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autore: Autore: di Nadia Luppi

Inclusione e lotta alla mafia: se un pizzico di follia è la chiave del futuro

Il Sud e il Nord non sono un semplice fatto di latitudine o di mappe Onu. Il Sud e il Nord sono prospettive, culture, logiche d’azione che convivono l’una nell’altra e si scontrano nella medesima battaglia. Lotta alla mafia e sfide dell’inclusione sociale sono tematiche cruciali a ogni latitudine, soprattutto se consideriamo la mafia qualcosa di ben più complesso di un insieme di simboli mutuati da una obsoleta pellicola hollywoodiana e parlando di inclusione facciamo riferimento a un percorso complesso che ha a che fare con l’individuo e con la comunità.
Casa Caponnetto, via Crispi 56, 90034 Corleone. Qui, dove abitavano i Grizzafi, nipoti di Salvatore Riina – grazie alla legge sull’uso sociale dei beni confiscati – oggi batte il cuore pulsante della Cooperativa Lavoro e Non Solo, meglio conosciuta dai corleonesi come la “Cooperativa dei Pazzi”. “I Corleonesi ci chiamano così – spiega il presidente Calogero Parisi ai giovani volontari dei campi di lavoro – perché da oltre dieci anni siamo impegnati in progetti di inserimento lavorativo di persone con disagio psichico, ma anche – precisa con sorriso sornione – perché è difficile distinguere tra noi chi è matto da chi è normale”. Gli fa eco Salvatore, socio da sempre in prima linea accanto agli utenti inviati qui dal Dipartimento di Salute Mentale di Corleone: “Se non sei un po’ matto, non ci puoi lavorare qui!”. Perché Corleone, nonostante il grande fermento di associazioni e gruppi giovanili, a dispetto dell’impegno congiunto di amministrazione, sindacati e parte della società civile per cambiare le cose, resta terra di mafia, ogni corleonese ha una precisa idea del potere di Cosa Nostra e prendere posizione è molto più difficile qui che altrove. Lavorare i terreni confiscati ai mafiosi equivale a sfidare il potere a viso aperto, subire minacce, furti e atti vandalici affrontando difficoltà e ostacoli che forse senza un pizzico di follia potrebbero apparire insuperabili, tanto più che all’inizio in molti erano sicuri che questo fosse l’ennesimo inutile progetto strampalato di un gruppo di matti destinato a fallire. E invece la Cooperativa è cresciuta costantemente, la rete di collaborazioni è sempre più ampia, e con l’andare del tempo anche l’atteggiamento della comunità corleonese è cambiato, poiché la Lavoro e Non Solo, coi suoi 150 ettari di terreno, si conferma come una realtà capace di crescere e di dare lavoro dove la disoccupazione dilaga.

