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autore: Autore: di Patrizia Passini

Benessere, centri SPA e…?

Centri wellness e relax, hotel SPA con beauty farm, centri benessere, vacanze termali, offerte hotel 4**** S con sauna, bagno turco, bagni di fieno, piscine con angoli idromassaggio, stone terapy, massaggi di ogni tipo e… Cosa ancora da aggiungere? Qualche nuova tecnica rilassante che arriva dall’Oriente o un innovativo strumento per trasformare come per magia la massa grassa in massa muscolosa!
A questo ancora non siamo arrivati, ma l’imperversare di Centri SPA di questo tipo che ti offrono di tutto e ancor di più di tutto di quello che è già presente sul mercato, ci dà l’idea dei ritmi di vita che sosteniamo ogni giorno e del significato che ha per noi la parola “Ben-essere”, ormai sempre più spesso legata a hotel di lusso dove riposarsi e farsi coccolare.
E… la lettura di un bel libro all’ombra di una rassicurante quercia in un’assolata giornata d’agosto? E una bella e lunga dormita in una calda baita di montagna? E una deliziosa cena tra amici di cui da mesi non si gusta la compagnia? E un bel vestito nuovo che da tempo volevamo acquistare? E la parrucchiera dopo un mese che rimandiamo l’appuntamento per contrattempi di ogni tipo? Forse molti di noi hanno dimenticato il significato più schietto e sincero di questo termine che in fondo non significa altro che “stare bene”, trovarsi, essere in una situazione di bene. Prima di tutto con se stessi.
Poi anche con gli altri.
È questo il tema della formazione interna che il Gruppo Calamaio ha voluto approfondire e su cui ha scelto di lavorare nell’anno lavorativo appena trascorso.
È stato un lavoro che ha permesso a ciascun membro di mettere in relazione i propri vissuti e modi di essere con quelli degli altri, di riflettere da soli e poi insieme al gruppo sul significato, il valore e la ricaduta emotiva e sociale che ha per ognuno la condizione di stare bene, volersi bene.
Inoltre questo articolato processo di relazione interna è stato fondamentale nella costruzione di un più saldo spirito di gruppo, utile, a sua volta, per affrontare in modo coeso e mirato i temi che vengono proposti alla società, ma che anche provengono dalla società. È una sorta di “do ut des” in un circolo che il Gruppo Calamaio si propone di far diventare virtuoso. E tutto questo perché non ha alcun senso parlare di cambiamento culturale dell’handicap, di riscatto delle persone con disabilità dal proprio ruolo di “seconda mano” se noi stessi non lo incarniamo.
Partendo dalla visione del film Si può fare di Giulio Manfredonia, molti sono stati gli spunti di riflessione per iniziare un più ampio dibattito. Innanzitutto è apparso evidente come l’autostima sia il motore trainante di ogni iniziativa umana. È ciò che sprona gli animi verso mete sempre più alte e nobili, è ciò che permette di pensare e poi attivare tutte le strategie possibili per rendere fattiva ogni aspirazione.
Lavorare in gruppo ci ha permesso di sperimentare come da ogni individuo, che sia disabile oppure no, è possibile ricevere stimoli costruttivi e positivi che, se ben coordinati e indirizzati, sono in grado di arricchire di contenuti tangibili e significativi l’intera collettività. Ci siamo accorti quanto è importante che l’ambito lavorativo sia per tutti il più gratificante possibile perché permette di esprimere le proprie potenzialità e abilità e al tempo stesso permette e favorisce l’inserimento relazionale e sociale. A questo proposito è essenziale avere, prima di tutto, una quanto più compiuta coscienza di sé, sia se tale processo si evolva in modo naturale e spontaneo sia che venga guidato da un esperto esterno, sia che riguardi la singola persona, sia che interessi un intero gruppo. Proprio per questo a ciascun membro del Gruppo Calamaio è stato chiesto cosa piacesse fare e cosa procurasse pieno piacere e godimento. Il dialogo aperto su questo argomento ha permesso la conoscenza reciproca su un aspetto a cui spesso si è accennato, ma che in questo caso si è voluto esplicitamente approfondire.
