alla luce nostra figlia che abbiamo chiamato Tatiana. Lei oggi ci dice: "Volevo vedere il mondo perché il mondo è bello". Tatiana ha avuto un periodo molto critico all’interno dell’incubatrice, caratterizzato da apnee prolungate. Questo ha comportato la non ossigenazione al cervello con alcune conseguenze future irreparabili. Dimessa dalla neonatologia, rosea e paffuta, ha raggiunto il peso previsto, a casa cresceva bene, ma i medici non ci avevano messi in allerta. Nei consultori pediatrici, vedevamo che gli altri neonati a quattro-cinque mesi avevano atteggiamenti e posture diverse da Tatiana, i medici ci dicevano di non allarmarci poiché era nata prematura e avrebbe recuperato nei mesi a venire ma non vedendo nessun miglioramento nello sviluppo motorio o in quello cognitivo, abbiamo cominciato a girare da un medico all’altro.

Le fatiche dei primi anni Nessuno ci dava diagnosi precise (anzi alcune sono state formulate in modo errato). Abbiamo scelto, non so se da incoscienti o con il sentimento del genitore, di non farle fare un intervento chirurgico, che aveva come diagnosi un cervello idrocefalo. Altri medici dicevano: “Camminerà a tre anni, parlerà un po’ più tardi”. Sembra di entrare in un tunnel, ma attenzione: guardando bene in fondo abbiamo sempre visto uno spiraglio di luce. Abbiamo fatto esami più approfonditi in Svizzera e ci hanno tranquillizzati dicendoci che avevamo fatto bene a non fare operare Tatiana. A un anno viene presa in carico dal servizio sanitario del nostro comune, composto da un èquipe di persone (ora riconosco essere state molto di aiuto perché validi e preparati professionisti) che ci hanno accompagnati a Firenze dove ci è stata comunicata la diagnosi "tetra paresi spastica". I medici erano molto pessimisti, ci dissero che Tatiana purtroppo sarebbe stata un vegetale. Io e mio marito ci guardavamo in faccia e ci chiedevamo: “Cosa vuol dire?” Cosa avrebbe comportato per lei e per noi? Dopo un periodo di smarrimento dovuto all’incapacità di affrontare tutte le problematiche del caso, ci siamo affidati ai consigli degli esperti, con fiducia e quasi per sfida. Io ho sempre visto Tatiana seguirmi e ascoltarmi: mi capiva. L’équipe del Servizio di Neuropsichiatria Infantile composto da neurofisiatra, psicologa, terapista, logopedista e tecnici degli ausili ha elaborato un programma terapeutico e riabilitativo per Tatiana : ogni tre-quattro mesi c’erano consulti in cui noi genitori venivamo aggiornati con tutte le indicazioni del caso; questo ci ha fatto sentire meno soli e impotenti di fronte a una cosa così grande . Gli amici veri non ci hanno lasciato mai soli, hanno accolto il nostro dolore nascosto. Con Tatiana abbiamo fatto tutte le esperienze che qualunque famiglia fa: al mare, in montagna, alle feste, questo è stato sicuramente il modo migliore per evadere dalla routine e darle stimolazioni positive. Per essere sempre più convinti di quello che stavamo facendo e per avere altre certezze, abbiamo inviato ad un centro specializzato di Philadelphia tutta la cartella clinica e foto di Tatiana. Ci hanno confermato che il percorso intrapreso era quello giusto. Il servizio nel suo complesso funzionava, anche se il trattamento che ci offriva il centro sanitario non era sufficiente, dovendo seguire loro tanti altri bambini, e nonostante facessimo ginnastica a casa. Avevo l’impressione che il metodo “Bobarth”, insegnatomi dalla fisioterapista, che io praticavo anche a casa, non fosse sufficiente. Avevamo paura di perdere tempo, i mesi passavano e le cose evolvevano lentamente. Siamo venuti a conoscenza di un centro in Cecoslovacchia vicino a Praga, dove, per sei ore al giorno per sei giorni la settimana i bambini eseguivano esercizi di ginnastica riabilitativa (applicazione più sistematiche dello stesso metodo che già praticavamo). Abbiamo deciso di intraprendere questa strada, il lavoro è durato per dieci anni e comportava un ricovero per tutte e due in un istituto, per tre mesi, due volte l’anno. Non è stato facile affrontare la nostra separazione come coppia; il papà ovviamente era a casa per tutto questo tempo da solo, ma abbiamo sempre scelto insieme con fiducia reciproca nell’interesse di nostra figlia. A questo si aggiungeva la difficoltà, ad ogni nostro rientro, di riallacciarci con il lavoro di gruppo dell’equipe sanitaria che ci seguiva. Anche in Italia adottavamo lo stesso programma e l’èquipe ha sempre rispettato la scelta di integrarlo con l’esperienza estera, vedendo che noi genitori ci sentivamo più sereni e Tatiana migliorava. Tatiana aveva bisogno di noi e noi abbiamo avuto fiducia in lei. Io ho rinunciato al lavoro esterno perché, in accordo con mio marito, ho ritenuto che lavorare con mia figlia avrebbe dato maggiori frutti. Nonostante la stanchezza fisica e le depressioni momentanee non abbiamo mai pensato di mollare: per noi tutto questo era ripagato dalle risposte che Tatiana ci dava. Tatiana crescendo ha cominciato la scuola materna. Qui è sorto un problema: non avendo la bambina presenze continue, (a causa della terapia in Cecoslovacchia), non mi spettava un insegnante di sostegno. Non ci siamo perduti d’animo: noi volevamo che Tatiana, oltre alle ore di ginnastica, trascorresse del tempo con i suoi coetanei e nonostante i continui richiami da parte del Comune e della Direzione Didattica sono rimasta per tre mesi al suo fianco alla scuola materna supportandola come potevo nelle attività. Come risultato ho ottenuto che l’anno dopo ci assegnassero un insegnante e una educatrice. In questi anni abbiamo acquistato decine e decine di giochi didattici che ci sono stati consigliati sia per lo sviluppo cognitivo di Tatiana che per attivare la socializzazione con le compagne. Come genitori abbiamo cercato ogni occasione per avere delle amiche a casa nostra a giocare con lei il sabato e la domenica, facendo trovare loro un ambiente felice e giocoso.

