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autore: Autore: a cura di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

8. Un tassello accanto all’altro

Pensieri e riflessioni emersi direttamente dal  focus-group con i Coordinatori del Servizio di Assistenza Domiciliare delle cooperative che gestiscono il servizio.

La specificità di un servizio

C’è un aspetto che mi ha lasciato un po’ di perplessità nell’intervista fatta ai vari referenti dell’Azienda USL ed è legato al fatto che emerge una visione complessiva che, se da un lato rende conto della complessità della pluralità di servizi presenti, dall’altro fa perdere di vista la specificità di questo servizio territoriale.
Anche alla domanda “Se il servizio non ci fosse più che cosa succederebbe?” la risposta sembra più legata ai servizi che in generale l’Azienda USL eroga, quindi tutti i servizi. Questo mi rinforza nell’idea che ci sia bisogno di questo lavoro il cui intento è quello di dare visibilità a questa tipologia di servizio sul territorio perché, a parte le famiglie che vi usufruiscono, sembra quasi che la conoscenza sia legata agli stretti atti amministrativi che autorizzano il servizio, ma “il cosa c’è dietro” lo sanno in pochi.
È difficile entrare in merito del servizio di assistenza domiciliare (che comprende interventi di tipo assistenziale ed educativo), parlare delle problematiche di questo servizio e non in generale dei servizi relativi alla presa in carico di una persona con disabilità che hanno caratteristiche molto differenti (ad esempio i centri diurni, le case famiglie…) e che sono in un certo senso più visibili.
Da parte delle famiglie c’è invece un racconto preciso del servizio di assistenza domiciliare, come si svolge, cosa si fa.
È un servizio invisibile e mi accorgo della difficoltà con i nostri referenti pubblici a evidenziare l’incisività di questi interventi che invece incisivi lo sono.
Ne esce un quadro generale della situazione, anche le assistenti sociali hanno in mente tutta la globalità dei servizi e fatica a emergere la specificità; invece le voci degli operatori e dei familiari hanno ben presente qual è il servizio e quali sono le problematicità, i cambiamenti che il servizio può subire (da educativo ad assistenziale). Soprattutto le famiglie toccano con mano il servizio, sanno di cosa si tratta, indicano spesso con chiarezza il loro bisogni (ad esempio l’assistenza anche nei giorni festivi) e sono consapevoli del sollievo che questo servizio porta anche a loro.
Sicuramente gli operatori e la famiglia sono gli attori principali del servizio di assistenza domiciliare, è molto normale per loro entrare nello specifico del servizio. Le assistente sociali vedono l’utente all’interno del quadro complessivo dei servizi che quella persona riceve o potrebbe ricevere.
Questo servizio ha una sua parte di avvio quando l’assistente sociale incontra la famiglia e l’utente poi mi sembra che per i referenti Azienda USL esso si perda un po’ nel silenzio, se non per le parti che si possono percepire come problematiche.

La persona giusta nel posto giusto
Un aspetto delicato è che gli operatori dovrebbero essere ad hoc: uomo o donna, alta, grosso, con la macchina o no, giovane o più anziano, possibilmente non extracomunitario (questo fatto spesso viene visto come una penalizzazione). Deve avere determinate caratteristiche che sono legate alle esigenze della persona che riceve il servizio e della sua famiglia; l’assistente sociale appoggia le richieste delle famiglie, spesso è in balia di queste richieste e per non avere problemi nel futuro si cerca di accontentare il più possibile le richieste della famiglia.
Spesso il nostro compito è quello di trovare un compromesso, un equilibrio tra le richieste della famiglia e le tutele degli operatori anche tenendo conto del quadro normativo di riferimento, ad esempio la legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.
È la famiglia a dettare le caratteristiche dell’operatore ideale ma è anche il tipo di intervento educativo che determina la necessità di avere una figura con determinate caratteristiche.
Occorre fare un distinguo fra interventi educativi e interventi assistenziali.
Il confine fra le richieste di tipo educativo e assistenziale è sempre più fumoso; ci sono interventi che necessiterebbero di un intervento educativo dove per varie ragioni viene invece attivato altro.
Uno dei problemi è che spesso si pretende che un operatore socio-sanitario abbia le caratteristiche di un educatore. Gli obiettivi delle due figure professionali non sono però gli stessi; l’operatore socio-sanitario deve dare risposta ai bisogni primari delle persone e questo può significare anche accettare che ci sia una diversificazione delle persone che soddisfano questi bisogni e un livello di studi più contenuto; mentre per un intervento di tipo educativo è maggiormente coerente garantire una competenza alta e la continuità per la figura che interviene.

Il nostro? Un ruolo di mediazione
Il rapporto con il servizio pubblico è spesso difficoltoso nella fase di attivazione degli interventi che possono risultare estremamente frammentati. Per quanto riguarda gli interventi assistenziali facciamo fatica ad avere una periodicità degli incontri di valutazione e confronto sull’andamento, dato che si ritiene più semplice questo tipo di intervento rispetto ad altri, a meno che non succeda una crisi, un’emergenza; mentre per gli interventi educativi questo confronto è maggiormente cadenzato nel tempo.
Nelle interviste vengono fuori gli elementi che caratterizzano gli interventi domiciliari: la differente possibilità di spendere risorse, le difficoltà di interagire con i vari servizi, di lavorare in équipe. Per il nostro ruolo noi ci troviamo a gestire queste difficoltà e a rielaborarle all’interno delle nostre cooperative spesso in solitudine, ma soprattutto in un confronto con le famiglie che può essere, quando va bene tranquillo, quando va male anche molto duro.
I referenti dell’Azienda USL dicono che le risorse non sono usate in maniera sufficientemente equa in tutto il territorio, che ci sono utenti che hanno più servizi e quelli che ne hanno meno, e dicendo questo ci dicono tanto. Sarebbe bene che riflettessero un po’ di più su questo perché noi che lavoriamo su più territori vediamo come l’interpretazione del bisogno ha delle risposte diversificate, ad esempio per quanto riguarda l’accompagnamento nel tempo libero. È come se ci fosse un’ampia possibilità di definire in modo diverso di volta in volta le scale delle priorità.
Gli utenti spesso hanno dei piani di intervento incoerenti che vengono messi in discussione dopo l’attivazione, forse per un automatismo forte che ci può essere nella presa in carico, che spesso si concentra sulle domande “Si trova l’operatore?”, “Quando si parte?”, piuttosto che “Come si parte?”. Il “come” a noi interessa moltissimo.
Durante la prima visita all’utente, al di là delle informazioni che troviamo sulla scheda di attivazione, ecco che c’è un mondo da scoprire e spesso abbiamo davanti situazioni difficili e dure fino ai casi limite dove l’assistenza che era stata pensata non è possibile.
Il lavoro che facciamo con le famiglie è quello di tener conto che gli operatori non sono dei volontari ma figure motivate che hanno il diritto di svolgere il proprio lavoro in determinate condizioni. Questo può creare contrasto perché, ad esempio, noi tendiamo a proporre una rotazione delle persone per evitare affaticamenti e da parte della famiglia e della persona disabile ci sarebbe bisogno di continuità, di un componente sano nel nucleo familiare che tante volte è logorato e affaticato.
Noi dobbiamo continuamente tenere d’occhio gli operatori e le famiglie per rimandare loro l’idea che questo è un servizio, e questo comporta che si possa arrivare in situazioni di collisione che ci fanno far fatica. Quindi il naturale procedere del servizio è sostenuto da un impegno per mantenere insieme visioni diverse che è per noi molto impegnativo; è un procedere che necessita costantemente di fare il punto. Questa verifica con i referenti dell’Azienda USL non riesce a esserci tutte le volte che occorrerebbe, per cui noi coordinatori ci troviamo quando ci sono gli incontri di verifica a fare una lunga carrellata sui casi, su come le situazioni evolvono.
Gli operatori scontano il fatto di lavorare con persone in situazione di cronicità e non cambiamento, li porta ad avere degli scompensi, nelle interviste dicono continuamente di aver bisogno di un confronto e di un supporto e anche di avere maggior informazioni. Anche perché spesso sono loro a portare a noi informazioni più precise e dirette di quel contesto.

Per una presa in carico comune
Da una parte abbiamo referenti Azienda USL che non sono tanto consapevoli di questo servizio, dall’altra anche noi potremmo spingere di più quando ci rendiamo conto che in una determinata situazione non ci sono le condizioni per attuare un servizio domiciliare. Noi facciamo fatica a dire “Guarda che per come è strutturato quel servizio lì non serve”, soprattutto quando ormai c’è stato un accordo tra assistente sociale e famiglia e quando da parte di quest’ultima ci sono aspettative.
Anche da parte dei responsabili dell’Azienda USL comincia a delinearsi la convinzione che si potrebbe cominciare a lavorare per una presa in carico comune, che sarebbe davvero un grande passo avanti.
Noi ci troviamo a gestire un servizio che viene strutturato da qualcun altro e interveniamo in un quadro dove tutto è stato definito, e quando portiamo a conoscenza tutte le difficoltà che ci sono nel portare avanti il servizio inizia la contrattazione sia con le assistenti sociali che con la famiglia per vedere se è possibile migliorare.
Da quando siamo partiti dei passi avanti ce ne sono stati e dei riconoscimenti ci sono stati, per cui in virtù di questo noi oggi abbiamo un po’ più di margine per poter dire la nostra rispetto al passato. Anche in forza del fatto che le cooperative riescono a essere un soggetto unico attraverso la costituzione dell’ATI (Associazione Temporanea di Impresa) e possono fare fronte in modo compatto.
La presa in carico comune permette di rispondere meglio alle richieste, anche a quelle più frammentate o legate a situazioni di emergenza. Non si tratterebbe più di prendere un “pacchetto” chiuso da gestire ma di costruire insieme un pacchetto che tenga conto delle esigenze delle famiglie attraverso una lettura comune di queste esigenze.

