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autore: Autore: Giulia Maccaferri

 Uno sparo alla “G”!

a cura di Tristano Redeghieri e Giulia Maccaferri

A febbraio abbiamo condotto un percorso di formazione per gli studenti dell’istituto D’Arzo di Montecchio Emilia (RE) che aveva come argomento sport, disabilità e volontariato. Questa attività si chiamava “Sport and roles. Sport e ruoli” e aveva lo scopo di far trovare agli studenti strategie nuove per includere il più possibile i disabili nel contesto sportivo. La formazione comprendeva due incontri pratici in palestra e una plenaria con due atleti paralimpici, Massimo Croci e Giovanni Bertani, specialità tiro a segno. È stata una chiacchierata molto interessante e, per questo, voglio condividere con voi alcuni passaggi dove si è parlato di impegno, dedizione, fatica e percorsi…

Come vi siete avvicinati al tiro a segno?
GIOVANNI: Pratico il tiro a segno dal 2008, cinque anni dopo aver fatto un incidente stradale. All’epoca mi ero chiuso in casa, non avevo voglia di uscire e non avevo più stimoli. Tramite un progetto sportivo che mi era stato proposto da vari personaggi, mi è stato offerto di fare attività per ridare nuova linfa e stimolo e creare così un nuovo incentivo alla mia vita. Una volta provato a sparare mi è piaciuto ed è iniziata la mia carriera sportiva. Questo mi ha permesso di mettermi in gioco nuovamente, di ritirare fuori delle caratteristiche, tipo l’agonismo, che a causa dell’incidente avevo represso. Grazie a questo, se prima ero chiuso in casa, ora sono sempre fuori. Il messaggio è che bisogna guardare avanti, provare e sperimentarsi; e, se si trova qualcosa che piace, bisogna metterci passione e impegno. I risultati poi arrivano.
MASSIMO: La vita è una ruota, non sai quello che ti capiterà giorno dopo giorno. Sono caduto in moto e la conseguenza è stata la paralisi alle gambe. Prima dell’incidente avevo una vita sregolata e quando mi sono trovato sdraiato su un letto di ospedale, dove se mi andava una mosca sul naso non potevo farci niente, i miei pensieri hanno iniziato a vagare.
Tutti i miei amici mi dicevano che avrei vissuto poco, non per la lesione ma perché sapevano che prima avevo una vita vivace e in quelle condizioni non potevo più averla. E non gli davo torto. Il mio pensiero era “E adesso cosa faccio?”.       Non sono più capace di fare niente, cosa sto qua a fare? Poi quel pensiero è svanito. In clinica ho visto persone messe peggio di me che riuscivano a fare delle cose e allora mi sono detto “Beh, e io mi lamento!?”. Il pensiero di mollare non c’è più stato. All’ospedale Montecatone mi hanno fatto fare molto sport e lì ho iniziato a fare tiro a segno.

Dove vi allenate?
MASSIMO: Andiamo a Reggio Emilia, Bologna, Modena, San Marino, Milano… E calcolate che ci alleniamo da due a quattro volte a settimana. Andiamo in quei poligoni dove, oltre all’assenza di barriere architettoniche, ci siano banconi adatti, non troppo alti.
GIOVANNI: Dobbiamo anche tenere a mente la disponibilità del commissario che ci fa da assistente. Non abbiamo la possibilità di allenarci da soli come fanno i normodotati. Dobbiamo sempre girare in coppia per darci una mano a vicenda, anche solo per metterci o toglierci la giacca.

