Skip to main content

autore: Autore: a cura di Emanuela Marasca

“Radici”, un disco tutto matto

a cura di Emanuela Marasca

“L’equilibrio tranquillizza, ma la pazzia è molto più interessante”.
(Bertrand Russell)

In Musica spesso si sentono questi termini “pazzia”, “follia”, “genialità”, termini che usiamo per inquadrare in qualche modo quell’estro creativo e una buona dose di inventiva che accomuna i compositori, assieme alle loro personalità. È senz’altro vero, infatti, che molti musicisti sono contraddistinti da elementi caratteriali particolari. Nella storia della musica ci sono state genialità,tali da far pensare a una vera e propria vena di follia, oltre che a un gran talento: Mozart, Schumann, Liszt, e tanti altri, sono stati i musicisti considerati tali.
Riprendendo la frase sopra citata di Russel la “pazzia” è molto più interessante, e di certo nel mondo dell’arte, la pazzia riconducibile alla creatività, è la chiave secondo me, per solleticare quelle idee “geniali” che possono fare la differenza.
Franco Naddei cantautore, in arte Francobeat, in collaborazione con Elisa Zerbini, operatrice presso la struttura residenziale “Radici” di San Savino sulle colline di Riccione e gli “ospiti” della struttura hanno trovato nella loro “pazzia” un’idea dal risultato del tutto particolare.
Ecco i loro racconti…
Francobeat raccontaci la tua storia…
Francobeat nasce ufficiosamente nel 2006 con la pubblicazione del disco “Vedo beat” uscito per Snowdonia dischi.
Quel disco fu il primo dei miei 3 album che hanno come comune denominatore quello che io definiscopop da biblioteca.
Dare una musica, un suono, a storie nate fra le pagine di libri editi, o di libri che avrebbero dovuto esserlo, così come di autori interessanti, almeno secondo me.
“Vedo beat” era direttamente ispirato a “Mondo beat” di Stampa Alternativa, piccolo opuscolo che narrava e chiariva le vicende dei beat (i cosiddetti capelloni) italiani, che poco avevano a che fare 60 con le mode degli anni ’60 così come le conosciamo tutti, ed erano invece veri e proprio epigoni dei vari Kerouak, Ginsberg, Corso e tutta la beat generation. Nel secondo lavoro mi son voluto spingere ancora più avanti nell’approfondire il concetto di libertà di espressione che avevo preso di mira col suo predecessore e mi è sembrato naturale rivolgermi al grande Gianni Rodari. La visione del gesto creativo, così come della libertà di usare la fantasia come la usano anche i bambini, era un punto di vista di cui avevo bisogno nel mio percorso.
Questo per dire che i concetti, nella musica che faccio, sono fondamentali. Le parole, così come le idee, hanno un proprio suono, e mi piace scovarlo e buttarlo in musica.
Quel che è successo con “Radici” è stata quindi una specie di evoluzione naturale, dove la ricerca della libertà nell’utilizzo delle idee e della fantasia ha trovato un punto di vista inaspettatamente vivace, crudo, sincero, divertito ed emozionante.
Quando a scrivere i testi sono dei matti tutto cambia prospettiva e stimola chi fa musica, chi cerca di dare suono a quelle parole, a quei pensieri.
Ho fatto molte cose che avevano a che fare con la letteratura, lavori teatrali su Manganelli, Sciascia, gli scritti di Mozart, insomma una ricerca continua nell’emozionarmi con parole altrui.

Di chi è stata l’idea di questo progetto?
Questo progetto mi è letteralmente caduto dal cielo. Come ho tenuto a raccontare nelle note contenute nel CD “Radici”, tutto nasce a Santarcangelo, dove ero a suonare per unsecret showin un posto molto suggestivo che organizza saltuariamente concerti ed eventi particolari e selezionati
In quell’occasione suonavo i brani coi testi di Rodari, e alla fine del concerto fui avvicinato daElisa Zerbini, che collaborava a organizzare quel concerto e che vedendomi pensò bene di dirmi candidamente che lavorava in una struttura psichiatrica e che avevano intenzione di fare un CD.
Io non me lo son fatto ripete due volte, volevo assolutamente leggere i loro scritti e valutare la fattibilità della cosa. Non avevo alcun dettaglio su niente, ma già l’idea di poterci provare mi elettrizzava.
Elisa forse pensava che sarebbe stata una cosina facile e tranquilla, ma dopo il primo invio di materiale ho avuto un sussulto. C’erano già cose molto belle e bisognava andare a fondo e fare un bel lavoro, soprattutto per loro, gli ospiti de “Le Radici”, poeti veri e propri, tutti avrebbero dovuto saperlo.

Avevi già avuto proposte di questo tipo prima di questa?
Se parli di progetti con disabili no. Non ho mai voluto propormi, e non ci avevo nemmeno pensato prima dell’incontro con gli ospiti di “Radici”. Ho sentito parlare di progetti simili, soprattutto in ambito teatrale, ma sono sempre stato molto scettico sulla spettacolarizzazione del disagio.