BOX INFORMATIVO
Le Cooperative gestori dei servizi territoriali
Cooperativa sociale CADIAI
Via Boldrini 8 – 40121 Bologna
Tel. 051/741.90.01 
Fax 051/745.72.88
www.cadiai.it
info@cadiai.itResponsabile del servizio: Andrea Veronesi (a.veronesi@cadiai.it)

Cooperativa Sociale Società DOLCE
Via Cristina da Pizzano 5 – 40133 Bologna
Tel. 051/644.12.11
Fax 051/644.12.12
www.societadolce.it
info@societadolce.it
Responsabile del servizio: Antonella Caruso carusoa@societadolce.it 

EPTA Lavoro sociale
Via Paolo Nanni Costa 12/4a – 40133 Bologna
Tel. 051/38.87.60
info@epta.coop
Responsabile del servizio: Patrizia Stancanelli p.stancanelli@epta.coop

Cooperativa sociale A.D.A. (Assistenza Domiciliare Anziani) scarl.
Via Lame 116/ – 40122 Bologna
Tel. 051/52.00.95
Fax 051/52.23.12
Responsabile del servizio: Rosa De Gregorio rosa.degregorio@coopada.it

Cooperativa Accaparlante
Via Legnano 2 – 40132 Bologna
Tel. 051/641.50.05
Fax 051/641.50.55
www.accaparlante.it
coop@accaparlante.it

Responsabile del servizio: Luca Baldassarre luca@accaparlante.it

7. La realtà e i modelli: per un servizio che ascolta e dialoga

Intervista a Mara Grigoli, responsabile ArOA USSI Disabili Adulti del Distretto di Bologna, Azienda USL Bologna

Il modello organizzativo
Organizzazione
Il Servizio per i Disabili Adulti è all’interno del Distretto città di Bologna. Il Direttore del servizio è in staff con la direzione del distretto.
L’USSI (Unità SocioSanitaria Integrata) è presente nei poliambulatori della città con tre sedi, che si interfacciano con tutti i quartieri. C’è la possibilità di ulteriori punti di accoglienza sul territorio, per agevolare gli utenti con particolari difficoltà negli spostamenti .
Oltre al direttore e all’ArOA (Area Omogenea Assistenziale), il servizio ha un coordinatore e due amministrative.
Il numero complessivo degli utenti in carico alle quattro unità dell’Azienda è intorno a 1500.

Compito responsabile ArOA
Il compito dell’ArOA, figura di recente istituzione nella ASL, è quello di affiancare il Direttore dell’unità operativa e il responsabile SATeR (Servizio Assistenziale Tecnico e della Riabilitazione), nel governo dell’attività delle sedi territoriali, in termini di gestione del personale, di gestione delle risorse e di contenuti funzionali in modo che il servizio possa dare risposta al mandato istituzionale di cura e assistenza alle persone disabili.

Le sedi territoriali
Il Servizio è organizzato in équipe formate da assistenti sociali ed educatori, in cui è presente un coordinatore. Le assistenti sociali si occupano dell’area socio-assistenziale (assistenza domiciliare, contributi economici, strutture residenziali, segretariato sociale, ecc.), mentre gli educatori si occupano sia dell’area socio-educativa organizzando e gestendo gli interventi di socializzazione e tempo libero (interventi educativi individuali e di gruppo, attività sportive, laboratori e verifiche nei centri semiresidenziali) sia dell’area occupazionale (interventi propedeutici e di transizione lavorativa, mediazione e verifica dell’inserimento lavorativo e degli inserimenti in laboratori occupazionali, ecc).
Le assistenti sociali si occupano inoltre dell’accoglienza e istruttoria della presa in carico, che verrà sancita in una delle riunioni dell’équipe, alla presenza anche di un medico e all’occorrenza di uno psichiatra. In équipe si formula un primo progetto d’intervento con la costituzione di una mini-équipe sul caso, che ha il compito di formulare un progetto specifico e mirato, che verrà condiviso con l’utente e valutato periodicamente. Su ogni caso viene individuato il responsabile del caso, che generalmente è l’operatore che ha la parte preponderante dell’intervento e che ha il compito di tenere le fila degli interventi.

Filosofia del servizio
Un unico servizio cittadino
Il servizio risente ancora della recente unificazione ASL, che ha significato andare da quattro équipe territoriali che facevano capo a due diversi Distretti cittadini con autonomia organizzativa e di funzionamento, a un unico servizio cittadino che deve fornire in modo omogeneo su tutta la città i propri interventi secondo il principio dell’equità di accesso e risposta socio-assistenziale.
Da questo punto di vista alcuni protocolli e procedure sono molto chiari, si tratta di fare il passo in termini di progettualità, pensare a progetti trasversali alla città, realizzabili nei singoli territori ma pensati al livello centralizzato. 

Unità di valutazione multidimensionale
Come previsto dal Piano Sociale e Sanitario Regionale 2008-2010, il servizio va oggi verso la costituzione della UVM (Unità di Valutazione Multidimensionale), individuandone i componenti e stabilendone i compiti.
Per quanto concerne Bologna ci si sta orientando verso l’ampliamento dell’attuale équipe territoriale con la presenza, almeno una volta al mese, di altri professionisti (profili sanitari e sociali) con il compito di stabilire la presa in carico e formulare il primo progetto assistenziale o educativo.

Il supporto agli operatori
Ci siamo sempre adoperati sul versante del supporto agli operatori che lavorano nel servizio facendo in modo che i problemi riscontrati dagli operatori potessero essere presi in considerazione individuando dei percorsi per superarli, una risposta in termini formativi che aiutasse gli operatori a stare meglio nel servizio.
In questo momento è in atto una riorganizzazione aziendale che coinvolge il nostro servizio su più piani: il Distretto non gestirà più servizi, ma valorizzerà la propria funzione sia di interlocutore dei bisogni dei cittadini sia di garante di una risposta adeguata. La maggior parte dei servizi territoriali oggi gestiti nel distretto confluirà nel Dipartimento di Cure Primarie.

Per un coinvolgimento elevato degli utenti e delle famiglie
L’assistente sociale incontra la persona disabile e la sua famiglia e presenta all’équipe la situazione per come è stata letta, in modo da poter condividere con il resto dell’équipe un progetto possibile e anche il coinvolgimento di operatori di aree diverse. L’équipe dovrebbe essere il momento di ricomposizione del progetto sull’utente in carico.
In questo momento ci sono ancora delle diversità territoriali, per cui ciò avviene in maniera più fluida in alcune aree della città. Esistono ancora, per storia delle singole équipe, stili diversi con minore e maggiore flessibilità nella presa in carico dell’utente.
La direzione verso cui si vuole andare è la valorizzazione del progetto, per fasi da verificare strada facendo. Il coinvolgimento dell’utente in tutto questo dovrebbe essere elevato. Utente e famiglia devono essere informati e resi partecipi del progetto, così come ascoltati nel caso segnalino un dissenso o un disagio rispetto a quanto pianificato. Uso il condizionale perché questi sono dei presupposti professionali e anche formativi rispetto ai profili di assistente sociale ed educatore, poi c’è un “fare” quotidiano che a volte è schiacciante rispetto ai tempi necessari per costruire un progetto ponderato e vagliato in tutte le sue parti e componenti.
Se un’assistente sociale o un educatore hanno in carico un numero elevato (anche 100 persone) di persone disabili (che significa il nucleo familiare) nella pratica ciò si traduce nella necessità di sostenere le famiglie nei lori bisogni espressi in maniera molto chiara.
Ci sono casi che fanno lavorare moltissimo, per cui le équipe sono molto sbilanciate su questi casi; invece sarebbe importante riuscire a occuparsi in modo preventivo anche di situazioni meno critiche proprio per prevenire che si trasformino in vere emergenze.
Ritengo che questo non sia facile, bisogna ripensare al servizio e capire come spostare l’attenzione sul versante di chi, in qualche modo, è stabile per prevenire l’insorgere di situazioni problematiche. Non so se ci si arriverà mai, però è un cambio di paradigma.
Non è un problema solo del nostro servizio ma anche di altri. 

Supportare l’adultità
La Regione Emilia-Romagna parla prevalentemente di grave e gravissima disabilità, portando questa logica nella filosofia dei servizi come il nostro.
Probabilmente, anche dal punto di vista del pensiero, si è sbilanciati sulla grave e gravissima disabilità a cui è collegato l’ambito dei diritti: di cura, di salute, di assistenza, di benessere. In questo approccio si perde un po’ il concetto di adultità, col rischio di ridurre la persona al suo deficit. Noi lavoriamo anche con persone con disabilità medio-lievi, per cui riteniamo che il servizio debba investire per mantenere un’autonomia e una dignità più alta possibile della persona.
Com’è ovvio, investire sulle persone più giovani significa lavorare sul mantenimento delle capacità che il disabile ha, e quindi accrescere il livello della qualità della vita della persona e arrivare al ricovero in struttura molto più tardi negli anni. Recentemente la Regione Emilia-Romagna ha emanato delle linee guida rispetto alla costruzione del Piano di Benessere della Salute dove tra le priorità sull’area disabilità si parla in qualche modo della messa in discussione, della rielaborazione, del ripensamento dello strumento della borsa lavoro, nell’ottica di favorire un inserimento lavorativo delle persone con disabilità. 