Alla scuola elementare Il periodo della scuola elementare è cominciato sotto una buona stella: la collaborazione degli insegnanti che ha aperto la strada che Tatiana tuttora sta seguendo. Abbiamo cercato sempre di anticipare le tappe di apprendimento, per esempio l’ultimo anno di materna, abbiamo acquistato una macchina da scrivere portatile elettronica e le abbiamo insegnato a riconoscere lettere e scrivere così alcuni pensierini. Tatiana cosa sapeva fare? ? Molte cose, ma diverse dagli altri. Da qui siamo partiti per sfruttare le sue capacità. Ci siamo affidati al suo indice sinistro l’unica parte del suo corpo di cui riesce a controllare il movimento . È stato un successo! Questo dito ha rappresentato lo strumento per raggiungere l’autonomia nella scrittura. Abbiamo sempre ascoltato gli insegnanti e gli educatori per quanto riguarda la programmazione personalizzata per Tatiana e parallelamente abbiamo cercato di trasmettere a nostra figlia il valore dell’impegno, del rispetto del lavoro e della puntualità nella consegna dei compiti; questi valori hanno rappresentato una garanzia per ottenere dei risultati. Come mamma mi sentivo gratificata dai piccoli risultati che ogni giorno Tatiana faceva perché vedevo pian piano aprirsi il futuro. Gli insegnanti mi sono stati vicino, mi hanno aiutato; mi sentivo più isolata come genitore nel rapporto con gli altri genitori alle feste della scuola, agli incontri periodici; mi pareva non cercassero un legame di amicizia con me e questo mi faceva soffrire. Ho continuato a partecipare alla vita della scuola e la costanza ci ha premiate ancora, tanto che con alcuni, nel tempo, è nata una buona amicizia. Abbiamo sempre investito come famiglia anche affidandoci ai tecnici competenti in ausili tecnologici: acquistando computer, consultandoci con un centro specializzato, il centro Cavazza per non vedenti, l’Ausilioteca, essendo Tatiana ipovedente, (vede ma ha problemi di fissazione e occorre leggerle i testi). Nel percorso scolastico obbligatorio abbiamo avuto problemi con il Provveditorato per la scarsa disponibilità di insegnanti di sostegno. L’integrazione a scuola non deve essere solo accoglienza delle difficoltà ma scambio e interazione fra tutti i partecipanti, disabili e non, per questo Tatiana non poteva rimanere in classe solo ad ascoltare, doveva soprattutto interagire con gli insegnanti e con i compagni. Ho manifestato per un mese con cartelloni davanti al Provveditorato difendendo il diritto di ciascuno di frequentare la scuola per poter apprendere e ho ottenuto qualche ore di sostegno in più.. Tatiana è venuta a contatto con i servizi, gli ausili attraverso le richieste che abbiamo rivolto ai tecnici della riabilitazione , ascoltando e valutando i loro progetti e proponendo dei percorsi. Non sempre ci hanno accontentato, abbiamo mantenuto la fiducia verso le istituzioni e abbiamo continuato a collaborare; quando abbiamo intuito di essere in un vicolo cieco abbiamo cercato soluzioni alternative, anche private, per poi ripresentarci nuovamente con una nuova questione da proporre . Siamo stati fortunati perché i nostri insegnanti ed educatori hanno sempre avuto una buona preparazione professionale e ciò ha contribuito a costruire l’accettazione e l’inserimento di Tatiana nella classe. Dopo anni di frequentazione della scuola ritengo sia molto importante, quando è possibile, la continuità didattica degli educatori e degli insegnanti: una delle garanzia per raggiungere gli obiettivi specificati nella programmazione. Non ci siamo disperati al cambiamento degli insegnanti o degli educatori perché diffondendo un messaggio di valorizzazione del disabile come soggetto di cultura, chi lavora nella scuola deve essere pronto a prendere in carico un alunno e saper portare avanti il progetto che altri prima di lui hanno elaborato. Ci siamo battuti tanto come genitori, per spiegare alle istituzioni politiche che le scelte non devono essere fatte solo in funzione dei bilanci, ma si deve tenere sempre presente che si sta investendo sulle persone: i disabili sono una risorsa sociale e morale per tutti i cittadini di una società che si definisce democratica, anche se potrebbero non essere produttivi nel futuro Le istituzioni ci hanno ascoltato, e nel piccolo di un paese della provincia di Bologna (Castel Maggiore) hanno sempre cercato di supportare Tatiana nel miglior modo all’interno della scuola e ciò ha dato grandi frutti perché nostra figlia, anche grazie a questo contributo, oggi è all’Università. La presenza dell’educatore scolastico nel percorso di vita scolastico e sociale della nostra famiglia, ha tranquillizzato principalmente Tatiana ma anche noi nell’affrontare scelte quotidiane. L’adolescenza, la maturità Il nostro cavallo di battaglia è sempre stato: “Mai tirarsi indietro, tutto si può affrontare!”. Tatiana per le novità è sempre stata ed è tuttora un po’ timorosa, abbiamo cercato di dimostrarle che la vita va vissuta e in base alle proprie possibilità si può affrontarla, non sempre ottenendo il risultato che ci si era prefissati. Trasmettendole forza, abbiamo fatto crescere in lei l’autostima e la fiducia. Dopo il primo periodo, abbiamo iniziato a mettere da parte quello che lei non sapeva fare e iniziato a puntare in alto, facendoci conoscere abbiamo raccolto nuovi spunti, messaggi, aiuti. Fra alti e bassi Tatiana è entrata nell’età critica dell’adolescenza: un traguardo importante, è stata l’accettazione. Lei si è chiusa sempre di più in se stessa, e noi ci siamo trovati disorientati nelle risposte da dare, abbiamo capito che c’era bisogno di un aiuto, abbiamo scelto di andare periodicamente da un neuropsichiatria: a distanza di anni riteniamo sia stata una scelta fondamentale. Lei non aveva ancora accettato la sua condizione, in Cecoslovacchia vedeva centinaia di bambini in situazione di handicap e tutto era normale in un istituto, in Italia quando incontrava persone con handicap “saltava sulla sedia”per anni abbiamo lavorato perché nostra figlia fosse più serena nell’accettazione del suo essere diversa. In questo percorso anche noi come coppia abbiamo modificato il nostro rapporto in funzione di nostra figlia disabile, soprattutto nella prospettiva che anche lei sarebbe diventata donna e il nostro comportamento si sarebbe dovuto adeguare alla sua crescita. Siamo partiti nella scelta della scuola superiore, ITC KEYNES di Castel Maggiore, scelta ottimale grazie alla competenza ed umanità dei professori. L’Istituto che Tatiana ha frequentato è stata il suo trampolino di lancio per il futuro: si è creato un ambiente di vera integrazione, all’interno del quale Tatiana ha rafforzato la sua autostima essendo una risorsa per le compagne e per gli insegnanti che grazie a lei sono stati stimolati a sperimentare nuove metodologie per l’apprendimento. La continua e costante presenza della stessa educatrice per il corso di studi ha contribuito a facilitare l’apprendimento di Tatiana e a creare un clima di collaborazione a scuola. Lo studio è stato impegnativo, ma Tatiana ed io, che l’affiancavo a casa, non ci siamo mai sottratte al lavoro sacrificando altri momenti magari più ludici della giornata. Alla fine Tatiana si è meritata l’ammissione alla maturità sostenendo prove uguali a quelle delle sue compagne. Il passo successivo è stata l’iscrizione all’università dietro il consiglio della rete di persone che ci seguiva, tutti l’hanno spinta ad intraprendere questo viaggio e lei per prima è partita con grande entusiasmo. Tatiana durante le superiori, si è dedicata anche al tempo libero costruendosi faticosamente un gruppo di amiche che abbiamo sempre coinvolto a casa nostra e nelle nostre vacanze,le quali hanno trovato nella nostra famiglia un punto d’appoggio sia nei momenti belli che in quelli brutti. Parallelamente Tatiana ha iniziato a frequentare un percorso di equitazione per disabili dove ha scoperto la gioia nel praticare uno sport.

