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autore: Autore: A cura di Giovanna di Pasquale e Emanuela Marasca

13. Nella musica nessuno è disabile

intervista a cura di Giovanna Di Pasquale e Emanuela Marasca

Intervista a Carlo Celsiuno degli organizzatore del “Festival della Musica Impossibile” che si svolge a Falconara Marittima (carlo.celsi@fastwebnet.it ), festa nazionale delle espressioni musicali legate al mondo della disabilità.

Che percorso musicale hai seguito?
Studio violino dall’età di dieci anni, prima in modo amatoriale poi, a sedici anni, in modo più intensivo in conservatorio. Il mio talento musicale sembrava inizialmente discreto, poi nel tempo è andato appannandosi. Nauseato da infinite giornate di scale e tecnica e con la musicalità sotto le scarpe sono stancamente approdato al diploma rimediando un otto striminzito.
Negli anni Ottanta non era facile studiare in conservatorio. Non esisteva una vera scuola di violino in Italia e la didattica dello strumento era spesso improvvisata e spontaneistica. Oggi la situazione sta cambiando ma allora, in un momento di forte espansione dei conservatori, molti insegnanti erano stati reclutati senza nessuna senza selezione.
Nella mia storia musicale ci sono poi anni di gavetta fatta suonando, dall’età di quindici anni, il liscio nelle balere; c’è, in seguito, la musica sinfonica e da camera; c’è il jazz e il caffè concerto e c’è il piano bar. Tutte queste esperienze mi hanno consentito di approdare felicemente alla musicoterapia dove la dote principale per un operatore è l’elasticità e la duttilità musicale.
Tra le esperienze professionali che sono confluite in modo proficuo nel mestiere di musicoterapista c’è anche la specializzazione e l’insegnamento della propedeutica musicale.
Da alcuni anni mi occupo di musica folk e collaboro con i “Vincanto”, un gruppo che fa ricerca e rielaborazione del patrimonio della musica popolare delle Marche. 

Cos’è per te la musica?
È la chiave che mi permette di penetrare e interpretare la realtà. La musica è ciò che mi dà da vivere; è ciò che consente di espandere la mia creatività; è ciò che amplifica ogni mio sentimento positivo e lenisce ogni sentimento negativo; è ciò che sfama e tiene buono il mio ego; è ciò che mi ha fatto incontrare la persona che  ha cambiato la mia vita. La musica è questo e tanto altro ancora.
Quando la sera vado a dormire ripongo sul comodino, a fianco del letto, tutti i miei affetti. Lì vicino metto anche la musica. Quando mi sveglio controllo che tutto ci sia ancora. 

Come è nata l’idea di questo Festival?
È nata da uno stimolo di Gianfranco Bedin, responsabile dell’area educativa della Fondazione Don Gnocchi. L’idea iniziale era di fare una festa musicale tra i Centri della fondazione, io ho colto la palla al balzo per organizzare un evento di più ampie proporzioni. Paolo Perucci è il direttore del Centro “E. Bignamini” di Falconara, che organizza il Festival e presso il quale collaboro come musicoterapista. Da buon musicista dilettante ha da subito accolto con favore e appoggiato attivamente l’iniziativa, cercando di coniugare il ruolo riabilitativo del Centro con l’organizzazione di uno spazio pubblico di condivisione della bellezza che più sprigionarsi dalla disabilità.

Cosa ti ha spinto a organizzare un evento come questo Festival?
Mi ha spinto la volontà di creare un momento di autentica comunicazione e condivisione di emozioni tra i cosiddetti normali e coloro che, eufemisticamente, oggi definiamo diversamente abili. L’idea è di creare i presupposti affinché almeno per un giorno si possa realizzare quell’utopia che si chiama integrazione. L’unico medium che possa creare tali presupposti credo sia il linguaggio musicale.
Uno dei luoghi comuni più banali sulla musica è che sia un linguaggio universale. In realtà la musica è effettivamente universale ma non nel senso normalmente considerato, bensì perché, per dirla con il Gardner della pluralità delle intelligenze, è una facoltà intellettiva autonoma e come tale, indipendente dal livello cognitivo della persona. Quindi c’è a prescindere dal deficit cognitivo. È  quindi universale perché è propria di ogni individuo, anche in assenza di funzioni quali la parola, il pensiero logico, il movimento, ecc.
Organizzare il Festival è quindi dare la possibilità a persone disabili di presentare un’immagine di sé attraverso la propria musicalità, al di là del deficit; fornire uno spazio di espressione, di comunicazione effettiva e di dignità.
È doveroso specificare come sia possibile che persone non vedenti, sorde o con qualche impedimento fisico diventino ottimi musicisti, gli esempi non mancano, da Beethoven a Bocelli passando per Petrucciani e via di seguito. Tuttavia è molto meno scontato che diventino buoni musicisti individui affetti da un ritardo mentale che può rendere loro difficoltoso qualsiasi altro semplice apprendimento. 