Un’attività da cui siamo partiti per potersi esprimere senza utilizzare la comunicazione verbale è consistita nel cercare immagini e fotografie su diverse riviste messe a disposizione che esprimessero e rappresentassero ciò che ci dà piacere. Ognuno ha ritagliato le immagini o, laddove la propria disabilità non lo permetteva, ha indicato a un collega le immagini da ritagliare. Le immagini di ognuno sono poi state incollate su un cartellone personale e infine a turno ognuno ha spiegato il perché della scelta di una certa immagine. È stato un importante momento in cui tutti, volontariamente o involontariamente, hanno espresso il proprio modo di essere e la propria visione del reale, del vivere, di ciò che personalmente dà una sensazione di piacere, ciò che lo/la fa stare bene.
Abbiamo poi affrontato tematiche legate al bisogno di indipendenza e di aiuto, a seconda della prospettiva da cui si analizza ogni caso concreto e, a tal proposito, si è cercato di ribaltare e scambiare i ruoli tra chi chiede aiuto e chi lo riceve. Quindi, la semplice frase “ho paura di….” è stata trasformata in “ho bisogno di…”. La richiesta di aiuto, nella sua formulazione, è stata così spogliata di ogni forma d’imbarazzo e di disagio psicologico, divenendo più naturale e distensiva. Si è aperto, per un istante, un universo attorno, prima celato agli occhi di tutti, più accogliente e rilassante.
Si ha un bisogno naturale di aiuto dal quale non si può prescindere e del quale non è bene avere vergogna perché fa parte di qualsiasi individuo. Trasformare ciò che ci fa paura in ciò di cui invece abbiamo bisogno ci ha permesso di riconoscere che per crescere, forse davvero, ci serve quella determinata situazione che ci spaventa.
Ad esempio: da “ho paura di essere di peso a qualcuno” a “ho bisogno di essere di peso a qualcuno”, da “ho paura che gli altri dicano di no a una mia richiesta” a “ho bisogno che gli altri dicano di no a una mia richiesta”; e questo per maturare come persona, per superare quella difficoltà, per imparare ad accettare i miei limiti e il fatto che con essi devo farci i conti io, ma pure gli altri, per acquisire insomma un’umiltà che mi fa riconoscere ciò che sono e il fatto che non c’è niente di scontato nelle relazioni che ogni giorno instauriamo nella nostra vita sociale.
Ancor più si è interagito all’interno del Gruppo Calamaio quando ognuno ha raccontato un proprio episodio di vita che, in qualche modo, era ricollegabile al tema del benessere. Si è poi sceneggiato alcuni episodi.
Il valore empatico dell’attività ha permesso di riflettere maggiormente sul tema dell’autonomia e della dipendenza dagli altri. Si è rimarcato il confine sottile tra “l’aver fiducia negli altri” e “le aspettative” più o meno alte di essere esauditi nelle proprie richieste. Nell’evoluzione spontanea del dialogo tra i partecipanti all’attività, è emerso il legame altrettanto vicino tra il concetto di benessere e il concetto di autostima. Infatti il benessere non può che partire da una conoscenza e consapevolezza di sé. Solo cioè chi conosce se stesso e i propri desideri è in grado di responsabilizzarsi e rapportarsi agli altri in modo più distensivo.
Un’altra attività di rilievo, soprattutto considerando la tipologia del nostro gruppo di lavoro, è consistita nell’intavolare una discussione su temi più strettamente collegati all’immagine dell’handicap, evidenziando cosa significhi cambiare l’immagine e la cultura dell’handicap e cosa concretamente ciascun membro del Gruppo Calamaio stia facendo o si proponga di fare per cambiarla. Dal dibattito scaturito si è innanzitutto evidenziato come l’immagine dell’handicap rifletta semplicemente i contenuti del diffuso immaginario comune. È facile, dunque, per una persona con disabilità imbattersi in quegli stereotipi che la vedono in una posizione di solitudine, sofferenza e privazione, oltre che di bisogno di aiuto e tutti hanno concordato sul fatto che la cura di sé, della propria persona, del proprio tempo, usato anche e soprattutto per coltivare i propri interessi, sono un ottimo punto di partenza. L’immagine viene così trasformata da coloro che la dipingono con le tinte del proprio essere, ed è possibile vivere esperienze di relazione con l’altro sensibili che, stando sempre nella metafora della pittura, assumono le colorazioni della creatività e della voglia di esprimere quello che ci piace e che vogliamo condividere con chi ci sta vicino. In questo modo si aprono le porte al senso delle parole e delle azioni.
Rifacendoci a una frase di Nelson Mandela, “Io sono il capitano del mio cambiamento”, risottolineiamo che il nostro comportamento influisce in modo sostanziale sul cambiamento che coinvolge in modo attivo tutte le persone che hanno un particolare bisogno di espandere la propria individualità, elemento indispensabile per stare bene, per crescere ogni giorno di più come persone.
