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autore: Autore: Flavio Gerolla

L’Italia che coopera

La situazione della cooperazione internazionale in Italia. Le difficoltàdelle ong di fronte ai tagli di bilancio operati negli ultimi anni. Le nuoveprospettive offerte dall’Europa. Intervista a Raffaele K. Salinari, presidenteCOCIS.

 

L’Italia che coopera

D). L’Italia e la cooperazione internazionale con i paesi in via di sviluppo:può farmi una breve storia degli ultimi anni?

R) Il nostro paese si è impegnato organicamente all’interno delle dinamicheNord-Sud in tempi relativamente recenti. Sino a pochi anni fa infatti gli unicisoggetti attivi in questo campo, in particolare sui temi dell’aiuto allosviluppo, erano le associazioni di volontariato internazionale, le cosiddetteOng (Organizzazioni non governative) ed il mondo missionario. La prima normativanazionale in questo senso è degli anni ’70, periodo nel quale il nostro paese"scopre " il suo ruolo di potenza economica internazionale e decide didedicare una parte di risorse all’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps). Nasce cosiil Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo, una struttura specializzataall’interno del Ministero Affari Esteri, che gestisce qualche miliardo di lireattraverso progetti in gestione diretta ed al contempo supporta i programmi disviluppo delle Ong. La vera accelerazione si ha con la legge che istituisce ilcosiddetto Fai (Fondo di aiuto italiano), che nel ’85 stanzia ben 1900 miliardidi lire contro la fame nel mondo, sull’onda emotiva delle immagini dellacarestia nel Corno d’Africa. Al Fai, fonte di sprechi e di imbrogli ancora nelmirino della magistratura, segue la prima normativa organica in questo senso, lalegge 49 dell’1987, che trasforma il Dipartimento in una vera e propriaDirezione Generale ed istituisce una unità di tecnici specializzati pervalutare, ed in parte gestire, un ventaglio di interventi che allorabeneficiavano di circa 5000 miliardi l’anno, una percentuale del 3-4-% sul PIL.La legge n. 49/’87 valorizza anche il ruolo delle Ong ed è ad oggi la legge diriferimento. Purtroppo il boom di finanziamenti degli anni ’80 e ’90 hacontinuato negli sprechi e nella non programmazione razionale dell’aiuto, tranneche per il comparto Ong, con un danno di immagine all’idea stessa disolidarietà internazionale ed il progressivo depauperarsi delle risorsededicate a questo campo, arrivando ad una dotazione di fondi destinanti a questeattività che oggi pongono il nostro paese ai posti più bassi tra i donatori,con una percentuale sul PIL dello 0,2%. Bisogna però aggiungere, percorrettezza di informazione, che in questa ultima finanziaria, il Governo hamarcato una decisa inversione di tendenza, riportando in alto la quota del PILdedicato all’Aps, innestando al contempo la marcia verso una vera riformaorganica di tutti gli strumenti per fare cooperazione allo sviluppo. In ultimobisogna sottolineare come il nostro paese abbia recentemente preso coscienzadella sua posizione mediterranea, e come lo spettro una volta esageratamenteampio, quasi a pioggia, dei nostri interventi si sia focalizzato sulmediterraneo e sulle parti più povere dell’Africa, con una impostazione che lenostre Ong condividono.

D) La situazione oggi: che percentuale del suo PIL l’Italia dedica aquesto settore e confrontandolo con gli altri Paesi europei che considerazionisi possono fare?

