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autore: Autore: Antonella Gandolfi

Il corpo nomade

Il corpo come strumento di relazione: una consapevolezza che è più facile percepire in quei contesti dove il corpo mostra di avere un importanza evidente: l’esperienza di un’operatrice presso le aree di sosta per sinti; un esperienza di crescita personale che incide anche nei contesti non lavorativi

Lavorare come operatrice presso aree sosta per sinti significa svolgere una funzione di mediazione per avvicinare due mondi socio culturali fondamentalmente diversi. Si opera quindi presso i servizi per favorire l’avvicinamento al nostro sistema sociale. Per far questo si costruisce un rapporto di conoscenza e di accettazione con la comunità sinta con cui si opera.L’area sosta comunale è un luogo in cui le famiglie zingare possono vivere nella propria/proprie roulotte all’interno di uno spazio prestabilito, usufruire di servizi igienici comuni, di presa elettrica e fontanelle di acqua, nel rispetto del regolamento comunale.Fondamentale per l’operatore presso l’area sosta è essere accettato dalla comunità e quindi creare una relazione di rispetto reciproco. La relazione si basa sulla capacità da parte del mediatore di legarsi e di separarsi dalla comunità zingara attraverso continue oscillazioni del grado di partecipazione. Il mantenere l’equilibrio fra il "dentro" e il "fuori" apre la strada verso un saper ascoltare sia con le orecchie che con gli occhi; non solo all’esterno, ma anche verso l’interno per riconoscere le proprie emozioni, aspettative ed i pregiudizi nei confronti dell’etnia minoritaria, che potrebbero influenzare la relazione.

Un grande valore comunicativo

Per gli zingari la relazione tra le persone è al centro del sistema socio culturale: il prestigio, il ruolo sociale di una persona non dipende dal ruolo professionale, ma da quello familiare e comunitario. In una relazione centrata sulla persona, in cui il ruolo professionale e sociale non hanno molta importanza, il corpo assume un valore comunicativo a cui abbiamo perso l’abitudine.
Operare presso una comunità sinta in un’area di sosta comunale, dove convivono obbligatoriamente nuclei familiari diversi, significa cambiare frequentemente spazi di relazione e interlocutori. Si può passare da uno spazio aperto comune dove incontrare un uomo, una donna, un bambino… (con continue possibilità di modifica), a spazi privati aperti e chiusi (roulotte) dove relazionarsi, come sopra, con un singolo o con più persone. In ogni singola situazione l’uso del proprio corpo può cambiare la relazione.
Ad esempio, arrivare ed incontrare un gruppo di donne o di uomini significa, in quanto donna, possibilità relazionali assai diverse, in cui il mio corpo gioca un ruolo importante. Se sono donne il gruppo si divide o si apre rendendo disponibile uno spazio fisico e di dialogo che si gioca anche su come il mio corpo entra nella relazione: se rimango al centro difficilmente riuscirò a sfuggire a giochi sul ruolo sessuale, s mi colloco di fianco a qualcuno e lascio aperto il cerchio, ho modo di cambiare il livello di conversazione o di interromperlo, anche attraverso la complicità con qualcuno.

L’esperienza personale

Il fatto che il corpo sia uno strumento importante di relazione è noto e vero in tutti i contesti, ma ritengo, partendo dall’esperienza personale e dal confronto con colleghi, che nella relazione con i sinti si recuperi una consapevolezza e attenzione alla corporeità degli altri e propria, che nella nostra società stiamo perdendo. Nella relazione con i sinti mi sono trovata a usare istintivamente il mio corpo in modo mirato, avendone la consapevolezza un attimo dopo l’agito. La consapevolezza dell’uso istintivamente mirato del corpo come strumento di relazione è, durante il mio lavoro, molto maggiore di quanto non sia di solito.
Questo probabilmente perché la relazione non è condizionata dai ruoli e dai contesti sociali in cui viviamo normalmente all’interno della nostra società, che tendono a nascondere la corporeità pur sempre presente. Riscoprire la consapevolezza del proprio corpo è comunque un’esperienza di crescita personale che incide anche su contesti non lavorativi e che a volte aiuta a limitare l’importanza dei ruoli sociali, facilitando la messa in gioco nella relazione.

(*) Antonella Gandolfi della cooperativa AndoKampo, dal ’91 mediatrice culturale presso la comunità sinti e rom Bologna.

