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autore: Autore: Claudia Cervellati

4. Momenti che lasciano il segno

di Claudia Cervellati, insegnante di scuola primaria, conduttrice di laboratori di scrittura per adulti e bambini

Per crescere educativamente bisogna creare relazioni, perdere tempo, comunicare con i gesti, con le parole, con gli sguardi, ascoltare gli umori, i sapori, gli odori, le emozioni, usare le mani, il sorriso, il cuore, il tempo.
(Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca, Bologna, EMI, 2008)

Quando la mamma di un mio scolaro venne a un colloquio con una sporta di quaderni della figlia grande, ne fece una pila sulla cattedra dicendo: “Ecco, questi sono i chili di sapere trasmessi a mia figlia nella scuola elementare!”. Per un attimo ebbi paura di una recriminazione. Il suo bambino piccolo, affidato anche alle mie cure da un solo anno scolastico che stava per finire, non aveva prodotto tutti quei chili di sapere! In un lampo mi passarono davanti alla mente, come in una serie di immagini in dissolvenza tutto quello che avevamo vissuto in quell’anno e che non era stato pesato nelle pagine: la cura per una sola pagina scritta finalmente senza paura, con la mano che non tremava più, con la passione di un pittore, le ore passate a leggere gratis sdraiati sul prato nel giardino della scuola, tutti quei lunedì mattina a raccontarsi come stavano, ad ascoltare chi era buio per un piccolo o grande affanno e a ridere con chi nel fine settimana l’aveva combinata grossa. Tutte quelle ricreazioni passate a guardarli mentre giocavano, solo per conoscerli. Tutto quel tempo impiegato a incoraggiarli, ad aiutarli a mettere posto i loro 25 zaini, a orientarsi nel caos della scuola di 300 bambini, 40 maestri, 6 bidelli e dell’orario fatto di mille incastri. Tutto quel tempo impegnato a dare un nome a un sentimento, certa che di alfabetizzazione si trattava e di che alfabetizzazione! La gioia di sentirli leggere, da soli, di vederli tagliare la loro bistecca, di scoprire che la scrittura li stava appassionando. Quanto pesava tutto questo in chili di pagine?
Non fu necessario spiegare nulla a quella mamma: era venuta per dirmi il contrario di ciò che temevo. Lo capii dalle domande seguenti: “Cosa c’è di diverso qui? Perché mio figlio sorride, anche se ha iniziato la scuola elementare? Perché noi ora possiamo goderci i fine settimana anche se lui ha i compiti per casa?”.
Già, cosa c’è di diverso? Cosa c’è, dopo 26 anni, che mi tiene ancora viva nella giungla di riforme, registri, tagli, documenti, riunioni deliranti?
In modo sottile si è fatta un varco indelebile in me una strada, una scelta, che altro non è se non cercare di lavorare stando alla presenza del mio sentire, dei miei gusti, delle mie inclinazioni, dei miei ideali.
Il grande Bruno Munari mi illuminò quando scrisse in Verbale scritto (Mantova, Corraini, 2008) che semplificare è più difficile:
Per complicare basta aggiungere,
tutto quello che si vuole:
colori, forme, azioni, decorazioni,
personaggi, ambienti pieni di cose.
Già, per complicare la scuola basta aggiungere: riunioni, schemi, fotocopie, quaderni, materiali, parole, guide didattiche
Per semplificare bisogna togliere,
e per togliere bisogna sapere che cosa togliere,
come fa lo scultore quando a colpi di scalpello
toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’é in più.
Bella sfida, avventura affascinante, nuova strada per il mio lavoro.
Per togliere devo essere sempre pronta a correre il rischio che si arrivi all’essenziale, che la sostanza, spogliata di tutti i suoi abbellimenti, delle sue magnifiche infiocchettature altisonanti emerga e, in quanto sostanza, possa essere assaporata, guardata e anche giudicata. 
E per togliere devo decidere cosa togliere, quindi distinguere ogni giorno ciò che per i bimbi è essenziale e ciò che non lo è. E prendermene la responsabilità.
Togliere invece che aggiungere
vuol dire riconoscere l’essenza delle cose
e comunicarle nella loro essenzialità.
Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode.
Ecco, lavorare così significa anche essere pronta a essere meno popolare, meno alla moda, più attaccabile. Occorre avere ben chiaro cosa sto facendo per motivare tutto a chi, ogni giorno, mi affida nientemeno che il proprio figlio chiedendomi di educarlo, di insegnargli qualcosa.
Lavorare così significa rinunciare a molte certezze date dalle unità didattiche preconfezionate, ma soprattutto da tutto ciò che fa tendenza, didatticamente parlando. Significa per esempio rinunciare a presentarsi alle famiglie con la infallibile carta d’identità di un Progetto di informatica piuttosto che di Linguaggi Teatrali, ma parlare, fin dalla prima assemblea di classe di ascolto, di contenimento, di emozioni, di clima, di stare bene, di semplificazioni. E spiegare che non mancheranno il teatro, l’informatica e molto altro.
Lavorare così per me significa anche prendermi un serio impegno a livello di contenuti, poiché troppo spesso chi ha fatto scuola in questo modo è stato scambiato, a torto, ma spesso ahimè a ragione, per uno che non crede nella grammatica e nella analisi logica, nelle regole e nei contenuti.
Allora sfatare questi pregiudizi diventa un impegno feriale, per dimostrare che semplificando in modo saggio è possibile imparare i verbi e leggere gratis, avere tempo per colorare e per ascoltarsi, per entrare nei meandri della grammatica e del cuore con la stessa passione.
Ma allora, tornando alla domanda di quella mamma: cosa c’è di diverso?
Forse la relazione, forse un esserci non asettico, ma presente. Forse un far passare attraverso il mio cuore, oltre che attraverso la mia mente, la mia idea di fare scuola.
Proprio in questi giorni di battaglie furibonde contro il maestro unico mi chiedevo: e se ognuno di noi cercasse di diventare un vero maestro unico, non nel senso orario del termine, ma nel senso di uniche persone che incontrano altre uniche persone, in un tempo dilatato, senza frenesia?
Per tentare piano piano di fare questo ho dovuto resistere alla tranquillità che quintali di pagine e chili di schede appiccicate sui quaderni sanno dare.
E credere che anche l’incontro con i bambini, anche l’incontro tra loro sono momenti di vita e di scuola che lasciano un segno.