R) Come dicevo l’Italia ha attraversato periodi di grande impegno verso leattività di cooperazione, basti pensare che negli anni ’80 e parte dei ’90 permolti paesi africani eravamo il primo donatore, e periodi di depressioneassoluta , come è avvenuto con il progressivo abbassamento della quota pubblicatra il ’94 ed il ’98, ove siamo decisamente scomparsi dalla scena mondiale.Bisogna però dire che questo quadro è in parte comune a tutti i paesiindustrializzati aderenti all’OCSE, che hanno progressivamente diminuito la loroquota di Aps per favorire gli investimenti privati. In Italia questa diminuzioneè stata drammatica perché è servita anche come risanamento dei conti pubblicie coma azzeramento di una serie di malefatte. La cosiddetta malacooperazione,che tanto aveva influito negativamente anche sulla scelta politica di tagliare ifondi. Di questa situazione spesso hanno fatto le spese anche le Ong, che sisono sempre battute perché il nostro paese rispettasse gli impegni presi insede internazionale, e dedicasse fondi significativi alle attività chepermettono, tra l’altro, la progressiva e pacifica stabilizzazione di areegeografiche a rischio come quella del Mediterraneo. Dagli ultimi dati sembraquindi che il punto più basso sia stato superato, anche per le pressioni delleOng, e spero quindi che in futuro l’Italia torni ad essere un paese autorevoleanche in questo campo.

D) Quali sono i principali problemi che incontrano le Ong italiane?

R) Le Ong italiane hanno attraversato negli ultimi anni dei momentidrammatici. Bisogna pensare che il nostro ruolo è quello di lavorare insiemealle popolazioni del Sud del mondo, con programmi concreti di sviluppo, sianoessi di tipo educativo od infrastrutturale, sanitario od agricolo. Tutto ciòimplica una programmazione pluriennale, e quindi il progressivo inaridimentodelle risorse, aggravato da una macchina burocratica bloccata dalle vicendegiudiziarie, ci ha messo in situazioni gravissime, spesso nella impossibilitàdi proseguire i nostri programmi, con le conseguenze che potete immaginare.Bisogna però dire che in questi anni, sugli oltre trecento progetti gestitidalle Ong aderenti alla nostra federazione, solo pochissimi sono stati sospesidato che la reattività delle Ong ha fatto si che si potessero reperire altrerisorse, di origine comunitaria o internazionale, tamponando egregiamentel’afasia del nostro Ministero. Oggi la situazione è decisamente migliore,perché si sono ascoltate le nostre richieste che vertevano su di unasemplificazione burocratica delle procedure interne la Farnesina e perché si èristabilito un clima positivo all’interno del mondo politico in ordine a questitemi. Certo ultimamente le Ong hanno dovuto ancora alzare la voce perché nellamorsa del risanamento dei conti pubblici erano caduti anche gli interventi adono per i Pvs (Paesi in Via di Sviluppo), ma una battaglia condotta a livellodella presidenza del consiglio ha svincolato i nostri progetti da logicheragionieristiche che non si potevano certo applicare a questo caso. Oggi le Ongchiedono una burocrazia meno vessatoria ed un reale rapporto di partenariato conle istituzioni, meno fondi pubblici ma più sgravi fiscali, per ristabilireanche attraverso questo strumenti un rapporto di partecipazione dei cittadini aitemi della solidarietà internazionale. Come dicevo mi sembra si stia andandonel verso giusto.

D) A livello legislativo, esiste un progetto di legge, che elementi nuoviintroduce?

R) La legge n. 49/’87 è nata durante il periodo finale della guerra fredda.Essa risente ancora della divisione del mondo in blocchi contrapposti e delruolo decisamente subalterno del nostro paese all’interno di queste logiche. Nonfosse altro che per questi motivi di fondo è necessario cambiare il quadro diriferimento complessivo e quindi bene hanno fatto il Parlamento ed il Governo amettere in cantiere una riforma organica della legge.
E’ decisamente positivo anche che quasi tutte le forze politiche abbianopresentato loro proposte di legge e che anche il Governo, facendo fede agliimpegni presi nel suo programma elettorale, ne abbia predisposta una. Questosignifica che almeno una parte del mondo politico ha ripreso a cuore questaparte della nostra politica estera, e che le continue sollecitazioni delle Ongper una nuova normativa hanno rotto il muro della indifferenza. Attualmente lariforma è in discussione al Senato, sulla base di un testo concordato tra leforze politiche che avevano presentato le loro proposte. E’ presto per direquando avremo il varo della riforma e come sarà, dato che il cammino è lungo esi intreccia con ben altri problemi parlamentari, ma l’avvio è dato e quindi daparte nostra siamo fiduciosi. Devo anche dire però, per non essere tacciato diingenuità politica, che le Ong insieme al sindacato ed al mondo missionario,hanno promosso un Osservatorio sul cammino della riforma, che segue l’iter dellastessa ed al contempo organizza momenti di riflessione, anche di lobby politicasugli aspetti che ci sembrano più rilevanti. La partita quindi non è solonelle mani del mondo politico.