La mediazione culturale

Il mediatore, etimologicamente parlando, può essere un’individuo che ha lafunzione di avvicinare due parti, un "intermediario"; o,pedagogigamente parlando, uno strumento ("oggetti, materiali,

 

ruoli,compiti, consegne, spazi, ecc.") che facilita la relazione traeducatore/altri e utente/individuo.
Ogni tipo di relazione usa, a volte in maniera inconscia ed automatica, a volteconsapevolmente, dei mediatori. Quando due individui entrano in relazione, hannobisogno di elementi in comune che rendano possibile la comunicazione.
Rispetto ai percorsi educativi l’uso di mediatori, come definiti da Canevaro (1)- a volte consapevole e finalizzato fin dall’inizio, a volte analizzato everificato a posteriori – appare strumento fondamentale. D’altra partel’educatore è sempre, a sua volta, un po’ mediatore, dato che cerca di favorirelo sviluppo delle autonomie di un individuo disabile rispetto ad un mondo,fisico, sociale e di relazione, che usa codici e regole che non sempre tengonoin considerazione le diversità.
Johnson e Enwereuzor del Cospe (2) definiscono il mediatore linguisticoculturale come colui che deve "facilitare la comunicazione e lacomprensione, sia linguistica che culturale, fra l’utente di etnia minoritaria(e, per estensione, una comunità di etnia minoritaria) e l’operatore di unservizio pubblico, in un contesto di poteri ìmpari, rispettando i diritti ditutte e due le parti interessate". Caratteristiche fondamentali delmediatore linguistico culturale sono quelle di appartenere ad un’etniaminoritaria, di essere un operatore "neutro", chiamato dal servizio asvolgere funzioni di interpretariato, sia linguistico che culturale, rispetto apersone che non conosce.
Nei contesti reali è difficile svolgere il proprio ruolo così come teorizzato,soprattutto per quello che riguarda il concetto di "neutralità".Esiste una certa difficoltà all’imparzialità in contesti in cui è evidenteun’incomprensione culturale e sociale forte, e soprattutto, un diverso livellodi potere. Occorre fare attenzione a non esercitare violenza culturale neiconfronti dell’etnia minoritaria. Un rischio forte è quello che nel fornireinformazioni rispetto ai diritti e ai doveri del cittadino ed al funzionamentodei servizi, il mediatore possa orientare forzatamente alcune condotte e alcunescelte, trascurando altre opzioni possibili, condizionato dagli orientamenticulturali e sociali dominanti; anche quando questi non siano imposti dalla leggeitaliana ma solo sanciti dal costume (per esempio se una donna di etniaminoritaria vuole partorire in casa, come è costume della sua gente, ilmediatore deve assicurarsi che le siano date tutte le informazione necessarie agarantirle il diritto di scelta).
Il mediatore culturale deve essere consapevole della situazione di potere in cuisi trova, e deve sempre fare attenzione a fornire tutti gli strumenti necessariperch‚ il singolo possa decidere liberamente.

 

Quando il mediatore è un italiano

Altro concetto di mediatore culturale è quello nato dall’esperienza pressole comunità zingare di Bologna. In questo caso il mediatore non è di etniaminoritaria e non si limita a facilitare l’interazione tra due sistemi culturalidiversi attraverso l’interpretariato culturale ed il fornire informazioni, ma sipone come strumento di sostegno in questo percorso di interazione. Lavora conuna comunità e quindi con individui di tutte le fasce di età, per cercare difavorire il percorso sia del singolo che dell’intera comunità verso ilsoddisfacimento dei propri bisogni.
Per fare ciò diventa fondamentale costruire un rapporto di conoscenza e fiduciacon l’individuo e la comunità. D’altra parte anche il rapporto col mediatore,che è egli stesso rappresentante del mondo esterno, in quanto non appartieneall’etnia, diventa modello di un possibile dialogo.
Caratteristica fondamentale di un intervento di questo genere è il mantenimentodi un giusto equilibrio tra la necessità di essere imparziali e la difficoltàa sostenere un ruolo del tutto neutrale. L’educatore/mediatore si trova da unlato a intrattenere con l’utente un particolare rapporto di fiducia, dall’altrorimane sempre un elemento esterno, il cui ruolo esige una posizione disostanziale imparzialità. L’utente, soprattutto in situazioni di forte tensioneemotiva e psicologica, tende a volte a delegare all’educatore un ruolodecisionale che l’educatore non può e non deve assumere. Mantenere un giustoequilibrio tra il coinvolgimento personale, indispensabile ad una relazionefunzionante, e la necessaria imparzialità è, a volte, molto difficile.
Probabilmente, rispetto al ruolo e alla funzione del mediatore/educatore pressole aree di sosta, essere imparziali significa riuscire a mantenere un equilibriotra coinvolgimento ed estraneità che passa attraverso fasi e momenti alterni,piuttosto che attraverso una condotta statica ed immutabile. A momentil’educatore condivide chiaramente la posizione dell’utente; in altri momenti,invece, è interprete e sostenitore, anche deciso, di regole sociali egiuridiche imposte dalla relazione col mondo esterno.
L’educatore/mediatore non si limita a dare informazioni, ma sostiene anche ilsingolo in un percorso educativo. L’educatore progetta insieme all’utente ed aiservizi un percorso mirato e stabilisce con l’utente una relazione individualeche lo porta ad essere a sua volta un modello, poich‚ molte indicazioni dicarattere generale vengono veicolate in prima istanza dalla relazione stessa,che diventa una sorta di laboratorio all’interno del quale si sperimentanoempiricamente possibili percorsi di rapporti con gli altri.