Come è nata la collaborazione per questo disco tra te e il centro “Radici”?
Come ti dicevo è nato tutto abbastanza spontaneamente. Il punto di incontro è stato il loro progetto sulla scrittura creativa che avevano avviato all’interno del centro. Gli ospiti venivano coinvolti in un percorso, chiaramente dai risvolti terapeutici, dove potersi raccontare o semplicemente dare libero sfogo alle idee e visioni che avevano in testa. Il ridurre il tutto a una manciata di canzoni è stato un modo molto bello per poter concretizzare i loro scritti in qualcosa di solido, di reale, che potesse dare un riscontro oggettivo oltre alle sole parole scritte su un pezzo di carta, un qualcosa fatto da loro che venisse buttato nel mondo di fuori, quello che loro non riescono a vivere con naturalezza per via della loro condizione diversa.
Le canzoni, si sa, avvicinano concetti ed emozioni, aggregano, si possono condividere con altri, hanno una libertà oggettiva che gli operatori di “Radici” volevano dare ai loro ospiti. Più che una collaborazione è stato un vero e proprio lavoro corale, con voci diverse, anche dissonanti e non ortodosse, ma che meritavano in pieno di essere realizzate con la maggiore cura e delicatezza possibili.
Avevano voglia di scrivere, e di scrivere parole che potessero essere cantate. Mi sono sentito onorato e fortunato di poterle cantare con loro e per loro.

Come avete organizzato il lavoro per poter realizzare il tutto?
La prima fase è stata quella di conoscenza. I primi scritti che mi mandarono, frutto dei laboratori che avevano già fatto, contenevano già una forma poetica molto forte. Sono andato da loro, ho parlato con gli operatori e ho ascoltato e osservato con attenzione sia gli ospiti che gli operatori del centro.
I primi incontri sono stati mirati più sul solleticare gli operatori che non sul chiedere qualcosa di specifico agli ospiti (li chiamo ospiti che pazienti non mi piace).
Il punto per me era che potessero sentirsi realmente liberi di scrivere qualsiasi cosa passasse loro per la testa. Alcune cose dei primi scritti erano a tema e non mi sembravano spontanei. Hai presente quando dai un tema ai bambini? Spesso tendono a svolgerlo più per far contenti gli adulti che non dicendo quello che hanno veramente in testa. Ho cercato di stimolare gli operatori a lasciar liberi i temi, le immagini, i pensieri, senza chiedere che gli ospiti raccontassero nulla di specifico.
Nel percorso rodariano su cui avevo appena lavorato c’era proprio la ricerca di lasciarsi andare e flussi di pensiero, di parole, che potessero dire la verità su ciò che anche una singola parola può evocare.
Un giorno portai proprio Grammatica della fantasiadi Rodari e credo di aver parlato a lungo con gli operatori di come fosse importante dare la massima libertà alla creatività degli ospiti. Il lavoro che avevano svolto era già stato fatto in quella direzione, ma realizzare delle canzoni è un’altra cosa e avevo bisogno di sapere quanto ci si potesse spingere nella ricerca delle parole che poi sarebbero diventate il disco che abbiamo fatto insieme.
Inizialmente avevano 5 canzoni che abbiamo cantato insieme in una festa che fanno ogni anno alle “Radici”, dove i parenti vanno a trovare i loro cari ospiti della residenza. Quella è stata la prima occasione dove mi son reso conto che il progetto era assolutamente da completare e realizzare.
Abbiamo cantato insieme quelle 5 canzoni e gli ospiti non si son fatti pregare nemmeno tanto nel cantarli con me dal vivo. È stato emozionante come quando uno stadio intero canta i tuoi pezzi.
Da li ci siamo scambiati parole e canzoni, più che altro a distanza. Loro mi mandavano dei testi via e-mail che io rimandavo cantati e suonati per sapere se gli piacevano, se li sentivano giusti.

Che tipi di difficoltà hai incontrato e come sei riuscito a superarle?
Non ci sono state difficoltà, solo una grande attenzione e pazienza nell’aspettare che altri scritti potessero essere quelli da poter trasformare in canzoni. Io sto a quasi 60 km dalle “Radici” e non potevo andare così spesso da loro, per cui nelle mie visite ho cercato di condensare tutto ciò che poteva essere 62 utile per la realizzazione del progetto finito.
Ho tentato di capire cosa eventualmente avrebbero potuto suonare, e anche cantare. Non ho voluto esagerare, il loro operato sui testi era già straordinario e alla fine ho deciso che era meglio concentrarsi su quello che non metterli allo sbaraglio anche solo con degli strumenti giocattolo in mano.§
La struttura aveva solo qualche percussione giocattolo, e poco altro. Mi sarebbe piaciuto fare composizioni di musica che potesse lambire il linguaggio della contemporanea, ma mi sono limitato al suono delle loro voci e delle loro parole. Volevo che fossero il più possibile protagonisti di questo disco, per cui ho registrato le loro voci e chiesto agli operatori di registrarli anche durante i loro laboratori per carpire frasi in libertà dentro la loro quotidianità senza che ci fossi io che sono comunque esterno e avrei potuto falsare quel che sarebbe poi stato registrato. Ho utilizzato estratti da queste registrazioni, proprio perché dopo i loro testi mancavano solo i suoni delle loro voci, che volevo assolutamente ci fossero.
Se poi parliamo di difficoltà burocratiche lì potrei dire che mi è dispiaciuto molto non poter dire i nomi di chi ha scritto le parole del disco per via della privacy. Mi sarebbe piaciuto dire chi sono i protagonisti di questa storia, ma purtroppo non tutte le famiglie da cui provengono sono disposte a esporre la disabilità dei parenti, anche là dove viene trattata con massimo rispetto senza loschi fini, ma anzi portata come valore artistico di esempio poetico anche per isaniche scrivono musica professionalmente.