D) Con la costituzione progressiva dell’Europa che cambiamenti ci sarannoin questo settore?

R) L’orizzonte europeo è oggi la principale fonte di impegno per le Ongaderenti alla nostra federazione ma, più in generale, per tutte le Ongitaliane. La centralità della costruzione di una cittadinanza europea ancheattraverso la nascita di una politica estera comune ispirata ai principi dellademocrazia economica, sociale e politica per tutti i popoli della terra,rappresenta infatti il nostro obiettivo politico più alto. In particolare conlo spostamento di gradi di sovranità da Roma a Bruxelles, anche le Ong si sonoattrezzate in questo senso , costituendo network europei con la intenzione diesercitare le giuste azioni politiche in sede comunitaria. La nostra federazionead esempio ha recentemente aperto un ufficio a Bruxelles ed è entrata a farparte del network Solidar, che raggruppa una serie di associazioni europeeimpegnate sul tema dei diritti dei lavoratori in tutto il mondo, un temacentrale nella battaglia per modificare il modello di sviluppo liberista.L’Europa è anche attualmente la maggior fonte di fondi per realizzare i nostriprogetti e quindi, anche da questo punto di vista, diventa più europea anche lanostra maniera di fare progetti nei Pvs costruendoli insieme ad altre Ongeuropee, o pianificando una campagna di educazione allo sviluppo con altripartners europei, per magnificare a questa scala il nostro impegno.
L’ultima implicazione riguarda il ruolo che le Ong italiane vogliono esercitaresul governo perché l’Italia partecipi più attivamente alla determinazionedelle politiche in sede comunitaria, costruire cioè una Italia più consapevoledel suo ruolo europeo. In questo senso chiediamo sempre più ai nostri politicidi essere coerenti con questa necessità e di riorientare anche gli indirizzidella nostra cooperazione allo sviluppo in senso europeo.

D) E’ possibile fare un discorso a parte, in base alla sua esperienza, pergli interventi delle Ong a favore dei disabili nei paesi in via di sviluppi? Sesi in che termini?

R) Le Ong hanno in questi anni acquisito una grande esperienza in programmiin favore dei disabili, in particolare in quelle zone di guerra che vedono unnumero altissimo di traumi postbellici, basti pensare al problema delle mine.
In specifico le Ong hanno da tempo perfezionato quello che si chiama la Cbr,cioè la Community Based Reabilitation, che consente un coinvolgimento dellefamiglie e delle strutture sanitarie di base nella cura dei disabili. E’ uncampo vasto ma anche delicato, che combatte contro la reticenza di mostrarecerti tipi di disabilità. Resta il nostro impegno in questo senso e laesperienza originale accumulata ad esempio in Palestina, in Angola o, piùrecentemente, nella ex Jugoslavia.

D) Per un educatore italiano, un operatore sociale che vogliaintraprendere questa esperienza di lavoro, che cosa deve fare? Cosa deveconoscere, a chi deve rivolgersi?

R) Esistono in Italia tre federazioni di Ong che possono orientare la domandadegli operatori verso le Ong che si occupano di questi problemi. Si tratta poidi entrare in contatto diretto con la Ong ed iniziare un percorso formativo adhoc che ogni organizzazione gestisce per suo conto, tenendo in specifico allasituazione del paese nel quale si opera.

