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autore: Autore: di Alessandra Pederzoli

Una pennellata, una parola, una… e una…

“Ci sono mondi che sembrano distanti
anche quando si incontrano nello stesso palazzo,
nel quartiere o nella città
e mondi che sembrano lontani per lingua, cultura,
religione o geografia”.

(dal sito della Comunità di Sant’Egidio)

Sono mondi che devono coesistere e convivere sotto lo stesso cielo, spesso nelle strade di una stessa città, sui banchi della stessa classe; e sono i protagonisti di questa tredicesima edizione della mostra “Abbasso il grigio”, ospitata al Museo di Roma in Trastevere a inizio autunno. Sulla scena sono gli ingranaggi della coabitazione, le sue vie e i suoi percorsi all’interno dei quali si intrecciano i vissuti, le vite, le storie e i volti di stranieri, rom, anziani e gente comune. Come sempre succede anche l’arte contemporanea è chiamata a interrogarsi sulle questioni importanti del nostro tempo, a colpi di colore è chiamata a tentare delle risposte o, perlomeno, a comunicare un pensiero, un modo di sentire, capace di andare oltre le parole. Spesso usate. Spesso abusate.
Con “Abbasso il grigio” a farlo sono artisti disabili, protagonisti dei laboratori creativi di ricerca e sperimentazione della Comunità di Sant’Egidio e che fanno parte de “Gli Amici”, movimento della Comunità, costituito da migliaia di disabili mentali, con i loro familiari e amici, presente in diverse città italiane ed europee, e di altre dieci associazioni.
Sono gli ingranaggi e i meccanismi del vivere insieme che caratterizzano le nostre città di oggi, spesso violenti ma anche accoglienti: le migrazioni di oggi insieme a quelle del passato, la convivenza che attraversa i diversi colori degli uomini, la presenza degli zingari, le guerre che ancora abitano questo mondo, i viaggi della speranza di chi scappa dalla disperazione per tentare di concedere dignità a una vita che tanta ne potrebbe avere. Tutto questo passa attraverso i colori, nei profumi e nelle forme delle opere di questa tredicesima edizione, che sembra voler urlare, insieme a quel “Abbasso il grigio”, anche la fiducia nella costruzione di un mondo che sia per tutti. Opere forti che mostrano questa nostra società estremamente stratificata, ricca di contraddizioni e di barriere contro le quali scontrarsi ma anche un bacino di potenzialità, di ricchezze e meraviglie da non lasciar andare. Tele, sculture, video, parole e scritti a rappresentare proprio questo percorso, attraverso la ricerca della coabitazione pensata come possibile. Una sfida possibile.
Il quadro La tonnara dei clandestini racconta i viaggi della speranza che gli immigrati intraprendono per raggiungere le nostre coste e cercare un futuro migliore. Fuoco a Marcinelle, incentrata sulla tragedia in cui rimasero uccisi duecentocinquanta nostri connazionali immigrati in Belgio, mostra come anche gli italiani fino a non troppi anni fa, abbiano lasciato la loro terra per subire, o semplicemente vivere, il confronto con un mondo nuovo nel quale immergersi e integrarsi, nel quale l’incontro del diverso era, anche allora, una sfida. Molte le opere che hanno scelto come protagonisti i Rom e gli Sinti, definiti in una poesia che ha accompagnato le opere, come un “popolo piccolo libero senza papà”; così come il ricordo alla loro persecuzione e sterminio nei campi nazisti, illustrato nella tela Il triangolo marrone, a ricordare proprio il segno distintivo dei Rom all’interno dei campi di concentramento.
Tutto passa dalla tela: colori diversi e diverse tecniche espressive, così come sono molteplici le personalità artistiche dei partecipanti. Si passa dagli acquerelli con colori vivaci, ai pastelli con sfumature delicate, dall’essenzialità morbida dei carboncini, alle linee stilizzate delle chine. Fantasia e sensibilità diventano spontaneità di espressione, colori e tratti sostituiscono l’inadeguatezza della comunicazione prettamente verbale. In “Abbasso il grigio” i colori e le immagini si mescolano alle parole per diventare un importante invito all’ascolto: quel grido alla possibile coabitazione è anche un vero e proprio appello a prendere sul serio la voce di questi artisti che non usano la comunicazione verbale. Non lo sanno fare, non lo possono fare. Non per questo non comunicano. Lo fanno in un modo del tutto originale: mettono mano alla fantasia, alla creatività che si nasconde nel “dire senza dire”, nella pennellata, nel tratto a volte deciso e a volte debole e soffice in mezzo al mescolarsi convulso di parole. E ancora parole. E ancora parole.
Una carrozzina smontata, di cui sono stati scelti pochi pezzi, viene rimontata liberamente. I pezzi di tre carrozzine vengono riassemblati in qualcosa che non è una carrozzina, non sono nemmeno tre carrozzine. Sono qualcosa d’altro, Qualcosa di diverso. Sembra un nuovo pensiero. Così l’arte che “Abbasso il grigio” mostra non è solo espressione artistica, non è nemmeno lavoretto per impiegare il tempo delle lunghe giornate d’inverno all’interno di un centro diurno. Si tratta di un’esperienza artistica che è innanzitutto un canale espressivo, laboratorio del bello e stanza delle idee. È stimolante vedere l’intrecciarsi di linguaggi, l’affollarsi di tratti, suoni, parole, ingranaggi e bulloni; stimolante vederne la forza comunicativa. Sono persone disabili che comunicano senza inventarsi nulla di nuovo, semplicemente dando forma concreta alle idee, ai modi di sentire, alle passioni che riguardano il nostro vivere di tutti i giorni.
I quadri non parlano di disabilità, i testi non parlano di disabilità, la carrozzina smontata e rimontata niente ha a che vedere con la disabilità. Finalmente un contesto nel quale possiamo trovare un dolce connubio tra disabilità e comunicazione, tra disabilità e linguaggio. Lo si fa senza dover passare attraverso la disabilità negli argomenti e nei contenuti. Si parla di altro, di molto altro. Unico elemento in comune con la disabilità è la ricerca e la fiducia nella costruzione di un mondo per tutti. Dove anche il diverso è uno tra tutti. Dove anche l’uno può esprimere il meglio di sé in mezzo a tutti.

