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autore: Autore: Giovanna Di Pasquale

2. L’uomo è un nodo di storie. Il bisogno delle storie e delle narrazioni

di Giovanna Di Pasquale, pedagogista

“L’uomo è un nodo di storie”. Con queste parole Peter Bichsel, maestro di scuola e scrittore, illumina la trama di narrazioni che coesistono nella casa intima di ognuno di noi.
Sono storie che spesso neanche sappiamo di possedere, che abitano il nostro mondo interiore in modo sotterraneo e che possono fuoriuscire anche senza preavviso richiamate all’esterno da una sensazione, da un odore, da un incontro…
Da sempre, fin dagli inizi dell’umanità, gli uomini hanno sentito il bisogno di narrare e di ascoltare storie, e questo molto tempo prima della nascita di una letteratura vera e propria.
Ci dice ancora Bichsel che “il raccontare storie si occupa di una cosa evidente: che esiste il tempo e che la nostra vita è vissuta in quanto tempo. Raccontare storie significa occuparsi del tempo ed esperire la nostra vita come tempo ha a che vedere col fatto che la nostra vita ha un termine”.
È evidente il legame con la memoria: gli uomini hanno sempre narrato perché ci sono cose importanti che non debbono andare perdute. Una società senza storie è una società senza memoria senza, cioè, quel sapere condiviso e collettivo che, seppur per frammenti e strappi, costituisce il ponte fra le generazioni.
Su questo concetto diventa illuminante un breve racconto dalla tradizione chassidica.
“Quando il Baal Schem Tov doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene delle creature, andava allora in un posto dei boschi, accendeva un fuoco, diceva la preghiera e tutto si realizzava secondo il suo proposito. Quando una generazione dopo, il Rabbi Mosché Laib doveva assolvere lo stesso compito, anche egli andava nel bosco e diceva ‘Non possiamo più accendere il fuoco e non conosciamo più le segrete meditazioni che vivificano la preghiera, ma conosciamo il posto del bosco dove tutto ciò accadeva’. E ciò era sufficiente. Ma quando, di nuovo, una generazione dopo, il Rabbi Ystrael doveva anche egli affrontare lo stesso compito se ne stava seduto in una sedia d’oro e diceva: ‘Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere e non conosciamo più il luogo del bosco; ma di tutto questo possiamo raccontare la storia’. E così il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle azioni degli altri”.
La narrazione, le storie sono possibili porte di ingresso alla nostra identità come singole persone e come parte di una comunità.
Abbiamo anche bisogno di storie per fare nostro il mondo; per questo molti studiosi pensano che la funzione dei libri sia quella di costruire, nella loro pluralità, un immenso inventario del mondo.
Inventario che non parte da definizioni e convinzioni assolute ma dalle domande.
Sono le domande a generare le storie: “Che cosa succederebbe se?”.
La storia di Ulisse narrata nell’Odissea non esisterebbe se l’autore non si fosse posto questa domanda. Se Ulisse e i suoi compagni approdassero in un’isola dove risiede un Mostro ciclopico dall’unico occhio? Che cosa succederebbe se i viaggiatori passassero accanto alla dimora delle Sirene, e se si fermassero proprio nell’isola di Maga Circe, l’incantatrice capace di trasformare gli uomini in maiali?
Insieme ad Alice nel paese delle meraviglie ci chiediamo in tanti modi: “Chi sono io? Ditemi questo prima di tutto!”.
Del resto, anche un bambino guarda il mondo attraverso le domande. Quante volte, posto davanti al “Che cos’è?” il bambino comincia a rispondere: “È come…”, “È come se…”, “È come quando…”. E in questo modo si dà il via a una nuova storia.
La narrazione è importante nella costruzione della consapevolezza di sé e della propria storia perché mette in moto memorie, le attualizza in contesti diversi, le scompone per ricomporle in una trama narrativa significativa.
Abbiamo anche bisogno di storie per essere rassicurati sul nostro essere nel mondo, per sentirci raccontare che siamo nel tempo e nello spazio, siamo dentro una storia che, almeno nelle forme della nostra esperienza umana, ha un inizio e una fine.
Riprendiamo la citazione di Peter Bichsel con cui abbiamo aperto queste riflessioni: “L’angoscia di fronte a questo dover finire può naturalmente essere tenuta a bada… Ciò che però non scompare è la tristezza per questa finitudine. La tristezza non la si può vincere, può soltanto essere rifiutata o accettata. Il raccontare storie ha a che fare col fatto di accettarla. La tendenza degli uomini alla tristezza li fa diventare narratori di storie”.
Il tempo finito della storia è profondamente rassicurante proprio nel suo ricominciare dall’inizio ogni volta che la ri-narriamo attraverso una formula che è capace di introdurci istantaneamente nella storia stessa, così come succede con la frase del “C’era una volta…” che, di consueto, apre le storie della tradizione.
Da questo bisogno di rassicurazione e di presenza nasce la necessità dei bambini di sentirsi ripetere sempre la stessa storia con le medesime e precise parole.
E dallo stesso bisogno di rassicurazione e ricerca di senso, possono nascere i narratori che oppongono alla durezza delle realtà spesso difficili che attraversiamo, la concretezza generativa delle storie e la loro capacità di restituire senso.
Così racconta Rubem Alves:
“Io sono narratore di storie. Ho scoperto d’esserlo narrando storie per la mia bimbetta. Le storie si formano allo stesso modo in cui si forma una perla dentro all’ostrica. Ostriche felici non fanno perle. Occorre che un granello di sabbia entri nell’ostrica e raggiunga la sua carne molle. Il granello di sabbia rende l’ostrica infelice. Per liberarsi dal dolore provocato dal granello di sabbia, l’ostrica avvolge pazientemente l’aspro granello di una sostanza liscia, senza punte e rotonda: la perla. Le storie nascono allo stesso modo. Mia figlia è nata con il viso difettoso. E io le raccontavo storie per cambiare tale dolore in bellezza. Ma per fare questo era necessario che io possedessi il potere dei maghi. Sì, le storie sono riti magici”.