Hai avuto collaborazioni esterne per la riuscita dell’evento?
I primi a darmi la disponibilità a collaborare sono stati alcuni colleghi musicoterapisti con cui intrattengo da anni un confronto professionale. Il loro sì è stato da subito caloroso e incondizionato. Poi sono arrivate le istituzioni pubbliche che si sono dimostrate subito sensibili alla manifestazione.  

Quali sono state le maggiori difficoltà che hai e avete incontrato?
La difficoltà maggiore è stata quella di presentare gli artisti in modo da mettere in risalto il loro talento musicale lasciando in secondo piano l’handicap. Purtroppo il pubblico dei non addetti ai lavori non sempre ha avuto questa percezione positiva. Ad esempio l’esibizione di una cantante in carrozzina dalla voce bellissima ha suscitato in alcuni spettatori il senso di angoscia, acuito proprio dal contrasto tra la bellezza della musica e un dato esistenziale dell’artista percepito come triste. Devo precisare che questo genere di feedback è pervenuto solo da persone che non hanno mai avuto una relazione stretta con un soggetto disabile. Da parte di educatori, insegnanti e altri operatori del settore il feedback è stato solo positivo. Su questo aspetto sto comunque riflettendo per trovare una formula per un evento che possa suscitare solo sensazioni positive.

Quali sono stati gli aspetti positivi di questa esperienza?
La risonanza affettiva che ho riscontrato è stata fortissima. Ho raccolto le impressioni commosse di ospiti, operatori, genitori. Abbiamo scoperto straordinari talenti musicali. Abbiamo dato un palcoscenico a molti che non sapevano di essere ottimi musicisti e al Festival hanno scoperto di saper entusiasmare un pubblico. Inoltre abbiamo stimolato tanti centri ad avviare un’attività musicale al loro interno.

Prima di questo Festival avevi già avuto modo di conoscere persone disabili?
Già da prima che mi occupassi di musicoterapia facevo assistenza come volontario presso il Centro “E. Bignamini” di Falconara. La musicoterapia mi ha consentito di coniugare la voglia di essere artista con l’urgenza, che ho da sempre, di mettermi al servizio del prossimo.

E… musicisti disabili?
Nella musica nessuno è disabile.

Che messaggio vorresti arrivasse al pubblico con questo Festival?
Il Festival intende proporre un approccio alla disabilità privo del distacco e dell’alone pietistico che investe generalmente il sentire comune. Il Festival vuole stimolare il pubblico a guardare a quello scrigno colmo di umanità che c’è dietro la disabilità. La musica credo sia la chiave giusta per questa apertura.

Secondo te il messaggio che volevi far arrivare è stato recepito dal pubblico?
Siamo soddisfatti ma alcuni aspetti del Festival vanno rivisti affinché il messaggio sia più efficace. L’epoca in cui viviamo non favorisce messaggi di questo tipo. La solidarietà non sembra essere più un valore così indiscusso in un mondo in cui essere è principalmente apparire; un mondo in cui un costante rumore di fondo ci impedisce di ascoltare noi stessi prima ancora che gli altri.

 Che impatto emotivo hai avuto nell’ascoltare le esibizioni dei vari gruppi?
Abbiamo invitato alla kermesse gruppi da molte regioni italiane. Ogni gruppo ha una sua storia  e un suo modo di lavorare: dalla word music al punk rock. Alcuni gruppi sono organizzati da musicisti professionisti, altri da musicoterapisti, altri da educatori con competenze musicali. L’impatto emotivo è stato forte e di grande sorpresa nel constatare come percorsi tanto differenti siano accomunati dal sentire comune di riabilitare attraverso la bellezza della musica. Molti di questi operatori si sono a loro volta sorpresi nel constatare che in giro per l’Italia in tanti portavano avanti il loro medesimo progetto.

E… nel suonare con loro?
Entusiasmo e commozione.