Una risorsa per la scuola e per le famiglie

La FADIS (Federazione Associazioni di Docenti per l’Integrazione Scolastica) è un organismo che raccoglie nove associazioni dislocate sul territorio nazionale; abbiamo rivolto alcune domande a Nicola Quirico che ne è il presidente, sulle difficoltà e le prospettive di lavoro dell’insegnante di sostegno.Cominciamo con dei dati, quanto sono gli insegnanti di sostegno oggi in Italia?

Secondo i dati forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione i docenti di sostegno in servizio nell’anno scolastico 1998/99 è stato di 58.756. L’ introduzione del parametro 1/138 introdotto con la legge finanziaria del 1997, cioè basando la determinazione degli organici di sostegno sul numero totale degli studenti dalle materne alle superiori diviso per 138, ha determinato una maggiore uniformità nella distribuzione dei docenti sul territorio nazionale. Tuttavia come sottolineato sia dalle associazioni degli insegnanti di sostegno sia dalle associazioni dei genitori questo parametro andrebbe rivisto e adeguato al rapporto 1/100 in quanto non soddisfa le reali necessità della scuola a fronte di un aumento degli alunni in situazione di handicap ed in particolare di quelli gravi verificatosi in questi anni.

Come si diventa insegnanti di sostegno, quali percorsi di studio deve seguire oggi un giovane che vuole svolgere questa professione? Anzi visto che il percorso formativo ha avuto, ed ha, una storia piuttosto contorta, descrivici la situazione che si è creata riferendoti a quello che è successo.

Purtroppo quella della formazione dei docenti di sostegno è uno nodi più complessi che riguardano questa professione. I docenti di sostegno sono stati formati attraverso un corso biennale di specializzazione di 1.300 ore polivalente, questi corsi sono stati l’iter formativo normale per la maggior parte di essi fino al 1997. Poi abbiamo assistito con grande disappunto alla sospensione dei corsi biennali per l’attivazione di corsi cosiddetti “intensivi” che prevedono un iter formativo di sole 450 ore senza trattare l’area della minorazione visiva ed uditiva. I corsi sono stati rivolti a personale demotivato e proveniente da classi in esubero della scuola media superiore in particolare. Tali corsi sono stati accolti dagli stessi docenti interessati con scarsa attenzione e partecipazione, un vero fiasco sottolineato da più parti. Per ovviare alla cronica carenza di personale specializzato da quest’anno sono stati riaperti i corsi biennali di specializzazione che saranno gestiti dalle Università in convenzione con Enti e Associazioni. Purtroppo proprio in questi giorni vengano segnalate irregolarità e perplessità sull’attivazione di questi corsi proprio dal Ministero stesso. In ogni caso si sta creando una babele formativa a fronte di un bisogno reale che attende risposte immediate.
Come FADIS crediamo che la formazione dei docenti debba essere di qualità anche in questa fase transitoria, infatti siamo sempre n attesa che parta la specializzazione universitaria prevista per 2001. Specializzazione universitaria che ci lascia anche in questo caso perplessi per il modesto numero di ore sempre 450 senza obbligo di frequenza, che servono per ottenere un titolo universitario che sarà abilitante all’insegnamento.
Infine è bene ricordare che circa 10.000 docenti sono stati utilizzati nel precedente anno scolastico senza nessuna professionalità e competenza.

Come valutate il Progetto di Berlinguer di riforma e integrazione scolastica, quali riflessi potrà avere sulla vostra professione? In particolare cosa s’intende per “normalizzazione dell’integrazione” e per “riutilizzo intelligente degli insegnanti”?