Note

(1) A. Canevaro (a cura di), La formazione dell’educatore professionale.Percorsi teorici e pratici per l’operatore pedagogico, Ed. La Nuova ItaliaScientifica, Urbino, 1993
(2) Cospe, Atti del seminario, Immigrati/Risorse. La figura del mediatoreculturale, le prime esperienze ed i percorsi formativi a confronto, Bologna, 13ottobre 1993

Lingua nomade

Lavorare come educatore con gli zingari vuol dire imparare a conoscere un modo diverso di pensare che si basa sulla parola orale e non su quella scritta. In questo caso la comunicazione deve partire da basi diverse ed è compito dell’operatore saper “tradurre”, mediare il loro linguaggio nel suo e viceversa.

Svolgere attività professionale di mediatore culturale tra istituzioniterritoriali e comunità di Rom o Sinti, significa soprattutto costruirequotidianamente relazioni tra due sistemi culturali diversi. L’interazione trazingari e non zingari presenta molti ostacoli. Uno dei problemi è ladifficoltà di comprensione, anche quando lo zingaro sia italiano o, comunque,parli bene la nostra lingua. Ciò fa sì che spesso ci si trovi nella necessitàdi "tradurre" il linguaggio e le modalità espressive dell’una edell’altra parte. La capacità di effettuare simili "traduzioni" ènata empiricamente e non analiticamente, dalla conoscenza – maturata nel tempo -di caratteristiche socio-culturali, dell’uso del linguaggio e dellastrutturazione del pensiero di alcune comunità zingare presenti a Bologna.Questo tipo di "traduzione" si basa, quindi, sull’abilità di capirel’esistenza di due diverse strutture di pensiero e linguaggio, piuttosto che sustudi o formazioni specifiche che peraltro, in questo settore in particolare,non esistono.

Un sistema di pensiero basato sull’oralità

Alcune difficoltà di comunicazione tra zingari e non sono da attribuire inbuona misura alle differenze tra un sistema di pensiero di tipo orale, quellozingaro, ed uno basato sulla scrittura, il nostro.
E’ difficile, per chi proviene da una cultura profondamente segnata dalla logicadella scrittura, l’approccio a sistemi di pensiero fondati sull’oralità: laciviltà occidentale tende a dare per scontato che il proprio sia l’unico modopossibile di pensare ed usare il linguaggio.
Il testo Oralità e scrittura di Walter Ong (Walter J. Ong, Oralità escrittura. Le tecnologie della parola, Ed. Il Mulino, Bologna, 1986) introducealla comprensione ed all’analisi delle specificità dei modelli comunicativi edei sistemi di pensiero delle culture di tradizione orale. Dato lo strettolegame tra processi cognitivi e strutturazione del linguaggio, conoscere lecaratteristiche e le differenze tra i due sistemi in oggetto può facilitare lareciproca comprensione.
Mentre il nostro è un tipo di pensiero analitico, i sistemi culturali deglizingari tendono ad esprimere un pensiero di tipo esperienziale e situazionale.La parola non è né una categoria astratta, né un oggetto autonomo (scritto),ma è legata all’evento, all’azione, è, insomma, fortemente contestualizzata.
La parola è quindi strettamente legata al contesto in cui si sviluppa lacomunicazione, e non può essere riesaminata, analizzata, scomposta come ildiscorso scritto. L’analisi, la deduzione logica, la scomposizione in categoriedipendono dalla scrittura.
Il linguaggio orale si basa sull’aggregazione di immagini, la ripetizione, leformule, gli epiteti, il ritmo, le frasi parallele e opposte. I diversi livellidi comunicazione vengono messi tutti sullo stesso piano, in quanto lasubordinazione analitica è tipica dell’espressione scritta. Si potrebbe direche la grammatica supplisce alla mancanza del contesto e della presenza di uno opiù ascoltatori e di eventuali interlocutori, che orientano la comunicazione,fornendo un contesto puramente testuale.
Il discorso orale favorisce l’esteriorizzazione e la comunitarietà, informandodi sé la vita sociale, a fronte dell’individualismo e dell’introspezione propridell’elaborazione scritta.
Anche il concetto di tempo, legato agli eventi e alla memoria, si sviluppa inregime di oralità in maniera assai diversa da quanto non accada presso leculture di tradizione scritta: il tempo nel momento in cui lo traduciamo insimboli grafici, cioè, lo trattiamo spazialmente, appare diviso in unità,mentre la parola, il suono è un evento che non si ferma o divide.