12. In-Oltre Festival

intervista a cura di Giovanna Di Pasquale e Emanuela Marasca

Intervista a Angela Prisco, referente Asl e Direttore Gestionale di In-Oltre, e Lucio Moioli, collaboratore dell’Associazione In-Oltre per i progetti in ambito artistico. Il Festival, nel 2008 alla sua settima edizione, ha avuto come elemento centrale la disabilità raccontata dai linguaggi espressivi dell’arte.

Come è nata l’idea di questo Festival? Qual è il vostro modo di approccio alle espressioni artistiche e alla disabilità che rende specifico e distingue questo Festival?
Credo che siano molti gli elementi che otto anni fa hanno spinto la nostra Associazione a impegnarsi nella realizzazione del Festival.
I promotori della Associazione erano enti istituzionali, soggetti del Terzo Settore e soggetti della società civile in generale, tutti impegnati nell’ambito della disabilità. Tra gli altri ricordo l’ASL della Provincia di Bergamo, la Provincia e il Comune di Bergamo, l’Università degli Studi di Bergamo, Organismi sindacali, Confcooperative Bergamo, Associazioni di famigliari, Associazioni di volontariato.
Da tutti era condiviso il desiderio di “andare oltre”, da cui il nome stesso dell’Associazione, e cioè di innovare il sistema di culture, progetti e interventi che la Provincia di Bergamo aveva sviluppato in materia di disabilità.
La prima pista che decidemmo di esplorare era proprio di natura artistica e riguardava l’utilizzo di laboratori teatrali all’interno dei servizi alla disabilità. Si trattava di sperimentare le potenzialità educative, relazionali e sociali, culturali del linguaggio teatrale. In altri termini, si trattava di verificare se il laboratorio teatrale e lo spettacolo che da questo potenzialmente scaturisce sono in grado di sviluppare o consolidare le autonomie delle persone coinvolte, se sono in grado di ampliare le reti relazionali e la loro qualità, se sono in grado di promuovere presso il pubblico – e dunque presso la generalità delle persone – un’immagine più positiva della persona con disabilità, più centrata sulle sue capacità e meno sulle sue disabilità, caratterizzata da maggiore vicinanza e condivisione con la normalità.
L’esperienza costruita possiede diversi aspetti distintivi, che la caratterizzano rispetto ad altri percorsi.
Innanzitutto citerei la dimensione di rete. La nostra Associazione ha saputo giocare fino in fondo la sua natura di secondo livello ottenendo il coinvolgimento attivo di una pluralità di enti e realtà anche molto diverse tra loro. I laboratori e il Festival, infatti, vedono il contributo di scuole, di servizi alla disabilità, di famiglie, di enti istituzionali, di enti di formazione e ricerca, di singoli volontari.
In secondo luogo sottolineerei la scommessa sulla disabilità grave. Una delle radici dell’Associazione è rappresentata da un Centro Residenziale Handicap di Bergamo (oggi, in base alla normativa regionale, si chiama RSD – Residenza Sanitaria Disabili), servizio che accoglie persone con gravi disabilità in età adulta. Non era una scommessa facile. Abbiamo dovuto infatti immaginare forme creative di utilizzo del linguaggio teatrale e abbiamo dovuto affrontare la resistenza di molti di fronte alla possibilità che anche soggetti così gravemente compromessi potessero salire su un palco, entrare in scena e dunque fare mostra di sé.
Alla luce dei risultati ottenuti, la scommessa è risultata vincente da tutti i punti di vista.
Un altro elemento distintivo è la scelta costante di intrecciare le diversità. In ogni contesto abbiamo cercato di far convivere persone classificate come normali e persone classificate come disabili. Del resto, se una delle potenzialità importanti del teatro (e dell’arte in generale) sta nella comunicazione, rinunciare alla compresenza delle diverse abilità sarebbe estremamente limitante.
Diversità non vuol dire, per altro, solo rapporto tra normalità/disabilità, ma anche e soprattutto interazione tra punti di vista differenti. Sopra richiamavo la dimensione di rete. È una dimensione che ritroviamo riflessa all’interno dei singoli laboratori, dove si intrecciano le prospettive delle persone con disabilità con quelle degli educatori che li “accompagnano”, con quelle di ragazzi e adulti volontari, con quelle di famigliari che in diversi contesti a loro volta si giocano come attori. Il tutto, ovviamente, con la mano invisibile (per il pubblico) del regista/conduttore.