Raccontaci qualche aneddoto significativo.
Ce ne sarebbero diversi! Quelli che più mi hanno colpito sono due. Il primo durante l’ascolto delle registrazioni dei dialoghi. Una ospite cui era stato chiesto di dire una qualche parola che avesse un suono particolare continuava a ripetere “pissarrò, pissarrò…” e non capivo a cosa si riferisse. Visti certi discorsi su evacuazioni pensavo che stesse storpiando la parola “pipì”. Pissarro invece era un pittore, e l’ospite in questione insegnava storia dell’arte. Mi son sentito un idiota dopo aver fatto alcune ricerche e capito di cosa si stava parlando. Che poi nella mente di questa persona si sia fatto stra- da un ricordo di un periodo sano della propria vita mi mette ancora più curiosità sul come sia saltata fuori quella parola in quel momento.
L’altro riguarda il primo concerto fatto insieme. Avevo a fianco a me un ospite che secondo i più non sarebbe venuto mai a cantare e che anzi avrebbe anche fatto storie. Quel giorno avevo la febbre alta e cantavo come potevo con una gola molto gonfia, quindi ho sbagliato anche qualche parola dei testi che erano anche piuttosto freschi per me. Beh lui ogni tanto mi tirava una gomitata quando ne sbagliavo una perché le sapeva meglio di me!

Nella composizione della musica da cosa ti sei lasciato ispirare?
Per la musica ho cercato il più possibile di farmi guidare dal testo. Chi fa il cantautore di solito o parte da una cosa o dall’altra cioè o dalla musica o dalle parole. Qui i testi c’erano già, ed erano solo da cantare. Non so, è difficile da spiegare, ma tutto è stato molto naturale. Pochi gli sforzi, tutto mi appariva abbastanza chiaro appena mettevo mano alla chitarra o al pianoforte e riuscivo a cantare i loro testi anche se non avevano un ordine metrico preciso né tantomeno una divisione canonica in strofa/ritornello.
Mi sono limitato spesso a ripete alcune frasi che mi sembravano luminose e degne di essere sottolineate per dare ancora più forza a frasi che potevano anche sfuggire nel flusso apparentemente disordinato dei testi degli ospiti. A tratti ho cercato di dare leggerezza, ma in alcuni casi ho voluto lasciare i toni quasi drammatici e scuri con cui si sono raccontati con una sincerità degna di un cantautore navigato e senza fronzoli. Le alchimie con cui nascono le canzoni sono difficili da raccontare, sono lampi che ti dicono che quella musica sta bene con quelle parole, e unite ti emozionano e quindi speri che emozionino anche chi le ascolta. Io spesso compongo in maniera molto cerebrale, coi testi di “Radici” ho potuto sperimentare come a volte la musica ti scappi dalle mani ed esca naturalmente a sposarsi con le parole che hai.
Alcune canzoni sono uscite di getto, altre le ho pensate senza suonarle leggendo e rileggendo i testi come a cercare che mi suggerissero la giusta chiave di lettura.

A cosa pensi quando si parla di diversità?
Definire il diverso è come dare per scontato il concetto di giusto. Una diversità esprime un’opinione o un modo di comportarsi meno diffusi, meno comuni. A quel punto stabilire il giusto e lo sbagliato è difficile. Una diversità è un punto di vista che non ti aspetti e che fa riflettere proprio per questo.

Ti era già capitato di dover collaborare con persone con disabilità?
Io scelsi di fare il servizio civile proprio per potermi confrontare con qualcosa che non avrei saputo come gestire. La mia esperienza allora fu fantastica. Mi trovai con persone disabili a fare cose strane, a tratti imitandoli per cercare un dialogo e fargli capire che avevano a fianco qualcuno che non aveva paura di loro. Mi è servito molto e mi ha fatto bene, e col senno di poi mi ha permesso di essere libero di poter lavorare con disabili anche con la materia con cui ho scelto di vivere quotidianamente: la musica.

Come è stato il tuo approccio con la disabilità?
Ho sempre cercato di trattare le persone disabili normalmente, un po’ come quando non tratti i bambini da bambini. Credo sia importante non far percepire troppa distanza a chi soffre disabilità, ne ha già molta coscienza senza farglielo notare ogni minuto per comportamenti che non sono normali.