Il servizio SAD (Servizio Assistenza Domiciliare)
Avvio e accoglienza
Il momento dell’avvio è quello più seguito, è un accompagnamento alla conoscenza delle problematiche dell’utente, che significa andare a definire i modi e i tempi dell’intervento. Quando quell’intervento parte, molto probabilmente “va con le proprie gambe”, e se va con le proprie gambe la periodicità delle verifiche può essere diluita nel tempo.
La cosa ottimale sarebbe riuscire a programmare nei tempi e nei modi possibili le verifiche senza aspettare che i problemi scoppino. Ovviamente c’é chi riesce a farlo puntualmente, chi invece riesce a farlo su alcuni utenti e meno su altri…
Paradossalmente la fruizione di una rete di servizi per lo stesso utente facilita la valutazione del monitoraggio, la comprensione di come sta andando.

Punti forti e criticità
Sul piano organizzativo, dove ci sono degli interventi molto articolati e che richiedono partecipazioni di altri servizi scontiamo il fattore tempo: il tempo di contattare un altro servizio, di fare una richiesta, una valutazione; per questo a volte quando gli enti coinvolti sono più di uno non siamo tempestivi nelle risposte. Da un lato abbiamo visto che è vincente coinvolgere diversi servizi, che sono implicati rispetto a una situazione poiché si pone l’attenzione sulla problematicità di quel momento e si invita ciascuno a fare la propria parte. Questo risulta strategico perché aiuta a costruire quell’auspicata rete dei servizi che porta a soluzioni non ottenibili da un unico servizio, e a stabilizzare le situazioni famigliari. Tutto questo comporta dei tempi più lunghi nell’erogazione del servizio con il vantaggio di una tenuta maggiore dello stesso.
Alcune consulenze che chiediamo ad altri servizi hanno bisogno di tempi: si sa, l’ente pubblico è una macchina lenta. Altro elemento importante sta nel come gli operatori si rapportano verso l’esterno: ci sono quelli più orientati a lavorare in una logica di rete, quindi a coinvolgere il più possibile i soggetti che in qualche maniera hanno a che fare con quell’utente, e ci sono quelli abituati a confrontarsi singolarmente, in un’ottica più duale (nel meccanismo a domanda risposta). Ovviamente questi due modelli di riferimento diversi sono presenti entrambi. 

La compartecipazione alla progettazione del servizio
Andare a rilevare il bisogno non è facile, poiché si deve entrare nella vita privata delle persone e delle famiglie come non lo è capire quale sia la soluzione da adottare.
Un altro elemento di difficoltà è tenere insieme la risposta adeguata al bisogno col contenimento della spesa. Molto probabilmente il momento in cui viene chiamato in causa il referente della cooperativa (il soggetto attuatore vincitore della gara d’appalto) è già un momento dove alcune cose con la famiglia si sono decise; in altri casi bisogna convincere la famiglia ad accettare un intervento che viene vissuto come invasivo.
Questa operazione viene svolta dall’assistente sociale informando e negoziando col nucleo la risposta ai bisogni che ha visto o che le sono stati presentati. Successivamente viene interpellato il referente della cooperativa che può proporre alcune modifiche, a patto che queste vengano sostanziate da motivazioni forti (ad esempio di carattere organizzativo, legate alle caratteristiche rispetto all’ambiente domestico in cui viene fatto l’intervento).
Altro snodo fondamentale è ottenere l’autorizzazione economica all’intervento: sia per la tempestività della risposta che per la presenza delle risorse necessarie. L’iter prevede la predisposizione del progetto (sopralluogo presso la famiglia, rilevazione del bisogno, coinvolgimento del tecnico di riferimento della cooperativa o del soggetto attuatore) completo dell’indicazione dei tempi e modi di svolgimento dell’intervento nonché del preventivo di spesa relativo. Rispetto a questo gli operatori, nella prassi, agiscono in modo differente: qualcuno azzarda un contatto informale con la cooperativa prima di avere l’autorizzazione a procedere. Qualcun altro invece, per accelerare i tempi, presenta un progetto standard salvo trovarsi in difficoltà nel momento della gestione, visto l’impossibilità di adattare la spesa autorizzata al reale bisogno effettivamente riscontrato. Tendenzialmente di solito si creano le giuste sinergie tra la famiglia, il servizio e la cooperativa che gestisce per trovare le soluzioni più idonee e superare le difficoltà.

Il benessere degli utenti
Io rappresento un punto di osservazione un po’ critico rispetto a questo tema, nel senso che a me arrivano le questioni più controverse e problematiche, quelle dove per qualche ragione c’è uno scontento nei confronti del servizio, di quello che il servizio ha fatto o di come lo fa, di quello che può dare o meno; però se penso alle 1500 persone che abbiamo in carico mi viene da dire che poi non ne incontro così tante di situazioni veramente esasperate. Tutto sommato il servizio riesce a venire incontro ai bisogni dei nuclei famigliari con disabili; probabilmente in alcune situazioni con soddisfazione delle famiglie, in altre c’è un accontentarsi di quello che si riesce ad erogare. È difficile andare a misurare il benessere perché significa entrare dentro a parametri legati non solo al servizio e ai suoi operatori ma anche alla percezione del nucleo familiare. Ad esempio, la rappresentazione del “benessere”, è molto diversificata e sono molti i livelli. Per alcune famiglie il benessere è “mi faccio carico del disabile con tutto l’affetto e l’amore di cui sono capace e con quello che posso mettere come famiglia” e chiedo al servizio di darmi quel pezzo di cui sono carente, perché sono in difficoltà, faccio fatica, perché non ho risorse, perché ho proprio bisogno di avere una risposta rispetto a temi come il tempo libero, l’andare al lavoro, l’assistenza domiciliare.
Ci sono, invece, altri nuclei familiari che sono in una situazione di ambivalenza rispetto al congiunto disabile; per tante ragioni non ce la fanno più quindi sarebbero anche favorevoli a un allontanamento dalla famiglia. Il servizio può essere d’aiuto a trovare delle modalità che possano consentire invece una permanenza del disabile presso quel nucleo supportandolo in modo che la situazione non sia così pesante. Ci sono nuclei che hanno un’idea del bisogno come “tutto mi è dovuto”: mi è dovuta la riabilitazione, l’azione di cura, l’aromaterapia, ecc… e inseriscono tutto questo in una domanda al servizio pubblico; è ovvio che rispetto a questo concetto di benessere l’ente pubblico non darà mai risposte sufficienti.
Probabilmente ci sono nuclei che si limitano nelle richieste, come quelli che richiedono in eccesso rispetto a quello che il servizio può dare. L’equilibrio forse sta nel mezzo: il servizio offre il supporto che riesce e le famiglie ci mettono del proprio. Su 1500 utenti in carico, la maggioranza sta in questo cuore centrale. Ci sono situazioni estreme: alcuni non si sono mai rivolti al servizio o magari lo hanno fatto quando il disabile è diventato anziano, mentre avrebbero potuto usufruire di tutta una serie di aiuti che potevano garantire un maggiore benessere a loro stessi oltre che al disabile.

Fare a meno del servizio?
Assolutamente no. Il bisogno reale è molto più variegato e articolato rispetto a quanto il servizio è in grado di rispondere. Non si tratta quindi solo di una questione meramente economica, ma anche di ripensare la filosofia stessa del servizio nella sua capacità di fornire risposte a questa tipologia di bisogno. Se mi viene richiesto un servizio di assistenza domiciliare per alzarsi al mattino e un supporto psicologico per affrontare una situazione traumatica, nella maggioranza dei casi sono in grado di rispondere solo al primo, poiché rispondente maggiormente al nostro mandato istituzionale. L’ente pubblico ha dei parametri entro cui stare che sono di gestione di denaro pubblico e quindi può arrivare solo fino a un certo tetto di risposta. Siamo fortunati perché c’è il fondo per la non-autosufficienza che ha consentito al servizio USSI di affrancarsi da una posizione deficitaria a una posizione dignitosa nel dare risposta ai bisogni, espressi dalle famiglie e dagli utenti. Quindi l’auspicio è quello di riuscire a mantenere questa risposta dignitosa e di potersi permettere anche qualche progetto che vada incontro a quella domanda non evasa. Ma ci sarebbe da ragionare sul bisogno che resta inevaso: è davvero primario, o un bisogno secondario?  

BOX INFORMATIVO
Servizi dell’Unità SocioSanitaria Integrata (USSI)
Le attività che coinvolgono il Servizio dell’Unità Socio Sanitaria Integrata (USSI) sono riconducibili all’assistenza, alla riabilitazione e all’integrazione sociale delle persone con disabilità adulte del territorio dell’Azienda USL di Bologna.
Per garantire la loro piena attuazione e soprattutto risposte integrate, appropriate e maggiormente adeguate ai bisogni degli utenti, il Servizio collabora con le diverse istituzioni, associazioni, cooperative ed enti che si occupano di persone con disabilità.
Il Servizio elabora progetti e programmi personalizzati e diversificati in relazione ai bisogni dell’utente e della sua famiglia, alle situazioni d’emergenza/urgenza, al tipo di servizio da attivare e accompagna le famiglie nell’utilizzazione dei vari servizi.

Che tipo di prestazioni offre?
Il Servizio USSI mette a disposizione degli utenti attività in diverse aree:
– servizio sociale professionale, che consiste in un supporto alla persona e alla famiglia nei vari percorsi di accertamento dell’handicap e dell’invalidità, in quelli che riguardano la fruizione di prestazioni sanitarie e/o riabilitative, e altri;
– area socio-educativa e di integrazione sociale, elaborazione di progetti individuali o di gruppo per attività di tipo sportivo e di tempo libero, attività motorie e di animazione sociale, interventi educativi individuali e di gruppo;
– area di transizione al lavoro, che consiste nella realizzazione di progetti individuali, di formazione d orientamento al lavoro, sviluppati anche attraverso “borse lavoro” ed esperienze di transizione, attivati in collaborazione con l’ufficio “inserimento disabili” del Centro per l’impiego della Provincia di Bologna;
– area assistenziale, per la permanenza presso il domicilio attraverso l’attivazione di aiuti nell’abitazione relativamente alla cura della persona e aiuti per la vita di relazione;
– inserimento in strutture riabilitative, come Gruppi Appartamento, Centri Residenziali o Diurni.