I percorsi di inserimento lavorativo iniziano nel 2000, anno in cui vengono assegnate le prime terre. Da allora sono stati diversi gli utenti del Dipartimento di Salute Mentale di Corleone coinvolti nelle attività, alcuni dei quali sono oggi – dopo un percorso riabilitativo – soci a tutti gli effetti. Carmelo Gagliano, dirigente medico del DSM responsabile delle attività riabilitative fino al 2009, ricorda come fino al 2006 la cooperativa si facesse carico di ogni utente senza poter contare su alcun finanziamento. “Questo denota con chiarezza come piccole realtà dalla grande capacità inclusiva come la Lavoro e Non Solo si dimostrino all’avanguardia”.
A Casa Caponnetto la sfida dell’inclusione sociale della diversità si mescola all’azione di contrasto del sistema di potere dominante, quello mafioso. Viene da chiedersi se le due cose possano andare avanti di pari passo, o se invece l’una tenda a escludere l’altra, minandone la buona riuscita. Non sarebbe più facile, per chi soffre di un disagio psichico e deve inserirsi in un contesto sociale tanto complesso, appiattirsi semplicemente sullo status quo come fanno tutti gli altri? Non sarebbe più semplice per chiunque, e a maggior ragione per chi sembra avere meno diritto degli altri a essere parte della comunità, raccontare che si coltivano ceci, lenticchie, grano e melanzane senza dover aggiungere che lo si fa lavorando quelli che erano i terreni dell’uno o dell’altro boss?
“Mi chiedo se abbia senso parlare di integrazione – si interroga Gagliano – quando ci si limita a prendere quattro o cinque pazienti con disagio psichico, a dar loro un capo e mandarli a lavorare la terra o se invece non si tratti di ulteriore ghettizzazione. Al contrario chi trascorre un periodo in borsa lavoro qui si trova immerso giorno per giorno in un gruppo di persone che portano avanti un’idea, che si riconoscono in quegli ideali di giustizia, di legalità, di uguaglianza dei diritti di ciascuno che a Corleone come altrove finiscono per essere meno importanti di un nome, di una minaccia o di un ragionamento”. Ed è stato proprio respirando quell’atmosfera e sentendosi parte di un gruppo che qualcuno ha superato il disagio e adesso ha una vita propria, qualcun altro ha preso coraggio, ha puntato sulle proprie competenze e ha trovato un lavoro più adatto a sé, dimostrando a se stesso e agli altri di potercela fare. Ripenso al mio arrivo a Corleone, al sorriso con cui Gaetano (nome di fantasia), incontrato lungo la strada, si offrì senza quasi conoscerci di portare in auto le nostre valigie fino a Casa Caponnetto, a Gaetano che ha trascorso l’estate con centinaia di volontari da tutta Italia, che ha insegnato a chi non sapeva nemmeno cosa fosse una zappa a lavorare la terra, cenava in silenzio e rideva con noi, perché era uno di noi. Questo è riscatto.
Sentirsi parte di una rete che va ben al di là del proprio piccolo paese e che coinvolge i giovani di tutta Italia significa imparare da un lato a rapportarsi non solo con gli stessi colleghi di lavoro, ma con centinaia di persone dalle storie più disparate, viaggiare verso altre città dove intrecciare nuovi legami, sentendosi protagonisti di un mondo che è pronto a riconoscerti come parte di sé e non come “diverso” o “minoranza”.
Ma a prova del fatto che schierarsi non è mai una scelta facile, né indolore rimangono i casi di utenti che potrebbero aver rinunciato a lavorare qui proprio per evitare di prendere posizione, per vincoli parentali o per timore di subire ritorsioni. Ma molto più spesso i risultati sono stati più che positivi anche sul piano delle relazioni familiari e amicali. “Quando in passato a Casa Caponnetto abbiamo organizzato iniziative pubbliche, insieme agli utenti partecipavano anche le loro famiglie e i loro amici, che avevano così l’opportunità di toccare con mano cosa significasse stare assieme, vivere esperienze di inclusione socio-lavorativa e portare avanti una cultura di legalità e di lotta alla mafia”, ricorda lo psichiatra.
Ecco perché a buon diritto si può parlare – come fa lo stesso Gagliano – di un doppio traguardo: “Attraverso questi percorsi, volti all’inclusione e all’emancipazione delle diversità, da un lato si danno al singolo gli strumenti per scegliere da che parte stare e dall’altro si riesce a portare avanti anche un’opera di penetrazione culturale che coinvolge l’intera comunità, obiettivo primario di quelle cooperative che lavorano i terreni confiscati”.
Esperienze come queste dimostrano che la cultura e il potere mafioso – che si reggono su logiche individualiste e di privilegio volte a mantenere lo status quo – possono subire duri colpi da azioni di contrasto basate sulla logica dell’inclusione della diversità come valore, che guardano al futuro, a un cambiamento possibile. A prova del fatto che siamo davanti alla messa in campo di un potenziale di rinnovamento che può far paura, ci sono da un lato i campi bruciati, gli atti vandalici e i furti subiti, e dall’altra l’atteggiamento distaccato e sufficiente di parti della comunità che ancora stentano a riconoscere l’importanza di questi progetti. “Credo che tutti qui siano convinti dell’importanza dell’integrazione – precisa Gagliano – ma temo che il taglio delle risorse o certe scelte in fatto di riabilitazione tradiscano il timore che l’integrazione della diversità si trasformi in autonomia decisionale, in capacità critica e nel coraggio di contrastare certe situazioni di marginalità sociale. In altre parole credo che ci sia il rischio che progetti all’avanguardia come questo possano non essere compresi in un contesto culturale che è tradizionalmente più propenso a riservare a chi è affetto da un disagio psichico attività molto più banali e immediate, lasciando certe opportunità a chi può esser considerato ‘normale’”.
Ma come rendere replicabili queste esperienze? Come evidenziare il loro valore formativo e fare in modo che vengano riconosciute come qualcosa di diverso e di peculiare che va sostenuto? “Come esistono linee guida per la chirurgia o l’integrazione scolastica dei disabili – ipotizza lo psichiatra –
vorrei che ne fossero stilate anche in materia di disagio psichico, in modo che i progetti non debbano essere più valutati solo in termini di costi. Dobbiamo sostenere quelle esperienze che per quanto complesse, possono rendere la persona capace di decidere cosa è giusto e cosa non lo è, insegnandole a contare su se stessa e non su favori e privilegi, dandole la possibilità di essere o tornare a essere un cittadino integrato”.
“Da quando siamo qui – ripete Calogero ai gruppi di volontari che arrivano a Casa Caponnetto ogni estate – chi abita in via Crispi si è rimpossessato del proprio balcone perché ora può affacciarsi liberamente senza temere più di essere additato come uno scomodo testimone di traffici poco chiari”. Oggi, affacciandosi da quei balconi come dai terrazzini di Casa Caponnetto si può guardare un po’ più lontano, a patto che si sia pronti a riconoscere che l’inclusione sociale, l’uguaglianza dei diritti di ognuno e la lotta alla mafia vanno nella stessa direzione, verso un futuro migliore e possibile.