A conclusione di questa nostra formazione interna tante cose di certo sono rimaste lungo la strada, ma quelle fondamentali ce le porteremo dietro per tutta la vita, con la consapevolezza che “benessere” non è solo andare in un albergo con sauna, piscina e stanza per i massaggi, ma parte prima di tutto da una condizione personale interna, di soddisfazione di sé e di autostima che nessun luogo e nessun servizio può fornirci, solo la nostra volontà di esserci in questo mondo e di esserci come persone complete e responsabili di tutto ciò che è in nostro potere cambiare e migliorare. Per noi stessi e per gli altri.

Per fare un albero ci vuole il seme…

Cosa vi fa venire in mente la parola “semenzaio”? A me personalmente rimanda a ricordi dell’infanzia, quando a scuola o anche solo a casa si provava a piantare un seme per vedere se poi, con acqua, sole, calore e tutte le cure necessarie, sarebbe cresciuto… Mi ricorda le piccole serre che si acquistavano per “fare gli esperimenti” con i semi dei fiori o dei fagioli, mi fa pensare agli orti e ai punteruoli dei contadini per forare il terreno e inserirci delicatamente la piantina o le sementi degli ortaggi.
Mi riconduce immediatamente all’aria, al sole, alla terra, all’acqua, al caldo… In fondo ai quattro elementi che hanno organizzato, ordinato e compongono tutto il Cosmo. Riporta in qualche modo all’origine del Mondo, alla Vita, alla Terra Madre, all’Essenziale, alle basi di ogni essere vivente… E di questo dovremmo ricordarci quando pensiamo ai rapporti tra di noi, tra le diverse persone con cui veniamo in contatto durante una giornata e durante tutta la nostra esistenza…
È così che è nato il Progetto Semenzaio a cura della Commissione Pari Opportunità Mosaico del Distretto socio-sanitario di Casalecchio di Reno che ha organizzato luoghi e momenti di incontro settimanali, ad accesso libero e gratuito, che vertono attorno alle attività di sartoria, canto, cucina, parrucchiera rivolti a donne italiane e straniere.
Sono donne che vogliono uscire di casa, socializzare, conoscere e farsi conoscere, acquisire competenze ma anche mettere a disposizione le proprie; e tutto questo per favorire la convivenza e l’integrazione tra culture diverse e persone diverse ma anche uguali, per acquisire conoscenze socio-culturali, per il piacere di stare insieme, per sperimentare che c’è un mondo e un modo di vivere differente dal proprio e da quello vissuto personalmente fino a quel momento, per favorire possibili percorsi formativi che da questi incontri possono nascere e svilupparsi, per uscire dalla diffidenza e dall’isolamento da entrambe le parti. Per crescere insieme insomma. Per crescere e fare crescere i rapporti e la vita attorno a noi e dentro di noi… Per diventare più cittadini del mondo e meno cittadini della nostra città. E di noi stessi.
Così il nostro gruppo Calamaio ha iniziato a partecipare a diversi incontri con il gruppo di donne, praticamente tutte marocchine, che si trova il giovedì mattina a Savigno per cucinare insieme, e attraverso questo conoscersi e scambiarsi la propria esperienza. Ognuno ha portato la sua, con delicatezza e discrezione. Di certo è stato indispensabile mettersi in gioco, mettere a disposizione ciò che si sa fare e quello che non si sa fare per creare coesione, Relazioni: loro preparavano il cous cous, noi la crostata con la marmellata, loro si cimentavano nella “pastila”, noi nelle tigelle.
Cucinare insieme, ma soprattutto guardare loro che con tanta passione nella preparazione e con tale cura nella composizione dei piatti creavano pietanze sublimi da mangiare ma pure belle da vedere, ci ha fatto riflettere sulle nostre buste surgelate e sul panino spezza-fame della pausa pranzo… Ritmi diversi, non per forza migliori sempre e a priori gli uni degli altri, semplicemente per rispondere a esigenze diverse al fine di raggiungere a sua volta obiettivi diversi.
La presenza di una mediatrice culturale o di ragazze marocchine nate e vissute in Italia che conoscevano entrambe le lingue ci hanno permesso di stabilire un contatto tra noi e loro, ci hanno dato la possibilità di scambiarci qualche battuta oltre che silenzi fatti di sguardi e sorrisi di accoglienza e non solo di circostanza. Mettendo dentro a quei sorrisi anche il proprio imbarazzo, i propri timori e le proprie perplessità.