Avete avuto collaborazioni esterne per la riuscita dell’evento?
Già nella risposta alla domanda precedente ho evidenziato la pluralità di apporti che sostiene la nostra attività.
Aggiungerei qui un riferimento al sistema degli sponsor, assolutamente determinante per la sostenibilità di un progetto come il nostro.
Si sa però che gli sponsor arrivano se si garantisce una visibilità alta e di qualità. Da questo punto l’ampliamento delle realtà che danno un contributo è stato negli anni importante ed è ulteriore elemento che testimonia l’attenzione crescente di cui godiamo.

Quali sono state le maggiori difficoltà che hai/avete incontrato?
Lavorare in rete mette a disposizione delle potenzialità notevoli, ma richiede anche una cura certosina e costante delle relazioni. E ciò si traduce in fatica.
Non sono mancati negli anni momenti di tensione tra i partner, come è naturale e prevedibile. Trovare vie di uscita condivise è stato però ulteriore motivo di soddisfazione.
Voglio citare un aspetto che ancora oggi ci impegna in confronti e discussioni. La maggior parte dei soggetti che operano all’interno dell’Associazione ha una cultura di tipo sociale e, specificamente, socio-educativa. Ma qui abbiamo davanti un compito squisitamente artistico-culturale, che ha esigenze che non sempre si coniugano con l’organizzazione e le prassi consolidate dei servizi alla disabilità. Basti pensare che un gruppo teatrale richiede una continuità pluriennale, continuità che dovrebbe essere garantita sia dagli educatori che dalle persone con disabilità che i servizi inseriscono nei  laboratori, ma ciò spesso va a confliggere con le esigenze organizzative dei servizi e con il respiro annuale dei progetti educativi. 

Quali sono stati gli aspetti positivi di questa esperienza?
Sono moltissimi e difficili da riassumere in poche righe.
Innanzitutto è cresciuto il pubblico dei nostri spettacoli e l’attenzione che più in generale riceviamo dal territorio.
Oltre al Festival, i nostri gruppi teatrali e specialmente quelli composti da genitori sono chiamati in diversi Comuni della nostra provincia per proporre il loro spettacolo.
Io credo che se tutto ciò si è sviluppato è perché abbiamo scoperto e mostrato che il linguaggio artistico è davvero in grado di fare emergere aspetti e capacità insospettate anche nelle persone con disabilità più grave. Non è infrequente sentire da parte dei genitori stessi la meraviglia intorno alla serietà con cui tutti assumono il ruolo di attori, la tensione per lo spettacolo e la capacità di farvi fronte, la comprensione di quanto avviene sulla scena e la capacità di controllare in maniera coerente e coordinata il proprio comportamento.
Anche la dimensione relazionale è stata estremamente positiva. È molto bello sentire durante i momenti di verifica che i ragazzi “normali” vivono il laboratorio e lo spettacolo come occasione di crescita personale, di sviluppo di una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie competenze relazionali e tutto ciò grazie a una vicinanza emotiva-cognitiva ma anche fisica con persone con disabilità molto gravi. Si tocca con mano che l’inclusione e l’interazione delle diverse abilità possono non ridursi a affermazioni retoriche o a elaborazioni teoriche. 

Tra i tanti artisti che sono intervenuti nelle varie edizioni ce n’è qualcuno che vi ha colpito in modo particolare? Che è rimasto nella memoria delle persone e del Festival?
Voglio ricordare due eventi dell’ultima edizione.
Il primo è uno spettacolo teatrale tratto dal libro Nati due volte di Giuseppe Pontiggia, spettacolo proposto dalla compagnia “Studi imperfetti” con Andrea Carabelli e Giorgio Sciumè. Devo dire che la finezza dei contenuti del libro e l’intensità con cui sono stati resi alcuni passaggi hanno dato uno spaccato davvero profondo della complessità che caratterizza l’arrivo in una famiglia di una persona con disabilità. Il tutto è stato poi arricchito dal contesto in cui abbiamo deciso di collocare l’evento, e cioè la rassegna “Bergamo Scienza”, con una sala piena e un pubblico estremamente attento.
Il secondo invece riguarda uno spettacolo frutto di un nostro laboratorio: la compagnia “Officine Intrecci”. È una delle esperienze più consolidate, con un gruppo formato da persone con disabilità, educatori di diverse cooperative sociali della nostra provincia, studenti di scuole superiori e volontari, con la regia di Giusy Marchesi del Teatro Prova. Anche in questo caso il contesto è risultato importante. Abbiamo scelto il Teatro Donizetti, lo storico teatro cittadino, e vista la presenza di pubblico abbiamo dovuto aprire anche tutte le gallerie. Il modo peculiare con cui il lavoro teatrale ha scavato nei gesti delle persone, anche in quelli più stereotipati, rendendoli occasione di espressione e comunicazione ha mostrato a tutti i presenti un modo nuovo di guardare chi fatica a utilizzare i codici e i linguaggi usuali, a partire da quello verbale. La serata è poi stata completata e arricchita da un concerto musicale dei “Jabberwocky”, band con una consolidata sensibilità sociale che ha saputo attirare un pubblico giovanile per noi normalmente poco raggiungibile.  