Questa esperienza cosa ti ha dato in termini di vissuto emozionale e artistico?
Come già detto mi sono sentito molto onorato e felice di poter fare un lavoro di questo tipo. Spesso chi fa musica la vuole fare strana a tutti i costi per fare colpo, o per atteggiarsi. Di questo modo di atteggiarsi ne sono stato vittima in passato e sono stato molto contento di dover stare al mio posto per lasciare che la follia si tramutasse in gioco un po’ per tutti i soggetti coinvolti in questo lavoro. Mi son ritrovato a scrivere musica semplice e diretta coma mai avevo fatto prima. Mi sono lasciato andare, ho imparato qualcosa in più sul modo di esprimersi col linguaggio della canzone che ha tante sfumature e che a volte noi cantautori usiamo in maniera troppo egocentrica e senza emozione.

Avete organizzato qualche evento per il lancio del disco?
Sì, abbiamo organizzato un concerto proprio davanti alla residenza. Di fronte c’è un locale che fa musica e all’uscita del disco io e la mia piccola band abbiamo suonato i pezzi per i ragazzi delle “Radici” che son potuti venire ad ascoltare dal vivo quel che avevano scritto loro.
La cosa bella è stata che poi molti di loro son venuti a cantare con noi e anche a fare qualche improbabile jam session libera!
Poi molti concerti in giro per la Romagna dove ho potuto raccontare questa storia.
Io nei concerti purtroppo ho il vizio di parlare tanto e di questo disco ho molte cose che mi piace raccontare al pubblico che viene ai concerti e che alla fine apprezza e capisce quel che abbiamo fatto.

Avete avuto dei rimandi dall’esterno?
Moltissimi attestati di stima e molte belle parole dalla stampa, sia nazionale che locale oltre che a molte webzines online grazie al supporto del mio ufficio stampa che si è prodigato a divulgare in maniera attenta e precisa la storia di “Radici” e della sua realizzazione.
Meno attenzione dal settore non musicale, di cui io purtroppo non conosco i canali, ma che magari prima o poi (come voi in questo caso) avrà modo di venire a conoscenza di “Radici” della sua storia e dei suoi protagonisti!

Avresti voglia di ripetere un’esperienza simile anche con altri centri o gruppi, sarebbe utile?
Inizialmente ho pensato a questo progetto come a una specie di format che potesse essere esportato. Sicuramente è ripetibile, non necessariamente col mio intervento diretto. Mi piacerebbe però che non venissero banalizzati i contenuti musicali, e che venissero salvaguardati tutti gli aspetti creativi di un lavoro di questo tipo. Se questi testi così poetici sono venuti fuori da una struttura incontrata per caso mi immagino che ci sia un patrimonio nascosto in ogni centro simile alla residenza “Radici”. Va visto, vissuto, valorizzato in primis da chi opera nel settore.
Io sono solo un musicista pensatore, non sono un medico né tantomeno paladino della salvaguardia della disabilità. Se si è fatto senza sforzi e in maniera naturale qui si può certamente fare altrove.

La voce agli “Ospiti”
Per scrivere il testo delle canzoni mi sono ispirato aElvis Presley per scrivere Carmencita; Poi abbiamo fatto un lavoro di fantasia.
Ci è piaciuto quando Franco ha raccolto le nostre voci per “Questa sono io” e le ha modificate con il suo strumento; è stato un momento molto bello quando ho potuto dire quello che mi piace, cioè andare a
cavallo e bere caffè e quando abbiamo fatto lo spettacolo qui a San Savino e ho
potuto cantare la mia canzone di fronte a tutti.
Nel fare questo lavoro alcuni di noi non hanno trovato alcuna difficoltà, altri invece inizialmente hanno faticato a scrivere qualcosa, ma si sono buttati e hanno giocato con la fantasia.
È stata una bella esperienza, ci ha resi felici e soddisfatti perchè ci ha lasciato un bel ricordo e un bel CD!
Quando ascolto il disco provo solo belle sensazioni, di soddisfazione e divertimento.
Questa esperienza certo che la ripeteremmo!! Ci siamo divertiti, ci è piaciuto e ci ha fatto scoprire che a volte bisogna ridere e giocare coi nostri piccoli difetti, per affrontarli nel giusto modo e soprattutto ci ha fatto capire che siamo capaci di fare cose belle e di buon gusto. Abbiamo potuto volare e giocare con la fantasia.

