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autore: Autore: a cura di Roberto Parmeggiani

Autobiografia di una zucchina

a cura di Roberto Parmeggiani

Questo libro è bellissimo!
Mi rendo conto che iniziare una recensione in questo modo, è come decidere di iniziare il Giro d’Italia dalla tappa del Mortirolo: tutta in salita.
Il fatto, però, è che davvero questo libro è bellissimo, emozionante, divertente e allo stesso tempo  semplice, diretto e assolutamente vero.
Vero perché l’autore (che mi piacerebbe incontrare faccia a faccia per sottoporlo a un’intervista stile Vanity Fair!) riesce a raccontarci una storia d’infanzie recuperate, come fossero gli stessi bambini a raccontarla.
È un reality questo libro (nel senso etimologico della parola e non secondo il linguaggio televisivo), perché rappresenta perfettamente la realtà, non una immaginata o costruita, non una fiction pensata a tavolino, ma la vita vera. La vita di bambini e bambini abbandonati o allontanati dalle loro famiglie di origine per i più svariati motivi. La vita vera che lo stesso autore ha scelto di trascorrere per alcuni mesi in una casa di accoglienza.§
E che quella sia vita vera ne sono prova i dialoghi dei bambini, le loro domande e le loro riflessioni (quelle espresse e quelle trattenute).

Quando me ne vado, Rosy mi sorride.
E mi dico che è un peccato che non abbia bambini suoi, perché lei li avrebbe amati ancora più di quanto ama noi, anche se non riesco a immaginarlo quell’amore. Rosy non è il tipo da bere birre e guardare la tele. Se avessi avuto una mamma come lei non ci sarei mai salito sul granaio e non avrei mai frugato nel cassetto del comò. E se anche avessi frugato, non avrei mai trovato il revolver.
Ma se avessi avuto una mamma come lei, non avrei mai incontrato Camille ed è meglio così.
A volte mi dico che sono “un minore incapace” come dice il giudice, anche se io tengo a mente la peggiore di quelle due parole. Incapace.
Capisco bene di averne fatta una davvero grossa.
E poi a volte mi dico che se non l’avessi fatto, non sarei qui con i miei nuovi amici e soprattutto con Camille. Prima avevo solo Marcel e Gregory, ma non era la stessa cosa.
Il grosso Marcel è una nullità a biglie e non avevo niente da dirgli tranne “non vali niente a biglie” anche se mi piaceva tanto batterlo. E Gregory, a parte far finire il pallone nella finestra, non sapeva niente di niente.
Non è che io sappia tutto, ma con Simon e i fratelli Chafouin almeno si ragiona.
(Brano tratto da Gilles Paris, Autobiografia di una zucchina, Milano, Piemme, 2006, pp. 90-91)