Il rapporto fra l’evento Festival e le attività e l’impegno dei laboratori che lo precedono: come lo definireste? Quali caratteristiche presenta?
È un rapporto molto semplice da descrivere, a mio avviso. Non c’è laboratorio teatrale senza spettacolo finale che ne sostanzia la tensione comunicativa e non c’è spettacolo teatrale senza un serio laboratorio in grado di produrre sostanza autentica da comunicare. Con una parafrasi ardita, un laboratorio senza spettacolo è cieco, uno spettacolo senza un (buon) laboratorio è vuoto.

C’è un “messaggio” che vorreste arrivasse al pubblico con questo Festival?
La questione del “messaggio” è invece complessa. L’Associazione è una rete di realtà, ciascuna delle quali ha una propria prospettiva sulle questioni della disabilità ed è da queste prospettive che porta il suo contributo. C’è poi il livello dei laboratori, nei quali è il percorso stesso, senza mete predefinite, che va a costruire il contenuto dello spettacolo, sia che consideriamo le esperienze con persone disabili sia che consideriamo i gruppi teatrali composti da famigliari. L’Associazione evidentemente non può e non vuole prescrivere un messaggio ai gruppi.
Dall’altra parte, però, le scelte progettuali di fondo e l’utilizzo del linguaggio artistico, aperto di per sé alla totalità delle persone, contengono una sorta di messaggio proprio, di messaggio implicito, che mi pare sia riassumibile in due affermazioni principali.
La prima: mettere insieme su un palco persone con disabilità e persone senza disabilità in un dialogo paritario e reciproco mostra che il rapporto tra diverse abilità è possibile, non è qualcosa di specialistico, ma è accessibile – e utile – a ciascuno di noi.
La seconda: i temi della forza e della fragilità che emergono nelle rappresentazioni si rivelano come generali, come qualcosa che non riguarda solo alcuni pochi “sfortunati”, ma che costituisce una dimensione trasversale e universale della condizione umana e dunque della storia di vita di ciascuno di noi.
È per questo che chi viene ai nostri spettacoli ne esce generalmente “commosso”: viene infatti raggiunto e colpito da un messaggio che tende a modificare l’idea che la disabilità sia affare solo di qualcuno e a far sperimentare come ciascuno di noi è di principio e di fatto disabile, cioè è protagonista (e non semplice spettatore) del gioco di risorse e limiti che muove la logica delle diverse abilità.

E secondo voi quanto è stato recepito dal pubblico, presente o anche più ampio attraverso la publicizzazione dei media ?
L’attenzione dei media è stata crescente in questi anni. Rispetto all’ultima edizione possiamo citare le  numerose apparizioni sugli organi di stampa locale e la partecipazione a trasmissioni radiofoniche e televisive. Ovviamente non è facile capire quale tipo di accoglienza abbia avuto il “nostro messaggio” comunicato attraverso questi canali.
Rispetto al pubblico presente nelle sale si possono fare alcune considerazioni. In generale l’impatto avviene, lo spettacolo è in grado di trasmettere molto e di coinvolgere. Ho la sensazione che in qualche caso ci sia la difficoltà ad andare oltre il piano emotivo. D’altra parte le scelte artistiche compiute dai registi sono spesso innovative, creative, vanno al di là del teatro tradizionale in cui è presentata in termini narrativi una qualche vicenda. Ciò richiede una disponibilità a lasciarsi spiazzare che forse non è ancora molto diffusa nel pubblico comune, ma che è anche una delle finalità che perseguiamo.