La voce di Elisa Zerbini
Ho conosciuto Franco durante un concerto in cui metteva in musica le favole di Rodari, a fine concerto gli ho semplicemente detto:“Sai… tu sembri abbastanza fuori per collaborare a un progetto che ho in mente, ti va?”. Così gliel’ho raccontato e dopo ore passate a discutere piacevolmente, ci siamo accordati.
La scrittura delle canzoni ha rivelato un lato ironico, divertente e giocoso di persone poco abituate a esprimerlo. Abbiamo semplicemente seguito l’onda dei racconti degli ospiti e bisogni da esprimere.
Le difficoltà più grandi le abbiamo avute per accordarci sull’organizzazione e sui momenti buoni per scrivere le canzoni, in quanto non tutti i giorni possono essere fruttuosi, anzi alle volte è stato proprio impossibile anche solo metterci a tavolino e iniziare. Così abbiamo atteso il momento giusto alle volte forzandolo un po’ perché spaventa più pensare di dover fare una cosa impegnativa che farla realmente!
Questa esperienza mi ha trasmesso tanta gioia e voglia di fare sempre più, qualcosa per scappare dalla routinee offrire modi per sorridere e a volte sdrammatizzare problemi che possono sembrare invece insormontabili.
Sono assolutamente soddisfatta del risultato finale e felice di vedere le risposte positive degli ascoltatori. Quando ascolto il disco provo una grande soddisfazione e gratificazione, sia personale che verso gli ospiti, che verso Franco, per le reazioni che il disco provoca: commozione, divertimento, interessamento e voglia di conoscere questo nostro mondo!
Ripeterei assolutamente un’esperienza simile. Il tempo impegnato a scrivere le canzoni è stato un tempo bello, coinvolgente e a volte stravolgente. Vedermi con Franco nella suaCasa Musicalemi ha fatto conoscere un mondo di suoni scomponibili e ricomponibili, di entusiasmi e difficoltà di capire quello che l’altro ha da dire senza averlo di fronte, da lontano. Questo per me è poetico, è il difficile dell’interpretare empaticamente la poesia. Ecco perché trovo che sia un disco POETICO.

Per saperne di più
franconaddei@gmail.com

Con i guanti bianchi la musica passa per la disabilità

Il programma di Educazione del Sistema Nazionale di Orchestra Giovanile e Infantile del Venezuela è un progetto nazionale creato dal maestro Josè Antonio Abreu, venezuelano che ha meritato il riconoscimento mondiale per lo sviluppo dell’azione sociale attraverso la musica.
Il progetto è sostenuto dalla convinzione che la musica orientata verso l’educazione speciale è una sfida dalle molteplici possibilità di successo per arrivare a una elevata idea di eccellenza musicale, in cui l’educazione impartita include differenti tecniche strumentali per realizzare lo sviluppo delle potenzialità. Questo permette l’integrazione di bambini, bambine, giovani con difficoltà auditive, visive, cognitive, motorie, difficoltà di apprendimento e autismo, come pure per tutte le persone senza disabilità, fornendo un esempio per il diritto che tutti noi abbiamo di partecipare alla società.
L’idea riguardo il programma di educazione speciale nacque 32 anni fa. Jhonny Gomez ricorda che durante il primo incontro orchestrale nell’anno 1978, il Maestro Josè Antonio Abreu riunì circa 200 bambini e giovani da tutto il paese; con l’idea di eseguire un grande concerto. “Noi ci incontrammo durante una prova”, commenta Gomez e quando il maestro Francisco Di Polo primo violino dell’orchestra propose un video del concerto per violino e orchestra di Tchaikovsky, la mia sorpresa è che il musicista che stava interpretando questo concerto si trovava in sedia a rotelle. Era il Maestro Itzhak Perlman, stimato violinista a livello mondiale il quale soffriva di poliomelite da bambino. Allora mi sorse una domanda: ‘Per quale motivo attorno a me non c’erano bambini e giovani in sedia a rotelle a fare musica?’”.
Da questa impressione cominciò a svilupparsi l’idea di includere bambini e giovani con disabilità nell’orchestra che in quel momento dirigevo nello stesso momento in cui mi preparavo per l’educazione specializzata. Nell’orchestra sopra menzionata integrai sette bambini con difficoltà di apprendimento e sei con difficoltà visive. Mentre si andava consolidando il sistema dell’orchestra nel Estado Lara, vennero introdotte ulteriori aree dell’educazione speciale come l’autismo, deficit cognitivo e difficoltà motorie.
Nell’anno 1999 aggiungemmo il deficit uditivo, cosa che suscitò numerosi interrogativi tra i musicisti, in quanto è sempre esistito il paradigma “per studiare musica bisogna avere udito”. Di fatto per studiare musica in qualsiasi conservatorio del mondo si tengono esami di ammissione per stabilire se la persona ha orecchio musicale. Questa fu l’area più difficile da integrare.
Nel 2009 ci fece visita il virtuoso violinista Itzhak Perlman, il quale descrisse il concerto che gli venne offerto dal Coro delle Mani Bianche tra altri gruppi, come la più grande e meravigliosa esperienza vissuta, ammirando la precisa e magistrale interpretazione dei bambini e giovani musicisti. “Per noi del Programma di Educazione Speciale, fu molto significativo conoscere questo grande musicista, che ci ispirò, senza saperlo, attraverso un video verso l’integrazione di persone con disabilità motorie nel movimento dell’orchestra venezuelana”, conclude Gomez.
Nel suo percorso il Coro delle Mani Bianche ha realizzato registrazioni per le televisioni Svizzera, Francese, Spagnola, Tedesca e televisioni venezuelane, le quali le hanno permesso di diffondere la sua eccellente capacità interpretativa nell’ambito nazionale e internazionale. Allo stesso modo, le è stata data la Orden Ciudad di Barquisimeto, 2° Classe, anno 2001, Orden Antonio Carillo, anno 2007; Orden “General Juan Jacinto Lara” 1° Classe, anno 2009 e il premio internazionale Nonino 2010, in Friuli, Italia e l’Oscar della Lirica 2010 a Verona sempre in Italia, evento, questo, che premia i principali protagonisti dell’opera mondiale.

