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autore: Autore: Massimiliano Rubbi

Con un peso del 9%: la disabilità in Spagna nell’era di Zapatero

Uno degli eventi politici più importanti del 2004 è stata la vittoria, nelle elezioni nazionali spagnole del 14 marzo, del PSOE di José Luis Zapatero, subito dopo i tragici attentati di Madrid. Al di là del cambio di maggioranza in una importante nazione dell’Unione Europea, si è trattato di un terremoto nella riflessione politica: dopo anni di rincorse alla “terza via”, un programma di recupero della tradizione di sinistra si è rivelato moderno e soprattutto vincente, tanto da far parlare di un “effetto Zapatero” su tutta la sinistra europea. Appare lecito chiedersi, a circa un anno dall’insediamento dell’esecutivo socialista, se anche sulla disabilità siano state attuate politiche di rottura, oppure si sia mantenuta una continuità con i governi (popolari) degli anni precedenti.

Percentuali di inclusione sociale e politiche di genere
Uno dei punti più qualificanti e interessanti del programma elettorale di Zapatero era il “contratto di inclusione al 9%”. Secondo quanto dichiarato in una tribuna elettorale dall’allora referente per le politiche sociali del partito, Consuelo Rumì, esso consiste nella “rappresentazione della collettività delle persone con disabilità in tutti gli ambiti, in funzione del peso demografico che ha nella nostra società”. Obiettivo decisamente ambizioso, perché proietterebbe trasversalmente la questione disabilità, con un peso misurabile, in tutti i settori dell’attività politica. Obiettivo che però partiva già un po’ zoppo: nella stessa occasione la signora Rumì ricordava come l’unica proposta del PSOE approvata dal precedente governo Aznar fosse stata l’aumento al 5% della quota di riserva a persone disabili per nuove assunzioni entro il pubblico impiego – e noterete come 5 non equivalga a 9.
Va detto che al momento, in tutta la pubblica amministrazione spagnola, la quota di persone con disabilità non supera lo 0,7%, e l’obiettivo realistico è di portarla al 2% nei prossimi anni. Nel dicembre 2004, inoltre, un decreto ha rafforzato l’impegno al rispetto della riserva del 5%, rendendola obbligatoria per i concorsi interni e garantendo una prelazione nella scelta della sede di lavoro ai lavoratori con disabilità. Il premier ha adottato in primissima persona questo impegno, attraverso il progetto “Moncloa 5%”, con cui la Presidenza del Consiglio si è impegnata nel luglio 2004 ad avere nell’organico dei propri diretti dipendenti un 5% di persone con disabilità a fine legislatura (90 su 1800). Tuttavia il percorso è ancora lungo: i sindacati denunciano come sia poco rispettata (e controllata) anche la non impressionante quota del 2% di lavoratori disabili imposta alle imprese private con oltre 50 dipendenti.
Altra innovativa misura promessa dal PSOE era un Piano di Azione per la Donna con Disabilità, che coordinasse tutte le azioni a favore di questa categoria soggetta a doppia discriminazione. La condizione femminile in Spagna appare più arretrata che nella media dell’Unione Europea, come dimostrano il forte differenziale con i maschi nel tasso di occupazione e il lavoro di cura lasciato quasi esclusivamente alle donne in presenza di familiari non autosufficienti. Va ricordato che proprio la Spagna, e in particolare Valencia, ha ospitato tra febbraio e marzo 2003 il I° Congresso Internazionale su Donna e Disabilità, di cui si è già parlato su questa rivista. Il piano che dovrebbe aiutare la donna con disabilità nell’inserimento lavorativo e nella conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, però, non è ancora pronto, e nel gennaio 2005 la specifica commissione del CERMI, il comitato che riunisce quasi 3.000 associazioni del settore, ha iniziato un lavoro di redazione, sollecitando al contempo il governo ad attivarsi per reperire le necessarie risorse – rivendicazione confermata con qualche accento di protesta in occasione dello scorso 8 marzo.

Il Sistema Nazionale della Dipendenza
Tra i numerosi altri punti del programma con cui il PSOE si è presentato alle elezioni, spicca la costituzione di un Sistema Nazionale della Dipendenza, inteso come un quadro preciso di diritti per i circa 2,7 milioni di spagnoli non autosufficienti. Il costo di questo sistema, definito anche “quarto pilastro dello Stato sociale” in aggiunta a politiche del lavoro, educazione e sanità, è stato stimato in 9 miliardi di Euro all’anno, pari all’1,3% del PIL, con una ricaduta occupazionale di circa 330.000 posti di lavoro, prevalentemente femminili (ritorna così la connessione tra donne e lavoro di cura, anche come opportunità e non rinuncia professionale). Finora l’iniziativa politica si è limitata a un confronto con le parti sociali, da cui è scaturito un Libro Bianco a cura della Segreteria del Ministero delle Politiche Sociali, presentato in Parlamento nel gennaio 2005 come base per una “Legge per l’Autonomia delle Persone” in via di definizione.
È evidente che la realizzazione di questo progetto comporterà una rivoluzione del Welfare State, che storicamente presenta in Spagna risorse in calo, in rapporto tanto alla media europea quanto al PIL. Di qui i dubbi che una riforma così ambiziosa possa essere davvero portata a termine in tempi brevi, senza comportare un pesante aggravio fiscale. L’opposizione di centro-destra avanza inoltre il sospetto che una carta elettorale così pesante verrà “surgelata” dal governo con anni di studi e ricerche, per giungere ad approvare il sistema della dipendenza solo in vista delle prossime consultazioni, previste per il 2008 (Zapatero, comunque, ha ricordato esplicitamente questo impegno nel discorso che celebrava il primo anniversario della vittoria elettorale).
Nel frattempo, il Libro Bianco delinea un quadro in cui la famiglia è l’unica istituzione a occuparsi dei non autosufficienti: solo il 6,5% delle persone con necessità di cure di lunga durata dichiara di riceverle dai servizi sociali. Che avvenga entro un “quarto pilastro” organico o con misure più circoscritte, un serio intervento di cura da parte dei servizi pubblici pare dunque ineludibile per migliorare la condizione delle persone con disabilità in Spagna.

Associazionismo in luna di miele
C’è forse solo una promessa elettorale palesemente disattesa da Zapatero: la “Segreteria di Stato per la disabilità”, proposta dal partito socialista alle dipendenze dirette della Presidenza del Governo, è divenuta una più vasta “Segreteria di Stato per Servizi Sociali, Famiglie e Disabili” sottoposta al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, mostrando minore attenzione per lo specifico della disabilità.
Malgrado questo “sgarbo”, non sembra essersi incrinato il buon rapporto tra il governo in carica e le associazioni rappresentative del mondo disabile spagnolo. Già in campagna elettorale il COCEMFE, che raggruppa 900 associazioni di disabili fisici, aveva lodato l’atteggiamento disinvolto con cui Zapatero si era rivolto agli astanti in un dibattito elettorale di fronte a persone con disabilità, in lampante contrasto con l’impaccio dello sfidante del PP, Mariano Rajoy. Il clima tra esecutivo e associazionismo è rimasto complessivamente positivo e collaborativo anche nei primi mesi di attività, come dimostra l’apprezzamento espresso dal presidente del CERMI, Mario Garcìa, per il metodo di redazione del Libro Bianco sulla Dipendenza.
È essenziale rilevare che l’associazionismo handicap spagnolo ha un peso politico sconosciuto agli omologhi italiani: per citare il caso più rilevante, l’associazione dei ciechi ONCE, attraverso la vendita dei biglietti di una lotteria a estrazioni giornaliere, dà stabilmente lavoro a ben 23.000 persone non vedenti e ne assiste oltre 63.000 (oltre a controllare l’omonima squadra ciclistica, nota anche in Italia agli appassionati). Il buon rapporto mantenuto con le associazioni del mondo della disabilità può dunque essere considerato il maggior successo del governo Zapatero nel suo primo anno di vita. Solo il tempo, e il lavoro dei prossimi anni, dirà se il seguito di questa luna di miele assomiglierà più a Mr. & Mrs. Smith o a La guerra dei Roses.