Tornando a casa e ripensando, come sosteneva il famoso poeta inglese Wordsworth che il momento creativo della Poesia è quello che trae origine da un’emozione ripensata e richiamata alla mente in un momento di tranquillità successivamente all’averla vissuta, mi sono resa conto che alcuni aspetti sono diversi, ma quelli essenziali sono gli stessi: il desiderio di conoscere l’altro, la cultura della Diversità che ci arricchisce e non che ci annienta, il rispetto dell’altro in questa diversità, la logica della lentezza per una volta almeno, mescolarsi con gli altri e impastarsi degli altri, l’uscire dai propri spazi, dalle proprie case, dalle proprie sicurezze per rischiare, per crescere, per cambiare anche noi stessi, per scegliere per lo meno quello che da sempre ci è stato dato per assodato e poi, non da meno, la tavola imbandita e tutti attorno a mangiare insieme. Questo ha creato più coesione e complicità di tanti bei trattati e lunghi discorsi sull’importanza del rispetto di culture diverse. È “sporcandosi, impastandosi le mani” nel senso sia più pratico dell’espressione che puoi poi gustare un “piatto” mai assaporato prima.

In fondo siamo inutili?

Chi di voi, chi di noi almeno una volta nella vita non si è sentito inutile? Inappagato dalla Vita? Inadempiente, incoerente, inconcludente? Chi di tutti noi non ha mai provato quel “non sense” su cui tanti filosofi hanno ragionato e si sono espressi, cercando e continuando a cercare ancora ai giorni nostri il significato dell’Umanità? Del nostro stare al mondo? Per chi? Per cosa? Per quanto e per dove?
Ebbene: c’è un gruppo molto ma molto originale di persone che hanno fatto dell’inutilità il loro leit motiv, il loro principio ispiratore, che hanno risolto ogni dilemma sull’essere e il non essere delle cose e del mondo facendo partire dalla propria condizione di inutilità il senso di tutto, come fosse l’Archè antico da cui ha origine e da cui prendono il via tutte le cose. Con un detto popolare apparentemente semplicistico, ma in realtà molto adeguato al caso, “hanno tagliato la testa al toro” e risposto a ogni dubbio e ricerca cervellotica sull’argomento, della serie: Dove sta il problema? Facciamo dell’Inutilità il senso nella nostra vita. Noi siamo inutili e non solo, ci piace riconoscere di esserlo, e non per falsa modestia o per comodità, ma perché crediamo che solo partendo dal senso della propria inutilità si può scoprire ciò che anche le cose più banali o gli atti più insignificanti in realtà possono restituire molto a noi e alla società.
Così di recente presso la galleria PIVARTE di Via Azzo Gardino 8, a Bologna, si è svolta la mostra degli inUTILI, un gruppo di artisti, un movimento d’arte e di pensiero che ha raccolto e coinvolto le figure più svariate: artisti, designer, architetti, scenografi, dj, scrittori, ma anche “persone altre”, come si sono definite loro stesse, tutti però uniti dalla consapevolezza della propria inUTILITA’ e che con approccio ironico e dissacratorio, e prima di tutto geniale, hanno voluto esprimere il loro disaccordo con quegli aspetti sociali dei nostri giorni dai quali si sentono sempre meno rappresentati: la Necessarietà, l’Urgenza, l’Indispensabilità, il Potere, l’Arrivismo, il Consumismo, l’Apparire e non l’Essere, il Fare a discapito del Vivere.
Queste le parole più pregnanti del loro manifesto che così chiaramente esprime il loro pensiero: “Siamo inUTILI, ne siamo consapevoli. Noi inUTILI persi in un mondo di inUTILI. Noi consapevoli. La percezione della nostra inUTILITA’ ci regala un senso di leggerezza e di benessere ritrovato.
Le stressanti corse quotidiane, l’aggressività verbale, l’individualismo e i modi di essere di questi anni, non ci piacciono.