I campi di applicazione senza limite
Sono mille e ottocento bambini, bambine e giovani con difficoltà uditive, visive, difficoltà di apprendimento, cognitivo e difficoltà motorie, che hanno trovato nella musica il cammino più piacevole per arricchire la loro vita. Jhonny Gomez, fondatore e direttore generale del programma a livello nazionale, dice che è stato un lavoro duro ma gratificante, in quanto questo esempio si è moltiplicato in 27 gruppi. “Il nostro obiettivo è che in ogni angolo del Venezuela le persone con handicap si integrino a questo grande movimento orchestrale”, si augura questo clarinettista che appartiene al circuito Fesnojiv, dall’anno 1977.
Tanto Gomez così come sua moglie, Naybeth García, direttrice del Coro delle Mani Bianche, assicurano che la vita di molti piccoli e giovani speciali ha avuto un capovolgimento meraviglioso per immergersi nelle note dei grandi compositori. Attualmente studiano in questo circuito fino a che hanno ottenuto risultati accademici ma anche per trovare la forza spirituale per vedere la propria condizione come possibilità di crescita.
Gli studenti imparano a essere costanti e perseveranti raggiungendo una grande capacità interpretativa. Secondo i professori questa arte gli permette di integrarsi nella società, ottenendo il giusto rispetto. “Gli applausi sono il regalo più bello per andare avanti nella lotta per conquistare l’arte, loro hanno un talento innato per la musica che a molti di noi manca, senza paura di sbagliare”, commenta Gomez.
I guanti bianchi sono una delle caratteristiche dei cori di questo programma, il quale si divide tra coloro che eseguono la performance attraverso il linguaggio dei segni e quelli che lo fanno attraverso il linguaggio di espressione orale. I coristi vanno in giro con l’orchestra del Sistema in ognuna delle regioni. “Stiamo esportando più che musica, si sta mostrando al mondo anche la spiritualità, la forza interna, nuovi atteggiamenti nei confronti delle sfide della vita”, dice Gomez. Veder suonare gli strumenti e interpretare il loro repertorio è un gran privilegio che ha commosso una lunga lista di grandi della musica.
In precedenza, ad esempio, non si capiva come una persona sorda potesse far parte di un’istituzione musicale. Oggi è una realtà che sta arrivando in diversi punti del mondo come Italia e Inghilterra. La vocazione a credere nell’essere umano e insegnare la musica come strumento per raggiungere la pace, sono le premesse di questo programma che porta felicità a molti esclusi dalla maggior parte della società.

“Barquisimeto è la capitale musicale del mondo”
Michael Landenburger, rappresentante del Museo Casa Natale di Beethoven (Bonn, Germania), apprezzando la rappresentazione del Coro delle Mani Bianche non esitò ad affermare che Barquisimeto non è la capitale musicale del Venezuela ma del mondo, per la qualità della formazione dei suoi musicisti.
Affermò che allo stesso modo se l’incompreso Ludwig Van Beethoven fosse vivo, forse scriverebbe la più brillante composizione per i componenti del Coro delle Mani Bianche di Barquisimeto e gli altri gruppi che fanno parte del programma di educazione speciale. Questo bel complimento venne espresso dal musicista dopo un concerto emozionante che utilizzò come motivo del suo viaggio in Venezuela nel 2004 per osservare più da vicino l’esperienza del Sistema.
In questa occasione i membri del Coro consegnarono un paio di guanti bianchi in una scatola di vetro e legno che attualmente si trova, con orgoglio di tutti, nella cassaforte dove stanno gli averi di Beethoven.
La scatola trasparente con i delicati guanti è in un luogo in cui tutta l’umanità lo vedrà per sempre, “Mi sento molto unito a voi, la musica non è tutto, però aiuta la gente a vivere una vita piena, io vedo in voi ciò che non vedo nel resto del mondo, per questo sono molto grato per avermi fatto sentire parte della vostra famiglia”, disse questo musicista tedesco ai bambini del programma di educazione speciale del sistema orchestra.

Trascrizione raccolta da una conversazione con Jhonny Gomez.