Una Costituzione poco robusta? La disabilità nella Costituzione Europea

Dopo la batosta subita nei referendum ravvicinati in Francia (29 maggio) e Olanda (1° giugno), sulla Costituzione Europea si è accentrata un’attenzione anche superiore a quella dedicata in occasione della firma, avvenuta a Roma il 29 ottobre 2004. Le bocciature popolari hanno fatto rallentare i tempi previsti di ratifica ben oltre il termine iniziale del novembre 2006, sollevando molte perplessità sul futuro dell’integrazione europea. Il voto sulla Costituzione, come ormai acclarato specie per il caso francese, è infatti rimasto schiacciato tra le opposte tenaglie dell’anti-liberismo e del neo-conservatorismo, dell’europeismo “spinto” e del nazionalismo tradizionale, insomma tra il “troppo” e il “troppo poco”. Inevitabilmente, questo esito fa venire i nodi al pettine anche per quanto riguarda le politiche sulla disabilità proposte sinora dall’Unione, con tutta la loro evoluzione nei decenni.

La difficile conquista di visibilità
Nei trattati di Roma, siglati nel 1957, non si parla mai espressamente di disabilità. Comprensibile, nel contesto socio-politico degli anni ’50, ma 35 anni dopo nemmeno il trattato di Maastricht fa menzione del tema. Per quattro decenni la disabilità è rimasta solo una possibile declinazione delle competenze comunitarie in materia di politiche sociali, per di più sussidiarie a quelle economiche. Solo nel 1997, con il trattato di Amsterdam, viene prevista una competenza del Consiglio nella lotta alle “discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Il trattato di Nizza del 2001 conferma questa formulazione, estendendo alle relative azioni di incentivazione la procedura di voto a maggioranza qualificata del Consiglio, senza richiedere più l’unanimità.
Il trattato di Amsterdam contiene anche la dichiarazione finale n. 22, secondo cui si conviene che “nell’elaborazione di misure a norma dell’articolo 95 del trattato che istituisce la Comunità europea [relative all’armonizzazione del mercato interno], le istituzioni della Comunità tengano conto delle esigenze dei portatori di handicap”. Ma una piena considerazione delle esigenze delle persone disabili nei documenti fondativi dell’Unione si ha solo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000. L’articolo 26, esplicitamente intitolato “Inserimento dei disabili”, proclama: “L’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”. Tale articolo, insieme al 21 sulla non-discriminazione, viene riportato tale e quale nella parte seconda della nuova Costituzione, che però lo tramuta da mera indicazione politica a norma con valore legale, contro le cui violazioni sarà possibile ricorrere alla Corte Europea di Giustizia.

Verso una promozione diretta dei diritti
L’articolo appena citato ha una formulazione piuttosto debole: l’UE “riconosce e rispetta” un diritto all’integrazione che non promuove direttamente, e che dunque si presume sia da altri garantito. Per vedere le istituzioni europee protagoniste occorre passare alla parte terza della Costituzione, dove l’art. 124 stabilisce che “una legge o una legge quadro europea del Consiglio può stabilire le misure necessarie per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”. Null’altro che l’articolo anti-discriminazione del trattato di Amsterdam, in cui però si parlava vagamente di “provvedimenti opportuni” e non di una normativa organica. Su questi temi, tuttavia, “il Consiglio delibera all’unanimità”, restando al palo rispetto al sistema di maggioranza qualificata che proprio la nuova Costituzione propone ed estende a molti ambiti. Questo pare comunque il primo riferimento esplicito a una politica attiva dell’Unione contro la discriminazione, in un quadro di documenti fondamentali in cui lo specifico della disabilità ha molto stentato a entrare.
La Costituzione non prevede molto di più in materia di disabilità, e un riferimento fondamentale per capire le politiche della nuova Unione rimane la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata nell’ormai lontano 1989 (con la vistosa defezione del Regno Unito). Il punto 26 della cosiddetta Carta Sociale proclama: “Ogni persona handicappata, a prescindere dall’origine e dalla natura dell’handicap, deve poter beneficiare di concrete misure aggiuntive intese a favorire l’inserimento sociale e professionale. Tali misure devono riguardare la formazione professionale, l’ergonomia, l’accessibilità, la mobilità, i mezzi di trasporto e l’alloggio, e devono essere in funzione delle capacità degli interessati”. Anche da qui deriva la connessione strettissima tra condizione di disabilità e orientamento al lavoro che spesso è possibile notare nei documenti europei.

L’ambiguo pensiero del mondo sociale
Come viene valutata la Costituzione del 2004 dalle associazioni che si occupano di disabilità e più in generale di sociale? Una risposta univoca è difficile. L’European Disability Forum ha aperto sul proprio sito web una sezione specificamente dedicata al nuovo trattato, in cui sostiene che “tutte le proposte fatte dall’EDF non sono state integrate nella bozza di trattato costituzionale, ciononostante questo testo contiene una quantità di provvedimenti che possono essere considerati un progresso da una prospettiva legata alla disabilità”. Di conseguenza, viene proposta alle associazioni nazionali una campagna per mettere le persone disabili al centro delle discussioni nazionali e dei referendum laddove previsti, lasciando intravedere un orientamento positivo dietro la richiesta di maggiore consapevolezza popolare.
Una posizione più controversa è invece riscontrabile in Social Platform, piattaforma di ONG del sociale (tra cui la stessa EDF) che si propone di “lavorare insieme per costruire un’Europa per tutti”. Le analisi della Costituzione redatte da alcuni membri sono favorevoli: Autism Europe promuove il testo, per l’inclusione della Carta dei Diritti Fondamentali e i progressi in tema di democrazia partecipativa. Ma di fronte a una commissione del Parlamento Europeo, il 25 novembre 2004, i rappresentanti del coordinamento affermano che “Social Platform non prende posizione sulla totalità della Costituzione. Non farà campagna a favore della ratifica, ma piuttosto promuoverà un dibattito informato tra i suoi membri sulle questioni di interesse per le ONG sociali”.
Il 30 maggio 2005, poi, commentando a caldo il voto francese, la presidente di Social Platform, Anne-Sophie Parent, lo definisce “un No alla direzione della costruzione europea, ai trattati esistenti (che sono stati largamente riprodotti nel nuovo testo) e alle esistenti modalità di decision-making dell’UE”, e invita l’Unione a “reagire a questo voto non minimizzandone l’impatto, ma riconoscendo i fallimenti del processo politico”. Se il voto francese fosse considerato frutto di un “dibattito informato” pienamente efficace, ne emergerebbe un’opinione di Social Platform assai negativa sulla proposta di Costituzione! L’impressione è che le associazioni siano strette tra il riconoscimento delle debolezze del nuovo Trattato e il timore di una pericolosa battuta d’arresto in un processo comunque positivo – ossia, di nuovo, tra il volere “troppo” e il portare a casa “troppo poco”.

L’incerto futuro
Con tutti i suoi difetti, la Costituzione Europea rimane il tentativo finora più avanzato (e più democratico, in quanto proposta da una Convenzione che non rappresentava i soli governi nazionali) di dare basi più solide all’integrazione continentale. Un rallentamento di questa integrazione avrebbe certo un impatto negativo sui numerosi progetti a finanziamento comunitario che, in questi decenni, hanno contribuito a miglioramenti nella condizione dei cittadini con disabilità – spesso ben oltre quanto previsto dalle carte fondamentali dell’Unione. Né va dimenticato che in conclusione, come afferma il documento finale del briefing SOLIDAR tra i membri di Social Platform, “un trattato costituzionale può solo tracciare i principi dei futuri sviluppi politici. Come questi principi siano riempiti con più contenuto liberale o sociale è una questione di volontà politica”.