A chi è rivolto il Servizio?
Si possono rivolgere all’USSI Disabili Adulti le persone con disabilità con un’età compresa tra i 18 e i 64 anni residenti nel territorio del Comune di Bologna.

Come si accede al Servizio?
Chi si rivolge per la prima volta al Servizio deve fissare un appuntamento presso il Polo di riferimento per il suo Quartiere di residenza. Solitamente la prima accoglienza è effettuata dall’assistente sociale referente per il territorio.

6. Il servizio di assistenza domiciliare: la voce degli operatori

Servizi, Fascino, Cura, Esperienza, Gratificazione, Sollievo, Alleviare, Missione, Indipendenza, Autonomia, Aiuto, Benessere, Identità, Crescita reciproca, Passione, Conoscenza: queste le parole che danno significato al lavoro.

Gli operatori seduti in cerchio ascoltano e raccontano, dal loro punto di vista, il servizio di assistenza domiciliare così necessario, prezioso e nascosto. Provano con una parola per ciascuno a definire il senso più forte del loro mestiere, si costruisce così una lista che tocca vari registri del lavoro.
In questo primo giro di parole troviamo una ricerca di significato rispetto all’agire quotidiano. Questa ricerca per alcuni va verso una definizione di obiettivi possibili per la persona disabile, destinatario primo dell’intervento – promozione di autonomia e indipendenza, aumento delle situazioni di benessere – mentre per altri si dilata a un’idea di aiuto più ampio che comprende l’intero contesto familiare verso cui si cerca di dare sollievo e di alleviare le fatiche.
Ancora, altre parole scelte (fascino, esperienza, gratificazione, crescita reciproca, passione, conoscenza) mettono in primo piano la centralità del concetto di cura educativa, una cura cioè che non è né esclusivamente tecnica né una teoria di cui impadronirsi, ma è una relazione, un atteggiamento personale e contemporaneamente un fare che si impara facendo. 

Quale idea di cura
Dalle parole degli educatori è possibile, quindi, entrare in modo più preciso dentro l’idea di cura che sostiene il loro ruolo e orienta le azioni nella quotidianità.
Sono parole che concretizzano alcuni dei significati che molti studiosi hanno privilegiato nel tentativo di dare una definizione che aiuti a comprendere cosa si può intendere per cura e lavoro di cura.
Un primo significato è riferito al fatto che la cura consiste in molteplici attività finalizzate a sostenere il benessere. Queste attività vengono agite non per il o sul soggetto interlocutore, ma con lui, nel suscitare la partecipazione attiva dell’azione di cura, verso un obiettivo di benessere condiviso.
Questa centralità della compartecipazione emerge con estrema consapevolezza nelle riflessioni proposte, dove l’idea di cura si lega a un lavoro di vicinanza e ascolto della persona, delle sue difficoltà ma soprattutto delle possibilità potenziali.

Ritornando al concetto del prendesi cura per me è molto importante l’ascolto, un ascolto partecipe, ascolto tutto quello che dice il ragazzo, aiuto il ragazzo a sviluppare le parti sane”.

“Prendersi cura degli utenti per me è cercare di guidarli verso una riscoperta delle parti buone, sane”.

“Bisogna rendere la persona consapevole più per le cose che riesce a fare rispetto a quelle che non riesce a fare, anche se è disabile non è detto che non abbia delle potenzialità, anche se sono diverse, o vengono nascoste, o non espresse e a volte la famiglia non aiuta”.

Il concetto di prendersi cura cambia da utente a utente. Per me prendersi cura degli utenti significa cercare di capire e sostenere quello che loro vogliono, a prescindere dalla famiglia, sostenere e filtrare le loro aspettative: un po’ come nella commedia dell’arte si cambia maschera a seconda della necessità”.

“Lavoro nel disagio mentale, per me prendersi cura della persona significa prendere in considerazione la persona globalmente e lavorare sulla disabilità per riuscire a reinserirla all’interno della società”.

L’ultima frase riporta come centrale un altro significato forte attribuibile alla cura; significato che si collega a quell’insieme di attività e attitudine che hanno a che fare con l’attenzione per il benessere di una o più persone dentro un contesto che ha sempre una ricaduta in termini sociali.
Il benessere individuale, infatti, è un bene sociale; l’incapacità di prendersi cura di se stessi genera sempre non solo ansia e fatica personale ma paura e insicurezza a livello collettivo.
In questo senso il ruolo educativo degli operatori ha, tra le sue funzioni principali, quella di sviluppare collegamenti e comunicazioni, l’operatore diventa mediatore fra la persona disabile e il mondo. Esemplari le parole di un partecipante al focus:

“Ho un’immagine pensando al caso che seguo, è quella di un estremo isolamento, intorno a loro, una sorta di barriera nei confronti di tutto, vedo la possibilità di farli uscire dall’isolamento, aprire la famiglia all’esterno. Mi ricordo questa immagine: entravo in casa e oltre a chiudere la porta chiudevano anche il cancello a chiave, poi si doveva fare lo sforzo di riaprire il cancello”.

I servizi di intervento domiciliare costruiscono il loro senso e la loro utilità proprio nel poter essere ponte fra gli ambiti di vita della persona disabile, ambiti troppe volte separati e non comunicanti. La capacità che gli operatori hanno risiede, appunto, nel riuscire a stare in equilibrio fra istanze diverse (famiglia, servizi, persona) per trovare lo specifico del proprio intervento che possiamo definire come un accompagnamento leggero e costante per aumentare le possibilità che la persona disabile sia riconosciuta, anche a livello sociale, per le sue parti adulte e capaci.
Inoltre gli interventi assistenziali o educativi si realizzano nelle relazioni, ma l’obiettivo non è far sì che il soggetto si affezioni o interessi all’operatore, bensì al mondo esterno.

“Cerco di aprirgli la strada, di fargli vedere che c’è un mondo, la relazione con i familiari per me è problematica”.

“Per me significa essere il filtro tra l’utente e la società, l’esterno. Prendersi cura dell’utente significa affacciarlo nel migliore modo possibile al mondo esterno affinché lui si possa sentire a suo agio e far avvicinare la società alla diversità”.

Il sostegno a un benessere possibile passa attraverso l’instaurarsi di una relazione che aiuti la persona disabile a entrare in rapporto con le sue potenzialità, a partire da ciò che è. 

“Cerco di lavorare per fare in modo che la persona con disabilità si veda non come malato ma come persona; la persona con disabilità vive sospesa tra la consapevolezza/peso della propria ‘malattia’ e la voglia/possibilità di liberarsi di questo ‘pre-concetto’.

Le possibilità di un cambiamento nascono da un atteggiamento educativo disponibile a entrare anche in punta di piedi nel mondo dell’altro, accettando in termini non valutativi la situazione personale e familiare che è il dato di partenza, spesso duro, con cui gli operatori si confrontano.

“Per me prendersi cura è accompagnare una persona che ha dei problemi, è stabilire una relazione”.

“Per me prendersi cura è una responsabilità, è entrare nel loro mondo, capire tutte le cose che loro fanno, come lo fanno”.

La pesantezza delle situazioni con cui ci si confronta fa sì che il senso della cura che si presta lo si ritrovi anche nelle possibilità di alleggerirne il peso, e questo chiama direttamente in causa il rapporto con la famiglia.

“Alleggerirli e cercare di distrarli, di distoglierli da tutti i problemi del quotidiano, dare questo sollievo anche alla famiglia; l’intervento è indirizzato sì all’utente ma anche alla famiglia”.

Così come tante volte viene affermato per i servizi alla prima infanzia, accogliere e lavorare con una persona disabile o in difficoltà significa confrontarsi costantemente con la famiglia d’origine, svolgendo spesso anche con quest’ultima un’azione importante di rassicurazione e confronto.

“Quando arriviamo noi siamo la valvola di sfogo per i genitori dell’utente che seguiamo (per esempio lo sfogo di un ausilio che non va bene), ascoltiamo entrambi, i genitori dell’utente e l’utente stesso. Alcune volte riusciamo a tranquillizzare i familiari, altre volte no”.

“Occorre sostenere il ruolo dei genitori in questo compito, nell’accettare un figlio disabile, e attivare anche nella famiglia le risorse utili per far sì che l’individuo possa crescere”.

È importante la comprensione che emerge dalle riflessioni degli operatori su come la relazione con la famiglia segna l’intervento che si sta mettendo in atto. La famiglia non è mai una variabile neutra e diventa risorsa che supporta il percorso o, spesso, elemento che giocando in difesa non è capace di attivarsi come presenza collaborativa.

Siamo comunque ancora davvero lontani da quell’idea di “essere insieme” per il soggetto disabile, di quell’alleanza fiduciosa che è alla base di una presa in carico condivisa e percepita da tutte le parti come utile e positiva.

“A volte può capitare che i genitori ti vedono come un aiuto per quelle ore in cui stai con il ragazzo, e così loro possono fare altre cose e dedicarsi ad altro; in altri casi invece il genitore stesso ti vede e sta lì, ti osserva sempre, controlla se stai facendo quello che lui vuole”. 