Incontrare musicisti disabili

La musica diventata viva
Mi occupo di musica da molti anni, prima come musicista, poi come studioso e insegnante.  Conosco su di me e la mia vita la forza e gli effetti della musica, ma la comprensione più grande di cosa sia il potere della musica per una singola persona l’ho colta quando ho conosciuto Vittorio Rossi.
L’incontro era stato misterioso: la madre di una mia cara amica mi aveva telefonato perché voleva che conoscessi una persona a cui dare una mano per questioni musicali. Mi portò a Ortona e mi fece conoscere Vittorio e sua sorella Maria. Vittorio era un uomo sulla sessantina, ben portati, dal viso lungo e morbido ma con un grave deficit che lo costringeva da anni bloccato su una sedia a rotelle e non poteva parlare in modo comprensibile.
Mi trovai in imbarazzo: la madre della mia amica mi aveva avvisato, ma lo stato di Vittorio era qualcosa del tutto nuovo per me, una condizione che non conoscevo e non avevo mai esperito così da vicino: non comprendevo le sue reazioni e capire cosa tentava di dire era per me impossibile. Per vincere l’imbarazzo e il disagio adottai una strategia classica a cui tutti ci aggrappiamo: fare finta di niente. Maria, la sorella di Vittorio, era in grado di interpretare i suoi suoni, e si aiutava con un foglio, che Vittorio teneva sul grembo, dove vi erano stampate le lettere dell’alfabeto che venivano indicate con la mano tremante.
Dopo pochi minuti l’imbarazzo – lo stesso che si prova davanti a una persona qualsiasi che non si conosce – si dissolse: Vittorio si dimostrò pieno di humor e soprattutto ardeva dal desiderio di parlare finalmente di musica con qualcuno che la musica la conosceva.
Sì, perché Vittorio era un musicista: per la precisione un compositore. La premessa fu essenziale: aveva studiato al Conservatorio e quando la sua condizione era meno grave la madre, ora scomparsa, lo aveva aiutato a scrivere la musica (da perfetta analfabeta musicale, beninteso). Aveva così accumulato una discreta serie di composizioni. Che mi furono subito squadernate davanti: un pezzo per organo, un quartetto d’archi, un trio con pianoforte e altri pezzi da camera. Vittorio voleva che fossero rieseguiti per ascoltarli: mi chiesero se potevo metterli su computer e preparare gli spartiti per un concerto. Non avevo mai fatto una cosa del genere ma dissi immediatamente di sì.
Ora, ognuno ha i suoi handicap. In fondo che cos’è un handicap se non una difficoltà a fare o comprendere qualcosa? Io avevo da poco un computer – erano i primi anni Novanta – e avevo imparato a usarlo ma sui software musicali non avevo mai messo mano. E scoprii che ero negato per quel genere di cose. Certo, non voglio neanche lontanamente paragonare le mie difficoltà con quelle di Vittorio: ma stavo sperimentando cosa vuol dire trovare una strada per fare qualcosa anche se in apparenza non si hanno gli strumenti per farlo.
Se con il computer ebbi delle difficoltà, con Vittorio questi ostacoli scomparvero rapidamente. Nei nostri periodici incontri – io all’epoca vivevo a Chieti, la mia città natale, a circa mezz’ora da Ortona – scoprii che comunicare con Vittorio era facile, imparai a capire cosa lo faceva ridere e cosa lo irritava, su cosa avevamo gusti in comune e quale poteva essere il ritmo della conversazione – di solito piuttosto spedito. Soprattutto Vittorio voleva parlare di musica – ed ero ben lieto di parlarne anch’io! – in termini tecnici: fuga, semicrome, contrappunto, modulazioni, le discussioni tecniche si sprecavano, ma al tempo stesso si facevano considerazioni estetiche.
Quando Bach volle studiare la musica di Vivaldi la trascrisse nota per nota. Io feci lo stesso con la musica di Vittorio (si parva licet, ovviamente…). E così ne colsi il gusto per la cantabilità, la tendenza al contrappunto, la sapienza tecnica. Stilisticamente era vicino al primo Romanticismo. Come è naturale colsi anche le ingenuità di un giovane compositore che sta producendo i suoi primi lavori importanti: su tutti le linee melodiche troppo lunghe e senza pause. Però gli invidiavo – io che avevo fatto solo studi di composizione da principiante – il controllo della grande forma, dalla fuga alla forma sonata. E su questo scherzavamo, così come parlavano criticamente anche dei difetti della sua musica, di cui era perfettamente consapevole. La musica lo teneva vivo.
Terminato il mio lavoro, Giacinta, la madre della mia amica, organizzò un concerto in una chiesa di Ortona. Non è possibile descrivere qui l’emozione: sarebbe osceno, uno svelare ciò che deve rimanere privato. Però il significato va reso esplicito: attraverso la musica diventata viva, Vittorio – che quella sera si era concesso anche un abbigliamento molto elegante per il quale lo presi un po’ in giro – stava riconquistando la sua natura più autentica, la ragione più profonda della sua tormentata vita. Quel mio piccolissimo contributo gli consentì di replicare il concerto in altre occasioni e così colsi il senso autentico di quell’esperienza. Per Vittorio ascoltare quella musica era sublime e frustrante: sublime perché un sogno diventava realtà, frustrante perché quella realtà era monca, incompiuta e intrisa di dolore. La musica non era solo la panacea dei suoi mali, ma anche la crudele testimonianza del fatto che dopo quei brani Vittorio non aveva potuto scrivere più niente. Dopo i concerti o parlandone più tardi con lui vedevo nei suoi occhi questa alternanza torturante: la felicità che è anche causa del dolore, l’esaltazione e lo scoramento, la speranza vissuta in passato e il rimpianto attuale. Emozioni trasmesse con una dignità screziata da una rabbia sottopelle, che io sentivo vicinissima.
Ecco, Vittorio amava la musica in tutte le sue forme. E gli piaceva parlarne con cognizione di causa, ironia, passione. Conscio che quella è stata l’unica, straordinaria occasione di una vita difficile. Un’occasione che, grazie anche alle persone che gli sono state vicino, lui ha saputo cogliere e che è diventata la forma di comunicazione privilegiata: scrivendola, ascoltandola, parlandone. Forse lui non se ne rendeva conto, ma anche per le persone che sono state toccate dal privilegio di conoscerlo la musica ha significato l’accesso a un’esperienza più profonda. Almeno per me è stato così.
Vittorio è improvvisamente scomparso l’estate scorsa. A me rimane l’immagine del suo viso quando rideva di gusto. A noi tutti l’esperienza della sua – della nostra – musica.
(di Stefano Zenni, musicologo, http://web.me.com/stzenni/)