Il margine del campo che diventa fertile

Di Alessandra Pederzoli

Capezzaia è il margine inutilizzato e incolto dei campi. Capezzaia è anche il nome scelto per una pasta fresca distribuita dalla Coop Tirreno in trentotto punti vendita della regione Lazio. Il margine del campo e la freschezza di questo prodotto sono la sintesi di un progetto della Comunità Capodarco di Roma che da trent’anni si impegna in svariati progetti di integrazione sociale e lavorativa di persone disabili.
Il laboratorio Sociale Produttivo di pasta fresca concretizza proprio un percorso di riabilitazione che coinvolge settantacinque disabili mentali e psichici di età molto varie, comprese tra i venti e i cinquant’anni, che oggi diventa un vero e proprio progetto imprenditoriale. Un progetto che si inserisce in una dimensione di economia etico sociale capace di mettere al centro la persona come soggetto primo da privilegiare e poi il profitto e il guadagno: con questa idea fondamentale si è sviluppato il progetto che oggi ha portato la pasta di Capezzaia nei supermercati della grande distribuzione. Un prodotto che sembra dunque contraddistinguersi per il suo coniugare genuinità del prodotto e integrazione delle persone.
Non casuale il nome “pasta di Capezzaia”, teso a sottolineare l’accostamento del margine solitamente incolto e improduttivo del campo e quella parte di società che non si vede e che silenziosamente viene tenuta ai margini della collettività e, soprattutto, delle dinamiche dei processi produttivi. Un accostamento che genera un contrasto con la produttività: oggi infatti quel terreno e quella collettività tenuta ai margini ha dato frutto ed è divenuta terra fertile, feconda di buoni frutti e di risultati più che soddisfacenti. L’inserimento lavorativo delle persone impiegate nel Laboratorio della pasta è, di fatto, un inserimento a tutti gli effetti, all’interno di un vero e proprio stabilimento industriale nato a Pomezia e finanziato dall’Unicoop Tirreno che grazie alla raccolta dei punti spesa è riuscita a collaborare per un totale di centosessantamila euro. Di fatto, trattandosi di una raccolta punti spesa, non solo Coop è stata coinvolta in questo percorso di emancipazione socio-lavorativa, ma anche molti consumatori soci e clienti di Coop Tirreno che attraverso l’iniziativa “Basta un gesto” hanno contribuito a sostenere l’attività del laboratorio, devolvendo i punti non utilizzati per il ritiro dei vari premi o dei buoni sconto, sono andati a incentivare il finanziamento per la Comunità e il suo Laboratorio. Un percorso di emancipazione dunque che vede coinvolti molti personaggi: innanzitutto la Comunità di Capodarco di Roma che ne è promotrice, i settantacinque lavoratori, l’Unicoop Tirreno ma anche i consumatori che non solo si ritrovano a poter orientare sulla pasta di Capezzaia le proprie scelte di consumo, ma ne hanno anche promosso la realizzazione e la messa in vendita.
