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autore: Autore: Massimiliano Rubbi

La stretta via delle politiche UE per la disabilità. Il manifesto EDF per il Parlamento Europeo 2014-2019

di Massimiliano Rubbi

Quando leggerete queste righe, il Parlamento Europeo in carica per il quinquennio 2014-2019 sarà già stato eletto. E questo vi dà un incommensurabile vantaggio predittivo sulle future politiche continentali rispetto a chi scrive, prima di una tornata elettorale in cui, per la prima volta, a essere in gioco non è la direzione o il passo del processo di integrazione europea, ma la sua stessa esistenza. Movimenti “euroscettici”, spesso contraddistinti da una posizione estrema entro l’arco politico, si affacciano in forze a Strasburgo, mentre le piattaforme dei partiti “storici” non mettono in discussione una politica di rigore di bilancio che non ha saputo fare uscire le economie europee dalle secche della crisi, acuendo anzi le differenze tra Stati e portando alcuni di essi, come Grecia e Portogallo, a condizioni di disagio sociale mai viste dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. In sintesi, l’Europa come “problema” e non più come “soluzione”: un mutamento particolarmente avvertito in Italia, dove in pochissimi anni la frase “ce lo chiede l’Europa” è passata da opportunità di superare la lentezza e la corruzione della decisione politica nazionale a inconfessabile grimaldello per gli interessi della Germania e dei Paesi nordeuropei. È in questo difficile contesto che l’EDF, l’organismo di rappresentanza delle associazioni di persone con disabilità a livello europeo, ha presentato l’11 febbraio scorso a Bruxelles il proprio “Manifesto” per la legislazione UE nei prossimi 5 anni, per promuovere alcune priorità chiave nei programmi politici e nell’attività post-elettorale dei partiti che si candidano al Parlamento Europeo – e alla guida della Commissione Europea, il cui Presidente, per la prima volta nella storia, dal Parlamento sarà eletto.
Rilancio in 6 mosse
Il Manifesto EDF individua sei priorità-chiave per la legislatura europea 2014-2019. Innanzitutto la promozione di un’Europa “inclusiva, sostenibile e democratica”, ponendo un’esplicita correlazione tra l’allontanamento da questa prospettiva e “l’ascesa di movi menti populisti ed euroscettici in tutta l’Unione”. Subito dopo si sostiene “la riforma delle politiche economiche e sociali dell’Europa per assicurare la protezione e il godimento dei diritti umani degli europei con disabilità” – una richiesta su cui si tornerà.
Sull’accessibilità si concentra la terza proposta, e qui si stigmatizza innanzitutto il ritardo con cui la Commissione Europea uscente ha affrontato la redazione dello European Accessibility Act, la cui bozza era attesa per il 2012 ma che, nonostante le dichiarazioni pubbliche e le risposte scritte al Parlamento espresse a più riprese dai commissari europei, risulta ancora all’interno del programma di lavoro annua le 2014. Una direttiva con “un approccio olistico e ampio per coprire quanti più beni e servizi possibile” potrebbe favorire la mobilità tra gli Stati delle persone con disabilità e stimolarne i consumi, contribuendo a una crescita economica tuttora fragile; da parte sua, l’EDF dichiara di “continuare a lavorare sul tema e sperare che la Commissione Europea pubblicherà la proposta legislativa quest’anno”.
Sempre in materia di accessibilità, tra l’altro, si richiede di “rendere i fondi UE senza barriere per le persone con disabilità”. Interpellata in merito, l’EDF spiega che “un esempio rilevante di nuove barriere create dai fondi nel precedente periodo di programmazione (2007-2013), che ha attirato forti critiche, è stato l’uso di fondi strutturali UE per finanziare pro getti che non sono riusciti a sfruttare le prospettive di vita indipendente e partecipazione attiva nella società per bambini, persone con disabilità e anziani. In alcuni casi, sono stati utilizzati per mantenere o aprire nuove case di cura, orfanotrofi o ospedali psichiatrici, invece di investire i fondi europei in servizi sociali e di sostegno alla persona, in diretta violazione della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, che promuove l’inclusione nella società e vieta la segregazione. Ciò è potuto accadere perché i Regola menti di base erano permissivi verso questo tipo di (ab)uso del denaro. Questo non ha consentito alle persone di vivere la propria vita nella comunità su una base di uguaglianza con gli altri. Ecco perché l’EDF, in coalizione con altri gruppi, ha fatto, con esiti positivi, una dura pressione per introdurre migliora menti al riguardo: per la prima volta, i nuovi Regolamenti per l’investimento in politica di coesione, adot tati nel dicembre scorso dal Consiglio Europeo e dal Parlamento Europeo, includono riferimenti specifici per sostenere la ‘transizione dalla cura nelle istituzioni a quella basata sulla comunità’. L’EDF ha dato il benvenuto a questa storica svolta nel panorama legi slativo UE, che dovrebbe migliorare la situazione di bambini e adulti in cura nelle istituzioni o a rischio di istituzionalizzazione e facilitare una vera innovazione efficace nel settore dei servizi sociali”.