Per saperne di più:
Associazione In-Oltre Onlus
Via Borgo Palazzo, 130
24125 Bergamo
Tel. 035/227.03.20
Fax 035/227.03.33
inoltre@asl.bergamo.it
www.inoltre-bg.it

4. Persone che esprimono valore

Intervista a cura di Giovanna Di Pasquale e Emanuela Marasca

Intervista a Maurizio Carbone, percussionista, collaboratore ed animatore del Festival “Musica Impossibile” (drumdancer@libero.it)

La musica
Sono nato come batterista, suonando diversi generi musicali,quando ho iniziato a comporre musica ho incontrato il percussionista Dom Um Romao (Weather Report, Sergio Mendes, ecc…) che mi ha aperto gli orizzonti e l’universo del mondo delle percussioni.
La musica per me è un potente mezzo di comunicazione e di presa di coscienza delle proprie consapevolezze e forze interiori e occupa nella mia vita una dimensione fondamentale.

La diversità
Quando si parla di “diversità” penso alla ricchezza e alla immensa potenzialità che ha ogni essere umano.
Collaboro sistematicamente con musicisti disabili. L’idea di fare musica  si è presentata nell’occasione del “Progetto Sole”,  nel 1998, un percorso della neuropsichiatria Infantile gestito dall’ASL di Napoli e il Comune di Napoli.
Più in generale, sono interessato a temi che riguardano la diversità nel suo complesso, compresa la diversità di tipo culturale ed etnica che gioca un ruolo fondamentale nel mio percorso musicale:
Il linguaggio delle percussioni ti permette, attraverso gli strumenti, provenienti dalle culture popolari di tutto il pianeta, di approfondire i linguaggi di ogni cultura e nello stesso tempo.
Di farli dialogare e mescolarli. Ho avuto la buona fortuna di suonare con musicisti: iraniani, spagnoli, statunitensi, arabi, francesi, armeni, inglesi, marocchini, brasiliani, africani, tunisini, bretoni…

Persone disabili e musica
Il mio modo personale per avvicinare le persone disabili alla musica, in particolare alle percussioni passa attraverso e sostanzialmente la possibilità di instaurare una relazione, in questo modo le persone reagisco agli stimoli divertendosi, creando armonia.
Oltre il Festival della Musica Impossibile, ho avuto altre esperienze con musicisti disabili o gruppi integrati. Ho iniziato a confrontarmi con  questi progetti nel 1992 in Francia,da allora ne ho fatti davvero tanti;tutti belli e costruttivi, ne cito alcuni:
Progetto Sole-Napoli; Il Ritmo e i Suoni del Mondo-Macerata; I Sentieri delle Percussioni-San Claudio Corridonia; Attività con i bambini del Sharawi- Porto Sant’Elpidio e Macerata;
Come potete ascoltare dai CD l’obbiettivo è stato raggiunto e come per ogni attività umana
si cerca sempre di migliorare.

Le persone, il pubblico
Vorrei che pubblico arrivasse buona musica e forti emozioni.
Di solito i nostri concerti sono di forte impatto emotivo, perché il pubblico percepisce il grande lavoro che abbiamo fatto.
Le persone iniziano a cambiare atteggiamento nei confronti dei disabili: non più “che bravi poveretti”ma persone che esprimono valore. E anch’io nell’ascoltare esibizioni di altri gruppi misti disabili e non ho un impatto emotivo di grande gioia per il lavoro e gli sforzi che hanno fatto per raggiungere quei risultati insieme.
Ho anche notato che queste sperienze hanno modificato in qualche misura le dinamiche interne al gruppo producendo un clima di grande solidarietà. 

2. Il musicista del silenzio

Intervista a cura di Giovanna Di Pasquale e Emanuela Marasca

Intervista a Christian Guyot, percussionista e insegnante, animatore di un atelier musicale per persone con disabiltà uditive a Parigi (c.guyotmusique@orange.fr ;c.guyotmusique@wanadoo.fr)