Goodbye Lenin. Essere bambini disabili nella galassia ex comunista

Nel maggio 2002 le Nazioni Unite dedicarono una sessione speciale all’infanzia, da cui scaturì il documento “Un mondo adatto ai bambini” con obiettivi specifici per migliorare la condizione infantile nel mondo. Nei mesi che precedevano la sessione, fu richiesto agli Stati membri di inviare rapporti nazionali sulla condizione dei bambini. Il precedente piano ONU del 1990, del quale i rapporti dovevano fornire lo stato di attuazione, non aveva particolare specificità nel trattare la disabilità infantile, inclusa nelle “circostanze particolarmente difficili” di vita di un bambino al pari di prostituzione e delinquenza. 159 Stati consegnarono in tempo utile i propri rapporti (incluso quello del Vaticano, purtroppo non disponibile sul sito dell’UNICEF), che furono la base della relazione del Segretario Generale alla sessione e dei successivi lavori. Ora, gli anni ’90 sono stati un periodo di profondo cambiamento soprattutto per un’area del mondo, l’Unione Sovietica e il blocco ex-comunista, e probabilmente i rapporti dei molti Stati sorti dalla disintegrazione di tale blocco furono oggetto di particolare attenzione. In essi venne notato un dato allarmante: il tasso di disabilità tra i bambini era aumentato in modo impressionante, anche di 2-3 volte nel giro di un decennio. Il 5 ottobre 2005 è stata pubblicata un’approfondita analisi su questo fenomeno anomalo, a cura del Centro di Ricerca UNICEF degli Innocenti di Firenze. Il rapporto “Bambini e disabilità nella fase di transizione dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, della Comunità degli Stati Indipendenti e dei Paesi Baltici”, in lingua inglese, è scaricabile gratuitamente dal sito del Centro di Ricerca, www.unicef-icdc.org, e lancia un coraggioso sguardo oltre quella che un tempo era la cortina di ferro, e oggi è una cortina informativa spesso non meno opaca.Un trend in crescita, nonostante le differenzeLa brevità della sigla “CEE-CIS”, ovvero “Paesi dell’Europa centro-orientale e della CSI”, non inganni. Si tratta di un’area che va da Praga a Vladivostok, e che dopo il 1989 (ma anche nei decenni precedenti) ha avuto sviluppi estremamente differenziati: la Slovenia ha oggi un PIL pro capite 58 volte superiore al Tagikistan. Ciò che accomuna le pianure dell’Asia Centrale e le montagne dei Balcani, oltre alla loro storia post-1945, è proprio un aumento impressionante del numero di bambini con disabilità – non senza un collegamento con il socialismo reale.Il tasso di disabilità infantile, inteso come percentuale di bambini (in genere da 0 a 14 anni) con handicap “evidente” ed escludendo i cosiddetti “bisogni speciali” – tra cui i disturbi del linguaggio e quelli meno gravi del comportamento –, è stato l’impulso iniziale alla ricerca degli Innocenti, ma è indicatore di complessa valutazione. Non è infatti molto noto che il tasso di disabilità infantile, anche tra le nazioni più sviluppate socio-economicamente, risulta scendere solo fino a una certa soglia, e lì stabilizzarsi; ciò probabilmente per un “nocciolo” di disabilità congenite su cui la ricerca scientifica non riesce a incidere, tanto da far ritenere che esse siano elemento ineludibile della diversità umana in senso antropologico-genetico. Il tasso “normale” di disabilità infantile è stato fissato al 2,5%, e questa è stata la pietra di paragone per analizzare gli Stati ex-comunisti. A differenza di quanto ci si potrebbe attendere, il tasso rilevato in tutti i Paesi, salvo lievi “sforamenti” in Ungheria, Lettonia e Russia, è sempre più basso del benchmark. Viene peraltro confermato il trend di grande crescita dalla fine del comunismo a oggi: in termini assoluti e per tutta l’area, si è passati all’incirca da 500.000 a 1.500.000 bambini con disabilità. Si tratta inoltre di una stima per difetto, perché data la popolazione infantile di 102 milioni, il tasso “occidentale” del 2,5% porterebbe a non meno di un milione di bambini disabili in più, esclusi dalle statistiche e probabilmente da ogni cura.La crescita in termini assoluti dei bambini con disabilità potrebbe essere associata alle difficoltà della transizione al capitalismo registrate negli anni ’90, ma i fatti non confortano questa spiegazione. Nella Repubblica Ceca, ad esempio, la mortalità infantile nel periodo 1989-2002 si è dimezzata, mentre il numero di malformazioni congenite è aumentato del 50% circa. Anche in Russia, nazione complessivamente meno sviluppata, la copertura della vaccinazione antipolio nei bambini di un anno è cresciuta del 30% negli ultimi 13 anni. Ciò indica che la situazione sanitaria generale è migliorata, ma proprio per questo molti bambini che fino agli anni ’80 non sarebbero sopravvissuti alla gravidanza oggi nascono con malattie perinatali.Le pareti della disabilitàLa causa profonda dell’incremento di bambini disabili nell’area è da individuare nella fortissima sottostima del fenomeno durante il regime comunista. Ciò era dovuto da un lato a definizioni restrittive della disabilità, che solo dopo il 1989 sono state in parte allineate a quelle internazionali, dall’altro a una diffusa pratica di segregazione dei bambini con deficit, in istituzioni o nelle loro stesse famiglie, il che li faceva uscire dai registri della sicurezza sociale e quindi dalle statistiche. Quest’ultimo fattore è ovviamente quello con le più pesanti implicazioni culturali, e di conseguenza con il più importante portato sulla condizione odierna delle persone con disabilità.Il sistema comunista era ideologicamente propenso all’istituzionalizzazione piuttosto che all’odierna community care, e si stima che nel 1990 circa 500.000 bambini nell’area fossero oggetto di cure residenziali (paradossalmente erano le zone più rurali e povere, come il Caucaso, a ricorrere meno alle cure in istituto, contando su legami familiari più forti). Negli anni ’90 il numero di bambini istituzionalizzati è diminuito in linea con la demografia generale, e di fronte all’incremento dei bambini con disabilità riconosciuta ciò indica un moderato ritorno alle cure in famiglia. Gli istituti rimangono tuttavia molto più affollati che in Occidente, a dispetto di condizioni igieniche ed educative spesso carenti, creando un circolo vizioso per cui l’istituzionalizzazione precoce peggiora la situazione clinica, e ciò ostacola ulteriormente l’ipotesi di ritorno alla famiglia o di autonomia nell’età adulta. Sulla scelta dei genitori di delegare a una struttura residenziale la cura del figlio disabile incidono le difficoltà economiche e la carenza di servizi locali, ma anche fattori culturali più profondi, in primis lo stigma sociale legato al familiare con disabilità, e di conseguenza la sfiducia nel fatto che una persona in tale condizione possa mai raggiungere una sufficiente integrazione nella società. “Struttura” e “sovrastruttura” concorrono dunque allo stesso risultato, e ciò emerge in modo anche più netto per quanto riguarda l’educazione. Il numero di bambini in scuole speciali è salito da 837.000 nel 1989 a circa un milione nel 2001, con un aumento più netto in molti Paesi dell’Europa Orientale. Questo, mentre riflette in parte la maggiore attenzione ai bisogni speciali, troppo lievi per essere trattati dalla pedagogia “difettologica” sovietica, segnala altresì che la segregazione educativa rimane prevalente – anche laddove (come nella Repubblica Ceca) l’integrazione viene formalmente riconosciuta come strategia didattica. Non va sottovalutato il fatto che, specie nei Paesi più estesi territorialmente, l’iscrizione a una scuola specializzata implica spesso l’allontanamento dai genitori. Il fatto che in Russia vengano costruite sempre più scuole speciali risponde d’altronde a una domanda crescente per tali istituzioni, e nelle nazioni dove la frequenza a scuole speciali è diminuita il motivo prevalente è l’incapacità di queste ultime a fornire vitto e alloggio ai propri alunni.Interessanti relazioni emergono anche tra disabilità e povertà: le famiglie che includono bambini disabili tendono a essere sensibilmente più povere di quelle con bambini normodotati. La carenza di servizi pubblici, infatti, riduce le possibilità di carriera e aumenta le spese mediche e di assistenza, specie nei Paesi in cui l’evoluzione liberista è stata più marcata; inoltre, per le disabilità congenite le famiglie più ricche hanno più facile accesso a diagnosi prenatali e all’aborto. In un quadro di riduzioni nei servizi e nelle agevolazioni all’handicap, e di pensioni di disabilità per minori che non superano in media il 20% del salario medio (come del resto in Europa occidentale, dove però il salario medio garantisce un tenore di vita migliore), handicap spesso significa impoverimento.Ancor più preoccupante è la relazione tra disabilità e appartenenza a gruppi etnici minoritari: perché la minoranza Rom in Ungheria ha un tasso di disabilità superiore del 70% rispetto alla maggioranza magiara, con una quota di deficit mentale 3 volte superiore a quella generale? Perché la diagnosi funzionale è tagliata sui criteri della maggioranza, con gli elementi linguistici e culturali a remare contro i bambini delle minoranze, e perché un accertamento di disabilità (specie intellettiva) è la via maestra per un’educazione speciale, o meglio a etnie separate. Il rapporto cita la sentenza di un tribunale della Croazia che ha respinto il ricorso di una famiglia Rom contro l’assegnazione a una classe speciale del figlio, sulla base del fatto che quest’ultimo, non parlando correntemente croato, non avrebbe potuto seguire le lezioni. Un bello schiaffo all’intercultura, e soprattutto la conferma della stretta relazione tra disabilità e stigma sociale, al punto di invertirne i termini abituali.Che fare?Il rapporto degli Innocenti si conclude con proposte di misure migliorative per la situazione. Tra esse primeggia per posizione e per prospettiva il cambiamento di atteggiamenti pubblici rispetto alla disabilità: un’opzione di politica culturale che punta molto sui bambini stessi per indurre, più che passi, “salti” di sensibilizzazione tra una generazione e quella successiva, e che trova riscontro nel fatto che la popolazione più anziana, già oggi, considera le persone disabili molto peggio di quanto facciano i giovani. A seguire, viene promossa una strategia di deistituzionalizzazione e di creazione di un sistema di servizi a base comunitaria: da alcuni rapporti nazionali già emerge l’intento di creare o consolidare affido familiare e centri diurni, ma le politiche pubbliche sembrano molto meno convinte di questo approccio rispetto alle famiglie. Da qui la necessità di coinvolgere le famiglie nella progettazione dei servizi, di migliorare le disponibilità economiche dei nuclei familiari coinvolti dall’handicap (anche con misure di sostegno al mantenimento del lavoro finora carenti, anche perché part-time ed economia di piano non si conciliavano granché) e limitare la separazione dei bambini disabili dai loro genitori con politiche di counselling e sostegno alle ragazze madri.Si tratta di indirizzi che forse nell’UE “storica” appaiono ovvi, dopo decenni di promozione dell’integrazione sociale, ma certe dinamiche personali e familiari, a dispetto di Marx, trascendono le condizioni materiali e anche quelle culturali di esistenza. Le madri citate nel rapporto sono bulgare o lettoni, ma le loro frasi potrebbero benissimo essere state pronunciate in italiano o in tedesco: “Ho dovuto abbandonare la mia carriera; non avevo la forza per rimetterla insieme”, “Smetti di contattare le persone. I tuoi amici si dimenticano di te”, “A casa sono riabilitatore, pedagogo, fornitore di servizi e tutto il resto […] Sono già al limite. Sento che sono già allo stremo delle forze, sia fisicamente che mentalmente”.