“Quando si lavora sul domiciliare si può provare a cambiare le abitudini che la famiglia usa cercando comunque di non invadere i loro spazi; purtroppo la ricettività da parte delle famiglie è spesso nulla nonostante il tentativo di incentivare a fare più uscite, o creare una rete di relazioni sociali utili al ragazzo”.

Gli aspetti positivi
Gli aspetti percepiti come maggiormente positivi dagli operatori sono raggruppabili in due grandi aree che riguardano due nodi profondi delle professioni di aiuto e cura.

Lavoro in équipe
La prima è quella identificabile con il supporto insostituibile costituito dal lavoro in équipe. 

“Un aspetto fortemente positivo è dato dal lavoro di équipe con una supervisione psicologica. 

Vi sono due riunioni al mese dove il coordinatore fa il quadro della situazione. Rispetto all’organizzazione interna nostra mi trovo abbastanza bene, nel senso che dal punto di vista di comunicazione sia dal punto di vista orizzontale che verticale va benissimo. Anche con l’équipe ho un buon rapporto, con gli educatori dell’ASL va bene, c’è attenzione e cura”.

Questa funzione risulta tanto più valida rispetto agli interventi come quelli di assistenza domiciliare che vengono assolti da una sola figura in un contesto di grande coinvolgimento relazionale; diventa quindi essenziale poter contare su di un gruppo di riferimento che, in modi e tempi diversi a seconda delle scelte organizzate, appoggino gli interventi praticati attraverso la condivisione, lo scambio informativo e la rielaborazione degli snodi significativi. Quando questo avviene c’è il riscontro positivo da parte degli operatori e il riconoscimento del valore.

Relazione, gratificazione,
La seconda area di positività mette in gioco ciò che torna indietro in termini non solo di risultati delle prestazioni ma di significato più ampio attribuito al sostegno che si dà alle persone e ai nuclei familiari. L’assistenza domiciliare è un terreno in cui la qualità delle azioni si alza se si inseriscono in un circuito di scambio relazionale in cui anche chi “aiuta” percepisce la comprensione da parte dell’altro e riceve apprezzamento. In questo senso anche il proprio lavoro può essere vissuto come un’opportunità di crescita reciproca.

“Tra gli aspetti positivi, ci sono le gratificazioni, il fatto di seguire un progetto, il fatto di aiutare le persone ed essere ringraziati per questo”.

“Gli aspetti positivi rispetto all’utente riguardano l’aspetto della relazione, sento che c’è uno scambio umano, sento che c’è un apprezzamento sia da parte dell’utente sia da parte della famiglia”.

“Un aspetto positivo è l’autonomia”.

“L’aspetto positivo: opportunità di fare il lavoro che faccio”.

E quelli negativi
Le aree critiche che emergono dalle riflessioni possono essere raggruppate in tre filoni di riferimento.
Difficoltà di veder riconosciuto il proprio specifico ruolo professionale
Il primo si riallaccia al tema del riconoscimento del profilo professionale di chi opera nel campo dell’assistenza domiciliare, riconoscimento che si muove sempre sul doppio livello di una definizione di specificità del campo di azione, da cui deriva anche la possibilità dell’autorevolezza del ruolo, e della motivazione a ricoprirlo in termini professionali investendo quindi non solo su “cosa si fa” ma anche sul “come lo si fa”.

 “A volte non siamo riconosciuti come professionisti, siamo visti come delle persone che vanno a aiutare in casa, e in casa i familiari ti danno delle imposizioni”.

“Un servizio alla collettività è quello di legittimare la nostra figura, tante volte ancora siamo l’amico, il volontario. Vogliamo fare capire alla società chi siamo e cosa facciamo, anche se rispetto a 30 anni fa la visione della nostra figura è cambiata, non c’è paragone”.

“Io sono un operatore socio-assistenziale, con funzioni anche educative, e lamento il fatto che la cooperativa non dedica dovuto tempo agli operatori per riordinarsi le idee, sfogarsi”.

“Un altro aspetto negativo della cooperativa è quello che quando ci sono i colloqui di ammissione si tende a sottovalutare la motivazione personale”.

Carenza di incontri/comunicazione/informazione

Il secondo filone riprende la considerazione che l’intervento professionale di assistenza domiciliare corre più di altri il rischio non solo della solitudine ma anche della separazione e frammentazione rispetto a una presa in carico più complessiva. Questo dato amplifica il bisogno di raccordare il proprio intervento all’interno di un quadro più ampio e di ricevere/fornire informazioni prima e durante l’intervento; le considerazioni degli operatori su questa specifica area informativa-comunicativa la descrivono ancora come carente e necessaria di ulteriore cura.

“Ci sono pochi incontri, poche riunioni, poche formazioni”.

“Si pensa che questi pochi incontri con i referenti siano causati dalla mancanza di tempo materiale”.

“La difficoltà principale è quella di interfacciare professionalità diverse, a me manca molto il contatto con lo psichiatra, abbiamo chiesto un confronto ma dall’altra parte c’è un muro”.

“Si sente la mancanza di riscontri con gli assistenti sociali e gli psicologi, o se avvengono sono molto altalenanti”.

“Manca una informazione dettagliata e approfondita sul tipo di patologia che si va a trattare”.

“C’è differenza fra gli utenti domiciliari sui quali spesso ci sono lacune riguardo al quadro clinico e utenti residenziali sui quali la struttura possiede dei fascicoli dettagliati quanto, spesso, incomprensibili”.

Scarsità di risorse
Il terzo filone si inserisce nel tema più ampio della necessità di supporti e risorse maggiori rispetto a quanto il dato economico-politico è oggi in grado di garantire.

“Un’altra cosa che mi dà fastidio è riferita all’ASL, in quanto il ragazzo che seguo ha bisogno di quantità di cose in più, però tagliano i fondi, e loro sono costretti a tagliare, nel senso che avrebbe bisogno di due educatori ma devono fare i conti con il budget e perciò tagliano”. 

“Tra le carenze del servizio si può citare un fatto pratico: mancanza di mezzi di trasporti. Nel mio caso si possedeva una sola macchina, perciò era contesa da tutti. Cito inoltre il problema del personale, delle volte non ci sono le sostitute”.

“Rispetto al sostegno psicologico alla famiglia, penso anche io che ce ne sia poco, penso che serva un sostegno terapeutico preciso, perché poi altrimenti si arriva al collasso e ciò si riversa sull’utente. C’è bisogno di sportelli di ascolto, non deve essere l’educatore che fa da psicologo”.

“La cooperativa di cui faccio parte è piccola, ci sono spesso emergenze, c’è un flusso continuo di gente che viene e che va, per malattia, o per maternità”.

A ulteriore rinforzo integriamo anche la sintetica e significativa risposta data alla domanda “Se ne aveste il potere che cosa cambiereste del vostro servizio? 

“Maggiore formazione per gli educatori, maggiori mezzi, maggior stipendio”.

Si può fare a meno del servizio?
In conclusione proviamo a chiudere il cerchio delle riflessioni riportando le risposte maggiormente condivise all’ultima domanda posta nei focus-group che richiedeva agli operatori di fare lo sforzo, impegnativo ma sempre utile, di mettersi nei panni degli utenti: “Secondo voi gli utenti potrebbero fare a meno del vostro servizio, del servizio che fornite?”.

“Non potrebbero farne a meno, l’utente ha bisogno, il nostro servizio è utile per il raggiungimento dell’autonomia, per il potenziamento delle capacità, questo servizio serve, non ne potrebbero fare a meno in questo momento, in questa fase storica”.

“Togliere questo servizio sarebbe negativo per l’utente, traggono benefici dal servizio, come il sostegno all’autonomia”.

“Quando l’utente inizia a interagire con un servizio è difficile poi che ne faccia a meno.   

È vero che ci sono casi e casi, perché esistono casi di handicap gravi, i quali dovranno fare riferimento a noi sempre, a vita, noi dovremmo esserci sempre”.

“Dipende dalla coerenza del progetto”.

“Il servizio è utile, c’è un reale bisogno ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di rendere autonomi l’utente e la famiglia”.

“C’è comunque differenza se il bisogno è di tipo assistenziale, quindi continuativo o di tipo educativo e quindi temporaneo con finalità ultima di restituire l’utente a una condizione di totale o parziale autonomia”.

“In linea di massima il servizio fornito viene inteso dagli utenti o come necessario da un punto di vista operativo-pratico quindi indispensabile, oppure vantaggioso perché migliora la qualità della propria vita e quindi difficilmente rinunciabile”.

5. Le famiglie raccontano: “Crescere” insieme

Il servizio
Ricevo il servizio di assistenza socio educativa domiciliare dal settembre 1992.
Mi sono rivolto al servizio per il trasporto e il rientro al lavoro dopo l’incidente che ho avuto nel marzo del 1991. Io lavoro come medico presso l’Igiene Mentale, e avevo bisogno di un operatore che potesse stare con me e aiutarmi negli orari lavorativi, per non impegnare infermieri e colleghi che lavorano con me. Le prestazioni partivano da casa mia; il primo operatore non sapeva guidare, e quindi avevamo un autista che mi accompagnava e ci veniva a riprendere. Inizialmente c’era un orario ridotto, di 3 giorni la settimana, per un totale di 4/5 ore al giorno compreso il viaggio.
Le prestazioni del servizio sono state concordate con le referenti del servizio; hanno fatto un progetto ad hoc di rientro lavorativo part-time (3 giorni la settimana con orario parziale), e l’hanno concordato con la mia responsabile.
Oltre al servizio di assistenza (socio-educativa) domiciliare residenziale fruisco di altri servizi che riguardano gli ausili, ogni tre mesi vado a Corte Roncati, per sacchi da letto e da gamba per l’incontinenza urinaria – è una fornitura dell’ASL per invalidi che non rientra nel progetto personalizzato. Per il resto mi organizzo per conto mio.