Parlano gli zingari

A titolo esemplificativo, riportiamo di seguito tre frammenti di discorsoraccolti da una mediatrice culturale durante alcune conversazione con donne Rome Sinte.
Il primo dei tre frammenti di discorso è stato ascoltato nel corso di uncolloquio sui riti nuziali e sul ruolo di alcuni strumenti musicali all’internodei riti in genere. Il colloquio si è svolto nell’abitazione di Suzana unaRomni slava. Alla domanda: "Il tamburello presso i Rom Khorakhané losuonano solo le donne o anche gli uomini?" ha risposto: "Lo suonanoanche gli uomini, [ride] se suonano il tamburello vuol dire che sono mezziuomini e mezze donne. E gli uomini, quando suonano il tamburello, sono piùbravi delle donne, molto bravi. E mio fratello anche suona il tamburello, ed èun uomo, non è in quel modo. Ha imparato da piccolo, gli piaceva, sempre loprendeva e suonava, e tanti sanno suonare, e non sono a metà".
In questo discorso, l’apparente contraddizione di frasi di opposto significato el’uso evidente della paratassi sono tipici esempi di modalità di costruzionedel pensiero proprie dell’oralità. Il sistema di pensiero delle culture oralinon è di tipo analitico, ma tende piuttosto a concentrare su un unico piano dicomunicazione elementi di tipo teorico ed esperienziali. Non c’è contraddizionetra il fatto che il tamburello lo suonino "solo le donne" ed il fattoche "lo suonano anche gli uomini", né tra il fatto che gli uomini chelo suonano siano "mezzi uomini e mezzi donne" e che il fratello diSuzana non sia "in quel modo". Il primo dei due termini diopposizione, in ambedue i casi, appartiene ai contesti rituali di uso dellostrumento e al suo ruolo simbolico (il tamburello, in Medio Oriente e nell’areadel Mediterraneo, è strumento legato alle divinità femminili, ai riti estaticifemminili, alle inversioni sessuali praticate in occasioni rituali); il secondotermine, invece, appartiene alla categoria dell’esperienza diretta. I duetermini, dunque, non sono in contraddizione, ma offrono un quadro completo deidiversi piani di conoscenza, parattatticamente presentati senza distinzione dilivello.
Lo stesso tipo di comunicazione si ritrova in un altro discorso fatto da Suzanain altra occasione: "Io non sono Romni, i miei figli non parlano romanes.Jufus è mio fratello".
Molto tempo dopo, sentendola parlare romanes, le venne detto: "Susanna,dopo tanti anni che ci conosciamo, finalmente ti sento parlare romanes. Perchémi hai sempre detto di non essere una Romni?". Risposta: "Sì io nonsono Romni, ti ho detto che Xevat è mio fratello".
Il dialogo offre un esempio di comunicazione tra due modi di pensare diversi traloro: uno – quello dell’interlocutrice italiana – di tipo analitico, l’altro -quello di Suzana – fondato invece sull’esposizione dei dati dell’esperienzaconcreta. Il discorso di Suzana, tradotto in termini analitici e"letterati", potrebbe diventare: "Presso la nostra cultura ledonne acquisiscono l’appartenenza al gruppo etnico del marito. Sia io che miofratello siamo nati Rom, ma lui, che è un uomo, ha conservato la propriaappartenenza all’etnia d’origine, mentre io, che sono una donna e ho sposato unalbanese, sono diventata albanese". Questo è il senso delle affermazionidi Suzana, le quali però non vengono offerte in termini di riflessioneanalitica e di categorizzazione dei rapporti di parentela e dell’appartenenza aidiversi gruppi etnici, Suzana, insomma, non spiega come funziona il sistema,astratto da una sua possibile applicazione concreta, ma mostra direttamente ilcaso specifico.
Da questo esempio emerge un’altra caratteristica delle culture di tradizioneorale, che è quella dell’apprendimento attraverso l’osservazione el’imitazione, piuttosto che attraverso la spiegazione astratta. Una trasmissionedel sapere che, come si è detto sopra, non spiega come funziona il sistema, mamostra il caso specifico, porta alla capacità di applicare elementi modulari diconoscenza, appresi per imitazione, alla realizzazione di nuovi oggetti, sitratti di prodotti materiali, di regole comportamentali o di discorsi. Come siapprende a costruire una pentola di rame avendo osservato e ripetuto i gesti dichi già ne costruisce; come si apprende quali siano i comportamenti sociali diuna donna nel ruolo di figlia, madre, moglie, ecc.; così, si impara a costruireuna narrazione, o anche a parlare una lingua.
E’ interessante, a questo proposito, descrivere il modo in cui i Rom tentano diinsegnare il romanes ai non zingari: non spiegando casi o declinazioni, eneanche insegnando i singoli vocaboli, ma offrendo l’esposizione di interefrasi, delle quali viene data solo la traduzione, peraltro non sempre letterale,senza scomporle in singole parole: così si impara ad usarle, prima che acapirle.