La vita nella musica
Fino al 2007 (settembre) tutto andava per il meglio, ero alla fine di un tour in Italia che contava circa 40 concerti tra luglio e agosto, contemporaneamente ero alla fine del disco La Nassa, ma proprio a settembre, quando tutto sembrava al massimo dell’idillio artistico, quello che durante il tour andava annunciandosi cioè la difficoltà di scendere dai palchi, esplose in fase finale di incisione del CD in una emiparesi nella parte destra, gamba e braccio destro quasi bloccati completamente! Arrancai e mi disperai all’epoca per non riuscire a dare il massimo nel CD, lo terminai con enorme incoscienza e sconforto.
A marzo 2008, dopo un mese di ricovero ospedaliero presso l’ospedale universitario di Padova, il primario con le lacrime agli occhi, alla dimissione, non mi disse cosa avevo, preso dal dispiacere, mi dette la carta dicendomi: “Faliva, poi leggerà cosa abbiamo riscontrato, con calma”.
E fu da allora che incominciò la mia seconda vita, tutto quello che avevo costruito, era crollato; musica che mi accompagna dall’età di 5 anni, amicizie, matrimonio, che all’epoca apparivano come solide e importanti… tutto finito. Non rimaneva che ricominciare tutto da capo con dei parametri diversi; e così feci, mi tirai su le maniche e continuai con la sola cosa che non mi aveva abbandonato veramente, lei, la Musica.
Decisi che non sarebbe bastata la sclerosi multipla per fermarmi, e così modificai “semplicemente” la strada, feci un passo indietro, ritornai a studiare musica elettronica al conservatorio. Era l’unica strada possibile, il computer mi avrebbe aiutato, d’altro canto non riuscivo più a suonare oltre che viaggiare liberamente, è così che nacque l’idea de “il quinto chicco del Melograno”, ho fatto un’importante dichiarazione di fiducia per la vita nella copertina del CD, ho scritto “continua…” perché non voglio fermarmi ancora, sempre che non lo decida Rosy, (scle-rosy multipla) e allora ricomincerò ancora tutto da capo.
La composizione e la direzione mi hanno permesso di ritornare nei palchi. Ho fondato il coro AISM, “Anche Io Sono Musica” entrando, per le terapie riabilitative, all’AISM di Padova, dove ho trovato un contesto disponibile e florido; a loro sono riuscito a unire l’atto volontaristico di 4 meravigliose persone nonché maestri di musica (Battistello, Landi, Praticelli, Massarotto), per integrare e supportare i malati, volontari e fisioterapisti che, ad oggi, in 18 formano il primo coro Nazionale dell’AISM.
È stato uno stupore scoprire come affianco al mondo che conosciamo e pensiamo “normale” ce ne sia un altro, dinamico, speranzoso, anche gioioso alla sua maniera: il mondo della disabilità.
Ad oggi mi ritrovo invalido al 75% e cerco con costanza l’ironicità della vita, anche se mia moglie mi ha lasciato, non suono più come un tempo, non posso più respirare l’energia e la libertà di movimento di un tempo, ma di certo ad oggi non so se tornerei volentieri indietro nel tempo, perché ciò che sono riuscito a comprendere in questi ultimi 2 anni, non vale la metà dei 30 anni prima, mi manca solo una cosa, la montagna d’alta quota, ma sono convinto che ce la farò con un po’ di fortuna e tanta volontà.
(di Simone Faliva, musicista, www.simonefaliva.com)