Un palcoscenico con altri mezzi per registi, attori, tecnici e pubblico – utenti o meno

L’integrazione, come dimostra la monografia di questo numero, può essere raggiunta anche (forse, anzi, più facilmente) su un palco teatrale. Dal 1998 il Cambridge Arts Theatre, nella celebre città universitaria inglese, organizza corsi estivi in cui ragazzi udenti e non udenti lavorano insieme, davanti e dietro le quinte, per creare e mettere in scena una rappresentazione teatrale che possa rivolgersi a un pubblico ugualmente misto, senza per questo risultare “d’avanguardia”. Documentazione su questa importante esperienza è disponibile sul sito web del teatro, www.cambridgeartstheatre.com, nella sezione Education & Community Archive. La prossima estate la scuola si trasferirà nel prestigioso Theatre Royal di York, fondato nel 1744.
Su questa forma di teatro integrato, non molto praticata in Italia, abbiamo intervistato Roberta Hamond, curatrice del progetto.

Può descrivere che cos’è la Deaf and Hearing Summer School (“Scuola estiva per sordi e udenti?”)
Gli obiettivi della Deaf and Hearing Summer School sono:

  • offrire una scuola estiva bilingue di dieci giorni all’anno che assicuri teatro professionistico tradizionale a livello nazionale, come risorsa accessibile a giovani sordi e udenti;
  • offrire a giovani sordi e udenti l’opportunità di lavorare con tecnici e registi professionisti, in uno spazio teatrale professionale;
  • creare una stimolante opera teatrale integrata per giovani, basata su una forte interpretazione di gruppo;
  • procurare eventi sociali pienamente integrati per giovani sordi e udenti in un ambiente sicuro ma indipendente;
  • offrire una base di addestramento per attori e registi sordi, interpreti e mediatori di BSL (British Sign Language – Lingua Britannica dei Segni) a livello sia giovanile che adulto;
  • fornire l’opportunità a giovani di esplorare il teatro “accessibile” da prospettive di pubblico ed esibizione.

Qual è il ruolo della Lingua dei Segni nel teatro per sordi e udenti?
La scuola estiva è un progetto bilingue, e quindi la Lingua Britannica dei Segni e l’inglese sono utilizzati alla pari per sviluppare una nuova opera teatrale. La nostra attuale direttrice artistica è sorda, e usa sia la BSL che l’inglese per comunicare. Il suo regista associato è un attore/interprete udente. Impieghiamo anche tre interpreti teatrali pienamente qualificati e fino a dieci facilitatori drammaturgici con livello 2 o più di BSL, per garantire che i nostri 30 esecutori sordi e udenti possano comunicare tra loro in gruppi piccoli come quelli necessari durante il processo di invenzione.
Abbiamo anche dieci giovani che lavorano sul lato tecnico nella gestione di illuminazione, suono, design e palcoscenico. In genere da tre a quattro di questi giovani sono sordi, lavorano in tutti i campi (incluso il suono) e quindi utilizzeremo fino a tre interpreti dietro le quinte durante i laboratori e le prove, a seconda delle scelte fatte dai ragazzi sordi.
L’esibizione completa non utilizza un interprete tradizionale al lato del palco, perché la pièce tende a essere accessibile sia in BSL che in inglese. Ogni segno e discorso nell’esibizione sarà fornito dagli esecutori – sia sordi che udenti – assistiti da proiezioni, sottotitoli, suoni e video.