Ci sentiamo di condividere il documento laddove si afferma che occorre “favorire il passaggio da una gestione puramente aritmetica dell’organico dei docenti di sostegno ad una fondata sulla visione complessiva della situazione e sulla necessità di differenziare le risposte in base, non più solo al numero delle certificazioni e alla gravità del deficit, ma soprattutto alle condizioni reali delle singole istituzioni scolastiche”. In quest’ottica, si potrebbero verificare situazioni nelle quali un istituto scolastico abbia necessità di aumentare il numero di insegnanti di sostegno, mentre un altro ritenga opportuno ridurlo. Le norme attuative, citate immediatamente dopo nel documento degli Orientamenti generali per una nuova politica dell’integrazione, non risultano essere coerenti con i principi sopra menzionati, perché a fronte di un aumento di 46 alunni certificati nell’a.s. 1998/1999, si è verificato una diminuzione di 674 docenti di sostegno che si ritiene presumibilmente compensata dall’attivazione di “modelli efficaci di integrazione”. In nessuna parte del documento si precisa in che cosa consistano tali modelli efficaci di integrazione, come vengano e siano stati censiti, e come venga verificata la loro efficacia e riproducibilità su scala nazionale. Per quanto riguarda la formazione dei docenti si ravvisa un’ipotesi di responsabilizzazione diversa dei docenti curricolari in relazione all’integrazione, ma il ruolo che questi andranno ad assumere nei confronti di tale situazione non è chiaro. Sarebbe opportuno sapere se, nelle intenzioni di chi scrive, è prevista l’eventuale sostituzione della figura dell’insegnante di sostegno con quella dell’insegnante curricolare. Se questa risultasse essere un’ipotesi fondata, ci preme ricordare che non la condividiamo, in quanto le due figure hanno compiti integrati. Il profilo professionale del docente specializzato che rappresenta un reale supporto alla classe nell’assunzione di strategie e tecniche pedagogiche, metodologiche e didattiche integrative, che conduce un lavoro di consulenza a favore dei colleghi curricolari e di interventi specializzati centrati sulle caratteristiche e le risorse dell’allievo (come riportato nel documento) è condivisibile. In contraddizione con ciò che è sempre stato lo spirito stesso dell’integrazione è il fatto che questo “profilo professionale nuovo” veda il docente di sostegno come unico garante nei fatti di una “progressiva riduzione della didattica cosiddetta frontale”. La “formazione del contingente degli insegnanti impiegati per il sostegno” (ovviamente in possesso di specializzazione) ha come obiettivo ultimo quello di metterli in grado di intervenire in classi che presentino alunni certificati di ogni tipologia. La creazione di “nuclei di docenti con competenze specifiche e da impiegare – al di là delle graduatorie in uso e con il ricorso a forme di remunerazione dell’eventuale disagio – laddove esista l’eventuale bisogno” non siamo riusciti a capire realmente cosa significhi in termini pratici. L’unica interpretazione che siamo riusciti ad individuare è, crediamo, molto lontana dalle idee dello scrivente, in quanto si tratta di ipotizzare di avere dei docenti “super esperti” in determinate tipologie di minorazione (ad esempio docenti che “si occupano” di classi con alunni non udenti, altri che si occupano di non vedenti, ecc.), filosofia ormai sperimentata e superata dalla normativa già da diversi anni con l’istituzione del docente con specializzazione polivalente. Ciò che riteniamo molto utile è dare la possibilità alle scuole che hanno necessità di interventi molto specifici (traduttori braille, mediatori LIS, ecc.) di fare convenzioni con personale esterno, in possesso di queste specifiche competenze. Ciò non vuol dire che tali figure possano essere sostitutive dell’intervento fatto dal docente specializzato per il sostegno. Quest’ultimo, infatti, è anche l’unico che ha le reali competenze per lavorare in quei consigli di classe in cui si trovano alunni che hanno difficoltà di apprendimento che emergono come conseguenza di una condizione di svantaggio socio-culturale o di inadeguato approccio pedagogico-educativo-didattico della scuola.
In conclusione:
– l’insegnante specializzato per il sostegno è un insegnante della scuola che lavora in classe e per la classe in cui si trova un alunno certificato o un alunno in difficoltà di apprendimento che emergono da una condizione di svantaggio socio-culturale o di inadeguato approccio pedagogico-educativo-didattico della scuola;
– l’insegnante specializzato costruisce progetti insieme al gruppo operativo multidisciplinare (DPR del 24/2/94), ma usa la sua funzione docente nelle classi con attività didattiche anche alternative (classi aperte, lavoro a gruppi, insegnamento individualizzato).