Lo sguardo sullo scafale – Sordità minorile in Bas-Congo: il nuovo istituto “Florentia”

A Boma, città portuale congolese adagiata sull’estuario del fiume Congo, è sorto un nuovo istituto che accoglierà circa un centinaio di bambini sordi e darà loro la possibilità di essere curati e istruiti e di sperare in un futuro di più facile inclusione sociale. L’istituto “Florentia” è il risultato del progetto “La Sordità non ha Colore”, portato avanti con caparbietà dall’omonima associazione e da una rete di solidarietà guidata dal Prof. Giuseppe Gitti, direttore del Centro di Riabilitazione Ortofonica di Firenze e grande esperto per tutto ciò che riguarda la sordità minorile.
È proprio il prof. Gitti a chiarire le ragioni di un tale progetto e le sfide che lo animeranno.

Sappiamo che nonostante le grandi ricchezze naturali la Repubblica Democratica del Congo resta uno dei paesi più poveri del globo, nel quale prima una feroce dittatura e poi un conflitto armato tra i più sanguinosi della storia hanno completamente distrutto Stato e comunità. Può aiutarci a tracciare un quadro più preciso della situazione nella quale vi siete trovati a operare?
Innanzitutto consideriamo che il nuovo istituto per bambini sordi “Florentia” si trova a Boma, in Bas-Congo, in una zona cioè che per povertà e assenza di infrastrutture non fa purtroppo eccezione rispetto al resto del paese.
Lo Stato è sostanzialmente inesistente e diritti che per noi sono scontati, come l’accesso alle cure mediche e all’istruzione restano ancora un privilegio riservato a chi ha certe possibilità economiche, mentre continuano a essere un miraggio per la maggior parte degli abitanti.
In una situazione come questa è facile immaginare che le persone disabili non ricevono dallo Stato nemmeno i servizi più essenziali, quando per di più le famiglie stesse versano in condizioni tanto drammatiche da non poter provvedere in alcun modo al loro sostentamento e alla loro cura.

Qual è, da un punto di vista più specifico, la situazione rispetto alla sordità in Repubblica Democratica del Congo?
Premesso che in Congo è pressoché impossibile stilare statistiche, abbiamo comunque potuto verificare che contrariamente a quanto si potrebbe pensare la percentuale dei sordi laggiù non è molto diversa da quella italiana. Questo perché le prime vittime dello spaventoso tasso di mortalità infantile sono tutti i bambini con qualche disabilità, quindi anche quelli sordi. Un dato interessante – anche se mancano numeri precisi – è il fatto che tra le cause ereditarie della sordità figuri anche il matrimonio tra consanguinei, una pratica che io stesso ho potuto constatare durante i miei viaggi in Bas-Congo.
Per quanto riguarda l’educazione e abilitazione dei bambini sordi la situazione è a dir poco disastrosa. Esistono piccolissime realtà a Kinsasha e in altri centri, gestiti con indubbia generosità da congregazioni religiose, ma che hanno a che fare con difficoltà oggettivamente insormontabili. Gli abitanti del Bas-Congo non possono contare sulla presenza di ambulatori medici facilmente raggiungibili… Basti pensare che prima dell’apertura del centro “Florentia” non esistevano centri specializzati per le patologie dell’udito nel raggio di 400 km, una distanza infinita se consideriamo la carenza di vie di comunicazione e di mezzi di trasporto della zona.
Non dobbiamo dimenticare che la qualità della vita di una persona affetta da deficit uditivo dipende essenzialmente dalla tempestività della diagnosi e dalle cure che le vengono offerte. Un bambino sordo non è condannato a essere muto e ancor peggio a restare escluso dalla comunità, ma per scongiurare questo rischio occorre mettere in campo risorse, competenze e azioni specifiche.
Proprio per questa urgenza di fare qualcosa e di dare una chance a quei bambini, ci siamo avvicinati all’idea di attivare un filo diretto con il Congo. Ma l’esperienza ci ha insegnato che se non si valuta obiettivamente il contesto nel quale si va a operare si rischia di vedere vanificato il proprio lavoro. È indispensabile costruire realtà sufficientemente strutturate in grado di garantire una certa continuità di azione, altrimenti si finisce per creare piccole o grandi “cattedrali nel deserto” che non servono assolutamente a nulla. Da qui è nata l’idea di costruire l’istituto “Florentia” per bambini sordi.