Sono nato in Marocco, che sia venuto da  lì l’amore per le percussioni?
Ci sono vissuto solo per un dozzina d’anni prima di venire in Francia, ho scoperto la musica verso i quindici anni con la pop music, Jimmy Hemdrix, ecc..poi un giorno verso i venti anni ho lasciato gli studi per dedicarmi seriamente alle percussioni. I miei prodigiosi maestri: James Grangereau (varietà), Kenny Clarke (jazz), Raymond Chazal (tamburo), Sylvio Gualda (classica) e Miguel Fiannaca (afro-cubana). In seguito ho lavorato all’Università di musicologia Paris 8, e dopo una dozzina d’anni di “apprendistato” ho ottenuto due primi premi come percussionista,  la laurea della Fondazione di Francia, il diploma in musicologia, il diploma internazionale in percussioni al Centro Acanthe…tutti questi percorsi mi hanno permesso di ascoltare altri musicisti, di imparare prima di tutto la musica e di arricchirmi al livello dell’ascolto. E’ stato un percorso impegnativo e di lunga durata, che ha richiesto molta pazienza …e non è certo finito!
Dopo tutti questi anni di esperienze professionali la musica mi ha permesso di migliorare il linguaggio orale e l’ascolto degli altri. Io ho cominciato esattamente nel 1969, ed eccomi adesso quarant’anni dopo! Si continua ad evolvere perché non si ha mai finito di apprendere!
Con una sordità profonda si può arrivare a fare musica? E la musica che cosa è? E’ l’arte dei suoni. Nella vita professionale la scelta di essere percussionista  è molto difficile soprattutto quando si tratta di stare in mezzo agli altri, non ci si può mostrare sordi.
Suonare in un orchestra è un’esperienza che non è sempre facile, per esempio suonare le parti dei timbali nei “Carmina Burana” di Carl Orff è stato un ruolo molto importante  ma anche un’esperienza indimenticabile. Lo stesso per altre esecuzioni con orchestre molto diverse.
La musica è un linguaggio universale. Qualunque sia la disabilità, la religione, la razza delle persone si può sempre arrivare a creare un linguaggio musicale, teatrale, ritmico. Si possono usare giochi musicale, con oggetti concreti, colori, grafismi, quadri di pittori contemporanei, moderni, classici. Il fine è di creare un opera o un insieme, la cosa più importante + però il piacere di suonare, il piacere di essere insieme.
Nel 1987 ho aperto un atelier di percussioni per persone sorde o con disabilità uditive in un conservatorio nella città di Sursnes, poi qualche anno dopo presso la Schola Cantorum a Parigi.
Abbiamo una pedagogia molto diversa dagli altri conservatori. Lo scopo di questo atelier è di imparare ad ascoltare i suoni attraverso dei giochi musicali, degli ensemble, il teatro musicale..fino allo sbocciare completo di tutte le persone.
Il pubblico, che cosa è? Persone venute per ascoltare e scoprire il mio vissuto attraverso la mia musica, io trasmetto tutti i giorni le emozioni al pubblico con la musica come succede anche attualmente nel mio recital di percussioni dal titolo “Christian Guyot,  il musicista del silenzio”.

1. Introduzione

Di Giovanna Di Pasquale e Emanuela Marasca

Come può alcune volte accadere, nell’approfondire il tema di questa monografia, il binomio musica e disabilità, siamo partite da ciò che con chiarezza non volevamo fare più che da certezze ed indicazioni sicure su cosa cercare ed ottenere. Non abbiamo voluto affrontare cioè la questione dal punto di vista delle finalità educative e riabilitative che la musica può svolgere, in particolare nei confronti delle persone, giovani o adulti, che vivono con una disabilità o in condizioni di difficoltà specifiche.
Ci ha interessato, invece, mettere al centro di questo lavoro il  fare musica, le esperienze musicali che  hanno come nucleo forte la ricerca di significati espressivi ed artistici, le persone disabili che suonano per passione ed interesse, a volte per professione.
Nostro desiderio è stato quello di fare emergere esperienze che partono da un credere collettivo in questa forma potente ed ancestrale dell’esistenza e attivano una serie di capacità per creare e dare possibilità alle persone di dire di sè attraverso quest’arte, ognuna secondo modi e stili specifici. Desiderio, quindi, di conoscere musicisti o gruppi che riescono a esprimere un proprio modo  di stare in quella casa comune che è la musica. 

Le domande
E’ stato un impegno di grande coinvolgimento anche emotivo, che ci ha dato la possibilità di conoscere e documentarci su esperienze, iniziative e progetti che da un territorio a noi vicino si aprono verso il mondo e dialogano con il tempo. Artisti, musicisti singoli o gruppi musicali, professionisti o semplicemente persone che con la loro dote di creatività sono riusciti a far emergere attraverso lo strumento, la voce, il corpo, una semplice melodia o una complicata sinfonia, un concerto o solamente una canzone, un ritmo cadenzato o incalzante. Sono riusciti a lasciare un segno di sé.
Il percorso di realizzazione di questo nostro lavoro è iniziato da una molteplicità di domande, che si sono riproposte in più fasi e che hanno di fatto orientato la direzione, fornendo ulterori stimoli all’esplorazione del terreno su cui ci siamo mosse.
La musica richiede studio, passione, conoscenze, competenze, coinvolgimento, uso di tecniche specifiche e strumenti.
Tutto questo cosa attiva, diventa, come si trasforma quando chi fa musica ha una disabilità?
Quanto conta il risultato/prodotto (ciò che si ascolta) e quanto invece il percorso (ciò che si sperimenta)?
Cosa significa per una persona disabile stare sul palco?
Che “messaggio” manda con la sua musica, con il suo corpo, con le sue tecniche? Qual è il messaggio che viene recepito dal pubblico?
Che immagine la persona disabile vuole passare? Che immagine arriva ? 