La mamma di Icaro, che tutti chiamano Zucchina, sbraita sempre contro il cielo e lo picchia senza ragione. Zucchina allora pensa che il cielo e le botte vanno insieme. Medita quindi di sparare al cielo, in quel modo forse la mamma si sarebbe calmata e avrebbero potuto così guardare la tele senza che lui le prendesse di santa ragione.
Un giorno quindi entra nella camera di sua madre, trova un revolver in un cassetto ed esce in giardino. Punta l’arma verso il cielo. Un colpo, due colpi, sua madre esce, grida “cos’è questo casino?”, lui risponde “è per te, non voglio più che mi sgridi”, lei sbraita “schifoso”, un calcio, una spinta, parte un colpo, la mamma barcolla all’indietro e va giù.
Da questo punto in poi la vita di Zucchina cambia radicalmente, questo involontario rito d’iniziazione lo porta a lasciare il mondo materno per entrare in modo prepotente nel mondo degli adulti e, nello specifico alla Fontane una struttura che accoglie bambini allontanati dalle loro famiglie.
Un passaggio netto da quello che era a quello che sarà, dall’amore superficiale di sua madre a quello travolgente di Rosy, dalla solitudine di due amicizie insignificanti alla scoperta dell’affetto travolgente dei coetanei, insomma una vera e propria rivoluzione che coinvolge anche la costruzione dell’identità stessa di Zucchina.
Considerato “piccolo stupido” da sua madre prima e “minore incapace” dai giudici poi, Zucchina, come molti bambini e giovani di oggi, viene etichettato in modo assolutamente semplicistico, in categorie che permettono agli adulti di non assumersi il disagio del minore, di relegarlo nella sfera del personale e non del sociale. È lo stesso atteggiamento di chi pensa di risolvere i problemi negandoli o, ancora peggio, coprendoli magari con un bel grembiule.
A Zucchina, per fortuna, la vita riserva invece incontri molto interessanti: Raymond, Camille, Victor, Simon, Rosy… Incontri che gli consentono di intraprende un viaggio per mezzo del quale dimenticherà la parola incapace imparando di nuovo ad alzare lo sguardo verso l’alto.
Qui sta infatti il segreto per liberarsi delle etichette, soprattutto quelle che affondano l’autostima.
Alzare lo sguardo simboleggia il desiderio e la volontà di guardare avanti, confrontandosi con coloro che possiamo incontrare nel nostro percorso di vita, accettando la severità e accogliendo l’amore; significa lanciarsi verso il futuro, radicati ma non più schiavi del passato; significa ritrovare il coraggio di voler essere se stessi, liberi di lottare per diventare ciò che desideriamo.
E come dice Zucchina, dopo un po’ si può riuscire di nuovo a guardare il cielo senza aver voglia di sparargli, semplicemente perché ne avremmo trovato uno più grande in terra.
Grande come quello di Zucchina, non solo perché popolato da tanti nuovi amici che gli vogliono bene ma soprattutto perché è un cielo il cui orizzonte è molto ampio, senza ostacoli, foriero di molti sogni e probabilmente colorato di un bel rosso caldo che fa pensare, proprio come dice il proverbio che rosso di sera, bel tempo si spera.
Infine una bella lista di regole, quelle di base, della convivenza civile, che definiscono i limiti del rispetto e della libertà personale di ognuno. Al sentirle i bambini si ribellano, dicono che sono cavolate e che già le hanno sentite mille volte. Ma come noi sappiamo, in certi casi repetita juvant. Quindi perché non stamparle e appenderle un po’ in giro? A qualche adulto che non le ricorda potrebbero fare molto bene!

Oh, ovviamente, i grandi ci hanno dato tutti i consigli su quello che si deve e non  si deve fare, e la lista è lunga:

  • Non mettere le dita nel naso.
  • E soprattutto non tirare fuori le croste per poi mangiarle.
  • Non dimenticare di lavarsi le mani prima di mettersi a tavola.
  • Non mettere i gomiti sul tavolo.
  • Non dire ‘puah’ ma ‘no grazie’.
  • Dire ‘buongiorno’, ‘buonanotte’, ‘grazie’ e ‘per favore’.
  • Non dire parolacce.
  • Lavarsi i denti almeno due volte al giorno.
  • Lavarsi senza dimenticare di usare il sapone.
  • Riordinare le nostre camere e i nostri giochi tutti i giorni.
  • Fare i letti tutte le mattine.
  • Pregare il buon Dio prima di coricarsi.
  • Non rimpinzarsi di caramelle e cioccolatini.
  • Non rubare nel portafoglio di Raymond.
  • Non dire bugie.
  • Non nascondere nella pattumiera quello che si rompe.
  • Cambiarsi le mutande ogni giorno.
  • Ripassare la lezione.
  • Non prendere in giro i grandi.
  • Non picchiarsi durante la ricreazione o altrove.
  • Non giocare con i coltelli e le forbici.
  • Dare una monetina ai poveri.
  • Non lavarsi le mani nell’acquasantiera della chiesa.
  • Non parlare agli sconosciuti.
  • E soprattutto non salire sulle loro macchine.
  • Non finire il fondo dei bicchieri dei grandi.
  • Non giocare con accendini e fiammiferi.
  • Non fumare.
  • Mettere le cinture di sicurezza.
  • Non insistere quando vi si dice di no.
  • Non portare a casa i cani e i gatti randagi.
  • Non toccare i piccioni.
  • Sorridere quando vi fanno una foto.