Si tratta di premesse attente e importanti: quali saranno allora le varie anime dell’istituto “Florentia” di Boma?
L’istituto “Florentia” è senza dubbio alcuno una struttura complessa, che vuole rispondere alle varie esigenze degli ospiti che vi abiteranno e della comunità che l’ha visto sorgere.
Il plesso è stato progettato e costruito per accogliere circa 50 bambini in internato, e se sarà possibile, 50 in esternato. Il nostro obiettivo è quello di offrire ai piccoli ospiti condizioni di vita più dignitose, sollevando le famiglie dal lavoro di cura. I giovani che vivranno in istituto incontreranno le famiglie con regolarità ma restando al “Florentia” potranno ricevere le cure adeguate e intraprendere percorsi di rieducazione e abilitazione specifici. A tal fine l’istituto è completo di ambulatori di audiologia, otorinolaringoiatria, odontoiatria, neuropsichiatria e in esso sarà possibile intraprendere percorsi individualizzati di protesizzazione, fondamentali per il buon sviluppo del linguaggio e della comunicazione.
Uno dei punti fondamentali del progetto è la nostra volontà di dare ai bambini di cui ci occuperemo gli strumenti per la loro futura inclusione sociale: in un paese nel quale l’analfabetismo è quasi la regola l’istruzione resta una priorità, ma oltre alle aule in cui i ragazzi seguiranno le lezioni scolastiche più tradizionali, abbiamo predisposto anche laboratori – come la falegnameria, la sartoria, la panetteria – nei quali i ragazzi possano acquisire competenze concrete e specifiche da spendere poi in futuro, contribuendo allo stesso tempo all’autofinanziamento del centro. Infine saranno presenti anche strutture che consentiranno attività di agricoltura e allevamento nelle quali saranno coinvolti i ragazzi e gli abitanti della zona.

Nonostante tutti i limiti del nostro vivere insieme in Italia siamo abituati a pensare a un sistema che includa le persone disabili nella comunità, prima di tutto in ambiti come quello scolastico. A cosa è dovuta la vostra scelta di costruire un “istituto per sordi” che potrebbe sembrare a prima vista una struttura quasi totalizzante?
Non avevamo scelta. Abbiamo agito in questo modo per cercare di creare una struttura che desse continuità al progetto. In Italia gli istituti per sordi non esistono più, ma pensare che a breve possa essere così anche in Congo equivale a negare la realtà dei fatti. Ad oggi pensare all’integrazione dei bambini sordi nelle scuole congolesi è inconcepibile e sicuramente ogni tentativo in quella direzione sarebbe un fallimento. È indispensabile a mio parere limitarsi a realizzare ciò che è possibile senza creare aspettative irrealizzabili al momento. Teniamo conto che in Repubblica Democratica del Congo lo Stato ancora non esiste e la situazione economica è disastrosa.
Questo non significa dimenticarsi dell’importanza di legare il progetto alla comunità: l’intera struttura sarà proprietà e verrà gestita dalla Curia di Boma, mentre i professionisti che svolgeranno nell’istituto il proprio lavoro saranno i congolesi impegnati al momento in stage e percorsi di studio e formazione in Italia. E come al momento della costruzione delle strutture e degli edifici erano operai congolesi a dare vita al centro, saranno i professionisti a curare i piccoli, aiutati nel loro grande impegno – speriamo – da personale volontario proveniente dall’Europa. Vorremmo che l’istituto “Florentia” non fosse un luogo isolato, ma al contrario siamo decisi a fare in modo che divenga un luogo chiave della comunità, a essa legato, in essa inserito.
Vorrei concludere con una nota sul concetto di integrazione, tanto discusso e tanto importante: in base alla mia esperienza ho avuto la netta sensazione che in Congo l’integrazione non sia da intendersi come un obiettivo, ma un dato di fatto, soprattutto se si considera che la comunità è formata da famiglie molto allargate e risulta animata da reti di relazione ben più strette di ciò che si verifica nella nostra società occidentale.