Una matricola volitiva L’apice di soddisfazioni come genitore lo abbiamo raggiunto con Tatiana all’Università. Lei frequenta Scienze della Formazione corso per Educatori. All’inizio sono andata io con lei all’Università per prendere appunti, l’esperienza è nata con alcuni disagi che sono stati brillantemente risolti sia col nostro impegno che con quello delle istituzioni. Non ha perso neanche un’ora di lezione e per me è stata una grande riscossa: ho iniziato a pensare “Non tutti fanno quello che faccio io”, quindi sono una brava mamma e l’incoraggiamento dei docenti ha rappresentato moltissimo per andare avanti. Le gratificazioni sono continuate perché Tatiana, mantenendo la sua volontà di studio è sempre riuscita ad avere dei bei voti. Vorremmo dire ai genitori che hanno figli disabili che non importa il grado o il livello o la patologia del loro ragazzo-a, ognuno può dare in modo diversabile qualcosa, l’importante è saper prendere queste semplici cose e farne tesoro per il cammino in famiglia. Quando passeggio per la strada con mia figlia la gente si gira a guardarla, e sicuramente nell’animo pensa "Povera famiglia come è stata sfortunata". Le persone che hanno conosciuto Tatiana spesso hanno detto: “Tatiana ti prendiamo come esempio per la tua volontà, l’energia e la voglia di vivere che ci hai trasmesso”.

Il limite come risorsa

Tempo fa sono stata invita a partecipare ad un incontro che un parroco organizzava per le coppie della sua parrocchia dal titolo: “Il limite come risorsa”. Sono laica e non frequento chiese, ma

 

il “Don” forse mi ha invitata perché conosce e sa che ho una figlia autistica e forse, chissà, ci teneva ad ascoltare anche una voce fuori dal coro. In quell’incontro c’erano altre due famiglie a raccontare ai catechisti le loro storie e mentre ascoltavo ero a disagio perché sapevo che non avrei usato parole altrettanto poetiche, dolci e amorose come: “Questa figlia down che ho adottato è stata per me una benedizione dal cielo!”. “E’ lei che c’insegna ad amare veramente”, ecc. Quando è toccato a me parlare ero molto emozionata e mi sentivo particolarmente sola, esposta all’evidente consapevolezza che la diversità in quel momento era solo mia, non c’era nemmeno mia figlia a giustificare con il suo deficit la mia fragilità. Ho letto con voce tremante la relazione che avevo preparato a casa: Nella mia esperienza “il limite”, appena riconosciuto, non può essere considerato da quel momento una risorsa. Può diventare una risorsa solo dopo aver affrontato alcuni passaggi che per me sono stati obbligatori: • comprensione della natura e dimensione del limite (che ancora oggi faccio fatica a definire); • sopportazione del dolore per aver perso quasi tutto di ciò che sarebbe stato possibile vivere se non ci fosse stato quel limite; • capacità di controllare la rabbia di vedersi negata quell’idea di vita in cui si credeva; • accettazione di tutto questo. La consapevolezza di avere dei limiti mi rende a volte poco cosciente delle mie risorse. A volte ho cercato protezione proprio restando in quel limite… una condizione che facilita e giustifica la paura di uscire dal guscio e di agire all’esterno. Ho preferito starmene nella mia condizione difficile ma giustificata, piuttosto che rischiare un confronto con l’esterno. Ho provato a calmare la mia ansia e la mia impotenza con “impacchi” di rassegnazione. Altre volte invece mi sono ribellata e ho considerato il limite un’insopportabile forma d’ impotenza. Mi chiedo se è possibile una terza via. Se ci troviamo nel buio in un ambiente infinito è più difficile capire come muoversi e dove andare, ma se l’ambiente è limitato, anche se buio, è possibile riconoscere elementi essenziali e definire i confini. In sintesi potrei sostenere un’ipotesi di questo tipo: per me è stato possibile trasformare il limite in risorsa eliminando o trasformando qualche elemento di troppo. Per esempio, l’orgoglio, gli ideali… e ho rimesso in discussione il modo di giudicare gli altri rispondendo alla domanda: “Perché una cosa del genere è capitata proprio a me?”.“Perché a me no?” ho risposto. Questa risposta mi ha “guarito” da quel sentirsi onnipotenti e invulnerabili fintanto che non ti succede qualcosa a provare il contrario. Il contrario dell’onnipotenza per me oggi non è l’impotenza, ma l’umanità, un’autentica risorsa che appartiene a tutte le persone del mondo, di cui mi sento di far parte soprattutto quando mi sento sola, piccola e indifesa e non riesco a trovare soluzione ai grossi problemi che la vita mi ha posto e continua a pormi.

 

 

Questione di clima. Il carico familiare tra disagio e risorse

Il carico familiare è l’impatto negativo che la patologia può avere sulla famiglia. I primi studi sul carico familiare sono iniziati intorno agli anni ’50 e hanno portato alla raccolta di evidenze

 

circa l’esistenza del carico e quali effetti negativi può avere la patologia sulla famiglia. La famiglia con un assistito – sia che esso sia un malato mentale che un bambino cerebroleso, che un traumatizzato cranico, un depresso… – ha tutta una serie di problemi in più rispetto ad una famiglia che non ha un assistito. Il primo aspetto è la limitazione e la restrizione delle attività; le relazioni familiari problematiche; i sintomi psicopatologici; la riduzione dei rapporti sociali e attività di tempo libero. Diciamo che questi sono alcuni degli aspetti e delle evidenze raccolte sull’esistenza del carico familiare. Penso che non sia importante entrare nello specifico sul dato (il 50% di depressi, il 25% di ansiosi…), quello che voglio dire è che questi primi studi hanno portato a considerazioni di questo tipo: le conseguenze negative della patologia sulla famiglia fanno sì che il familiare possa essere considerato come una sorta di paziente nascosto. Sono tali e tanti i riscontri di queste conseguenze negative da poter parlare del familiare come paziente nascosto.

 

La famiglia, da malattia a risorsa Vorrei fare un brevissimo accenno a quegli studi che in parallelo hanno dimostrato l’effetto negativo della famiglia e che hanno visto la famiglia a sua volta come patogena. La prima osservazione da fare è questa: gli studi sul carico familiare e gli altri studi sull’autismo, sulla schizofrenia…, hanno portato a delle considerazioni spesso negative sulla famiglia, quindi la famiglia è malata perché ha un assistito al proprio interno, oppure la famiglia può essere fonte di patologia. Il primo periodo di studi ha avuto appunto questo scopo: cercare di cogliere le evidenze delle conseguenze negative che la patologia può avere sulla famiglia. Il secondo periodo di studi ha riguardato invece il tentativo di capire se è vero che in alcuni ambiti la patologia può avere delle conseguenze negative sulla famiglia. Ma l’ottica e l’interesse degli studi più recenti è quello di capire quali sono i predittori, le variabili e i mediatori che possono agire nel determinare il carico familiare. È vero che come conseguenza del fatto che ci sia un assistito in famiglia ci può essere disagio, ma è anche vero che è possibile identificare dei predittori e degli elementi che possono far si che si verifichi il carico familiare. Mi riferisco, in particolare, ad un nuovo ambito di studi che più che analizzare il carico familiare cerca di analizzare il più generale processo del prendersi cura. Quali sono le caratteristiche del prendersi cura e in quali condizioni il prendersi cura può avere degli effetti negativi? In quali può avere effetti positivi? Si è passati quindi da uno studio descrittivo delle conseguenze del carico a uno studio più ampio che cerca di analizzare i vantaggi del prendersi cura nella famiglia, di analizzare gli elementi e i mediatori che possono portare a questi vantaggi e quelle variabili che invece possono portare a delle conseguenze negative. Quindi piuttosto che dire “La famiglia è malata”, l’orientamento degli studi è quello di dire “La famiglia può essere malata, non necessariamente malata, ma anzi può essere ricca di risorse”; ed è importante capire quali sono i predittori che ci consentono di capire quali sono le condizioni perché la famiglia possa utilizzare al meglio le risorse di cui dispone.