Come se non le sapessimo tutte queste cose, noi marmocchi. Rosy l’ha anche scritto e dobbiamo portarci appresso il quaderno e leggerlo spesso.
L’ho fatto vedere a Simon che ha detto “cavolate”.
(Brano tratto da Gilles Paris, Autobiografia di una zucchina, Milano, Piemme, 2006,  pp. 247-248)

Cont-animazione: una nuova parola per un mondo diverso

A cura di Roberto Parmeggiani 

Dalla teoria…
Il Progetto Calamaio approfitta spesso dei giochi di parole per sovvertire i pregiudizi e rendere più comprensibile il suo messaggio. L’obiettivo? Quello di provocare una riflessione, un cambiamento grazie all’acquisizione della consapevolezza che la disabilità permette di scoprire e apprezzare la ricchezza della diversità.
Tenendo conto di questo presupposto, quindi, non dobbiamo stupirci se tra i nuovi arrivati al Calamaio c’è chi ha pensato di dare un nome alla modalità tutta speciale che caratterizza l’animazione che il gruppo dei Calamai porta nelle scuole, definendola “cont-animazione”. Quattordici lettere, con un suono familiare e nuovo al tempo stesso, che richiamano molti concetti e non ne esauriscono alcuno.
Il primo che viene in mente è contaminazione, termine col quale si definisce il diffondere in un ambiente elementi estranei che portano a un cambiamento della realtà stessa. Si tratta della mescolanza di elementi eterogenei che provoca la nascita di una nuova dimensione, di un nuovo contesto, frutto della loro fusione.
Il secondo invece è animazione, attività privilegiata del Gruppo Calamaio che usa tali tecniche per dare vita, forma e voce a fiabe che, ideate anche dagli stessi componenti del gruppo, divengono il filo conduttore di creativi percorsi di educazione alla diversità. Ma queste animazioni prendono vita e acquisiscono significato grazie al contributo, unico e irripetibile, che ogni animatore, disabile o normodotato, dà al fluire della storia. Così se i personaggi della fiaba sono una mediazione per rendere più facile avvicinarsi al mondo della disabilità, l’unicità e l’autenticità di ogni animatore diventano parte integrante dell’animazione permettendo un incontro reale e sincero.
Per questo l’idea del termine cont-animazione, neologismo per definire un’animazione che è anche relazione, che prevede l’indubbio contributo di ogni componente in maniera specifica, anzi speciale.
Essere animatori del Calamaio significa prima di tutto mettersi in gioco, con la propria storia e i propri limiti, rinunciando al ruolo di semplici comparse, ma scoprendosi protagonisti, e rendendosi disponibili a fare di sé uno strumento per parlare e ragionare di diversità, affrontando le domande e l’ironia spesso dissacratoria dei più piccoli.
Nel mettere in gioco se stessi, nel condividere le proprie esperienze oltre che il proprio modo di stare in relazione, l’animazione del Calamaio si inserisce nel gruppo classe, e i suoi messaggi penetrano all’interno delle attività quotidiane dei bambini e dei ragazzi. Le relazioni che si instaurano sono autentiche, frutto del vissuto personale di ognuno, e per questo danno luogo a una dinamica di contaminazione reciproca tra animatori e ragazzi, che possono così costruire insieme il percorso di educazione alla diversità. La fiaba da inscenare è un vettore di questa dinamica di cont-animazione, in cui ognuno mette qualcosa di sé, e macchia, segna, disegna l’altro, proprio come il Calamaio si propone di fare ogni volta che varca la porta di una scuola.
Infatti la cont-animazione è bi-direzionale: provoca un cambiamento e cambia lei stessa, porta elementi dirompenti e ne acquisisce a sua volta, fa divertire e si diverte. È questo che rende speciale l’inchiostro del Calamaio: la libertà di cambiare, di crescere un po’ ogni volta che una classe o un gruppo di bambini ci si accosta.
E in questo essere diverso, sempre mutevole, sempre nuovo, il Calamaio si rinnova, vive e rivive, grazie alle tracce che lascia e a quelle che lo arricchiscono.