Quali sono le maggiori difficoltà, se ve ne sono, per le persone udenti che si avvicinano a questa forma di rappresentazione? E per quanto riguarda il pubblico?
Abbiamo scoperto che i giovani hanno ben poche difficoltà nel lavorare insieme. I bambini sordi sono abituati a un mondo che sente, e i bambini udenti trovano la Lingua Britannica dei Segni un linguaggio ricco ed eccitante, quando si dà loro l’opportunità di provarlo. E poiché essi hanno il vantaggio di sentire, mentre osservano il regista esprimersi con i segni, hanno presto fiducia nell’imparare gli elementi di base e comunicare. Noi presentiamo anche un allenamento alla consapevolezza della sordità, attraverso giochi drammaturgici e di riscaldamento ogni giorno, e tutta la BSL presentata in questo modo è collegata allo sviluppo dell’esecuzione, e perciò immediatamente pertinente alla situazione. In genere, sono i membri adulti del progetto che possono portare pregiudizi più antichi e paure personali alla miscela; ma l’esuberanza e l’inventiva di tutti i partecipanti più giovani presto infondono ispirazione anche nei più “logori”.
Ci sono, certo, molti livelli diversi di abilità nel linguaggio per sordi e udenti rappresentati nella scuola estiva, e non tutti i nostri bambini sordi usano la Lingua Britannica dei Segni come prima lingua di comunicazione, per cui esaminiamo anche il Sign Supported English [un tipo di lingua segnata che ricalca il parlato e la grammatica orale], la lettura del labiale e le capacità orali.

Questa forma di rappresentazione integrata è mai stata estesa ad attori professionisti, o ad amatori adulti? Quali sono, o potrebbero essere, le cose da modificare passando a un contesto diverso e non “scolastico”?
La scuola estiva sta specificamente tentando di aprire il teatro tradizionale (e perciò predominantemente di ascolto) a giovani sordi e udenti, sviluppando nuovi mezzi di comunicazione che interessino pubblici sia sordi che udenti. C’è ben poca attività di questo tipo al momento nei teatri di ascolto, ma l’Inghilterra ha una comunità davvero crescente di teatro per sordi, che sta lavorando con attori sordi usando la BSL e il teatro visuale per creare opere che siano adatte alla comunità dei sordi.
Io non ho la pretesa di rappresentare la cultura sorda e gli attori sordi. Il mio interesse personale sta nello spostare i confini del teatro tradizionale e delle aspettative del pubblico tradizionale. Credo che il virtuosismo della cultura sorda espressa attraverso la Lingua Britannica dei Segni in un contesto teatrale sia la ragione chiave del successo della scuola estiva negli ultimi sette anni, e questo progetto è guidato dalla convinzione che la diversità culturale, ben fatta, accresce l’esperienza di teatro per i pubblici tradizionali.

Ci può raccontare qualche aneddoto relativo alla sua esperienza?
Il successo della scuola estiva ha significato che ci sono oggi più giovani sordi che desiderano proseguire nel teatro ed esercitarsi per diventare professionisti nell’industria culturale. C’è una grande lacuna nella formazione professionale in quest’area, ma gli atteggiamenti stanno iniziando a cambiare. La televisione sta utilizzando più attori sordi e sta offrendo più interpretariato nella visione. Più opportunità per attori e tecnici sordi miglioreranno la qualità e la professionalità del loro lavoro, rendendo il lavoro integrato più sostenibile. E i futuri partecipanti udenti che hanno sperimentato questo lavoro, porteranno anche una visione più ampia di quanto si può realizzare all’industria. Riporto alcune citazioni da partecipanti sordi e udenti in questi anni:

Partecipanti sordi
“Le persone non sono ciò che immaginavo. Pensavo che avrei solo ricevuto il copione e provato, ma invece abbiamo creato le idee e l’esibizione. È stato fantastico”.
“Pensavo che ci sarebbe stata una rappresentazione orale, ma è stata visuale”.
“Tutti si sono mescolati e hanno dato il loro contributo verso lo spettacolo. Inoltre c’erano altri con la stessa mia sordità”.
“Mi è piaciuto incontrare persone nuove e esplorare nuove tecniche, capacità e consapevolezze drammaturgiche e teatrali”.
“È stato bello poter lavorare in un ambiente positivo, con persone creative e divertendosi così tanto allo stesso tempo”.

Partecipanti udenti
“Mi è piaciuto lavorare in un teatro professionale e avere la possibilità di esibirmi sul palco”.
“Si perde lo stereotipo su di loro e si vede che sono proprio come te”.
“Ciò che mi è piaciuto nel lavorare con bambini sordi e udenti è stata la massa di idee che è saltata fuori!”
“Mi è piaciuto il modo con cui si doveva essere più espressivi”.
“Un fantastico divertimento!”

Quali sviluppi ha in programma, o spera che qualcuno intraprenda, nel teatro per sordi e udenti?
Dopo otto anni, ora abbiamo ex-partecipanti che stanno tornando per sostenere il progetto come volontari adulti. Abbiamo anche attori sordi professionisti, allievi interpreti udenti, insegnanti e molti tecnici (inclusi alcuni tecnici sordi) che lavorano da professionisti. Per me, personalmente, il prossimo passo è una rappresentazione tradizionale pienamente integrata, che non sia guidata dal “problema”. Sto al momento commissionando una commedia ambientata nella cucina di una pasticceria con un cast di otto attori: quattro udenti e quattro sordi. Spero che procurerà lavoro per attori sordi nell’arena tradizionale, e porterà le superbe capacità teatrali della lingua dei segni a un pubblico più ampio.

Per informazioni sulla Summer School:
Roberta Hamond
Theatre Education & Access
Scaldbeck Cottage
Morston, Holt
Norfolk NR25 7BJ
E-mail: roberta@hamond.co.uk

 

Ciò che senti è ciò che prendi: uno spettacolo teatrale che non si va a “vedere”

Nell’ultimo numero di “HP-Accaparlante”, dedicato a teatro e disabilità, avevamo parlato di una scuola di teatro per sordi e udenti, che portava a uno spettacolo basato sull’elemento visivo. E se invece pensassimo di azzerare questo elemento, per concentrare un’intera performance sul suono? Il risultato sarebbe probabilmente molto vicino a What You Hear Is What You Get – 42 libbre per le stelle, uno spettacolo allestito dalla compagnia artistica Plasmagroup di Amburgo a partire dal maggio 2002. Ne abbiamo parlato, in modo non troppo serio, con Nadir Al-Badri, regista e autore della piéce, Henry Sargeant, attore britannico che interpreta il passeggero clandestino Victor Vast, e Guido Meyer, attore tedesco che si esibisce come il Comandante Ludo (e che si rivela non umano…).

Come descriverebbe WYHIWYG, e cosa sta dietro la sua concezione?
NADIR: WHYIWYG è un esperimento teatrale. Durante un periodo di brain-storming per la nostra nuova produzione teatrale stavamo affrontando i problemi comuni delle libere compagnie di teatro: meno soldi, limitate possibilità di trasporto, sedi piccole per le esibizioni spesso con strumentazioni tecniche molto essenziali e nessuno spazio proprio per le prove. Per cui abbiamo pensato: “Perché non possiamo sostituire l’intera scenografia con suoni?”. Questo avrebbe significato nessun disturbo per comprare, costruire, trasportare e immagazzinare una scenografia. Immediatamente abbiamo immaginato che se potevamo creare l’intero spettacolo basato su un concetto acustico, potevamo anche mostrare la nostra esibizione anche a persone con menomazioni della vista. Un compito impegnativo – solo un oggetto sul palco (un cubo nero, che fungeva da serratura per l’astronave), due attori e circa duecento suoni.
HENRY: Io tendo ad avere una visione astratta della maggior parte delle cose e del mio nome, e il nome del mio personaggio nello spettacolo è Vast [“vasto”, ndr], ogni cosa è vasta – in qualche modo oltre ogni spiegazione, cioè io non sapevo e ancora non so parlare tedesco ma abbiamo pensato che sarebbe stato divertente provare a farmi imparare tutto il copione a memoria, ciò che ho fatto, per cui non sapevo mai davvero che cosa stavo dicendo – e le cose stanno ancora così. Non ho idea di cosa sia “vast” in italiano, ma quando lo si scoprirà si saprà un po’ meglio quali siano i miei sentimenti verso tutto il progetto.
GUIDO: OK, per Henry penso che la rappresentazione sia ancora un esperimento perché ancora non sa cosa stia dicendo. Per me è il turno di mostrare come possa essere raccontata una storia fantastica guardando e ascoltando solo due attori maschi che non sono vere bellezze, e una manciata di rumori. Come interprete cui piace recitare con la lingua della propria madre e che è abituato a usare la propria voce, il progetto mi ha affascinato sin dall’inizio.