L’attuazione graduale delle norme relative all’autonomia scolastica che problemi vi pone?

L’introduzione dell’autonomia nelle scuole ma in generale di tutte quelle riforme in atto nella scuola italiana: innalzamento dell’obbligo, nuovo esame di stato, riforma dei cicli debbono essere attentamente valutate perché in momento di grandi cambiamenti il diritto allo studio degli alunni in situazione di handicap non venga meno. I rischi sono tanti e l’attenzione dei direttori scolastici e amministratori locali ha queste tematiche è talvolta molto bassa. A titolo di esempio vorrei citare il caso dei rimborsi per i docenti di sostegno impegnati quest’estate nel nuovo esame di stato. Dopo ripetute richieste di chiarimento con il Ministero sull’entità del compenso dovuto sono arrivati rimborsi pari a lire 700 l’ora. Sicuramente aldilà della cifra che parla da sola è la scarsa attenzione che a questo problema si pone che deve mettere in allarme docenti e genitori. Il docente di sostegno è una risorsa per la scuola che va sostenuta e promossa. Attualmente si richiede a tutti i docenti una forte capacità progettuale e di coordinazione tra i vari soggetti presenti nel territorio. Credo che queste competenze siano in possesso dei docenti di sostegno e il loro apporto all’innovazione della didattica possa essere notevole, l’importante è dargli gli strumenti per operare concretamente per tutte le situazioni di disagio e svantaggio presenti in numero sempre maggiore nella scuola pubblica. L’integrazione scolastica quando è stata di qualità è stata forse una delle più grandi innovazioni della scuola pubblica italiana di questi ultimi vent’anni.

*FADIS,
sede c/o studio legale E. Casanova, via Marchetti 2, 40137 Bologna
tel. 0532/75.45.03
email: bomarzo@tin.it
http://freeweb.aspide.it/freeweb/fadis

Che cos’è Pubblicità Progresso

Pubblicità Progresso è un’associazione senza fini di lucro, a cuiaderiscono molte delle componenti del mondo della comunicazione.
Obiettivo dell’associazione è contribuire alla soluzione di problemi morali,civili ed educativi della comunità, ponendo la comunicazione al servizio dellacollettività.
L’associazione si propone di dimostrare l’utilità di un interventopubblicitario professionale, per promuovere una corretta comunicazione sociale estimolare la conoscenza civile ad agire per il bene comune.
Fondata nel 1971, Pubblicità Progresso ha realizzato fino ad oggi 27 campagnededicate a temi di interesse pubblico. Dopo la prima, "Donate sangue"sono stati affrontati via via tutti i temi di maggior interesse per lacomunità: "Il verde è tuo: difendilo", "Chi fuma avvelena anchete", "Adotta un nonno", "AIDS", "Vai a trovare unmalato".
L’ultima campagna in ordine di tempo, "Coltiva più interessi, è nel tuointeresse", affronta come sempre un argomento di interesse sociale egenerale. Ma per la prima volta Pubblicità Progresso non indirizza il suomessaggio a difesa dei più deboli, bensì si rivolge a tutti i cittadini, senzadistinzione di età e di posizione sociale.
Al di là dei successi delle diverse campagne, l’attività di PubblicitàProgresso ha avuto il merito di introdurre la comunicazione sociale in Italia,ed ha contribuito a sensibilizzare le istituzioni sul valore della comunicazionee sull’efficacia del messaggio pubblicitario svincolato da intenti commerciali.
Tutte le campagne di Pubblicità Progresso sono state realizzate grazieall’impegno gratuito di utenti, organizzazioni professionali, imprese, massmedia.