Le risposte, gli adattamenti, i cambiamenti
La risposta che ho ottenuto è stata quella che mi aspettavo di ricevere.
Il servizio si è adattato alle mie esigenze, e mi sono sempre chiesto se è lo stesso per tutti o se il fatto di lavorare in sanità come medico è stato in qualche modo un privilegio.
Il servizio negli anni si è anche modificato innanzitutto per gli orari, se non erro nel 1999 il servizio è stato esteso a 6 ore al giorno, dalle 8 alle 14, per 5 giorni la settimana. Il mio orario di lavoro attuale verte su 4 ore e 20 minuti lavorativi dal lunedì al venerdì, e con il trasporto si arriva alle 6 ore. Una volta al mese, il venerdì, partecipo come medico specialista alla Commissione Invalidi Civili, e quindi l’orario del servizio si sposta dalle 11.30 alle 18.30 per coprire la riunione e la Commissione. Altri interventi differenziati riguardano l’aggiornamento obbligatorio, 8/10 volte l’anno, in sedi diverse in altri Comuni della provincia.
Tutte queste necessità lavorative sono coperte dal servizio.
Inoltre, visto che la mensa ha delle barriere, l’operatore ha la mansione di andarmi a prendere il pasto con un contenitore termico e aiutarmi a consumarlo in ambulatorio.
Oltre all’aumento di orario, l’operatore di ora inoltre guida anche il furgone per il trasporto, e questo è una facilitazione.
Gli operatori sono cambiati in questi anni, ne ho avuti una decina, ma ho sempre mediato con la coordinatrice del servizio di assistenza domiciliare della cooperativa che gestisce il servizio per avere un operatore con determinati requisiti. Siamo a contatto con il pubblico, quindi ho sempre richiesto persone con buona presenza, capacità di relazione e un livello di studio (studenti universitari o laureati) tale da consentire di aiutarmi nelle operazioni lavorative, e il fatto di essere medico mi ha probabilmente agevolato.
Nei primi anni ci sono stati dei problemi legati alla necessità di capire di che tipo di supporto sul lavoro avevo bisogno, ma poi, una volta “cresciuti insieme”, le scelte degli operatori sono state sempre molto mirate. Nel tempo, infatti, è stata garantita una sempre maggiore professionalità, nel senso che l’operatore sa usare il computer e può così aiutarmi nell’espletamento tecnico del mio lavoro, come l’inserimento dati, la battitura delle cartelle cliniche e delle relazioni o la ricerca di informazioni.

I punti di forza, le criticità
In tanti anni non ho da muovere un appunto, il servizio è stato sempre molto efficiente. Inoltre gli operatori hanno sempre assicurato puntualità, discrezione e educazione, e in generale alta professionalità.
In passato, non più di 8 o 10 volte in questi anni, è successo che, per indisposizione dell’operatore, io mi trovassi “scoperto” la mattina, e questo implicava dover trovare al momento qualche amico che potesse accompagnarmi e venirmi a prendere, e comunque gravare durante le ore di servizio sui miei colleghi. Poi, da circa sei mesi, un operatore della cooperativa funge da supervisore rispetto agli operatori, e oltre al mio operatore fisso ci sono due “jolly” che all’occorrenza vengono contattati la mattina e nell’arco di mezz’ora possono arrivare come sostituti. Questo sistema mi mette al riparo da spiacevoli “sorprese” mattutine.
Oggi posso dire che il servizio risponde al mio bisogno in modo completo.
Senza il servizio dovrei pagare direttamente un operatore, oppure il mio colf potrebbe accompagnarmi la mattina, ma poi dovrei gravare sui miei colleghi – per un giorno un infermiere può vicariare, ma oltre diventerebbe un disservizio per la struttura. La mia possibilità di lavoro è strettamente correlata al fatto di avere con me un operatore.

Il futuro
Il servizio di cui fruisco per come è adesso è perfetto, non vedrei come possa migliorare.
Sono molto preoccupato per i possibili tagli a tutti i livelli. Se c’è bisogno di tagli, sarebbe insensato farli nei servizi erogati a disabili, ad anziani o all’infanzia. Tagliare sul piano della sanità o dell’aiuto alle persone più deboli è un controsenso folle e assurdo.
Vedo che anche in ambito sanitario sempre più cose vengono delegate a cooperative (ad esempio le pulizie), per cui credo che sia nella natura delle cose. Se effettivamente questa modalità implica un risparmio, perché all’Azienda costa meno pagare una cooperativa che avere dei dipendenti a tempo pieno, e se il servizio erogato è buono come quello che ho io, credo non ci sia niente da eccepire.
Il problema è se la qualità del servizio viene a cadere – io però ho sempre avuto operatori di cooperative, e della decina di operatori che ho avuto solo con uno ho avuto difficoltà, perché era il meno affidabile e il problema di essere “scoperto” la mattina è capitato la maggior parte delle volte con lui, e comunque oggi con il nuovo sistema non sarebbe più un grave problema.

4. Le famiglie raccontano: Mettere le relazioni al centro delle organizzazioni

Il servizio tra bisogni e risposte
Riceviamo il servizio dall’autunno 2006. I bisogni erano quelli di una figura educativa che aiutasse C. a fare un passaggio nella vita quotidiana dopo la maturità conseguita a luglio.
C. ha avuto un grave peggioramento nell’ultimo anno della scuola superiore rispetto ad alcune competenze e c’era il problema di cosa farle fare. La scuola era stata un momento di aggregazione magari difficile ma di aggregazione: a scuola incontrava gente, aveva un insegnante di sostegno… Invece a settembre di quell’anno sarebbe stata sola, isolata dal contesto sociale. Per cui si è ipotizzato insieme a una educatrice di costruire un intervento personalizzato visto il tipo di handicap che si era sviluppato, con l’aggiunta del fatto che in quell’anno lei aveva smesso di parlare. Non era opportuno inserirla in un centro per attività diurne e si è ipotizzato quindi un intervento totalmente educativo che all’inizio doveva essere di 80 ore mensili in modo che C. potesse fare tutta una serie di attività che si stavano identificando: prendere contatti con l’Università, seguire una disciplina, conoscere dei ragazzi, ecc.
Poi i servizi, nella figura dell’assistente sociale di riferimento, ci hanno fatto la proposta di dirottare le ore educative in ore di assistenza di base (senza che nessuno avesse mai visto C. o avesse contatti con la neuropsichiatra), cosa che noi non abbiamo assolutamente accettato perché nel 2006 non c’era una necessità conclamata di un’assistente di base mentre a noi interessava che C. potesse potenziare ancora quello che lei poteva fare in termini di relazioni e di attività varie.
Ci sono stati una serie di incontri difficili e complessi che hanno portato alla mediazione di 40 ore di assistenza di base e 40 ore di intervento educativo, più 6 ore di intervento educativo fatto con l’educatrice del materno infantile per dare continuità all’intervento in modo che C. non si trovasse improvvisamente in un contesto nuovo.
Il passaggio dal servizio del materno infantile all’handicap adulto è un buco nero perché mentre nel materno infantile c’è un’interazione molto forte fra neuropsichiatra, famiglia, terapista, scuola, quando si passa all’handicap adulto c’è una tabula rasa, non c’è passaggio di consegne.
Nel caso di C. lei è stata aiutata dal fatto che l’educatrice che la seguiva in 4° e 5° liceo conosceva bene il servizio handicap adulto, per cui è stata lei a tenere i contatti e a fare un po’ di passaggio di consegne.
È proprio un passaggio traumatico quello dal servizio del materno infantile all’handicap adulto. C., dopo un esame di maturità anche più brillante di tanti suoi compagni “normali”, è passata a essere una persona disabile adulta senza alcuni diritti di riabilitazione.
In tutti i protocolli c’è scritto che se una persona ha delle capacità residue occorre intervenire per mantenerle e potenziarle, dove è possibile.
Manca l’informazione sui diritti, nessuno ti dice: “i tuoi diritti sono a, b, c, d”. Bisogna rosicchiare una cosa alla volta; la motivazione, che è prevalentemente economica, è quella di non dare niente che costi tanto. A noi hanno detto che gli interventi educativi costano di più di quelli assistenziali e quindi tendono a privilegiare un intervento che non sia educativo. Accanto al dato economico, c’è anche una pregiudiziale ideologica, c’è quasi una preclusione a pensare che una persona disabile adulta, anche se ha solo diciotto anni e un giorno, non debba più imparare niente.
Nel 2006 noi non avevamo assolutamente bisogno di qualcuno che la “lavasse e la stirasse”, c’era bisogno di qualcuno che la portasse fuori di casa, che la interessasse, per questo per noi la mediazione a cui si era arrivati è già stata una mediazione pesante.
Se ci fosse una buona comunicazione istituzionale sarebbe possibile ricostruire la storia della persona, con il suo percorso precedente e non solo fermarsi all’osservazione del dato presente. È veramente un grosso buco quello del passaggio dall’età infantile all’età adulta, almeno per i casi più complessi che hanno delle involuzioni, dei cambiamenti.

L’adattamento del servizio
Noi non siamo ringiovaniti, C. ha una situazione che il suo neurologo definisce di “alti e bassi”, non è un peggioramento globale. Ha un quadro complesso ma non ha mai un settore che in assoluto peggiora. Non avendo una diagnosi precisa anche i medici ci dicono che bisogna basarsi sull’osservazione del suo stato perché nessuno sa dire cosa le succederà. Dimostra sempre curiosità, voglia di vedere, conoscere. Questo per dire che di interventi educativi ne ha ancora bisogno.
Allo stato attuale, rispetto al bisogno che C. e noi manifestiamo, la risposta che l’ASL ci dà è adeguata, anche se spesso ci sono problemi di organizzazione dell’ultimo minuto, ad esempio la disdetta del pullmino poco tempo prima dell’avvio dell’attività (il che significa non solo non fare l’attività, ma anche non potersi organizzare in altro modo).