Per saperne di più: www.lasorditanonhacolore.it
 

Disabili e comunità: l’inclusione come via per la pacificazione

La Repubblica di Liberia nasce come Stato nel XIX secolo, quando la Società di Colonizzazione Americana acquista il territorio, prima facente parte della Sierra Leone, per rimpatriarvi ventimila ex schiavi percepiti come un “problema sociale”. La conseguente e quasi totale concentrazione del potere nelle mani dei discendenti degli “americani” e l’esclusione delle etnie native continuarono fino al 1980 quando il generale Samuel Doe prese il potere con un colpo di stato e annunciò l’avvio di un processo di apertura democratica, una prospettiva che in realtà non divenne reale se non molto dopo. La Liberia è stata dilaniata da decenni di guerra civile, nei quali le mostruosità commesse da gruppi ribelli ed eserciti governativi hanno distrutto infrastrutture e legami sociali mentre gli equilibri internazionali e l’economia globale del lusso avevano un peso maggiore dell’estremo bisogno di pace di un intero popolo.
Ad oggi la Liberia è guidata dal governo presieduto da Ellen Johnson Sirleaf, prima donna Presidente in Africa, eletta regolarmente nel 2005.
In un paese nel quale circa l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, mentre il 74% delle donne e il 70% degli uomini è analfabeta e dove la guerra civile ha danneggiato i legami sociali più profondi, le condizioni di vita delle persone disabili sono drammatiche sotto ogni punto di vista: gli atteggiamenti discriminatori e l’esclusione sociale si sommano alla mancanza di servizi e di aiuti economici, alla miseria e alla mancanza di istruzione per i bambini.
Dal 1997 AIFO, Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, collabora in Liberia con il Sampson Saywon Boah Institute (Ssbi), un’ONG locale che ha avviato il primo progetto di Riabilitazione su Base Comunitaria (RBC) in tutto il paese con l’obiettivo di promuovere l’inclusione sociale e l’autosufficienza economica delle persone disabili, favorendo la diffusione di atteggiamenti positivi da parte della comunità in cui esse vivono.
Per conoscere più da vicino il contesto liberiano nel quale il progetto di AIFO e Ssbi è stato implementato, abbiamo posto alcune domande alla Dott.ssa Simona Venturoli, project manager di AIFO.

La strategia della Riabilitazione su Base Comunitaria ha spesso dimostrato di essere una valida alternativa ad azioni di aiuto unilaterali e poco partecipate, che rischiano di non radicarsi nelle comunità che si propongono di aiutare. Cosa rende la RBC adatta anche al contesto liberiano? Qual è stata la risposta da parte della comunità?
Premesso che la RBC non è un modello preconfezionato ma una strategia flessibile e adattabile a qualsiasi tipo di contesto sociale e culturale, si rende preziosa anche in paesi come la Liberia dove i tessuti sociali sono stati minati alle fondamenta da un lungo e violento conflitto interno. Le cause della guerra civile sono complesse e profonde, ma è certo che tra queste abbia avuto una grande importanza la sistematica esclusione di una parte della società dalle istituzioni di political governance e dall’accesso agli assetti economici. Di qui si comprende come una pace duratura, conditio sine qua non per lo sviluppo del paese, può essere raggiunta solo costruendo e diffondendo una cultura della partecipazione e dell’inclusione. In questo senso la RBC diventa una risorsa non solo per le persone con disabilità ma per tutto il paese, perché promuove un’idea inclusiva del processo di sviluppo, dove la partecipazione delle persone con disabilità assume importanza strategica per il successo del processo di riconciliazione nazionale.
La RBC si è rivelata anche nel caso della Liberia una strategia fruttuosa perché capace di valorizzare le risorse locali, sia umane che tecniche, attraverso il coordinamento degli attori pubblici e privati, locali o internazionali che si occupano di disabilità. In questo modo i disabili non sono soltanto beneficiari del progetto, ma protagonisti attivi di esso con le proprie potenzialità. Si innesca in questo modo un circolo virtuoso nel quale la responsabilizzazione della persona disabile combatte l’atteggiamento passivo dilagante in comunità – come quella Liberiana – in cui la maggior parte dei disabili vive di elemosina e di aiuti esterni.
In Liberia il programma di RBC sta avendo un grande successo tanto che ha avuto inizio una sua ulteriore espansione nella Contea di Grand Bassa. La partecipazione finora è stata molto alta perché le persone con disabilità e i loro familiari hanno percepito fin da subito la dimensione comunitaria del programma, al quale sentivano di poter partecipare attivamente facendo proposte, perfezionandolo a seconda delle proprie esigenze, e traendone vantaggi concreti.