Dopo l’incidente, come avete reagito alle difficoltà e anche ai risultati positivi?
GIOVANNI: Quando ho avuto l’incidente sono sempre rimasto cosciente e il primo pensiero mentre cadevo è stato “è andata!”. Poi ho pensato alla mia famiglia e mi sono detto “non può finire così”, e subito dopo ho realizzato che ero ancora vivo. Per me andava già bene così, anche se avevo perso una gamba. Invece, quando sono tornato a casa e mi sono scontrato con la quotidianità, i miei figli mi chiedevano dove era finita la gamba e mi mettevano i giochi sparsi per terra per vedere se inciampavo. Allora lì ho capito che non era più come prima. Mi ero chiuso: era più facile sedersi, evitare il problema, stare lì fermo nel comfort di casa. Chi mi era vicino, istituzioni e associazioni, ha visto che così non andava bene e mi ha proposto di fare sport. Il tiro a segno è stato il primo che ho provato e mi è piaciuto subito. Questo mi ha dato nuovi stimoli e da lì ho iniziato un nuovo percorso. Mi sono rimesso in gioco. Tutte quelle difficoltà che avevo nella quotidianità con lo sport sono sparite. Per le gare mi spostavo in areo, dormivo perfino in pulmino (se mi avessero chiesto di farlo per soldi non avrei accettato!). Ma quan- do c’è lo stimolo fai tutto. Quando abbiamo lo stimolo giusto non abbiamo difficoltà e non abbiamo barriere che ci frenano. Il segreto è crearsi lo stimolo per non fermarsi, per avere sempre un obiettivo da raggiungere. E lo sport mi ha fatto capire questo, che poi va trasferito in tutte le altre cose della quotidianità.
MASSIMO: Il primo pensiero che mi è venuto è stato “coraggio, qui ci vuole più coraggio”. Quando mi hanno dimesso dalla clinica avevo vergogna a uscire di casa in carrozzina, il giudizio degli altri mi dava fastidio. Ci sono stati quattro o cinque mesi in cui facevo al massimo duecento metri. Poi ho ripreso la patente e ora di chilometri ne faccio. Non mi sono mai arrabbiato per quello che mi è capitato, direi un’eresia se ammettessi che era meglio prima di adesso, perché ora ho acquisito delle cose che prima non avevo, non vedevo, non pensavo. Ora le sto vivendo. La mia paura più grande era non aver delle relazioni con gli altri, amici, una fidanzata. Invece, dopo, ti accorgi che non è cambiato nulla perché con la voglia di vivere si riesce a fare tutto. Sono più rilassato oggi che prima dell’incidente.

Perché vi piace tanto questo sport? Quali nuove possibilità vi ha dato?
GIOVANNI: Perché mi ha dato di nuovo la possibilità di competere, di dimostrare qualcosa, di raggiungere dei risultati. Mi ha dato la possibilità di sviluppare abilità fisiche e mentali, di metterle in pratica, di sfruttare strategie per migliorare applicandosi sempre al massimo. Se riesco a essere competitivo con me stesso posso esserlo anche con gli altri. E poi ho potuto girare tutta l’Europa.
MASSIMO: A me piaceva sparare anche prima, quindi ho seguito una mia passione. Una mia paura in questo sport è vincere, perché dopo sei obbligato a vincere sempre e a rimanere sulla cresta dell’onda. Il tiro a segno mi ha insegnato a conoscere i miei limiti e a migliorarmi sempre.

Nel vostro sport i disabili e i normodotati gareggiano e si allenano insieme?
MASSIMO e GIOVANNI: Nel nostro sport ci sono già delle discipline divise per categorie, che vanno in base all’età e al genere. A livello di federazione i disabili maschi e femmine sparano insieme e ci sono anche categorie miste. Tra disabili e normodotati le differenze non ci sono e si potrebbe benissimo sparare insieme ma questo non avviene.

Volevamo condividere con voi due cose che ci sono venute in mente mentre sbobinavamo e scrivevamo sul foglio le parole di Giovanni e Massimo.
Primo: la “sfiga” diventa una “sfida”. Il contesto dato dallo sport e dall’ambiente circostante ci permette di cambiare, grazie a nuovi percorsi, di sostituire la “G” con la “D”. Secondo: come mai non ci possono essere gare miste tra disabili e normodotati, con classifiche uniche?
Non capiamo il perché. Si dice tanto che lo sport è integrazione, inclusione, ma se i disabili gareggiano da soli, così come i normodotati, dov’è questa inclusione?
Secondo noi il percorso è a metà; spariamo veramente alla “G” facendola diventare una “D”, non solo per i disabili, ma anche per chi è a capo delle federazioni e che magari ha paura del confronto per l’ansia del risultato. Dalle parole dei due campioni noi abbiamo capito che è fondamentale prima di tutto competere con se stessi, trovare nuovi stimoli per migliorarsi sempre, per non mollare. Solo grazie al confronto, affrontando le difficoltà, parlandone insieme, capendo i pro e i contro. Poi magari non ci si riesce ma se non ci si prova vincerà sempre la “sfiga”… Quindi impugniamo i fucili e… Uno sparo alla “G”!