Dall’altra parte

Una ricerca promossa dal Centro Studi Pubblicità Progresso mostra che cosa sia la pubblicità sociale per la gente. Al di là del generico giudizio positivo emerge, in maniera preoccupante, che gli strati più emarginati della popolazione non vengono raggiunti dal messaggio. E’ necessario allora una molteplicità di linguaggi.

Che cos’è la pubblicità sociale per la gente? Ma la Pubblicità Progressonaturalmente, le due cose coincidono; e ancora, questo tipo di pubblicità èutile, non annoia, anzi dovrebbe essere ancor più promosso dallo Stato.
Questo è quanto emerge da una ricerca effettuata dal Centro Studi PubblicitàProgresso (e finanziata dalla Rai) su un campione di 1.000 italiani.
Un’indagine importante perché, se i messaggi sociali che si vogliono inviare,cominciano ad essere oggetto di studio, l’effetto, il feed-back, che gli stessihanno sulla popolazione sono pressoché sconosciuti.
Per fare in modo che la pubblicità sociale non sia un urlo gridato alla folla,o, peggio, un urlo nel vuoto, è necessario conoscere le immagini, le opinioniche la gente si è fatta dei messaggi promossi dalla comunicazione sociale.
L’indagine ha messo in evidenza come la gente sappia definire solo sommariamentecosa sia la pubblicità sociale ("la pubblicità utile a qualcosa");soprattutto la confusione aumenta tra i soggetti più anziani e menoscolarizzati della popolazione. Alla domanda poi su quale sia l’oggetto dellapubblicità sociale le risposte vedono al primo posto la droga, al secondo ibambini, al terzo la salute e poi seguono nell’ordine l’ambiente, gli anziani,la violenza e i disabili. Da questi risultati emerge che i temi che sono statiaccompagnati da altre iniziative sono quelli che sono stati più memorizzati.

La pubblicità sociale raggiunge chi è già sensibile al problema

La maggior parte degli intervistati non riesce a distinguere la PubblicitàProgresso come un soggetto fra gli altri all’interno della pubblicità socialema identifica le due cose; alla domanda poi di chi sia il promotore dellaPubblicità Progresso solamente un quarto delle persone lo identificacorrettamente come espressione del mondo della pubblicità, mentre i rimanentipensano che sia lo Stato.
L’immagine che gli intervistati hanno della comunicazione sociale è ampiamentepositiva, utile e coinvolgente; solo quando la pubblicità sociale èfinalizzata alla raccolta di fondi suscita un apprezzamento meno incondizionato."La pubblicità sociale – dichiara Gianpaolo Fabris, presidente del CentroStudi Pubblicità Progresso – ha avuto come effetto quello di porre comeproblema quei temi che in precedenza erano solo vagamente percepiti, ma incapacidi superare una sufficiente soglia di attenzione e di suscitare una riflessionepresso il grosso pubblico. Il tema del rispetto ambientale e i diritti deiconsumatori sono due fra questi".
Le interviste mettono però in risalto anche un’altra cosa: lo stimoloproveniente dalla campagna di sensibilizzazione viene accolto più a livellopersonale, mentre il livello che comporta anche la discussione con altri nonviene raggiunto. Inoltre il messaggio viene accolto facilmente da quelle personeche sono già sensibili al tema, mentre le fasce di popolazione culturalmente edeconomicamente più emarginate sono difficili da raggiungere (quando invece lacomunicazione sociale è indirizzata principalmente a loro).
La stessa cosa si è ripetuta in occasione delle campagne di prevenzionedell’Aids. Riesce difficilissimo raggiungere il mondo giovanile (il principaleinterlocutore del messaggio in questo caso) con un unico linguaggio data lacomplessità e la diversità di quel mondo. "Purtroppo di frequente accade- sostiene Laura Minestroni, ricercatrice della I.U.L.M. – che queste campagnedi informazione vengano recepite da persone già di per sé sensibilizzate alproblema; è necessario invece riuscire a dialogare con più segmenti culturalie con linguaggi diversi, per raggiungere meglio il nostro scopo".