Non ci piace il consumismo a ogni costo, non ci piace la repentina mutevolezza degli stili e delle mode atta solo a far spendere e comprare. […] Ostacolare, sovvertire, trasformare, entropia. […]
In fondo siamo INUTILI… Noi siamo inUTILI, ma non impotenti e possiamo scegliere, questa è la nostra forza. Anziché azzuffarci verbalmente in sterili scontri faziosi di dichiarazioni politiche o sociali, ci rifugiamo nel bel gioco del paradosso dell’inUTILITA’, con ironia e fare dissacratore. […]
Facciamo opere d’arte, fotografie, pensieri, sculture meccaniche e non, installazioni, scriviamo racconti, dipingiamo, facciamo performance, ci esprimiamo inUTILMENTE, ma con estremo divertimento.
Vogliamo appartenere a un gruppo, il nostro: gli inUTILI, aperto a chiunque voglia riconoscere la propria inUTILITA’, insieme a noi, perché è dalla condivisione delle esperienze e delle competenze che nasce la gioia, il piacere di stare insieme divertendosi, lontani dall’utopia, consapevoli della nostra inUTILITA’.
Portiamo delle maschere, non perché abbiamo qualcosa da nascondere, ma per puro gioco, quello di non prendersi sul serio, con l’intenzione di essere sinceri in un mondo che non lo sa più essere. Almeno ci proviamo”.
Già 25 anni fa un gruppo di disabili era partito dalla propria inutilità per dire la sua sul fatto che tutti siamo inutili e utili… Tutti, disabili e non, possono essere in un modo o nell’altro. E a volte riconoscere la propria inutilità è un punto di partenza per spiccare il volo e non un luogo su cui cadere e arenarsi.
Tutto questo avveniva in un periodo storico che già 15 anni prima aveva iniziato un cambiamento culturale che sosteneva la necessità di essere efficienti, produttivi, lavoratori, veloci, potenti, belli e famosi. Avveniva e avviene perché la persona con disabilità che si mostrava e si mostra tuttora così com’è, che usciva allo scoperto (nel vero senso dell’espressione), con le sue malformazioni fisiche, con la sua difficoltà o incapacità a parlare, con la sua impossibilità a muoversi e a nutrirsi e lavarsi autonomamente, con la sua lentezza, con tutto ciò che non riusciva e non riesce a fare, riconoscendo come prima cosa imprescindibile della propria condizione tutto questo, spiazza. Ecco, una persona con disabilità che dice: “E chi nega tutto questo? Riconosco la mia inutilità e con questa inutilità divento utile agli altri perché voglio contribuire al cambiamento culturale, ma con un’inversione di tendenza, sulla scia di una rivoluzione più che di un andamento lineare rispetto alla concezione produttivistica del proprio posto nel mondo di 40 anni fa”.
Il Progetto Calamaio diceva e continua a dire tuttora: “Siamo certi che l’utilità di ognuno si misura solo concretamente sulla base della produzione personale? Siamo sicuri che se fai sei e se non fai non sei? Fare va di pari passo con essere? Produrre cultura è scrivere trattati o piuttosto dare agli altri la propria esperienza di vita che porta visibilmente nel corpo la fragilità, ma in un modo di essere diverso la propria forza e la certezza che un cambiamento culturale nel campo dell’integrazione è possibile perché il modo di pensare è diverso e con il modo di pensare il modo di vivere?”.
Molto è cambiato, dalla legge 68/99 ad oggi! Negli ultimi anni poi pure il crollo economico ci ha fatto, volenti o nolenti, rallentare i ritmi di vita: meno lavoro, meno soldi, meno corse per gli impegni e per gli acquisti! E in un’epoca di crisi finanziaria in cui la corsa al riciclo e al recupero dei materiali di scarto da cui creare cose nuove e nuove cose ricorda molto quella dei cercatori d’oro, in un’era in cui i mercatini dell’usato nascono e crescono e si riproducono come conigli nei centri delle città e in periferia, in un tempo storico in cui il “tutto torna buono” e ancor più il saggio detto popolare bolognese “tin tin che la so’ la vin” (trad. “tieni tieni che il suo momento per usarlo arriva”) sono diventati fashion, di moda, creando addirittura la corrente Vintage che altro non è che tirar fuori i vestiti della nonna tenuti nel cassettone di famiglia, forse anche l’Inutilità, il Superfluo ritrovano uno spazio, il senso della loro esistenza. Forse in fondo è tutta una contraddizione, un paradosso, una provocazione…
Ritornando ai nostri Artisti inUTILI con cui abbiamo aperto questa riflessione, concludiamo con due aforismi del geniale e molesto Oscar Wilde che già a fine dell’Ottocento disse: “Tutta l’arte è inutile” ma “viviamo in un’epoca in cui il superfluo è la nostra unica necessità”…