Carico oggettivo e soggettivo Il secondo filone di studi ha preso spunto da una prima distinzione del 1976, poi ripresa, da quella tra carico oggettivo e carico soggettivo. Il carico oggettivo è rappresentato da: effettiva presenza di specifiche condizioni comunemente ritenute problematiche o di eventi avversi che hanno un effetto negativo sul nucleo familiare. Quindi carico oggettivo significa dover dedicare tanto tempo a determinate attività, non poter svolgere altre attività perché molto tempo deve essere dedicato all’assistito… Il carico soggettivo è invece la sensazione di disagio, il malessere che la persona che si prende cura percepisce e che attribuisce all’assistenza. Nell’intento di conoscere e di capire il processo di “care giving” ci si è chiesti quali potessero essere gli elementi in grado di mediare tra carico oggettivo e carico soggettivo, cioè quali elementi possono far si che di fronte a un carico anche oggettivamente molto elevato – tanto tempo dedicato all’assistito oggettivamente misurabile – fosse possibile ridurre le condizioni di carico soggettivo, e quindi il disagio. Considerazioni di questo tipo hanno motivato una nostra ricerca che ha visto come partecipanti volontari alcune famiglie dell’associazione che sono state da noi prescelte proprio perché dal punto di vista di valutazione esterna presentavano un carico oggettivamente molto elevato, nel senso che gli assistiti hanno disabilità molto gravi e quindi hanno bisogno di essere seguiti nella maggior parte delle attività di vita quotidiana. Ancora, per scelta, per adesione personale questi genitori hanno deciso non solo di assumersi i compiti di “care” che in genere il genitore assume, ma anche di assumere dei compiti più tecnici e pratici nella riabilitazione. Quindi una parte dei genitori dell’associazione ci sono sembrati un buon modello di una situazione in cui si verificava un carico oggettivamente molto elevato, e per oggettivamente voglio dire “percepito dall’esterno”. Si è pensato di porre a confronto questi genitori particolari con altri genitori che avevano in comune con questi il livello di disabilità dei bambini, l’età dei bambini, il sesso. Mi riferisco a queste tre variabili perché sono quelle che possono influire sul livello di carico. La disabilità perché quanto più il bambino è disabile tanto più mi devo prendere cura di lui. L’idea di pensarla in termini di patologia è nata dal fatto che può diventare un carico diverso da quello causato, per esempio, dall’autismo che può portare problemi diversi rispetto ad una tetraparesi. Quindi abbiamo pensato di analizzare il carico nei familiari terapisti ponendoli a confronto con un altro gruppo di familiari che venivano appaiati con i primi per il livello di disabilità dei bambini, per la patologia, per l’età e per il sesso dei bambini. Abbiamo chiamato gli altri familiari “familiari deleganti” per contrapporli ai primi, nel senso che a parità di disabilità dei bambini piuttosto che assumere delle funzioni di assistenza di riabilitazione delegavano queste attività a delle agenzie esterne. Il nostro scopo era quello di vedere, in un gruppo di familiari con un carico oggettivo elevato posto a confronto con un gruppo di familiari con un carico più basso, quali fossero alcuni indicatori di malessere o di benessere psicologico. Ci dicono che i genitori terapisti hanno un livello più basso in queste variabili considerate. Questi primi dati possono essere una semplice descrizione di un maggior benessere e questo è un aspetto che è importante sottolineare. Dei genitori che oggettivamente hanno un carico più elevato rispetto ad altri non hanno come conseguenza un livello di malessere superiore, ma anzi stanno addirittura meglio.

Protagonisti della cura Al di là di voler descrivere questo fatto positivo, ci siamo chiesti quali elementi fossero in grado di spiegare ciò. È vero hanno un livello più basso di depressione e di ansia, ma quali sono gli elementi che possono spiegare e che possono consentire di predire questo fenomeno? Il passo successivo è stato quello di valutare la variabile “attribuzione di causalità”, che è un termine tecnico che significa “il sentirsi protagonisti, sentirsi efficaci, sentire di poter avere un ruolo utile”. Ecco che abbiamo misurato questa sensazione e abbiamo trovato che i familiari terapisti posti a confronto con i familiari deleganti si caratterizzavano per un livello di attribuzione di causalità interna più elevata. Si caratterizzavano per il loro sentirsi utili, sentire di poter avere un ruolo nel processo riabilitativo, sentire di poter avere un ruolo nel miglioramento del proprio assistito. Quello che abbiamo potuto rilevare nei genitori considerati è che il sentirsi utili poteva essere l’elemento di mediazione, una variabile che consentiva di mediare tra un carico oggettivamente molto elevato, visibile dall’esterno e il carico soggettivo che era molto più basso di quanto ci saremmo potuti aspettare. Cioè sono molto coinvolti nell’attività, non possono fare vacanze, non hanno tempo libero, non possono avere contatti sociali… – e in realtà queste sono affermazioni di pregiudizio – ma i dati ci dicono che utilizzano molto tempo nell’assistenza del bambino ma stanno bene e stanno bene proprio perché il sentirsi utili media tra questi due aspetti. In che modo le inferenze che possiamo fare su questi dati ci possono guidare e dare delle spiegazioni rispetto al coinvolgimento della famiglia? Le prime inferenze che abbiamo fatto riguardavano il coinvolgimento della famiglia nel processo riabilitativo. Attribuire alla famiglia un ruolo, darle le indicazioni pratiche sul che cosa fare, e far si che i famigliari possano sentirsi utili, può consentire un buon coinvolgimento di tutto il nucleo famigliare. Alcuni autori sostengono che la famiglia ha tante energie e tante risorse, è importante capire come queste energie possono essere canalizzate e utilizzate nel miglior modo possibile. L’inferenza che traiamo da questo studio è quindi che la famiglia può essere inserita nel processo riabilitativo. In che modo queste informazioni possono essere riportate in ambito scolastico? Dalla legge quadro che con il DPR del ’94 le riferisce anche in ambito scolastico. La domanda che ci siamo posti è in che modo gli studi sul carico possono fornirci delle indicazioni utili relativamente alla collaborazione con la famiglia. Dall’analisi dei predittori del carico e dai mediatori nel processo di care giving emerge il senso di autoefficacia, dell’attribuzione di causalità interna, del senso di poter avere un ruolo nel processo di miglioramento del bambino, e quindi della sensazione di controllo della situazione. Pensate alla sensazione di confusione che può derivare dal non sapere che cosa fare! Una cosa che mi ha colpito nel conoscere queste famiglie è proprio l’uso di termini molto tecnici rispetto ai miglioramenti. Non significa che tutte le famiglie siano così ma che hanno anche questa risorsa e capacità di cogliere le variazioni in sfere e ambiti diversi. Dicevo che gli studi sul carico ci dicono che l’attribuzione di causalità interna, la sensazione di autoefficacia e la sensazione di controllo mediano tra carico oggettivo e soggettivo, riducono la sensazione di malessere e, anzi, promuovono il benessere e quindi accrescono la speranza, e hanno un forte impulso anche sulla motivazione all’azione. È terapeutico per la famiglia sentire di poter avere un ruolo utile. Il termine terapeutico non vuol dire che la famiglia è malata ma che stiamo cercando di capire in che modo mantenere e creare una sensazione di benessere al suo interno. Quindi i primi studi sul carico ci dicono che per la famiglia è importante avere un ruolo, sapere che cosa fare e non sentirsi confusi. Questo è importante perché ci sono una serie di studi che dimostrano che un clima relazionale positivo, e quindi di benessere, all’interno della famiglia ha delle fortissime ripercussioni sulla riabilitazione, sul miglioramento e sul recupero. Vi posso dare qualche indicazione sullo studio di Gass che ha dimostrato che avere intorno a se un clima familiare positivo e stimolante accresce del 65% il recupero in pazienti che hanno avuto un ictus. Cioè confrontando gli assistiti che hanno avuto un ictus e che hanno intorno a loro un ambiente propositivo e coinvolto nel processo riabilitativo, con i pazienti che hanno un ambiente poco stimolante e che interviene meno nel processo riabilitativo, si è visto che il recupero è del 65% più elevato nei pazienti che hanno avuto un clima emotivo buono. Altri studi invece dimostrano che una famiglia che sta male può avere un effetto negativo sulla riabilitazione. Quindi gli studi sul care giving ci dimostrano che è importante sentire di poter essere utili, questo è il primo punto. Il secondo è in che modo la famiglia può essere utile? In che modo l’operatore può essere utile alla famiglia? La famiglia può avere un ruolo di collaborazione molto importante ma questo ruolo nasce in una interazione reciproca. La famiglia fornisce delle informazioni e il tecnico – in questo caso si parla di insegnanti, ma possiamo riferirci a qualsiasi altro tecnico – ha un ruolo importante nei confronti della famiglia. Si possono elencare alcuni aspetti in cui la famiglia potrebbe avere un ruolo. Il primo punto è: la famiglia è depositaria di chiavi di accesso preziose alla sfera emotiva, affettiva e relazionale del bambino. Si pensi per esempio alle prime fasi dell’inserimento scolastico in cui la famiglia può trasmettere alla scuola delle conoscenze che derivano da una interazione quotidiana tra il familiare e il bambino. La famiglia conosce i gusti del bambino, sa, per esempio, che gli piace la musica, e che ci sono degli stimoli che per gli altri sono piacevoli ma per lui no. Ad esempio, raccontava una madre che alcuni stimoli piacevoli possono dare molto fastidio al suo bambino che ha una capacità uditiva più elevata rispetto agli altri; viceversa, alcuni stimoli che per gli altri erano spiacevoli per quel bambino erano molto piacevoli; il sentire l’ambulanza per il suo bambino era molto piacevole mentre era spiacevole sentire la musica. Quindi, conosce i gusti, conosce le modalità motivanti, le condizioni in cui il bambino è disposto a fare certe cose e quelle in cui non è disposto a farle.