Perché la fantascienza come sfondo della storia?
N: Innanzitutto, la fantascienza ci ha dato licenza poetica: tutto è possibile nel futuro, anche un’astronave con tutto l’interno costruito di suoni. In secondo luogo, la fantascienza è un genere molto sotto-rappresentato nel teatro. Immagino che la maggior parte della gente pensi che essa richieda un sacco di effetti tecnici e speciali. Ciò che più sorprende è che abbiamo creato tutto solo con i suoni. In terzo luogo, è una storia che deve aver luogo in uno spazio molto ristretto senza possibilità di fuga per nessuno dei personaggi. È una storia sull’umano e la sua relazione con gli altri, la sua relazione con le leggi fisiche, e sul valore di un individuo in confronto a molti. Forse la storia avrebbe potuto aver luogo su una nave nell’oceano o un sottomarino o in un ascensore. Era solo importante che non appena un personaggio avesse lasciato lo spazio sarebbe morto. Così un’astronave di fantascienza sembrava essere il luogo ideale; in più mi piacciono davvero.
H: Principalmente penso fosse una questione di libertà di design, e principalmente nell’area del costume. Solo in un’astronave segreta da qualche parte nel futuro un comandante che indossa un body sado-maso può avere una conversazione seria con un lavoratore del reparto liquami che si veste come un pescatore hip hop.
G: Penso che ogni cosa sia nello spazio, o no?

Quali ostacoli avete incontrato scrivendo, recitando e dirigendo questo spettacolo?
N: Tutti noi abbiamo un bagaglio di formazione molto fisico. Se inizio a lavorare con gli attori lascio che improvvisino la storia, così da sapere cosa stia davvero accadendo. Quindi iniziano a far proprie le parole dal copione. Questo ha come conseguenza un’esibizione più organica, le parole sono più veritiere perché gli attori creano una sensazione fisica prima di dire qualcosa – o nulla. E questo è stato un punto complicato. Abbiamo provato a non escludere il pubblico cieco da alcun gioco o azione visiva, nondimeno non mi piaceva l’idea di spiegare cosa sta succedendo sul palco. Gli spettacoli che hanno bisogno di istruzioni perché il pubblico capisca sono molto noiosi. (Pensate solo al pubblico dell’opera. Con il suo libretto in grembo, la maggioranza di un pubblico tedesco è perduto…).
Perciò scrivendo ho avuto cura di creare un adattamento acustico di qualsiasi azione visiva pura. Questo processo è stato continuato durante le prove. Per assicurare che stessimo facendo tutto bene, avevamo l’assistenza di un’amabile ragazzina cieca, che metteva “a prova di ascolto” il nostro lavoro. Era a volte frustrante per gli attori non poter fidarsi della loro visualità fisica, dal momento che essa sarebbe stata una cosa esclusiva per i non-ciechi. Ma una volta che si sono concentrati di più nel rendere ogni rumore dei passi chiaro e udibile, o nell’incorporare i suoni del respiro per sostenere la loro espressione emotiva, hanno riguadagnato le loro abilità. In più era proprio un duro compito lavorare in due lingue, ma avere uno “straniero” che interpretava un passeggero clandestino su un’astronave è stata la scelta giusta.
H: I miei problemi principali sono stati ricordare le mie battute, o ricordare come parlare tedesco, cosa che non sapevo e non so. E cercare di non ridere ogni volta che pensavo sul serio a tutta l’assurda situazione che i personaggi stavano affrontando.
G: Non mi piace il mio cappello, la lana ruvida del mio costume e la prima scena del dramma, quando devo stare molto vicino a Henry. Sebbene lo apprezzi molto come attore e amico.

Qual è la reazione del pubblico dal vivo a WYHIWYG?
N: Abbiamo avuto un feedback molto positivo. La storia era eccitante e chiara a tutti, e c’è sempre stato un vivace scambio di opinioni in seguito. Il complimento più grande è stato che nessuno ha davvero contestato la formula, il concetto acustico. È stata sempre ben accettata sin dal primo minuto, perciò le persone si sono davvero concentrate su cosa avveniva nella storia invece che su come veniva svolta.
Non abbiamo sempre avuto grandi numeri di pubblico. Penso che molti non-ciechi abbiano davvero problemi ad avere qualsiasi contatto con persone con un deficit e non sono venute allo spettacolo perché pensavano che fosse una forma d’arte “handicappata”… Ma anche quella era la nostra missione – portare insieme ambo le parti, raccontando una storia in due forme allo stesso tempo. In questo modo è stato anche un esperimento. E ha funzionato per quelli che ne hanno fatto esperienza.
H: Alla mia mamma è piaciuto. La mia ragazza l’ha visto una volta, lo spettacolo voglio dire, e poi ha fatto l’autostop per metà della Germania per vederlo di nuovo, e per qualche altra ragione.
Non sono sicuro di cosa la maggior parte della gente pensasse, perché mi parlavano sempre in tedesco pensando che potessi sul serio capirli. Ma la risata come sappiamo è universale, e ce ne sono state un sacco.
G: Fino a ora, nessuno che non abbia deficit visivi ha mai sbagliato a infilare l’uscita dopo lo spettacolo perché aveva avuto gli occhi chiusi per tutto lo spettacolo, ma ci stiamo lavorando.

Avete in programma di continuare in questo genere di “rappresentazione teatrale acustica”, con questo o altri spettacoli?
N: Ho goduto molto di questo approccio acustico. Tuttavia, sono in primo luogo un produttore e artista teatrale. Sono curioso verso il nuovo, e così è la nostra compagnia Plasmagroup. Non sono concentrato su alcun genere speciale.
Comunque dopo WYHIWYG la mia consapevolezza acustica di qualunque opera realizzi è molto più acuta di prima. WYHIWYG ancora non è stata vista da abbastanza persone. Teniamo degli altri spettacoli in ottobre ad Amburgo, in Germania. Spero che WYHIWYG otterrà il riconoscimento che merita un giorno. E posso immaginare di fare un giorno il Peer Gynt di Ibsen, ambientato in un panorama acustico, accessibile sia visivamente che acusticamente.
H: Sì, mi piacerebbe. Faccio qualsiasi cosa con questo regista. È un genio.
G: Ibsen nello spazio?

Il sito Internet dello spettacolo è www.plasmagroup.de/WYHIWYG/.

Tbilisi-Oslo, biblioteche a confronto.

Tra Georgia e Norvegia, un parallelo sulla documentazione sociale

Cosa accomuna chi fa documentazione sull’handicap in due contesti europei diversi come un paese ex-comunista e una delle realtà sociali più avanzate al mondo? In questa “intervista doppia” rispondono Nana Gegelishvili, responsabile del Centro Culturale Tanadgoma di Tbilisi (Georgia), e Rudolph Brynn, consigliere del Centro Nazionale di Documentazione sulla Disabilità di Oslo. Al di là delle differenze di contesto e di impianto organizzativo, sembra condivisa un’impostazione in cui la documentazione, sfuggendo a ogni tentazione “archivistica”, è solo parte di uno sforzo più complessivo per migliorare le condizioni di vita delle persone con disabilità.

  • Come descrivereste il vostro centro di documentazione?