… Alla pratica!
In questo suo rinnovarsi il Progetto Calamaio, nell’anno passato, ha accettato la sfida di farsi contaminare e, allo stesso tempo contaminare, altri progetti, altri modi di affrontare il tema della diversità.
Sono nate così due esperienze particolari: quella realizzata insieme alle operatrici del parco regionale di Monteveglio e quella attuata insieme al centro diurno per anziani di Crevalcore.
Due tipi di animazione che hanno portato all’interno della scuola l’integrazione tra il Progetto Calamaio e il mondo dell’ambiente da una parte e quello degli anziani dall’altra. Entrambi mondi che hanno parecchie cose da dire rispetto alla ricchezza e al valore della diversità, mondi che hanno accettato la sfida della cont-animazione.
Vediamo nel dettaglio.

Diversambiente: come l’ambiente naturale affronta il tema della diversità
Cos’avrà mai a che fare la disabilità con la natura? Provatelo a chiedere a quei bambini della scuola primaria che hanno partecipato al percorso chiamato Diversambiente svoltosi sia in classe che presso il Parco regionale di Monteveglio.
Probabilmente risponderebbero raccontando una delle storie che, come quella della pesca e della castagna, affrontano il tema della diversità dal punto di vista delle piante.
Un punto di vista assolutamente interessante.
Gli animatori che hanno interpretato la pesca e la castagna, infatti, hanno spiegato ai bambini che l’aspetto spesso è ingannevole e che solo andando oltre l’apparenza si scopre ciò che ci accomuna e che, in fondo, ci rende tutti uguali seppur nella diversità.
È inoltre molto stimolante scoprire che nell’ambiente naturale la diversità non è né buona né cattiva, ma semplicemente necessaria per il mantenimento dell’equilibrio di ogni ecosistema. Quindi diversità come ricchezza, come elemento essenziale per garantire la sopravvivenza di tutti.
Ecco allora il punto in cui ambiente e disabilità, nel considerare la diversità come qualcosa di positivo e di stimolante, si incontrano. L’essere umano che dalla natura ha preso vita e che per molto tempo ha chiamato “madre” dovrebbe tornare, come un bravo figlio, ad ascoltare e seguire gli insegnamenti che da lei, con semplicità e saggezza, provengono.

Le storie e i giochi dei nostri nonni, il fascino dell’età
Le emozioni ci uniscono, ci rendono simili, a qualsiasi età.
Questo ho imparato dal percorso Calamaio svolto in alcune classi elementari insieme agli anziani del centro diurno di Crevalcore. È stato bello percepire l’emozione che provavano i bambini mentre attendevano l’arrivo dei “nonni” in classe e quella che provavano i “nonni” prima di mettere piede dentro alla classe stessa… direi nessuna differenza, anzi, la stessa intensità, lo stesso colore, lo stesso coinvolgimento.
Oltre alle emozioni, però, abbiamo scoperto che non ci sono tante cose che accomunano i bambini di oggi con quelli di una volta. Giochi, orari, scuola, cibo, divertimenti… per ognuna di queste categorie potremmo definire una lista infinita di differenze tra adesso e 60 anni fa. Differenze che anche in questo caso non vengono vissute come difficoltà e come limite, bensì come ricchezza. Quella della condivisione, della conoscenza, della storia che ci appartiene in quanto tutti siamo figli (alcuni anche nipoti) di quel periodo. Conoscere le diversità per non ripetere gli stessi errori oppure per riconoscere i progressi fatti, per continuare un percorso che non finisce mai oppure per riscoprire tradizioni che, come salde radici, permetteranno all’albero della nostra società di crescere saldo nel passato e proteso verso il futuro.
Una sorpresa finale ci ha colpito. Abbiamo scoperto che in tante differenze qualcosa di uguale c’è: la voglia di giocare, di divertirsi e di sognare.
Un sogno condiviso? Un mondo nel quale ciò che è diverso non sia rifiutato bensì scelto e accolto affinché ognuno possa sentirsi valorizzato nella propria specificità.
Ecco, questi sono esempi di cont-animazione, di scambi assolutamente fruttuosi, che provocano non solo un cambiamento in tutti i partecipanti, ma anche una crescita integrata che porta alla nascita di un contesto nuovo.