L’OMS stima che in Liberia vivano circa 231.000 disabili, ai quali bisogna aggiungere coloro che hanno contratto la propria disabilità a causa del conflitto, in combattimenti con armi da fuoco, per l’esplosione di mine anti-uomo o in seguito a violenze e torture. Gli atteggiamenti discriminatori, l’esclusione sociale, l’abbandono, sono problemi che riguardano entrambe le categorie o ci sono differenze a seconda della causa del proprio essere disabili?
Il rischio di isolamento, di esclusione sociale e di discriminazione colpisce tutti i disabili, ma non vi è dubbio che gli ex-combattenti con disabilità vivano una situazione privilegiata rispetto agli altri. Se è vero che a causa dei massacri e degli orrori commessi durante il conflitto tutti gli ex-combattenti – disabili o meno – sono percepiti dalla gente come un fardello, è altrettanto innegabile che molti programmi speciali sono stati implementati da Governo e cooperazione internazionale a loro vantaggio, per favorire il loro reinserimento sociale. L’isolamento di cui soffrono gli altri Liberiani disabili invece ha le proprie origini nelle credenze tradizionali. Quasi sempre si cercano le ragioni della disabilità – fisica o psichica – nel mondo degli spiriti e del maligno. Per questo motivo la disabilità viene spesso ricondotta a una punizione divina seguita al male commesso dalla madre, aggiungendo stigma allo stigma, senza che vengano fatti sforzi rilevanti per aiutare anche economicamente i disabili e le loro famiglie.

Che cosa accade in Liberia quando la disabilità si aggiunge all’essere donna? Come può essere d’aiuto la strategia della RBC? Ricordi un caso in particolare dove hai potuto osservare miglioramenti grazie al progetto di AIFO e Ssbi?
Quando la disabilità è donna le difficoltà aumentano. Spesso le donne con disabilità sono vittime di abusi sessuali e sono ancor più facilmente oggetto di scherno e di insulti.
Anche in questo caso la strategia di RBC aiuta moltissimo perché le volontarie del progetto, appartenenti alla stessa comunità di cui fanno parte le donne disabili, riescono meglio di chiunque altro ad avvicinarsi e instaurare una relazione con loro perché possono contare sullo stesso background culturale e sull’appartenenza al medesimo genere. Si tratta tuttavia di un processo di coinvolgimento molto lungo e faticoso, anche a causa della scarsissima fiducia che queste donne hanno in sé stesse.
Ricordo la storia di Cecile, che io stessa ho conosciuto qualche anno fa. Aveva 26 anni e viveva insieme ai genitori e alle sue tre bambine in una casa alla periferia di Monrovia. Quando ci videro scendere dalla macchina, i suoi famigliari capirono che eravamo lì per lei così andarono a chiamarla. La vidi avvicinarsi dal fondo del corridoio, con la più piccola delle figlie in braccio. Sentii pronunciarsi sul mio volto un sorriso che celava un forte imbarazzo perché Cecile era in grado di camminare soltanto sulle sue ginocchia trascinando il resto delle gambe che non riusciva a muovere. Pensai alla sua vita come a una quotidiana Via Crucis, percorsa tutta in ginocchio. I suoi volontari raccontavano come Cecile fosse perfettamente autonoma in tutto dentro casa mentre lei ci ringraziava per la sedia a rotelle che il progetto le aveva fornito, grazie alla quale poteva finalmente uscire, andare al mercato, recarsi in posti nuovi. Cecile era analfabeta perché non aveva frequentato alcuna scuola, ma grazie al progetto di RBC avrebbe ricevuto un piccolo prestito per avviare un’attività generatrice di reddito per poter crescere le sue figlie ed essere economicamente autosufficiente. Le chiesi quale fosse la causa della sua disabilità: mi rispose sicura che pur essendo nata sana, all’età di un anno le passò accanto un dragone maligno che la lasciò storpia.
Seppi che le tre bambine di Cecile erano figlie di tre padri diversi, tutti scomparsi nel nulla, e mi spiegarono che il progetto si stava occupando legalmente del caso per rintracciare gli uomini e fare in modo che si prendessero le loro responsabilità. Allora ero scettica, ma a distanza di due anni seppi che Cecile si era sposata con il padre della sua figlia più piccola. Grazie al duro e lungo lavoro di accompagnamento da parte dei volontari del progetto, paura e vergogna erano state sconfitte.