Eugenio, il bambino “difficile”

Quando Eugenio iniziò la scuola elementare, segnalato dalle insegnanti della scuola materna come bambino difficile, quale anche a me sembrò fin dai primi tempi, mi trovai a riflettere su come entrare

 

con lui in un rapporto sereno, costruttivo per entrambi, che lo aiutasse ad apprendere con gioia quello che di giorno in giorno gli proponevo. Eugenio era un bambino pieno di volontà, ma evidentemente disturbato da qualcosa che non riuscivo a definire. La sua famiglia, in apparenza molto "normale", senza particolari problemi, sembrava dargli tutte le attenzioni necessarie. Piano piano, stando vicino a lui e osservandolo bene, mi resi conto che si sentiva soffocato da un’ansia che lo sovrastava, fino al punto di non riuscire più a seguire le lezioni e di non poter avere né con me né con i compagni rapporti sereni. Mi chiesi come parlarne alla famiglia, la quale in passato non era sembrata molto disponibile a mettersi in discussione. Passò un po’ di tempo, che usai per riflettere sul mio rapporto con le famiglie dei miei scolari; a fasi alterne le avevo sempre considerate più o meno faticose da affrontare, più o meno ostacolanti il mio lavoro. In particolare negli ultimi anni sentivo nell’aria della scuola una certa ostilità verso le famiglie, un volersi difendere come insegnanti dalla loro ingerenza. In effetti alcune famiglie lo erano davvero; con alcuni genitori il dialogo era piuttosto difficile; anche da parte loro notavo un atteggiamento di facile critica al lavoro delle insegnanti. Decisi di parlare ai genitori di Eugenio con semplicità, cercando di avvicinarmi a loro, con la fiducia che insieme saremmo riusciti ad aiutare il bambino. La semplicità non poteva trasformarsi in banalità: i segnali che Eugenio dava del suo disagio, non ancora definito ma presente, erano preoccupanti. Semplicità e chiarezza, quindi. Senza diagnosi, peraltro non di mia competenza; senza allarmismi, inutili; senza colpevolizzare le persone o le situazioni. Soprattutto sentivo che la famiglia di Eugenio poteva trasformarsi per lui in una enorme risorsa per affrontare i suoi problemi. Io, come insegnante, volevo solo pormi accanto a loro, aiutarli a vedere quello che, come genitori, spesso fatichiamo a vedere, forse perché troppo vicini al bambino, troppo coinvolti nel rapporto che ci lega a un figlio. Un altro aspetto cercai di mettere a fuoco dentro di me prima di parlare con la famiglia: non pretendevo che il nostro dialogo fosse risolutivo o terapeutico; volevo solo mettermi con loro a cercare di capire Eugenio, il suo mondo, le sue difficoltà, le sue potenzialità; volevo insieme a loro capire se le nostre risorse potevano essere sufficienti a sbloccare la situazione oppure se fosse necessario chiedere aiuto. I genitori di Eugenio furono di una semplicità disarmante quando io parlai loro delle mie preoccupazioni: semplicemente piansero, sconfortati dal fatto che una persona esterna aveva confermato i loro sospetti. La loro reazione mi rincuorò, perché mi fece capire che si erano sentiti liberi e forse anche accolti. Ci dicemmo che intanto era importante esserci parlati, esserci in qualche modo scoperti in difficoltà. Già solo dire che Eugenio aveva dei problemi mi sembrava un passo importante. Stare in presenza di questo, per me e per loro, era faticoso ma utile. Questo non negare insieme un problema era già una bella conquista. La famiglia di Eugenio prese in mano in breve tempo la situazione di difficoltà del bambino, si rivolse ad un esperto, il quale chiese anche la collaborazione delle insegnanti. Iniziò così un rapporto tra la scuola e la famiglia che io ricordo tra i più costruttivi della mia esperienza professionale. Tutti i colloqui successivi al primo furono segnati da quella fiducia e da quel rispetto che ci consentivano di essere schietti e accoglienti, sinceri e tolleranti. Eugenio trasse un beneficio immediato dal fatto che intorno a lui c’era chi prendeva in mano la situazione per lui, sgravandolo così di un peso insopportabile. Il percorso fu pieno di difficoltà e di dubbi. Il bambino però sembrava essere più sereno e apprendeva, come gli altri. L’esperienza con la famiglia di Eugenio mi insegnò che un rapporto equilibrato tra genitori e insegnanti era non solo possibile, ma doveroso. In molte altre occasioni successivamente ho poi avuto conferma che spesso la famiglia può essere causa e soluzione al tempo stesso dei problemi del figlio. Anch’io come insegnante posso essere tale. Ma se non ce lo diciamo, con semplicità e rispetto, può darsi che gli anni della scuola passino invano.