NANA: La “Biblioteca – Centro Culturale per persone disabili Tanadgoma” ha come scopo il supporto socio-psicologico a persone disabili e la loro integrazione nella vita sociale. L’organizzazione svolge la sua attività implementando programmi culturali-educativi per bambini disabili, conducendo ampie campagne di sensibilizzazione dell’educazione inclusiva dei bambini disabili in scuole ordinarie, proteggendo i diritti delle persone con disabilità e conducendo corsi di formazione ed educazione.
La nostra organizzazione è gestita da un Consiglio, eletto dai membri dell’assemblea generale ogni cinque anni. I membri del Centro sono genitori di bambini con disabilità, persone impegnate nel sociale e volontari dell’organizzazione.
Lo staff a tempo pieno del progetto è di 5 persone; il personale per lo svolgimento dei progetti specifici è invece part-time. L’organizzazione ha inoltre partner permanenti che partecipano ai progetti; in caso di bisogno, istruttori di altre organizzazioni sono invitati su base di contratti individuali.
La nostra organizzazione è membro del comitato “Coalizione per la Vita Indipendente”, che riunisce 42 organizzazioni e ONG che lavorano nella sfera della disabilità, e si concentra sulla protezione dei diritti di persone disabili.
“Tanadgoma” (che significa “Assistenza”) è partner del Ministero dell’Educazione e della Scienza nella realizzazione di progetti diretti allo sviluppo dell’educazione inclusiva.
RUDOLPH: Il Centro Nazionale di Documentazione sulla Disabilità è stato formalmente fondato nell’aprile 2006 a Oslo, come agenzia indipendente subordinata al Ministero per l’Impiego e l’Integrazione. L’antefatto è stato un consenso trasversale ai partiti in Norvegia sulla piena partecipazione e uguaglianza per le persone con disabilità, e il Centro Documentazione deve avere un’influenza indiretta per raggiungere questo obiettivo. La base per le nostre attività è la convinzione che per raggiungere sviluppo si ha bisogno di conoscenza, informazione e presa di coscienza. Così abbiamo la nostra visione: la conoscenza mostra la strada.
Il Centro Documentazione documenta quali barriere costruite dalla società e pratiche discriminatorie, che escludono le persone disabili da vari campi della società, esistano. Il Centro Documentazione riunisce e sviluppa inoltre nuove informazioni entro e attraverso settori della società, ambienti di ricerca e scientifici e differenti arene dove vengono fatte esperienze importanti nel campo. L’obiettivo è fornire alle autorità pubbliche norvegesi una migliore base di conoscenza prima dei processi di decision-making.
Un altro compito prioritario del Centro Documentazione è analizzare l’effetto di varie misure avviate, in particolare, da autorità pubbliche, e di sviluppare metodi per monitorare lo sviluppo sociale in Norvegia come in altre nazioni. Il Centro avvia inoltre ricerche e indagini su campi in cui conoscenza e informazione mancano, e valuta lo sviluppo in Norvegia in relazione alle regole standard dell’ONU per le pari opportunità per le persone con disabilità. Il Centro diffonde anche informazioni e trend di sviluppo a proposito della situazione delle persone con disabilità.
Molto importante è anche il nostro sito web, www.dok.no, dove presentiamo informazioni sulla situazione delle persone disabili, incluso un servizio di notiziario quotidiano. Il sito si propone di essere una base per ricerca e conoscenza riguardanti la situazione delle persone disabili e quali barriere affrontano nella società. Qui pubblichiamo rapporti scientifici, così come notizie e altre informazioni. Sarà un portale nazionale e internazionale per ricerca e documentazione sulla situazione per le persone disabili in Norvegia e in altri Paesi. Di certo gradiremmo una cooperazione con altre istituzioni internazionali.

  • Quando e come è sorta l’iniziativa di fondare una biblioteca sulla disabilità?

NANA: La biblioteca Tanadgoma è stata fondata nel 1999. Il 15 febbraio 2001 è stata registrata come organizzazione non governativa e non commerciale.
RUDOLPH: L’idea iniziale di fondare un Centro Documentazione sulla disabilità in Norvegia è giunta come parte di una più importante indagine e rapporto sulle condizioni di vita per le persone con disabilità in Norvegia, il Rapporto Ufficiale Norvegese “Da utente a cittadino”, nel 2001. Questa idea è stata anche fortemente sostenuta dalle organizzazioni di persone disabili in questo Paese. Nel 2005 è stato nominato un comitato che rappresenta il governo così come le organizzazioni di persone disabili, ed è stata incaricata come direttrice la signora Britta Nilsson. Infine, nel gennaio 2006 è stato reclutato uno staff che oggi consiste di cinque persone.

  • Quale è la condizione delle persone con disabilità nella vostra regione geografica? E come agisce la vostra associazione?

NANA: In molti aspetti, la Georgia sta ancora seguendo il modello medico della disabilità di era sovietica, trattando e dipingendo le persone con disabilità come membri “invalidi” della società. In questo modello, le persone con disabilità non possono vivere o prendere decisioni indipendentemente, ma sono necessariamente sempre dipendenti dal supporto di qualcuno – spesso in speciali istituzioni statali isolate. Nonostante i positivi cambiamenti politici che hanno avuto luogo in Georgia dalla Rivoluzione delle Rose [la rimozione dal potere di Eduard Shevardnadze nel novembre 2003, ndr], ancora molto deve essere fatto per assicurare il coinvolgimento delle persone con disabilità nella vita quotidiana. Le strutture governative speciali che in precedenza trattavano le questioni della disabilità hanno cessato di esistere, anche se se ne avverte ancora molto il bisogno. Un ambiente fisicamente discriminatorio, stereotipi sociali negativi sulla disabilità e sui disabili, così come una legislazione e meccanismi di attuazione inadeguati costituiscono alcuni dei maggiori ostacoli alla piena partecipazione delle persone disabili alla vita sociale, politica, economica e culturale. Le persone con disabilità rimangono ancora “invisibili” e sono tra i gruppi sociali più marginalizzati. Solo poche persone con disabilità ricevono educazione scolastica o universitaria, così le loro possibilità di impiego sono minime.
Dal lato positivo, numerose organizzazioni di persone disabili sono state fondate nell’ultimo decennio, e alcune persone con disabilità sono riunite e lavorano in tali organizzazioni. Molte associazioni in Georgia, inclusa l’Associazione dei Giovani Disabili Georgiani, sono unificate nella Coalizione Georgiana per la Vita Indipendente. Fino a ora, il principale obiettivo della Coalizione è stato la protezione dei diritti delle persone con disabilità. Tuttavia, i bisogni sono molto più grandi delle capacità delle associazioni. Le risorse istituzionali del settore delle ONG, così come le capacità di creare rete e ulteriore sviluppo, richiedono un sostegno e un miglioramento significativi.
RUDOLPH: È difficile fornire una risposta breve a questa domanda, comunque alcuni punti possono dare una certa visione d’insieme. In Norvegia si stima che circa il 15-20% della popolazione abbiano menomazioni, oltre a un crescente numero di persone anziane con menomazioni legate all’età. L’aspettativa di vita è cresciuta in modo significativo in Norvegia come nei paesi scandinavi durante gli ultimi 50 anni, e la crescita più grande è nel gruppo di età di 80 anni e oltre. Questo ha portato a un accresciuto bisogno di servizi di salute e cura. Tutte queste tendenze demografiche portano a una maggiore pressione sui bilanci governativi per i servizi sociali e sanitari.
In generale è pertinente dire che la situazione per le persone disabili ha caratteristiche buone e cattive. Sul lato positivo, è abbastanza facile ottenere quello che ti serve quanto a tecnologia assistiva – carrozzine, equipaggiamento ICT, auto adattate, ecc., che sono fornite dai Centri di Ausili Tecnici, e ci sono servizi di trasporto speciale porta a porta nei paesi scandinavi per coloro che non possono usare il trasporto pubblico. Sono anche disponibili adeguate pensioni di disabilità per tutti coloro che ne hanno bisogno, e c’è stato un efficace processo di de-istituzionalizzazione, così che per esempio le persone con disabilità mentale ora vivono nelle proprie case.
Sul lato negativo, la discriminazione è ancora una realtà in Norvegia. La disoccupazione è alta tra le persone disabili – circa il 44% sono occupate, in confronto al 78% tra i norvegesi non disabili – e questo è dovuto ad atteggiamenti negativi tra i datori di lavoro, mancanza di postazioni di lavoro accessibili e una infrastruttura inaccessibile nella società in generale. Ci sono ancora molte barriere da affrontare, a cui ci riferiamo oltre.
Una delle più importanti descrizioni generali delle condizioni di vita per le persone disabili in Norvegia è stata prodotta nel 2001, nel rapporto pubblico chiamato “Da utente a cittadino – Una strategia per lo smantellamento delle barriere disabilizzanti”. Il rapporto ha svolto una minuziosa investigazione riguardante quali barriere contro la partecipazione esistano nella società. Esso si basa sulla definizione di “disabilità” che non è una caratteristica dell’individuo, ma un risultato di barriere create dalla società affrontate da persone che hanno qualche menomazione, e che le rendono disabili. Il rapporto ha dato un contributo vitale perché il pubblico accettasse questa nozione di disabilità. Oggi viene fatta una valutazione dello status attuale delle condizioni di vita delle persone disabili cinque anni dopo, al fine di monitorare quale progresso sia stato fatto, e quali iniziative politiche siano state prese, in base alle raccomandazioni del rapporto del 2001. Il risultato, curato anche dal Centro Documentazione, è stato pubblicato nello scorso agosto e sarà una guida importante per coloro che prendono decisioni politiche così come per le organizzazioni di persone disabili.
Ad esempio, in tema di accesso universale, la maggior parte delle iniziative viene presa per persone con menomazioni alla mobilità; si pensa anche alle persone con allergie e agli asmatici negli ultimi anni, ma meno si fa per i ciechi e le persone con difficoltà visive, le persone sorde e con difficoltà uditive e le persone con menomazioni cognitive. Per quanto riguarda la casa, le statistiche del 2004, che purtroppo sono limitate alle sole persone con menomazioni motorie, mostrano che solo il 7% di chi ha risposto aveva una casa pienamente accessibile, definita come accessibile a chi usa una carrozzina; in più ci sono sistemazioni abitative in cui parte della casa è accessibile.
In materia di trasporti, dal momento che molte persone hanno problemi a usare il trasporto pubblico, ci sono parecchi servizi di compensazione per persone disabili, che possono essere richiesti in base a certificati medici. Questi includono servizi porta a porta che usano taxi, in cui il cliente paga una tariffa bus ordinaria, ma il numero di viaggi è limitato (per esempio, a Oslo sono 150 viaggi all’anno). Ci sono servizi di trasporto simili per portare le persone a istituzioni educative e per viaggi di lavoro. In alternativa, si può fare richiesta per auto finanziate pubblicamente, sia ordinarie che adattate.