Forme alternative di comunicazione L’altro punto è quello relativo alle forme di comunicazione. Anche in questo caso mi riferisco ai primi momenti dell’interazione scolastica con il bambino. Con i bambini che hanno delle gravi disabilità motorie a cui si associano delle gravi disabilità nella comunicazione verbale la prima sensazione che possiamo avere tutti è che poiché non parla non capisce. Ma il non parlare non significa non comunicare, esistono tante forme di comunicazione che possono essere colte nella quotidianità dell’interazione e possono anche nascere da una reciprocità nell’interazione. È una forma alternativa di comunicazione che nasce da una interazione quotidiana di cui la famiglia può essere depositario prezioso e che può essere trasportata anche a scuola. Ieri pranzavamo con Paolo, un bambino dell’associazione che ha una comunicazione verbale molto ridotta, che ha grossi problemi di articolazione. Usava dei gesti nella comunicazione con la madre emetteva semplici suoni che per me non avevano alcun significato ma che venivano usati dalla madre per scegliere il pranzo, per decidere quale primo prendere… Facevo l’esempio del caso in cui ci siano grosse limitazioni nella comunicazione verbale ma mi piacerebbe allargare questo esempio ai casi in cui la comunicazione verbale c’è ma è alterata, pensavo al caso dell’afasico. Quest’ultimo ha un disturbo del linguaggio a causa di una lesione cerebrale, può essere un bambino o un adulto e uno dei problemi più grossi che può avere è la denominazione, per noi è facile dire “questo è un foglio, questa è una scarpa, questa è una borsa”. Nell’afasico questo non è immediato, può dire “coltello” per “forchetta” o viceversa. È una comunicazione verbale alterata. Quindi è l’interazione quotidiana con la persona afasica che consente di capire che ha detto coltello ma voleva dire forchetta, oppure che per fargli capire che deve prendere la forchetta piuttosto che il coltello devo aggiungere un informazione ulteriore, come ad esempio: “Devi prendere la forchetta che ti serve per prendere le pennette”, oppure, “Devi prendere il coltello che è quello che ti serve per tagliare il pane”. Questa informazione ulteriore fa la differenza tra la situazione di confusione e quella in cui la comprensione è possibile. L’esempio delle forme alternative di comunicazione può, quindi, riguardare il primi momenti di interazione con il bambino soprattutto di fronte a quegli atteggiamenti iniziali in cui si pensa che non parlando non capisce. Il genitore rispetto alla comunicazione può dare informazioni circa le possibilità di comprensione a cui un tecnico arriva dopo un lungo periodo di studi, per esempio: “La comprensione è possibile se tu gli fai la domanda chiusa invece che aperta.” Se tu chiedi ad una persona che non ha una comunicazione verbale “Cosa hai fatto ieri?” non potrà dirti niente; ma se tu gli dici, “Ti è piaciuto quello che hai fatto ieri” e si stabilisce un codice condiviso in cui guardare a destra vuol dire “Si” e guardare a sinistra vuol dire “No”, a questo punto è possibile la comunicazione e la comprensione della comprensione cioè dall’esterno capisco che lui ha capito. Alcuni esempi. Un bambino che strofina le orecchie quando è contento. Per me operatore che vedo un bambino che fa questo gesto diventa impossibile capire perché lo fa, ma il genitore mi può dire che lo fa per farmi capire che quello che tu hai fatto gli piace. O viceversa, i dondolamenti tipici dell’autismo vengono decodificati dal genitore come segnali del fatto che è disorientato e che non capisce quello che gli sta succedendo. Vorrei aprire una brevissima parentesi rispetto all’attribuzione di intenzionalità: l’interazione tra il genitore e il bambino è la stessa interazione che nel bambino piccolo consente l’acquisizione del linguaggio, gli studi hanno dimostrato che il bambino impara a parlare solo perché dal giorno in cui nasce il genitore comincia a parlargli come se capisse. Quindi questa forma di comunicazione reciproca consente lo sviluppo del linguaggio. Non vorrei ripetermi su questo ma penso che sia una cosa importante perché è quasi una costante nell’inserimento scolastico il pensare che se un bambino non parla non capisce. È importante capire che cosa si intende per comunicazione, per comprensione e quali forme di comprensione sono possibili e quali invece non lo sono. È importante sottolineare che il non parlare non significa non comprendere e che esistono delle forme alternative molto creative che possono consentire delle comunicazioni creative, ironiche… in assenza di qualsiasi tipo di comunicazione verbale. Il genitore ha queste conoscenze che nascono dall’interazione quotidiana che possono essere riportate in ambito scolastico nella comunicazione con gli insegnanti e con i pari. Sacks in “Risvegli” parla di contesti adeguati. Prima facevo l’esempio dell’afasico; ci possono essere delle situazioni in cui l’afasico capisce e altre in cui si verifica l’alienazione del significato e il contesto può essere importante nel consentire la comprensione. L’esempio che facevo prima, “La forchetta è quella che serve per prendere le pennette”; è vero che la penna può essere confusa con le forbici, essendo tutti e due degli strumenti affusolati, ma per consentire la comprensione posso dire di prendere la penna che è quella che serve per scrivere. Quindi una specificazione del contesto che consente una migliore comprensione.