Sul grande schermo: Il body building che rafforza lo spirito

di Mario Fulgaro e Giulia Maccaferri

“La libertà, se l’ha dimenticato,
è il diritto dell’anima di respirare, e se
essa non può farlo le leggi sono cinte
troppo strette.
Senza libertà l’uomo è una sincope”. (Will)

Boston, un gruppo di ragazzi scapestrati, tante birre e la matematica. È questa la ricetta di Will Hunting Genio ribelle, film uscito nel 1997 diretto dallo statunitense Gus Van Sant. 126 minuti di navigazione nell’universo di Will, il protagonista un po’ sbandato che finisce spesso nei guai con la legge. Solito film sul disagio giovanile? No. E qui entra in gioco il MIT, l’Università americana più prestigiosa nel campo delle scienze, dove Will lavora come tuttofare e dove ogni tanto si diverte a risolvere problemi matematici complicatissimi. In una di queste occasioni la sua genialità viene notata dal professore di matematica dell’Università, che – seppure incredulo – è deciso a non farsi scappare un simile talento. Ma dopo una nottata di eccessi (birre e alcool a gogò), Will viene arrestato e assegnato ai servizi sociali: per riscattare la pena deve seguire una terapia con uno psicologo che, su pressione del professor Lambeau, cercherà di aiutarlo a cambiare totalmente la sua vita. Tra alti e bassi, Will sembra non avere la tenacia e la determinazione di credere nel suo potenziale: ciò che lo aspetta nel futuro lo spaventa e si ostina a rifiutare l’aiuto di chi gli sta accanto. Nel corso del film, tuttavia, lo psicologo (interpretato da uno spettacolare Robin Williams) riesce a fargli cambiare idea, apre una breccia nella sua corazza e ne conquista la fiducia. Questa occasione, e la scelta di coglierla, porterà una svolta nella sua vita, facendogli capire che chiunque, a prescindere dal passato, merita una seconda opportunità.
Proprio il rapporto tra Will e lo psicologo è al centro di questa riflessione. In che modo ognuno dei protagonisti si è aperto all’altro? Lo psicologo, per primo, ha parlato di sé, del suo passato, del proprio vissuto, per scoprire legami in comune su cui imbastire un dialogo con Will. Uno degli aspetti salienti della vicenda è, infatti, il sapersi mettere a nudo di fronte agli altri.
“Io andavo spesso dallo psicologo e, nei vari incontri, ho provato a mettermi a nudo, ma non è stato facile perché aprirsi con persone sconosciute su problemi personali non è scontato”, racconta una nostra collega dopo la visione del film. “Anche io sono andato dalla psicologa ma non siamo mai riusciti ad avere fiducia l’uno nell’altra; eravamo molto distanti tra noi e non ci prendevamo bene”, un altro commento di chi ha osservato il film.
Una voce in controtendenza, invece, dichiarava che “nel film piace vedere come entrambi abbiano raggiunto il proprio obiettivo; nello psicologo c’è stata prima un’analisi introspettiva, in relazione allo studente, per poi cercare di instaurare un dialogo con quest’ultimo. Nello studente, invece, il processo è stato inverso; Will è stato prima protagonista di un inatteso incontro con lo psicologo, per poi cercare di metabolizzare tutto ciò che stava per lui emergendo involontariamente”.
I due diversi approcci possono essere presenti anche in un singolo soggetto che, a seconda delle circostanze, può vivere la propria condizione in modo introverso o estroverso, da osservatore passivo o incuriosito o, più ancora, critico e analitico. La cosa più importante non è stabilire previamente un iter cronologico di strategie da poter utilizzare per affrontare il mondo, perché tutto emerge in modo spontaneo e naturale. È sbagliato recriminare sulle scelte passate in base al proprio vissuto presente, poiché le scelte compiute hanno trovato la loro esatta collocazione in quel dato momento storico della propria esperienza di vita. Infatti, tutto ciò che sperimenta Will rispecchia, in modo diverso ma sostanzialmente uguale, le vicende di chiunque. La chiave di successo sta nel riuscire a mettersi in gioco e ad aprirsi quanto più possibile a 360 gradi, per abbracciare la vita in ogni suo minimo aspetto. Solo così si riesce a sentirsi parte integrante di un tutto “insieme” che ci circonda. Il mondo, la vita non devono apparire co- me altro da sé, motivo per sentirsi anche vittime sacrificali, ma parte integrante del proprio sentire e vivere. Sappiamo tutti che non è assolutamente facile raggiungere l’obiettivo di stare in pace con se stessi, e di conseguenza con gli altri, ma ci si può impegnare giorno dopo giorno per il conseguimento di questo obiettivo. È anche una questione di esercizio o di allenamento; il body building che rafforza lo spirito è attivo ogni giorno, in ogni istante.
Infine, per chi ama la musica ma anche per tutti gli altri, vi consigliamo di ascoltare un’artista che ha fatto di questa filosofia il leitmotiv di tutta la propria esistenza, Eddie Vedder, leader storico della band statunitense Pearl Jam. Buon ascolto!