Graffiate dalla guerra: la sfida delle ex bambine soldato

Di Nadia Luppi

Parlare di invalidità di guerra in Italia, come in altri paesi europei, significa sostanzialmente riferirsi ai reduci dell’ultimo conflitto mondiale o a quei militari rimasti feriti durante le “missioni di pace” all’estero. Ma, come sappiamo dalle superficiali cronache giornalistiche, ci sono molti paesi nel mondo in cui la guerra è uno stato permanente, che imperversa soprattutto sulle popolazioni civili, mietendo vittime tra donne e minori, spesso colpiti da attacchi illegittimi o arruolati negli eserciti nazionali e nei gruppi ribelli.
Non tutti sanno, però, che dei quasi 300.000 soldati con meno di 18 anni, poco meno della metà sono proprio bambine o ragazze. Queste giovani donne sono state rapite dalle loro case durante le scorrerie dei gruppi armati, spesso dopo essere state violentate e aver visto i propri cari feriti o uccisi. Sono state condotte nel campo militare dove, sotto l’effetto di stupefacenti e condizionamenti psicologici, sono state trasformate in guerriere e schiave sessuali al tempo stesso.
Le menomazioni fisiche che permangono sul corpo di una ex bambina soldato a cui è esplosa una mina vicino, o a cui è stato tagliato un arto, o le stesse conseguenze delle violenze sessuali ripetute, cosa sono se non disabilità fisiche e psichiche?
Ancora di più dei colleghi maschi, le ex bambine soldato portano in sé traumi tanto profondi da compromettere la loro capacità di intrecciare relazioni e si trovano spesso sole quando devono fare i conti con una società che, a causa di pregiudizi e stereotipi radicati, le rifiuta, le esclude, le esilia.
E l’isolamento, l’incapacità di rispondere alle richieste della società, l’estremo svantaggio in cui queste ragazze si ritrovano, come si potrebbero definire se non “handicap”?
Quel che rende ancor più drammatiche le storie di queste giovani è proprio l’impossibilità delle comunità, già devastate dalla guerra, di farsi carico di questi bisogni speciali, l’insufficiente impegno della comunità mondiale e la cronica mancanza di fondi per i progetti di recupero.
Sembra si parli di mondi lontani, difficilmente riconducibili alla nostra realtà, ma non è sempre inutile riflettere su qualcosa che può apparirci come lontano, ma che, quando smette di essere ignoto, rivela profonde affinità e interessanti parallelismi con il nostro quotidiano.