Tutto questo mostra quanto sia possibile coniugare una produzione di qualità capace di viaggiare sui circuiti tradizionali della grande distribuzione con l’impiego di quella che viene definita comunemente “manodopera residua”. Per certi versi, tutto ciò è a dir poco rivoluzionario. Un passo in avanti compiuto anche dalla Comunità all’interno della quale fino a oggi si sono messi in piedi laboratori artigianali di oggettini e piccoli manufatti che nulla hanno a che vedere con la produzione della pasta che invece ha proprio le caratteristiche del prodotto di largo consumo portato e distribuito nei supermercati. Realizzato inoltre, con tutti i controlli di qualità necessari per l’immissione in commercio. Questo progetto “pasta di Capezzaia” infatti, prendendo spunto dai Laboratori Sociali condotti dalla Comunità a partire dal 2004, viene a fissarsi come momento di passaggio importante nelle pratiche di inserimento lavorativo messe in atto.
Tutte le riflessioni circa i miglioramenti della qualità della vita delle persone impiegate in questi Laboratori hanno portato a osare nel progetto di Capezzaia. Una riflessione che va oltre e guarda a quanto i lati positivi riguardino anche i futuri consumatori del prodotto. Chi produce la pasta riesce a sentirsi realmente utile trovando un posto all’interno di un processo produttivo; per chi invece la acquista e la consuma significa rendersi conto della possibilità di coniugare insieme qualità e integrazione, tanto orientare in modo diverso le proprie scelte di consumo.
Ecco che i consumatori diventano consumatori critici e i produttori diventano soggetti attivi di un’economia etico-sociale. Un processo, anche questo, che attraverso una dinamica strettamente commerciale, va oltre le categorie e coinvolge tutti, in egual misura, in un processo di cambiamento.
Alla conferenza di presentazione del prodotto, tenutasi a Roma a inizio aprile, hanno partecipato il presidente della Comunità di Capodarco don Vinicio Albanesi, Marco Lami, Presidente di Unicoop Tirreno, Enrico Mentana, giornalista, e l’Assessore regionale alle Politiche Sociali, Anna Coppetelli. È il presidente di Unicoop ad allargare un po’ i significati di un’azione come questa che Coop ha deciso di sostenere, per guardare a quanto “la pasta di Capezzaia” smuova un “moderno concetto di mutualità”. Guarda alle richieste sempre diverse e sempre maggiori dei clienti consumatori Coop, che sembrano non accontentarsi più solo del prodotto buono, o discreto, acquistato a un prezzo basso. Anzi. Il consumatore vuole qualcosa in più che parte da una richiesta di qualità e di controllo su quella qualità, per arrivare a chiedere al supermercato di fornirgli la possibilità di orientare anche criticamente i propri acquisti. Ogni atto di acquisto sembra oggi riflettere bisogni molto diversi dei consumatori: l’acquisto assume sempre di più una scelta di valore, oltre che la soddisfazione a un bisogno della persona che acquista.
Probabilmente osare e allargare un’esperienza come questa significa farla diventare normale, e solo allargando questo concetto di “normalità” iniziamo a sentirci tutti parte di questo ciclo del prodotto: chi da consumatori, chi da produttori, chi da mediatori per la vendita. E più diventa una pratica normale e più incide anche sull’economia che assume sempre più i toni dell’economia eticamente sostenibile, guardando alle persone e non al soldo. Guardando al prodotto e a chi lo produce. Guardando ai suoi significati.