Valutare il servizio
Quando iniziano interventi che prevedono la presenza di persone che arrivano e in un qualche modo invadono la tua privacy c’è sempre un periodo di adattamento, molto faticoso. Il primo momento è emotivamente molto pesante, la tua privacy non esiste più, le persone arrivano e vivono della tua vita ed è una cosa che bisognerebbe provare per capire quanto è pesante dal punto di vista emotivo.
Poi pian piano tu impari a relazionarti con le persone e le persone con te, e diventa più tollerabile e a volta anche piacevole e, per certi versi, se la relazione con C. funziona, di grande aiuto e sollievo.
Ci vuole rodaggio e pazienza da parte di tutti ma poi qualitativamente è un intervento che dà aiuto. Per una persona che ha un deficit e dipende dagli altri, relazionarsi solo con il padre e la madre è una cosa mortifera, avere altre persone che si occupano di te in modo diverso, che ti portano fuori in altri contesti è un sollievo per la persona stessa.

Aspetti da migliorare, da cambiare
È tutto un lavoro fatto di relazioni prima che di organizzazione. Di tecnico c’è l’organizzazione dei trasporti che di solito è regolare, per il resto il servizio è un servizio di relazione. Una volta che si è stabilito, nell’incontro annuale cosa è andato bene e cosa eventualmente va modificato, il tutto va avanti di ruotine. Gli aspetti negativi possono essere quelli iniziali legati alla relazione fra C., le persone che si occupano di lei e noi; poi, imparato un meccanismo comunicativo accettabile per tutti, occorre che tutti quanti impariamo a collaborare perché se questo non succede la persona che resta schiacciata è C.
L’appuntamento annuale viene fissato dall’assistente sociale, poi c’è un incontro ogni tre mesi circa; gli incontri sono stati più frequenti nel momento iniziale. Per questo tipo di servizio l’organizzazione ci sembra funzionale. Ovviamente gli educatori si incontrano mensilmente con l’assistente sociale per discutere dell’andamento dell’intervento.

Si può fare a meno del servizio?
Teoricamente sì, ad esempio nei mesi estivi in vacanza non c’è né assistente di base né educatrice, il mese di agosto è ridotto a un terzo e tutta la settimana di ferragosto non c’è nessuno. Nel tempo potrebbe essere pesante per due cose; la prima è legata al fatto che C. ha bisogno di relazionarsi con persone giovani che la portano fuori e che non devono essere la madre e il padre. Senza la figura dell’educatrice bisognerebbe trovare qualcuno che possa fare questo tipo di attività. La seconda, legata alla figura dell’assistente di base, riguarda le energie disponibili: io adesso sto bene, ma se non dovessi più riuscire a sollevarla dovrei avere qualcuno che mi aiuti, e nel tempo qualcuno che ti sostituisca almeno in alcune giornate e in alcune fasce orarie anche per poter avere dei propri spazi personali di ricarica, altrimenti alla fine non si è utili a nessuno. Quindi si può fare a meno del servizio, ma a tempo, cioè per un periodo limitato di tempo.

Suggerimenti
Avendo coperti cinque mattine e due pomeriggi non possiamo certo lamentarci. Una cosa che a me manca è poter avere ogni tanto un intervento serale perché è difficile organizzarsi autonomamente, non possiamo certo chiamare una normale baby-sitter. Avere un servizio serale, per esempio due volte al mese non sarebbe male. O anche un sabato o una domenica al mese. Certo tutto è migliorabile. Avere spazi per sé è un bisogno prioritario. Noi fino a quest’anno ci siamo alternati dandoci spazi reciproci di ricarica, e sono momenti che ti bastano per tirare di nuovo il fiato per altri sei mesi. Vista la situazione non lo abbiamo neanche proposto ai servizi ma io mi sto attivando per vedere se c’è qualche tipo di alternativa anche fuori del servizio.

Il servizio come legittimo diritto?
Il nostro bisogno continua a esserci e mi sembra invece che si stia andando verso il taglio delle risorse; il ragionamento che abbiamo fatto è che se un servizio come questo costa allo Stato tot di euro, se questa stessa persona fosse messa in una istituzione costerebbe 3 o 5 volte tanto. Quindi anche in un’ottica economica questo servizio fa risparmiare lo Stato sociale, e mi sembra che sia un tipo di settore che vada potenziato e non tagliato.

3. Le famiglie raccontano: Il servizio è frutto di un adattarsi reciproco

Il servizio: incontro e aspettative
Ricevo il servizio di assistenza domiciliare dalla fine di settembre 2008, poco dopo che sono venuta a casa alla fine di agosto, dopo aver avuto un incidente con la macchina contro un pullman francese, ed essere stata in coma.
Ci siamo rivolti all’assistente sociale che ci ha detto che c’erano degli operatori disponibili. (G.)
Non ci siamo rivolti direttamente ai servizi, è stata l’assistente sociale che ci ha proposto una soluzione, perché io e lei siamo da soli, non abbiamo una famiglia numerosa cui appoggiarci, e se io esco lei non può rimanere da sola.
Ci è stata fatta una proposta che ci andava bene, legata ai suoi impegni per le terapie, ed è saltato fuori un programma di orario. Gli operatori vengono martedì mattina dalle 9 alle 12 e giovedì dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18. Non avevamo esperienza di servizi in precedenza.
Non avevamo aspettative, anche ora non abbiamo idea di cosa ci si possa aspettare. Lei va fuori con queste ragazze, e a volte va tutto bene, altre meno. (P.)
Ci sono sempre due operatrici, una fa le due mattine e l’altra il pomeriggio, non cambiano mai. (G)

Adattamenti, cambiamenti, innovazioni
Certe volte i giorni cambiano, o li cambiamo noi, in base per esempio a esigenze come le visite mediche. A volte i giorni cambiano quando le operatrici, che fanno l’Università, hanno gli esami. Oppure, il giorno cambia per uscite particolari, ad esempio il sabato per andare a fare un giro in mercato. (P.)
In questi mesi il servizio è rimasto lo stesso ma sono cambiata io, nel rapporto con le operatrici. All’inizio mi piaceva sempre G., l’operatrice che fa il pomeriggio, e avevo qualcosa da ridire con D. che fa la mattina; adesso, all’inverso, con D. ci siamo conosciute e i nostri caratteri accettano che si può cambiare e ci si può adattare, mentre G. è molto lineare, e se segui la sua linea va benissimo, ma se ti allarghi un po’ ci sono dei contrasti. (G.)
Se fosse ampliato, ad esempio in ore serali, si potrebbe andare al cinema tranquillamente. Poi, se ci fosse qualche ora in più rispetto alle tre ore di adesso, si potrebbe fare qualcosa di più e di meglio –per esempio a me piaceva andare in balera il pomeriggio, ma con solo tre ore consecutive non ci riesco. E poi, all’inizio del servizio lei era appena uscita dal coma, oggi va molto meglio e con l’assistente sociale si pensava di lavorare un po’ di più, ma mi rendo conto che già adesso lei arriva il giovedì sera in uno stato di forte stanchezza. Comunque, stando in città con le tre ore si riesce a fare abbastanza, sarebbe peggio se abitassimo fuori Bologna. Dipende molto dalle aspettative che si hanno. (P.)
Non dipende da me, ci sono tante cose che si potrebbero fare, ma va bene così, perché nel tempo che ho devo riprendere a fare tante cose che prima facevo, come cucinare, scrivere, stirare, fare i lavori di casa, e poi i giorni che non ci sono le operatrici devo fare gli esercizi di calligrafia. Quindi, ho tante cose da fare e il tempo adesso è quello che è, e quando ci sono le operatrici o quando ho altri appuntamenti non ci riesco. Alla sera dopo cena, mentre prima facevo tante cose ora sono stanca, quindi le situazioni per me stanno ancora cambiando. (G.)

Gli aspetti positivi
Adesso la posso lasciare da sola anche mezza giornata, ma all’inizio ci doveva essere qualcuno perché non potevamo abbandonarla mai, e quando venivano le operatrici, dopo un minuto, dopo magari quattro chiacchiere con loro, toglievo il disturbo, perché dovevo andare a sbrigare delle faccende, e sono tante. Adesso, specie il pomeriggio, ne approfitto anche solo per andare a fare quattro passi, ma all’inizio, soprattutto la mattina, era una cosa utilissima.
Io non ho provato servizi diversi, e inizialmente non sapevo neanche che questo servizio potesse esistere, quindi non so quale sia il “livello zero” né se il “convento poteva passare di più”, ma con questo servizio mi trovo bene.
Di tutto si può fare a meno, ma è un servizio molto comodo, perché anche se ormai capita che vada fuori lasciandola sola a casa, sono sempre un po’ sul chi vive, mentre per le tre ore con le operatrici sono tranquillo. (P.)

Gli elementi critici
Il giovedì lei ha le operatrici sia mattina che pomeriggio, e questo impegno intenso la stanca molto, magari si potrebbe spostare una mattina o il pomeriggio ma non ci sono molte possibilità. (P.)
Ormai ho imparato che il giovedì non posso fare niente delle faccende di casa, e il mercoledì mi regolo, anche perché altrimenti loro ci potrebbero essere solo due volte o il sabato mattina. Mi è capitato di parlare con il mio ex-ragazzo, e lui dice che il mercoledì mi lamento e sono agitata per il giovedì perché è molto pesante, devo fare tante cose nella “pausa pranzo”, e quindi sono già stanca per il giorno dopo. (G.)
Non so se questo servizio possa essere richiesto come un diritto, e poi non conosco la situazione in altre città d’Italia o anche fuori dal Quartiere San Donato. Tutte le cose costano, e questo servizio è frutto di scelte dei servizi sociali che probabilmente altrove sono diverse. (P.)