Ferite nel corpo, ferite nell’anima: le violenze subite e il biasimo collettivo
La guerra non ferisce solo i corpi di chi vi è immerso: i traumi psicologici che derivano dall’aver vissuto in prima persona un conflitto armato sono spesso molto più profondi e invalidanti delle stesse mutilazioni fisiche. Se poi a vivere certe esperienze sono bambini e ragazzi si intuisce come certi ricordi siano destinati a destabilizzare fortemente il già precario equilibrio psicologico adolescenziale. Leggendo certi racconti ci si rende ben conto della profondità di certe ferite: “Un ragazzo tentò di scappare, ma fu preso… Le sue mani furono legate, poi essi costrinsero noi, i nuovi prigionieri, a ucciderlo con un bastone. Io mi sentivo male. Conoscevo quel ragazzo da prima, eravamo dello stesso villaggio. Io mi rifiutavo di ucciderlo ma essi mi dissero che mi avrebbero sparato. Puntarono un fucile contro di me così io lo feci. Il ragazzo mi chiedeva: perché mi fai questo? Io rispondevo che non avevo scelta. […] Io sogno ancora il ragazzo del mio villaggio che ho ucciso. Lo vedo nei miei sogni, egli mi parla e mi dice che l’ho ucciso per niente, e io grido”. (Susan, 16 anni, rapita dal Lord’s Resistence Army in Uganda).
La prima ragione di quello che potremmo definire “l’handicap delle ex combattenti” consiste nella difficoltà di reinserirsi nelle dinamiche della vita civile a causa dell’impatto che ha la guerra sull’animo umano.
Per comprendere cosa accade a livello psicologico mentre siamo immersi nelle ostilità, può essere utile tener conto di alcune teorie psicologiche secondo le quali nei contesti di violenza sociale la mente funziona attraverso una modalità schizzoparanoide, che contempla solo dicotomie assolute, come buono/cattivo, vittoria/sconfitta, noi/contro-di-noi. Questi pensieri totalizzanti non lasciano spazio ad alcun giudizio morale o ad alcuna scelta autonoma dal punto di vista etico. In guerra non si pensa, non si riflette: si agisce. E in questa sovrapposizione di pensiero e azione si esprime tutta l’impossibilità di mantenere una certa autonomia morale e valutare obiettivamente la correttezza delle proprie azioni.
Ma, anche nelle situazioni di violenza sociale e di conflitto, una parte della nostra mente rimane intatta e continua a distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è. È proprio qui che nascono i traumi, le ferite inferte dalla violenza agita o subita. Quando si esce dal meccanismo totalizzante della violenza, ci si rende conto anche di essere stati parte di un contesto che risulta inumano e si finisce per sentirsi colpevoli del proprio esserne stati complici. L’abbandono di questo stato di colpa rappresenta per le ex bambine soldato un obiettivo particolarmente difficile, proprio perché spesso, nel loro vissuto, si intrecciano traumi derivanti sia dall’aver subito abusi, che dall’aver perpetrato violenza su altri.
Dall’altro lato, quando le ragazze tornano al loro villaggio dopo essere state parte di gruppi armati, non solo si trovano, come i colleghi maschi, a confrontarsi con una mentalità collettiva diffidente e aggressiva, ormai abituata a ragionare secondo “l’assetto di guerra”, ma devono anche fare i conti con il peso degli abusi subiti e, soprattutto, con la stigmatizzazione che spesso ne segue: “Dopo essere stata violentata la vita in famiglia diventò insopportabile. Appena rincasata raccontai quel che era successo, e loro mi chiesero come mai avessi potuto accettare tutto questo. Mi allontanarono, mi impedirono di tornare a scuola e mi cacciarono fuori a calci”. (Hobson M., Forgotten casualties of war, girls in armed conflicts, London, Save the children UK, 2005, p.14).
Da questo e altri racconti si comprende bene come una difficoltà individuale, unita a un atteggiamento ostile della comunità, arrivi inesorabilmente a creare uno scontro frontale tra la ex bambina soldato e la società con cui si rapporta; scontro in cui inevitabilmente è destinata a soccombere la giovane donna, che spesso si trova esiliata dal tessuto sociale, passando così dal ruolo di sposa dei soldati a quello di merce per i clienti della strada.

L’importanza dell’aiuto: sostegno e mediazione
Abbiamo tracciato finora una panoramica piuttosto oscura, per certi versi desolante. Si tratta effettivamente di contesti d’azione molto complessi, nei quali si richiede tatto e competenza nella progettazione e nell’azione. Ma questo non significa che tutto sia perduto, né tanto meno che il solo atteggiamento possibile nei confronti degli ex bambini soldato sia quello di compatirli, senza aiutarli effettivamente a costruirsi un futuro e a ritrovare se stessi.
Nel forum psico-sociale della coalizione Internazionale “Stop Using Child Soldiers” ricorrono spesso gli appelli degli esperti a un atteggiamento ottimista degli operatori. È vero che le ragazze arruolate in diversi gruppi armati devono imparare a uccidere e a negare la propria dignità per il piacere dei soldati, ma questo non significa che siano destinate per sempre a ragionare e comportarsi come assassine o prostitute. Chi si trova a lavorare con le ex guerriere deve sempre tenere in considerazione l’unicità di ogni storia e le particolarità che nasconde, nonché le potenzialità peculiari su cui sviluppare il percorso individuale di ogni singola ex combattente.
Solo partendo dal presupposto che queste ragazze possano restaurare un assetto mentale adatto alla vita civile e seguire con successo percorsi che le aiutino a ritrovare il valore di sé e delle relazioni umane, si può pensare a programmi di recupero ben pianificati ed efficaci.
Ciò che è certo è che serve tempo, sia per superare i traumi e, talvolta, fare i conti con qualche deficit acquisito, che per agire sul tessuto relazionale e sociale da cui viene esiliato chi ritorna dalla guerra.
Riprendendo e portando a compimento la metafora iniziale, possiamo dire che, per le ex bambine soldato, una parte importante del proprio percorso di “superamento dell’handicap” consiste nel sentirsi di nuovo capaci di intrecciare relazioni e nutrire fiducia negli altri, potendo contare – e questo dovrebbe essere prerogativa di ogni programma di reinserimento – su un tessuto sociale non più ostile, ma liberato da pregiudizi e atteggiamenti discriminatori.