La nostra astrazione, la loro concretezza

Prendiamo ora un esempio di trasformazione di un discorso tipico dellacultura scritta, in una forma comprensibile a persone di cultura orale. La fraserivolta ad una giovane Sinta da un operatore sociale per spiegare cosa sono leborse lavoro: "Non sono un vero e proprio lavoro, ma percorsi di formazionefinalizzat ad apprendere un mestiere e a favorire un futuro inserimento nelmondo del lavoro" è risultata, naturalmente, incomprensibile e priva diinteresse: oltre alla terminologia astrusa/astratta ("percorsi diformazione finalizzati", "inserimento nel mondo del lavoro"), iconcetti stessi espressi in questa frase esigono un approccio di tipo analitico:si fa la borsa lavoro per apprendere un mestiere, la qual cosa consente dicercare un lavoro specializzato e dunque crea la possibilità concreta di essereassunti da un’azienda.
La traduzione effettuata da una mediatrice culturale dello stesso concetto inquesti termini: "Non è vero lavoro. Le ditte ti prendono per insegnarti unmestiere. Non ti pagano loro, ti paga il Comune. Così puoi dimostrare che saigià lavorare ed è più facile trovare un vero lavoro", lo ha reso piùcomprensibile e interessante per la giovane Sinta, in ragione della maggioreconcretezza dell’esposizione, che da un piano astratto e generale si spostaverso una maggiore concretezza, e in ragione della paratatticità degli elementiesposti.
Lo spostamento del piano del discorso nella versione tradotta, inoltre,focalizza l’attenzione sugli esiti concreti dell’apprendimento, piuttosto chesull’apprendimento stesso. Secondo Walter Ong la civiltà della scritturarichiede "una parziale demolizione del pensiero situazionale, ha bisogno diisolare l’io, intorno al quale ruota l’intero mondo delle esperienze vissutedall’individuo, e di spostare il centro di ogni situazione quel tanto che bastaper permettere di porvi l’io per esaminarlo e descriverlo". La mediazionetra pensiero fondato sulla scrittura e pensiero orale impone l’inversione diquesto spostamento: "la valutazione di sé si trasforma in valutazione delgruppo ("noi") e viene poi trattata in rapporto alle reazioni deglialtri", e, soprattutto, "il giudizio su un individuo vienedall’esterno, non dall’interno". L’individuo non fa le cose finalizzate ase stesse, ma proiettate verso l’esterno. Così la giovane Sinta può avereinteresse per le borse lavoro non per saper fare un mestiere, ma perché le puòessere utile nel rapporto con la comunità, perché il fatto che gli altrisappiano che lei sa lavorare può giovare a farla assumere. La formazionepersonale, l’attenzione per le proprie capacità e per il loro accrescimentoesistono, al pari del giudizio di sé, solo se riflessi dagli altri, seproiettati nella comunità e da essa restituiti. Il nome stesso del popolo deiRom del resto vuol dire semplicemente "gente", "umanità":è in realtà una non-definizione, che nelle sue articolazioni, si modella sulladefinizione dell’altro da sé, in opposizione o per concordanza con le propriecaratteristiche: Khorakhan‚, "alla maniera del Corano", è il nomedei Rom di religione musulmana; Dassikhan‚, "alla maniera deiSerbi", Š il nome delle stirpi di religione cristiano-ortodossa.

(in collaborazione con Nico Staiti, della cooperativa Andokampo)