Di nuovo al lavoro. Una nuova esperienza

Di Alesandra Pederzoli

Nasce anche un film dal progetto torinese “La Ghianda – Oltre il trauma”, progetto pluriennale finanziato dalla Comunità Europea che ha l’obiettivo di ragionare e intervenire sull’inserimento lavorativo delle persone con disabilità acquisita. Se mi fermo poi riparto è un film che traccia un bilancio di un’esperienza, con lo scopo di condividere con altri il vissuto di questi tre anni di impegno; obiettivo a cui si accosta anche l’intenzione di trovare nuove strade, sperimentare percorsi alternativi e innovativi che siano capaci di porre le basi per continuare questo impegno intrapreso.
In questi tre anni di lavoro, il progetto ha visto il coinvolgimento congiunto di diversi soggetti operanti sul territorio, strutture sanitarie e non, quali l’Ente Acli Istruzione Professionale (Enaip), l’Azienda Ospedaliera Maggiore della Carità di Novara, il Centro Studi Don Calabria, la società di formazione, ricerca e comunicazione Eclectica e le associazioni Bip Bip Onlus e C.A.S.T. Soggetti che in diversa misura, e con competenze anche differenti, operano tutti a partire da un punto di vista comune e collettivo: trasformare coloro che sono pensati dalla società come portatori di disabilità in portatori di competenze, seguendo processi nei quali i soggetti interessati non sono oggetto di un intervento mirato ma sono piuttosto veri e propri “attori protagonisti”. Di fatto gli enti coinvolti sono soggetti che hanno una natura professionale profondamente differente in grado di mettere in campo delle competenze anche molto diverse. Probabilmente un punto di forza questo. Da un lato c’è chi conosce l’esperienza della disabilità, o perché la vive in prima persona (coloro a cui il progetto è destinato che abbiamo definito “attori protagonisti”) o perché ne ha esperienza in qualunque altra misura; dall’altro c’è invece chi si occupa professionalmente di mediazione al lavoro e svolge costantemente un’azione capillare di diffusione di buone pratiche e di nuove metodologie di intervento, al fine di reinserire nel mondo del lavoro chi ha perso alcune competenze a causa di un trauma. Ecco perché si può dire che alla base del progetto vi sia in realtà un’azione intensa e fondamentale di dialogo tra chi vive la situazione del trauma e chi interviene sul mondo del lavoro, un mondo pieno di sfaccettature e risvolti non sempre accoglienti nei confronti della “competenza persa o modificata”: l’opportunità e lo scambio come base su cui costruire proprio le pratiche di inserimento e di integrazione lavorativa nuova.