Dare voce alla “moltitudine silenziosa”

Lo sento da oltre il muro che ogni suono fa passare,
l’odore quasi povero di roba da mangiare,
lo vedo nella luce che anch’io mi ricordo bene

di lampadina fioca, quella da trenta candele,
fra mobili che non hanno mai visto altri splendori,
giornali vecchi ed angoli di polvere e di odori,
fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani:
mangiare, sgomberare, poi lavare piatti e mani.

Lo sento quando torno stanco e tardi alla mattina
aprire la persiana, tirare la tendina
e mentre sto fumando ancora un’altra sigaretta,
andar piano, in pantofole, verso il giorno che lo aspetta
e poi lo incontro ancora quando viene l’ora mia,
mi dà un piacere assurdo la sua antica cortesia:
"
Buon giorno, professore. Come sta la sua signora?
E i gatti? E questo tempo che non si rimette ancora…”

Mi dice cento volte fra la rete dei giardini
di una sua gatta morta, di una lite coi vicini
e mi racconta piano, col suo tono un po’ sommesso,
di quando lui e Bologna eran più giovani di adesso…

Io ascolto e i miei pensieri corron dietro alla sua vita,
a tutti i volti visti dalla lampadina antica,
a quell’odore solito di polvere e di muffa,
a tutte le minestre riscaldate sulla stufa,
a quel tic-tac di sveglia che enfatizza ogni secondo,
a come da quel posto si può mai vedere il mondo,
a un’esistenza andata in tanti giorni uguali e duri,
a come anche la storia sia passata fra quei muri…

Io ascolto e non capisco e tutto attorno mi stupisce
la vita, com’è fatta e come uno la gestisce
e i mille modi e i tempi, poi le possibilità,
le scelte, i cambiamenti, il fato, le necessità
e ancora mi domando se sia stato mai felice,
se un dubbio l’ebbe mai, se solo oggi si assopisce,
se un dubbio l’abbia avuto poche volte oppure spesso,
se è stato sufficiente sopravvivere a se stesso…

Ma poi mi accorgo che probabilmente è solo un tarlo
di uno che ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo:
non posso o non so dir per niente se peggiore sia,
a conti fatti, la sua solitudine o la mia…

Diremo forse un giorno: “Ma se stava così bene…”
Avrà il marmo con l’angelo che spezza le catene
coi soldi risparmiati un po’ perché non si sa mai,
un po’ per abitudine: “Eh, son sempre pronti i guai”.
Vedremo visi nuovi, voci dai sorrisi spenti:
”Piacere”, “È mio”, “Son lieto”, “Eravate suoi parenti?”
E a poco a poco andrà via dalla nostra mente piena:
soltanto un’impressione che ricorderemo appena…