1 euro, 2 euro… In questo elenco dei contributi che la famiglia può dare in ambito scolastico mi sembra utile analizzare l’aspetto relativo al tempo, quindi la durata e la costanza della relazione educativa tra genitore e figlio. Il genitore sta con il bambino tutto il giorno e questo intervallo di tempo lungo e protratto può essere prezioso per consentire la generalizzazione di alcune conoscenze che vengono apprese a scuola e una contestualizzazione di alcune conoscenze. Il bambino capisce che 2 euro sono il doppio di 1 euro perché capisce che con 2 euro posso comprare 2 gelati, invece con 1 euro ne posso comprare solo uno. Voi capite che operazione cognitiva è questa, significa pensare che una quantità è il doppio di un’altra perché c’è il riscontro nell’attività quotidiana. Quindi il senso di questa affermazione era: la famiglia proprio per la continuità, la costanza degli interventi può consentire un allargamento, un transfert, una generalizzazione delle conoscenze che avvengono a scuola a contesti diversi. La risorsa famiglia può consentire una acquisizione veloce di conoscenze che derivano da una conoscenza antica e quotidiana di tanti anni che possono essere trasmesse nell’immediato Finora ho elencato le informazioni che il familiare può dare alla scuola, ma l’interazione è collaborativa e reciproca, quindi manca l’altro aspetto. In che modo è possibile l’interazione reciproca? Ecco che il tecnico assume il preciso ruolo di indicatore, di organizzatore e di coordinatore di alcune conoscenze intuitive di cui il genitore si fa portatore. Il termine “intuitivo” qui non ha una connotazione valutativa; è intuitivo proprio perché nasce dall’interazione, “Non ci ho studiato ma so che per quel bambino è importante avere domande chiuse piuttosto che quelle aperte”. Rispetto a questo il tecnico può fornire delle indicazioni importanti. Pensavo ad una madre che era preoccupata per i problemi che avrà il suo bambino quando lei non ci sarà più e pensava di fargli acquisire delle autonomie, come per esempio l’uso del denaro. Se il genitore ha la sensazione che una certa acquisizione possa essere importante il tecnico può insegnare in che modo poter fare questo. Per imparare l’uso del denaro ci sono degli studi che sottolineano l’importanza di creare delle situazioni sempre simili, quindi di creare inizialmente una automatizzazione che poi consenta una generalizzazione. Per esempio, andare sempre a comprare il giornale con 2 euro e sapere che si avrà sempre il giornale più 1 euro, è una costanza che crea una comprensione dell’uso del denaro. Èquindi dalla reciprocità dell’interazione che può nascere la collaborazione. Il familiare ha delle conoscenze. Il tecnico può consentire una coordinazione di queste conoscenze e può a sua volta fornire al familiare delle indicazioni su come usare quelle conoscenze di cui il familiare dispone. Quindi il tecnico è colui che può e sa dire alla famiglia quali modalità di approccio ad un certo problema possono essere più efficaci. Torniamo sempre al punto che per la famiglia è importante il sentire di avere un ruolo nel progetto educativo, riabilitativo e di vita del disabile. La reciprocità nasce proprio dal fatto che il tecnico può coordinare e fornire delle informazioni precise – nei limiti di quanto questo può essere possibile – o comunque delle informazioni di coordinazione delle attività del familiare.

Identità e ruolo delle famiglie e delle associazioni nel welfare

Il ruolo e l’identità dell’associazionismo e delle famiglie
La modernità giustamente impegnata nel processo di autonomizzazione dell’individuo pare avere perso per strada la dimensione

 

della reciprocità e del legame sociale, che al pari dell’autonomia individuale è elemento costitutivo imprescindibile delle relazioni sociali . Ciò ha contribuito a considerare marginali e residuali i contesti di azione sociale che maggiormente utilizzano i codici della reciprocità e della solidarietà, come la famiglia e il settore associativo. Ma giunta ad una fase matura del suo sviluppo, la modernità incontra una serie di fallimenti e di crisi, riconducibili alla scarsa rilevanza affidata alle dimensioni reciprocitarie e di legame delle relazioni sociali. Pertanto è auspicabile che nel loro processo di sviluppo le società occidentali moderne modifichino il tiro del loro progetto e si volgano a promuovere l’autonomia delle sfere di relazione sociale. Ciò significa che occorre riconoscere alle famiglie e alle varie forme associative private, che non agiscono per profitto o su comando, un ruolo istituzionale forte, pari a quello riconosciuto al mercato e allo stato. Ciò vuol dire pensare di elaborare un insieme di diritti delle sfere di relazione reciprocitarie, un diritto sociale non individualistico né dipendente dal sistema pubblico, ma un diritto che riconosca appunto l’autonomia delle sfere di relazione reciprocitarie. Un’autonomia che deve essere intesa in senso relazionale e non autoreferenziale. Ciò significa che il diritto deve essere in grado di riconoscere l’identità specifica delle sfere di relazione reciprocitarie, che consiste nella loro capacità di accentuazione della dimensione di legame delle relazioni sociali. In sintesi, se dovessimo individuare l’identità ed il ruolo delle associazioni sociali e delle organizzazioni di terzo settore/privato sociale, diremmo che l’identità specifica consiste appunto nell’accentuazione della dimensione della reciprocità delle relazioni sociali, ed in virtù di questo tratto specifico esse dovrebbero essere chiamate nella società dopomoderna a svolgere istituzionalmente un ruolo di diffusione, di messa in circolo all’interno del contesto societario più esteso, di una semantica ed una cultura della relazione come appartenenza, contribuendo così, assieme alle istituzioni che maggiormente sottolineano gli aspetti di autonomia delle relazioni come il mercato e lo stato, a promuovere entrambe le componenti della relazione sociale a tutto vantaggio dell’intera società, che essendo costituita di relazioni sociali necessita di un preciso riconoscimento simbolico culturale e di un sostegno istituzionale di entrambe le dimensioni della relazione stessa.

 