Produttività e indipendenza
Le imprese, e il mondo del lavoro più in generale, spesso non si dimostrano particolarmente disponibili al mantenimento del posto di lavoro per persone che perdano improvvisamente competenze e modalità operative. Spesso diventa difficile anche a livello imprenditoriale riuscire ad accettare una ridefinizione delle mansioni e dei ruoli ricoperti dall’individuo all’interno dell’azienda, quasi a sottolinearne la rigidità e la struttura a misura di mercato e non a misura d’uomo. Di fatto la persona che prima non era disabile e che svolgeva determinate funzioni in un ambito lavorativo e che poi diventa “incapace” di mantenere tali mansioni, per l’azienda è spesso percepita come un peso o un ostacolo alla produttività. Il disabile risulta essere improduttivo e un costo. Inutile dire come una percezione di questo tipo pesi enormemente sulla persona e sulla sua autostima già profondamente segnata dall’esperienza del trauma, una ferita che spesso necessita di molto tempo per rimarginarsi. A questo disagio sul lavoro spesso si affianca anche una fatica della persona a ridefinire tutti gli altri ruoli ricoperti prima del trauma. Un percorso irto e complesso. Si mettono in fila una serie di necessità e di nuovi bisogni, che non sono solo quelli strettamente fisici della riabilitazione di funzionalità strutturali della persona, ma anche e soprattutto si tratta di bisogni di natura psicologica e sociale. Accettare una condizione nuova e profondamente diversa; cercare di cucire addosso a questa condizione un nuovo modello di indipendenza che spesso può voler dire una indipendenza che comunque necessita dell’aiuto e del sostegno di altri; la necessità di ritrovare e ricercare nuovi stimoli e nuovi ambiti in cui impiegare e mettere a frutto le proprie energie. Un percorso complicato in cui ogni ambito e ogni aspetto della persona (chiunque essa sia, disabile e non) viene chiamato in causa. Si tratta di pensare alla famiglia di origine o effettiva, di ricollocare gli affetti e i vari legami che si trovano a dover fare i conti con una condizione modificata che incide anche sulle modalità di relazione con la persona stessa; di ripensare all’ambito lavorativo: un ambito oggi fondamentale nel quale le persone vivono, si realizzano, mettono in campo competenze e abilità, maturano esperienze e intrecciano legami.
Ecco perché si rende necessario ricostruire i rapporti sociali dell’individuo, riscoprire le sue attitudini, valorizzarne i talenti per ricreare una nuova routine quotidiana che si basi proprio sulla consapevolezza della nuova condizione, capace di acquisire una sempre maggior autonomia.
Progetti come “la Ghianda” (e i molti altri sorti e avviati in Italia in questo periodo storico) hanno proprio l’obiettivo di migliorare le capacità del disabile, per reinserirlo nella società e nel lavoro: il traumatizzato perde delle competenze ma ne acquisisce altre che possono emergere attraverso un costante supporto e impegno, a partire dall’idea di fondo che ogni persona può maturare come individuo solo se ha l’occasione di conoscere, confrontarsi, impegnarsi e agire, vivendo esperienze in ambienti sociali come il lavoro, il tempo libero e la famiglia. Questi progetti pongono il focus sui primi due per proporre una serie di attività culturali e ricreative capaci di sensibilizzare la società sul recupero dei traumatizzati, in particolare il mondo del lavoro, e per dare sostegno a queste persone, agli operatori e alle famiglie.
Le persone disabili, per cui sono pensati tali progetti, vengono dunque coinvolti nell’organizzazione di laboratori teatrali, nella creazione di testi e video, nella realizzazione di conferenze e campagne di sensibilizzazione e prevenzione sulla “disabilità acquisita”. E sono innanzitutto affiancati da un’attività di orientamento, di ricerca attiva del lavoro, di accompagnamento al lavoro e di tutoring, per il quale spesso viene incaricato una figura di educatore esperto che ha il compito di creare un modello di inserimento idoneo per il disabile nel lavoro, oltre a individuare le sue competenze per meglio svilupparle. Questi percorsi educativi e rieducativi includono anche la partecipazione delle aziende per affidare anche a loro un ruolo attivo e propositivo che non sia solo la gestione dei numeri aziendali e che tenga conto anche dell’ascolto proprio delle dinamiche aziendali per trovare modo di discutere i loro problemi nella gestione e riabilitazione di soggetti traumatizzati sul luogo di lavoro.
Probabilmente il mettere insieme tutti questi soggetti e il mettere in campo le competenze e le professionalità di ciascuno, significa innanzitutto porre al centro la persona con le sue molteplicità e le sue complessità. Significa pensarla prima di tutto come oggetto-soggetto di un processo collettivo della società intera che ha il compito di ripensarsi, prima ancora di ripensare alla persona che si trova a ricostruirsi per trovare nuove modalità di stare e di essere.