  • Quali problemi e quali soddisfazioni vi ha dato la specifica attività di ricerca e di gestione di una biblioteca specializzata?

NANA: La nostra attività non include soltanto servizi di biblioteca. Una delle direzioni più importanti della nostra attività è la riabilitazione psico-sociale delle persone con disabilità e la promozione dell’educazione inclusiva in Georgia. Noi dividiamo i problemi in due categorie:

  • Assenza a livello nazionale di politica sulla disabilità (adottata dal governo)
  • Qualità dei progetti delle ONG

L’educazione inclusiva non può essere sviluppata in maniera separata. Sappiamo che, per la realizzazione con successo e l’ulteriore sviluppo dell’educazione inclusiva, è necessario produrre una politica nazionale complessiva sulla disabilità e una strategia e programmi efficaci per la sua realizzazione. Non avendo meccanismi per offrire pari opportunità alle persone con disabilità, si può dire che il governo è in posizione “invalida”, poiché ancora oggi le persone con disabilità affrontano problemi come protezione legale, informazione, trasporto, impiego, servizi sociali e riabilitativi, sport e presa di coscienza culturale.
Per quanto riguarda i progetti, dopo una valutazione abbiamo scoperto che tutti i progetti avevano le stesse debolezze: non-sostenibilità, mancanza di coordinamento tra organizzazioni locali e internazionali, assenza di una missione definita di lungo termine, mancato coinvolgimento come controparte dei Ministeri dell’Educazione, del Lavoro, della Salute e degli Affari sociali. Ecco perché non abbiamo finora risultati significativi.
Tuttavia, oggi abbiamo una situazione più favorevole per lo sviluppo dell’educazione inclusiva. La collaborazione delle ONG con il Ministero dell’Educazione ha portato quest’ultimo a rendere l’educazione inclusiva parte dell’attuale riforma dell’istruzione; abbiamo ottenuto il supporto finanziario del Ministero del Lavoro, della Salute e del Welfare e di amministrazioni locali; ci sono progetti pilota in numerose scuole, e programmi di formazione e scambio con partner stranieri; infine, è stata cancellata la commissione medico-psicologica, che a dispetto della volontà dei genitori in molti casi rifiutava le domande dei bambini di frequentare scuole ordinarie.
RUDOLPH: Dal momento che è solo poco tempo che siamo stati istituiti, e siamo ancora in una fase in cui costruiamo la nostra banca dati, è troppo presto per rispondere a questa domanda. Comunque, una lezione importante già appresa è che dobbiamo identificare quali conoscenze siano carenti sulle barriere sociali e le persone disabili. Per esempio, molte buone statistiche devono essere prodotte al fine di ottenere un miglior panorama scientifico di vari aspetti delle condizioni di vita per le persone disabili in diversi gruppi di età.

  • Pensate che sia (ancora) importante un’azione culturale nel campo della disabilità? E da quali “idee forti” dovrebbe essere diretta?

NANA: Siamo sicuri che le azioni culturali contribuiranno fortemente all’integrazione delle persone con disabilità nella vita sociale. È risaputo che la cultura non ha bisogno di speciali spiegazioni e traduzioni. Così speriamo di poter unire le nostre forze ed elaborare progetti congiunti sullo scambio culturale con la partecipazione di persone con disabilità.
RUDOLPH: Lo sviluppo di consapevolezza basata su informazioni affidabili e oggettive sarà una questione importante sia per noi che per altri coinvolti nel campo della disabilità.

  • Che cosa è in programma per la vostra associazione, e in particolare per la biblioteca sulla disabilità, nel futuro?

NANA: Stiamo progettando la creazione di programmi software esaurienti ed economici accessibili a bambini con difficoltà di apprendimento, per rendere più semplice il processo di insegnamento per loro. Inoltre, svolgeremo il nuovo progetto di coalizione “educazione inclusiva e integrata” in 10 scuole-modello con il Ministero dell’Educazione.
È chiaro che ci si prospettano nuove questioni, connesse con cambiamenti globali e con molte difficoltà. Ma la soluzione dei problemi l’abbiamo trovata in un proverbio africano: “Come possiamo mangiare un grande elefante? Basta tagliarlo in piccoli pezzi!”. Se tagliamo il problema dell’inclusione e distribuiamo le sue piccole parti tra organizzazioni governative, non governative, associazioni di genitori, educatori professionali, e concretizziamo il coordinamento delle loro attività, la prospettiva delle scuole inclusive diventerà realtà.
RUDOLPH: Verrà sviluppata una banca dati. Un importante prodotto del Centro Documentazione sarà anche il nostro rapporto annuale sullo sviluppo sociale per le persone disabili in Norvegia, che fornirà informazioni affidabili e oggettive come base per il processo decisionale da parte del Governo.