2. Le famiglie raccontano: Fare le cose in due

L’incontro con il servizio
Da due anni abbiamo una ragazza, in precedenza avevamo avuto un’altra ragazza per tre anni, quindi sono circa cinque anni che usufruiamo di questo servizio. A. comunque è seguita dai servizi sociali da quando è nata fino a oggi, che sta per compiere 37 anni.
A. va a lavorare in un laboratorio protetto qui vicino; inizialmente ci andava da sola, poi è diventata cieca e quindi per circa un anno, nel 1995/96, l’abbiamo tenuta a casa. Poi A. ha ripreso a lavorare, ma alla mattina l’accompagno io e a mezzogiorno la vado a prendere, può fare solo le tre ore del mattino perché la ditta ha una mensa esterna e servirebbe una persona per portare solo lei.
L’operatrice viene tutti i lunedì pomeriggio per tre ore, dalle 15 alle 18. In effetti l’esigenza di questo servizio, per seguire Antonella a casa, era stata segnalata dall’Istituto Cavazza, e parlando con l’assistente sociale è emersa questa possibilità. L’orario è stato concordato direttamente con l’operatrice, che ci è stata segnalata dall’assistente sociale, sulla base della sua disponibilità.
L’operatrice viene a casa a insegnare varie cose ad A., dal portarla fuori al cucinare o fare alcuni lavori di casa, che non fa quando glielo chiedo io. Ad esempio, ultimamente sono andate spesso in Sala Borsa, dove A. può toccare i CD e sfogliare i libri. In cucina stanno meno, perché ad A. piace solo fare i biscotti. Altre volte, quando A. non vuole fare nulla, si mettono a sedere e parlano.

Intorno al servizio di assistenza domiciliare
Il lunedì sera A. esce con amici del gruppo di volontariato San Donato; il giovedì pomeriggio fa danzaterapia; una volta alla settimana, il venerdì, sabato o domenica, va fuori con ANFFAS, ad esempio al bowling, al cinema o in pizzeria. Inoltre, una volta al mese A. va all’Istituto Cavazza per circa due ore a fare attività manuali come lavorare la creta – prima ci andava una volta la settimana per imparare il Braille, ma non ci riesce perché non ha abbastanza sensibilità manuale.
Poi, una volta ogni mese/mese e mezzo circa, usciamo tutti insieme con l’AUSER di San Lazzaro, ad esempio a mangiare fuori, e siamo una quarantina tra genitori e ragazzi disabili.

Vivere il tempo a casa
Non ci sono stati problemi con l’operatrice, è capitato solo una volta in due anni di spostare la giornata perché avevamo un impegno di lunedì; qualche volta è capitato che lei avesse un esame e non potesse venire di lunedì, ma ha sempre cercato di recuperare alla sera, magari andando a mangiare una pizza.
Le attività le decidono ogni settimana per quella dopo, ad esempio se il lunedì seguente vogliono fare i biscotti la settimana prima vanno al supermercato per fare la spesa. Comunque l’operatrice si basa su quello che vuole fare A. e non le impone nulla. Più o meno, comunque, in questi due anni le attività sono rimaste le stesse.
Ad A. piace uscire, tranne che nelle “giornate no”, piuttosto che lavorare in casa, e in questo il servizio sa adattarsi alle situazioni.
Non ci sono elementi negativi, solo A. a volte ha dei momenti di chiusura in cui non c’è verso di farla parlare o fare cose. Della ragazza noi possiamo solo dire bene, tra l’altro è laureata in psicologia.
Il servizio risponde al bisogno, se aumentassero le ore per A., che ha già tanti impegni, non riuscirebbe a soddisfare tutti i bisogni. Quando andava al Cavazza tutte le settimane, venne un professore da Roma e disse che per A. l’impegno era eccessivo, per cui poi abbiamo diradato anche le visite al Cavazza.
Fare a meno del servizio sarebbe un dispiacere, soprattutto per A., perché quando usciamo, ad esempio per fare la spesa, spesso la prendiamo con noi, ma quando è da sola in casa si mette a sedere con la televisione, oppure ascolta la musica o la radio – in casa è autonoma –, ma quando non ne ha voglia rimane a non fare nulla.

I bisogni tra diritti e limiti
Gli altri servizi dovrebbero essere obbligatori e a carico dello Stato. Ci sono persone che usufruiscono di molti servizi, noi invece nulla; ad esempio non abbiamo mai chiesto il servizio di trasporto, perché lo consideriamo un obbligo nostro, ma vedo ad esempio che dove A. lavora c’è gente con le macchine ma che viene trasportata con i pullmini.
D’altra parte non ci siamo mai fatti avanti per il servizio, perché il pullmino scarica le persone davanti al luogo di lavoro, mentre A. bisogna seguirla dentro, portarla all’armadietto e aiutarla a vestirsi.
Non abbiamo mai chiesto nemmeno i buoni taxi, però sarebbe un servizio che secondo me dovrebbe spettarci. Anche nei servizi per il tempo libero, che A. frequenta con volontari, lo Stato dovrebbe intervenire, però la situazione è che i Comuni stringono, lo Stato non dà niente, e quindi è difficile che si garantiscano i servizi per il “divertimento”. Un’altra cosa da migliorare riguarda gli abbonamenti agevolati dell’ATC, adesso abbiamo fatto l’abbonamento ad A., ma l’accompagnatore deve pagare, mentre secondo me chi l’accompagna dovrebbe essere esente, o meglio dovrebbero essere esenti tutti e due, e lo stesso per l’uso dei treni.
Nei primi anni di A. noi eravamo all’oscuro di tutti i servizi; solo dopo le associazioni come ANFFAS ci hanno dato delle indicazioni, anche se forse ci vorrebbe una associazione unica con voce in capitolo, perché spesso ci sono delle indicazioni contrastanti dalle diverse associazioni. Comunque, una volta era peggio, c’era meno organizzazione, c’era solo il servizio del Comune e magari si ottenevano indicazioni sbagliate; oggi, appoggiandosi a esterni, le cose funzionano meglio e in maniera più veloce.

1. Introduzione

A cura di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

Nel pensare, insieme ai responsabili del servizio di assistenza domiciliare delle cooperative e consorzi che, raccolti in una ATI (Associazione Temporanea d’Impresa), gestiscono oggi interventi di questo tipo nella realtà bolognese, abbiamo avuto in mente per questo approfondimento due punti di attenzione.
Il primo riguarda l’obiettivo che ci siamo proposti e che può essere riassunto dall’idea di contribuire alla conoscenza di questo servizio importante ma nascosto nelle pieghe della quotidianità e dalle mura domestiche, un “tesoro nella dispensa” per l’appunto.
Gli interventi sul territorio, direttamente svolti a casa delle famiglie e degli utenti, hanno come riferimento di fondo l’importanza di consentire alle persone di rimanere quanto più possibile nei propri contesti di vita, condizione, questa, che viene interpretata come un indicatore essenziale di qualità. Questo dato però, se assunto in modo dogmatico, può favorire la comparsa di una sorta di schermo opaco che fatica a far emergere non solo di cosa è fatto questo servizio, ma anche le qualità organizzative e relazionali che deve avere per rispondere in modo efficace ed efficiente alle esigenze e richieste di chi del servizio fruisce o potrebbe/dovrebbe fruirne.
Il secondo punto di attenzione richiama più direttamente il modo con cui abbiamo attraversato questo ambito e che ha cercato di mettere  in primo piano la voce diretta e quotidiana degli attori del servizio stesso. Il nostro è stato quindi un percorso di ascolto e raccolta di descrizioni, riflessioni, valutazioni portate da famiglie, utenti e operatori, soggetti questi tutti coinvolti operativamente nel rendere effettivo il servizio. Con strumenti diversi (interviste per famiglie e utenti; focus-group per gli operatori) si sono costruiti racconti che, crediamo, permettono di entrare dentro alle situazioni facendo venire a galla aspetti positivi e difficoltà.
Accanto a queste voci due contributi che si pongono in un’ottica di complementarietà rispetto agli altri. L’intervista a Mara Grigoli, responsabile ArOA USSI Disabili Adulti Azienda USL Bologna, delinea un quadro complessivo entro cui si attuano gli interventi di territorialità e indica anche le direzioni che, dal suo osservatorio, caratterizzano l’impegno dell’Azienda USL; dal focus-group condotto con i coordinatori del Servizio di Assistenza Domiciliare delle cooperative che gestiscono il servizio proponiamo una serie di riflessioni e pensieri che il gruppo ha portato dopo aver letto i materiali realizzati nella ricerca (materiali più ampi di quelli disponibili in questa monografia) e avere “reagito” alla luce del proprio ruolo ma anche esperienza e sensibilità.
A tutti loro va un ringraziamento non formale per l’effettiva disponibilità a mettersi in gioco in un dialogo a distanza che, al di là di quanto accade sulle pagine di una rivista, rimanda a quella necessità intrinseca di mettere in comune i punti di vista, accettando l’esistenza di opinioni anche diverse come un valore aggiunto per i servizi che si pongono al fianco delle persone.

Un tesoro nella dispensa

Il servizio di assistenza domiciliare per persone con disabilità 

In questo periodo Giovanna e Luca condividono lo stesso bisogno: un lungo, ritemperante letargo.