Le risposte?
Forse alcune risposte le abbiamo anche ottenute o comunque ci portiamo a casa alcune convinzioni.
C’è una dimensione ambigua molto forte che marchia il rapporto tra la musica e la disabilità, ambiguità che non esaurisce quindi i termini di questo collegamento in una sola possibilità ma la amplifica verso direzioni diverse. D’altra parte l’ambiguità può essere una risorsa preziosa per avvicinarsi  alle situazioni tentando una comprensione che possa anche consentire di portarle un po’ con sé.
Per molti aspetti la musica è il campo delle espressioni con più contrasti e diversità al suo interno, diversità che non sono solo stilistiche ma fondanti, riguardano il senso, la funzione, la struttura  stessa della musica
Per questo potremmo aspettarci che l’ambito musicale sia capace di un’“accoglienza” naturale rispetto a chi vi si avvicina a  partire da una condizione di disabilità cioè anche di diversità. E in parte questo accade ed è accaduto, anche se nessuno meccanismo è dato ma questo forse ha anche a che fare con la difficoltà di trovare oggi le “perle nascoste” nella compatta ed omogene offerta di musica da grandi numeri…
Molti musicisti hanno avuto modo di riconoscersi la possibilità di un talento (se non di vero e proprio genio) e di essere riconosciuti come tali. E questo riconoscimento è avvenuto sotto il segno della musica e non del deficit. Come ben esemplificano le parole di Evelyn Glennie, percussionista di fama,“io spero che il pubblico sarà stimolato da quello che dico attraverso il linguaggio della musica e che lasci la sala del concerto col sentimento di essersi piacevolmente divertito. Se il pubblico invece continua a chiedersi soltanto come una musicista sorda possa suonare le percussioni, allora avrei fallito come musicista. Per questa ragione la mia sordità non è menzionata in nessuna delle informazioni fornite dal mio ufficio stampa o dai promotori dei concerti” .
Dentro questo meccanismo gioca un ruolo determinante l’assenza di riferimenti diretti alla propria vita che tende a sfuocare o a mettere addirittura fuori dal quadro visibile la convivenza quotidiana con la disabilità che c’è e contemporaneamente non c’entra, pur essendo uno dei motori del processo creativo perché dato non negabile della storia personale. Come dire, ognuno certo fa musica come sa ma anche per ciò che è.
C’è nelle storie che presentiamo un grande voglia di appartenenza a bisogni comuni, suonare, divertirsi e fare divertire, provare e dare piacere, stare insieme nella forma di comunicazione profonda che la musica può essere. C’è la forza di chi si ritrova a fare musica con lo stesso intento degli altri accettando l’invito: “balla, balla e tiene il tempo, piede che batte con lo stesso intento, dare suono e calore intenso..”
E ci sono le singolarità e i modi con cui le persone pensano  e vivono la propria disabilità nel proprio essere musicista: con pochi accenni o con ironia pensosa, mettendola al centro di una rivendicazione più ampia, con altre sfumature che in parte ritroverete nei contributi di questo numero.
Essere a pieno titolo in una comunità di musica, accettando il confronto-incontro sul livello delle capacità; esserci anche con il bagaglio di cui si dispone: è il doppio binario che queste storie percorrono. Non in modo esclusivo ma certo con una dose di determinazione e spinta che non si fa dimenticare. Determinazione, energia e forza, caratteristiche queste che ci hanno portato a scegliere come titolo di questa monografia le parole centrali di una frase che, in chiusura, vogliamo riportare per intero
“Né la neve, né la pioggia, non il caldo e neanche il buio della notte potranno tenere lontano questi corrieri dal veloce completamento dei giri stabiliti”: come gli antichi corrieri dell’impero persiano a cui la frase si riferisce anche i musicisti che trovano spazio in queste pagine e molti altri ancora non sono stati e non potranno essere tenuti lontani dalle loro musiche