Francesco Guccini, Il Pensionato
Da: Via Paolo Fabbri 43, 1976

Sarà che da anni ormai quasi tutte le mattine prendo l’autobus, il numero 37, che passa proprio davanti alla casa dove abita il Pensionato.
Sarà che la memoria è a cerchi concentrici e movimenti sussultori che spingono lontano ciò che è presente e fanno rinvenire ciò che appare collocato in un altro tempo, in un’altra situazione.
Sarà che di passato in queste parole c’è poco e niente.
Così questa canzone orgogliosamente demodè, questa storia senza fronzoli è riapparsa fuori dall’angolo in cui si era riparata e di nuovo mi riprende il piacere di entrare in punta di piedi in quei cortili, di ascoltare le chiacchiere inutili e sommesse, di godermi la malinconia di certi modi di fare, di antichi gesti desueti e gentili. Di ascoltare un racconto fatto delle piccole ovvietà straordinarie della vita di tutti i giorni… "Buon giorno, professore. Come sta la sua signora? E i gatti? E questo tempo che non si rimette ancora… Mi dice cento volte fra la rete dei giardini
di una sua gatta morta, di una lite coi vicini”
. È una voce che rompe la solitudine, è una voce che cerca il dialogo. Dialogo tante volte impossibile tra chi “ha mondo e chi ha tempo”.
Non hai mai notato come quelli che conosciamo hanno o il mondo o il tempo, ma mai entrambi? Quelli che hanno un mondo, un’occupazione, un lavoro, uno spazio in cui mettere la propria vita hanno sempre poco tempo. È la conditio sine qua non di chi ha un suo mondo. Ma le persone che hanno tempo: le vedove sedute sulle panchine dei giardini, i vecchi, le donne i cui figli sono a scuola, anche quelle i cui figli se ne sono andati di casa… tutte queste persone hanno tempo in abbondanza, ma non hanno un mondo loro. O si possiede il mondo o il tempo, mai entrambi”.
(A. Cross, Un delitto per James Joyce, Milano, La Tartaruga Nera, 1986)
Questa ripartizione tra esseri “produttivi” e “improduttivi”, la presenza di fasce di persone che, per motivi differenti, vengono collocate (e si percepiscono) ai margini delle organizzazioni sociali sono tratti che ritroviamo come caratterizzanti questi anni in questa parte del mondo.
Abbiamo letto sempre più spesso e continuiamo a farlo, in contributi scientifici e nelle ricerche sociologiche, di termini come invisibilità sociale, nuove povertà. Sono parole forti che cercano di rendere il senso della marginalità sociale ed esistenziale in cui sono collocate sempre più persone. Allo stesso tempo sono parole astratte che permettono di comunicare in modo immediato fra chi di abitudine frequenta le pagine specialistiche. Come ogni categoria, il loro uso si propone di mettere ordine fra le dinamiche caotiche dell’esistente, in questo senso possono diventare strumenti utili a orientarci. Sono, però, anche sensori di un rischio che tocca ognuno di noi in modo più ampio: il rischio di banalizzare la complessità delle vite, di tutte anche di quelle apparentemente più lineari, di vedere nelle persone solo i tratti unificanti, di cogliere quella dimensione monocorde che toglie vitalità e riduce l’identità a una sorta di stereotipo radicato.
E così per molte donne e uomini, bambine e bambini viene coniata una definizione pesante come “invisibilità sociale”: occupano uno spazio ma non hanno un luogo.
Non so dire se il riconoscimento di sé sia un diritto, certo mi appare sempre più come un bisogno: bisogno di essere guardati e non solo passati dagli sguardi di chi, come noi e con noi, attraversa un pezzo di strada. È un’azione semplice, guardare, e così complicata. Se guardo un’altra persona apro un credito di fiducia, anche momentaneo, permetto anche a lei di guardarmi e, fosse anche per un istante, di comunicare, mettere in comune, con me.
È una cosa difficile mettere in comune. Me ne accorgo ogni volta che distolgo lo sguardo, che cambio marciapiede. È un meccanismo irriflesso, mossa di difesa per fronteggiare disagio, imbarazzo. Per mettermi al riparo dietro una linea invisibile e persistente di separazione.
In una conversazione di qualche tempo fa, diceva Erri De Luca che la letteratura è una sorta di dialogo interiore con la moltitudine silenziosa che abbiamo dentro. Non so a quale statuto testuale
(né mi interessa granché scoprirlo) appartengano le canzoni. So però che sempre canzoni come Il Pensionato danno voce alla “moltitudine silenziosa”, la rendono concreta, vicina, un’altra faccia di noi. Protagonisti di narrazioni in forma di canzone, anche i Pensionati e tanti altri con loro riemergono dall’invisibilità e diventano parte dell’esperienza collettiva.