Indicazioni operative per un welfare di comunità orientato alla famiglia
Dall’analisi effettuata, quali istruzioni operative possiamo formulare in vista della costruzione di un nuovo sistema di welfare che sappia riconoscere il ruolo essenziale che sono chiamate a svolgere nelle società contemporanee le famiglie e le forme di privato sociale? Dalla sociologia relazionale abbiamo appreso che nelle società contemporanee assistiamo ad un fenomeno, per certi versi paradossale, di produzione e moltiplicazione delle relazioni sociali da un lato e di incapacità del sistema culturale e delle istituzioni di vedere, interpretare e produrre relazioni sociali concrete dall’altro. Le relazioni sociali sembrano farsi più astratte, sino a trasformarsi in relazioni formali . Ora, bisogna però tenere presente che le persone divengono tali solo attraverso relazioni, solo se fanno esperienza di relazioni sociali concrete. Pertanto, la prima indicazione concreta che si può dare riguarda l’importanza di produrre relazioni sociali. Nel quadro teorico offerto dalla sociologia relazionale, proposta in Italia da Donati, è formulato il principio secondo il quale nelle relazioni sociali sono sempre e comunque presenti due componenti analitiche, una dimensione di intenzionalità soggettiva ed una dimensione di legame. In ogni relazione sociale: 1- il soggetto mette qualcosa di sé, della sua intenzionalità, delle sue motivazioni, della sua volontà e affettività; 2- il soggetto si trova di fronte a legami, a vincoli che sono posti da altri, dagli interlocutori, dalla loro prospettiva, dalla loro intenzionalità, etc. Perché esista una relazione sociale occorre che vi sia un riconoscimento reciproco tra i partner; tale riconoscimento dipende dall’intenzionalità dei due ed è per entrambi un vincolo. Inoltre, ogni intenzionalità individuale è frutto di relazioni sociali precedenti quella che viene attualmente realizzata o negata. Ogni relazione è una combinazione con dosi diverse delle due componenti precedenti. Nell’ambito dei servizi sociali pubblici le relazioni sociali coinvolgono certamente le intenzionalità dei partner, ma vorremmo attirare l’attenzione sul fatto che i vincoli reciproci tra i due (cittadino-istituzione di servizio) sono prevalentemente vincoli di cittadinanza codificati giuridicamente, quindi si tratta di un vincolo e di un riconoscimento reciproco che lascia moltissimi spazi di libertà al singolo cittadino, nel senso che non lo impegna nella relazione. Ciò accade perché il diritto è impostato in base a paradigmi culturali e a codici simbolico-normativi orientati, giustamente, a salvaguardare le libertà dei singoli. Le relazioni sociali di servizio che si realizzano nel privato sociale contengono prevalentemente una forma di vincolo reciproco di natura diversa, il quale ha maggiormente a che fare con codici simbolico-normativi prevalentemente connessi al sistema culturale, che non alle istituzioni giuridiche: più precisamente, si tratta di codici come la reciprocità e la solidarietà, in grado di generare legami sociali, in un certo senso, più "stretti". Quale ruolo affidiamo dunque ai servizi pubblici e alle istituzioni di privato sociale per la costruzione di un nuovo sistema di welfare che esca dai paradossi e dalle crisi della modernità? Quello di generare relazioni sociali sensate caratterizzate da un mix equilibrato di intenzionalità soggettiva e legame intersoggettivo; perché, così facendo, contribuiscono a che l’intera società riconosca e promuova la relazione sociale della famiglia. Come è possibile promuovere relazioni sociali facendo in modo che esse contengano un mix equilibrato di libertà intenzionale e di legame? In particolare, il privato sociale dovrebbe essere attento nel consolidare relazioni, legami e scambi reciproci tra le persone che contribuiscono alla sua costituzione e tra queste e coloro che sono utenti delle iniziative di terzo settore. Esso dovrebbe cioè "generare" relazioni che sottolineano maggiormente, rispetto ad altri settori della società, la componente di vincolo reciproco contenuta nelle relazioni sociali. Questa dovrebbe essere la preoccupazione principale degli operatori del terzo settore. Se si vuole, in un certo senso il "segreto", la "tecnica arcana" che proponiamo sta proprio in questo. Ma si tratta di una tecnica astratta, che non contempla procedure precise e che si affida alla capacità di lettura e di interpretazione che ne possono dare i soggetti che la applicano. Da questo punto di vista essa è al contempo un "segreto di Pulcinella" o un "uovo di Colombo" ed un’arte sopraffina. Tuttavia, dopo queste difficili e complesse considerazioni sociologiche che costituiscono comunque il centro del messaggio che lancio come sintesi del contributo, passiamo a tentare qualche applicazione operativa dei principi. Quali proposte fare perché la famiglia sia più famiglia e perché il settore associativo ed il privato sociale nel complesso siano maggiormente capaci di "vedere" la famiglia come relazione sociale?

Orientamenti di azione e proposte concrete per il terzo settore familiare
Esiste certamente oggigiorno nella società italiana l’esigenza di una presa di coscienza da parte delle famiglie della rilevanza del loro ruolo sociale. Ed a questo scopo sarebbe opportuno che le famiglie si organizzassero per divenire "controparte" del sistema politico. Tuttavia tale ruolo di controparte non può essere svolto secondo criteri di una generica protesta o di mera pressione sul sistema pubblico perché promuova i diritti delle famiglie. È importante invece che siano le famiglie stesse a riflettere sui loro bisogni e ad elaborare nuovi diritti della famiglia, proponendoli e sostenendoli presso il sistema pubblico. L’associazionismo familiare risulta essere certamente uno strumento strategico importante in questa direzione, poiché le associazioni familiari, in quanto luoghi in cui la società eccede se stessa , possono essere un valido strumento nella linea di azione descritta. Essendo sorte a partire dalle relazioni familiari ed intervenendo su di esse, le associazioni familiari da un lato possono essere contesti attraverso i quali la società "inventa" nuove modalità di pensare se stessa e di pensare alla famiglia; dall’altro esse possono offrire l’opportunità di elaborare nuovi modi di essere famiglia, nonché nuove possibilità di tenere in considerazione, e di coinvolgere la famiglia nell’offerta e nella gestione dei servizi. Le famiglie nel contesto associativo hanno modo di parlare della loro situazione di famiglia e di prendere coscienza dei loro compiti e dei loro problemi. Dunque le associazioni (o altri soggetti di privato sociale come le cooperative sociali) divengono il luogo ove si realizza un particolare mix, tra le dimensioni privata e pubblica dell’esistenza, dagli effetti particolarmente positivi sulle famiglie. Sono contesti ove avviene la traduzione di istanze private in istanze pubbliche, ove si prende coscienza della rilevanza pubblica di istanze private. Proprio questo processo di traduzione consente alle famiglie di elaborare un nuovo e più consapevole senso del loro essere famiglia, e dei problemi che si trovano ad affrontare. Le istanze e i problemi della vita familiare, se messi a confronto con quelli delle altre famiglie e proiettati in una sfera pubblica, cambiano la loro connotazione, si trasformano. Ciò ha come conseguenza un effetto di rafforzamento della famiglia stessa. In una ricerca sull’associazionismo familiare condotta sotto la direzione del Prof. Donati alcuni membri delle associazioni sostenevano: "(…) l’esperienza associativa n.d.r. ha aiutato la famiglia ad essere più famiglia, certi l’hanno anche dichiarato esplicitamente; (…) l’esperienza associativa è (n.d.r.) come un aiuto a capire (…) un’esperienza (…) In fondo c’è un livello di comunicazioni che sicuramente aiuta direi ad andare un po’ sotto la crosta di una superficialità di vita familiare e quindi a vivere meglio…" "Il solo verificare che la crisi mia, non è mia, ma di tutte le famiglie, già mi porta alla normalità. (…)” “La famiglia sente la solidarietà, non si sente abbandonata. Parliamo molto tra di noi …" “(…) attraverso la solidarietà e l’amicizia senz’altro ci siamo aiutati tutti ad essere più famiglie, con l’esempio dell’uno e dell’altro ci siamo aiutati molto ad essere più famiglie (…)" Come si vede, l’associazionismo familiare risulta essere un importante fattore di input per la famiglia: aiuta la famiglia ad essere più famiglia, ed al tempo stesso la famiglia è una forma di input per il privato sociale. Per quanto riguarda l’associazionismo familiare, va rilevato che, nonostante il processo di sviluppo realizzatosi negli ultimi 10 anni nel paese, rimane comunque opportuno favorire la nascita e lo sviluppo di nuove agenzie di privato sociale (associazioni e cooperative sociali) che siano promosse direttamente dalle famiglie e/o si rivolgano specificamente alle famiglie: 1. Potrebbero essere associazioni di advocacy, cioè di elaborazione e di promozione dei diritti della famiglia. 2. Ma anche associazioni e/o cooperative costituite da famiglie che si propongono di affrontare e dare risposta a problemi familiari (problemi legati alle relazioni familiari, problemi educativi, handicap, tossicodipendenza, anziani etc.). L’imprenditorialità sociale della famiglia che si realizza in tali esperienze ha una duplice funzione: a) promuovere una relazionalità più adeguata tra famiglie e servizi sociali, e soprattutto b) elaborare forme di servizi più adeguate alle esigenze delle famiglie stesse. Nella ricerca sull’associazionismo familiare appena citata un dirigente rilevava che: "(…) i genitori si sentono in gran parte garantiti anche dal fatto che è un’associazione fatta da loro, (…) adesso, non so, nei servizi pubblici i genitori non hanno molto spazio, l’utente è la persona punto e basta e la famiglia viene esclusa in qualche modo, mentre la famiglia sente il bisogno di partecipare alla cosa; penso che (nell’associazione ndr) succede qualcosa del genere, trovano un loro spazio in questo…". Ma quali caratteristiche dovrebbero avere tali esperienze di terzo settore? Innanzitutto è essenziale che le associazioni (o cooperative) familiari siano effettivamente associazioni familiari. Può sembrare un gioco di parole od una tautologia, ma non lo è in quanto può capitare di incontrare associazioni (o cooperative) che abbiano smarrito la loro identità, nel senso che come rileva Donati "hanno delegato molti compiti ad altri (per esempio i politici) che non li hanno compresi e trattati adeguatamente" . Occorre dunque che le associazioni non perdano la loro autonomia e la loro identità, magari nell’obiettivo di ottenere maggiori protezioni, tutele ed aiuti dallo stato o da altri enti. Inoltre "per essere familiare un’associazione deve sorgere da problemi inerenti ai rapporti di coppia e/o a quelli fra genitori e figli, e deve, per il suo agire, essere riferita a quelli" . Infine, in quanto specificamente familiare un’associazione deve riprendere ed estendere valori e mezzi comunicativi propri delle famiglie, in particolare l’orientamento alla persona come persona , la regola della reciprocità ed il medium della solidarietà . Le realtà di privato sociale "familiare" dovrebbero affrontare i problemi familiari con il maggior grado di relazionalità possibile; dovrebbero cioè rafforzare e fare leva sulle relazioni interpersonali tra famiglie. Esperienze molto significative ma non molto frequenti sono i cosiddetti gruppi di mutuo aiuto, che raccolgono famiglie aventi uno stesso problema sociale le quali, eventualmente anche con l’aiuto di operatori, riflettono e si sostengono a vicenda per affrontare il problema al quale si trovano di fronte. Il privato sociale – anche quello non strettamente familiare –si potrebbe occupare di favorire la nascita di esperienze di mutuo aiuto. Infine, per quello che riguarda le realtà di privato sociale che non si occupano direttamente di famiglia e che offrono servizi a categorie svantaggiate, sarebbe opportuno per un adeguato approccio ai problemi sociali che si trovano ad affrontare che esse facessero quanto più possibile attenzione alle reti di relazioni in cui l’utente si trova inserito, elaborando i loro progetti secondo la filosofia dell’intervento di rete e di community care. Quale criteri di azione utilizzare per rispettare in pieno la peculiarità delle agenzie di privato sociale, in particolare di quelle familiari ? Tali agenzie dovrebbero: – nascere dalle famiglie; – operare direttamente sulle famiglie quali luoghi di mediazione tra i sessi e le generazioni; – fare uso della regola della reciprocità e del codice comunicativo della solidarietà; – avere una propria autonomia sia nell’atto della costituzione che nei processi interni; – disporre di una piena libertà d’azione in quanto correlato di responsabilità; – essere caratterizzate da uno stile relazionale capace di interazioni vitali.

Considerazioni per una corretta relazione tra privato sociale e sistema pubblico dei servizi in tema di famiglia
Venendo al rapporto tra privato sociale e sistema pubblico dei servizi, occorre tenere presente, in modo quasi speculare ai ragionamenti che siamo venuti facendo nel punto precedente, che il sistema pubblico può sostenere e promuovere la famiglia solo dall’esterno. Esso non è in grado di produrre da solo la famiglia, né di produrre più famiglia. Solo la famiglia od eventualmente le associazioni di famiglie possono produrre più famiglia. Tenuto conto di tale schema concettuale di riferimento, quali suggerimenti è possibile offrire? In buona sostanza è indispensabile che il pubblico, nel mettersi al servizio della famiglia o del terzo settore familiare, non tenti di produrre in prima persona più famiglia, non speri di fare del servizio una grande famiglia o che sia possibile far partecipare direttamente tutte le famiglie alla gestione ed alla promozione del servizio. Esiste una certa refrattarietà delle famiglie a porsi in relazione ai codici di comunicazione propri del sistema pubblico: diritto e denaro. La famiglia utilizza altri codici e attualmente già fatica a riconoscerli e ad utilizzarli, e tuttavia li può gestire ed elaborare solo autonomamente in relazione con altre famiglie. Pertanto il pubblico dovrebbe proporsi quale mero promotore esterno della famiglia e delle reti sociali primarie e secondarie di terzo settore. Queste ultime a loro volta possono essere promotrici della famiglia. In secondo luogo, ed in conseguenza di quanto detto sopra, il sistema politico locale dovrebbe sensibilizzarsi a "vedere" la famiglia, a tenerne presente la specificità e la "alterità" e tenerla presente nelle proprie attività, considerando quali riflessi diretti e soprattutto indiretti la propria azione potrebbe avere su di un sistema di relazioni così diverso. Dovrebbe poi prendere coscienza e tenere presente la sua rilevanza per l’intera società locale, sostenendo per quanto possibile processi di maturazione, nell’ambito delle famiglie stesse, di una coscienza della rilevanza del loro ruolo sociale. Quali dunque le proposte operative concrete? 1. In primo luogo un’iniziativa interessante potrebbe essere quella di organizzare un’istruttoria pubblica sulla famiglia, alla quale invitare tutte le iniziative di privato sociale a presentare valutazioni, consigli e progetti di intervento intorno al tema della famiglia negli enti locali. Il promotore più adeguato di una tale iniziativa dovrebbe essere l’amministrazione comunale locale, che convocando, ascoltando e valutando le proposte del privato sociale potrebbe decidere di accoglierne alcune e farsi essa stessa sostenitrice o promotrice di queste. Tuttavia nulla toglie che l’iniziativa possa essere promossa anche da altri soggetti sociali, come la diocesi o i consorzi delle cooperative sociali o la consulta per il volontariato. 2. Istituire organismi consultivi composti da esponenti dell’associazionismo familiare, chiamati ad esprimere parere sui provvedimenti dell’ente locale riguardanti la famiglia. 3. Sostenere e privilegiare le iniziative di privato sociale che coinvolgono la famiglia come soggetto attivo (associazioni o cooperative di famiglie) o come utente delle attività di informazione, formazione, servizio, etc. 4. Privilegiare, a parità di altre condizioni, negli appalti pubblici per l’erogazione di servizi sociali quegli organismi di terzo settore che possiedono un curriculum formativo improntato alla strategia di rete e alla community care. 5. Promuovere corsi di formazione per operatori sociali che prevedano lezioni di metodologia di intervento di rete e di community care. 6. Incentivare lo sviluppo di forme flessibili di servizio alle persone, servizi di sollievo per famiglie che hanno compiti di cura gravosi nei confronti di membri non autosufficienti, sviluppare la rete dei servizi diurni, favorire lo sviluppo di reti di cura tramite forme di affido dei minori e degli anziani.