Quarta priorità per l’EDF è una proposta di Direttiva per “il principio di uguale trattamento tra le persone a prescindere da religione o credo, disabilità, età o orientamento sessuale”. L’organismo di rappresen tanza ricorda che al momento la UE garantisce una protezione dalle discriminazioni solo in ambito lavorativo, ma “la discriminazione sulla base della disabi lità esiste in tutte le aree della vita politica, sociale e culturale”, dall’educazione dei bambini all’accesso dei cani guida in ristoranti oppure ospedali.
Il quinto punto del Manifesto è probabilmente il più complesso, e propugna “la rapida ratifica da parte della UE e di tutti gli Stati membri del Protocollo Opzionale alla Convenzione ONU per i diritti delle perso ne con disabilità”. Perché sarebbe così importante questo protocollo, soprattutto sapendo che esso è stato recepito finora da 20 dei 28 Stati membri (Italia inclusa)? Spiega l’EDF: “Il Protocollo Opzionale al la Convenzione è uno strumento legale che introduce due procedure per rafforzare l’applicazione della Convenzione, attraverso una procedura di comunicazione individuale e una procedura di inchiesta. La procedura di comunicazione individuale permette a individui e gruppi di individui in uno Stato aderente al Protocollo di sporgere reclamo presso il Comitato della Convenzione se lo Stato ha violato uno dei suoi obblighi legati alla Convenzione. La procedura di in chiesta: se il Comitato riceve informazioni affidabili che indicano violazioni gravi o sistematiche delle disposizioni della Convenzione da parte di uno Stato partecipante, il Comitato inviterà quello Stato a cooperare nell’esame delle informazioni ricevute e potrà pubblicare un rapporto con le sue osservazioni sulle violazioni sistemiche che ha incontrato in quello Sta to. Dal momento che anche l’UE ha ratificato la Convenzione, deve proteggere i diritti nella Convenzione per tutti gli europei con disabilità. La ratifica UE del Protocollo Opzionale darebbe ai cittadini europei una protezione più forte e meccanismi di reclamo in caso di violazioni individuali o sistemiche della Convenzione”. Rimane il dubbio che a impedire “il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali da parte di tutte le persone con disabilità” che si propone la Convenzione sia più la sua impostazione assai generale, concentrata sui rapporti nazionali di applicazione, che non l’assenza di un meccanismo di reclamo a livello europeo: è significa tivo che la giurisprudenza citata sul sito web della Giunta della Convenzione riporti solo 4 casi, ma tutti legati a reclami individuali contro Stati membri UE e aderenti al Protocollo Opzionale (Svezia, Regno Unito e in due casi Ungheria).
La sesta e ultima priorità che l’EDF propone al Parla mento Europeo che verrà è di allineare le politiche UE e degli Stati membri alla Convenzione ONU, “il primo trattato sui diritti umani che [la UE] abbia mai ratificato”, assicurando il coinvolgimento delle perso ne con disabilità nelle decisioni che le riguardano, secondo il principio espressamente citato del “niente per noi senza di noi” e con la proposta, tra le altre, di individuare un Vicepresidente della Commissione con competenze speciali in materia di disabilità e relativo coordinamento delle politiche.
Oltre o dentro l’austerità? Per il miglioramento delle condizioni di vita delle persone con disabilità nell’UE, in ogni caso, la questione più rilevante e al contempo più critica è probabilmente quella toccata dal secondo punto del Manifesto EDF, che come detto propone “la riforma delle politiche economiche e sociali dell’Europa” e sottolinea come “le persone con disabilità e le loro fami glie, che non sono responsabili della crisi, hanno dovuto fare i conti con drastici tagli nei servizi e nelle provvidenze sociali, il che ha portato a una disoccupazione più alta, [e] a un ritorno a istituzioni di segregazione”.
In occasione della presentazione del Manifesto a Bruxelles, il Presidente EDF Yannis Vardakastanis ha invocato “un cambiamento drastico di politica per cui il consolidamento delle finanze pubbliche non sia a spese dei diritti fondamentali e della coesione sociale nella UE”. Sotto accusa finisce quindi l’“austerità” che ha contraddistinto la politica economica dell’area Euro soprattutto (ma non solo) dall’inizio della crisi.
Sfortunatamente, dei due partiti transnazionali maggiormente accreditati per la maggioranza (relativa) nel nuovo Parlamento Europeo, l’uno – il Partito Popolare Europeo – sostiene esplicitamente la validità delle politiche di rigore finanziario anche per il futuro, mentre l’altro – il Partito Socialista Europeo – propugna la necessità di combinare rigore e crescita, in proporzioni difficili a definirsi. In ogni caso, non si può dimenticare l’intervista concessa nel febbraio 2012 al “Wall Street Journal” da Mario Draghi (Governatore BCE e dunque, nell’attuale assetto istituzionale europeo, probabilmente la figura di massimo grado nella definizione della politica economica), in cui l’attuale modello sociale europeo veniva definito “già superato” e l’austerità, insieme alle riforme strutturali, “l’unica opzione per la ripresa economica”. Anche ammettendo che questa prospettiva sia fondata, come può essa conciliarsi con una coesione sociale che ha come inevitabile pietra di paragone le protezioni sociali del passato?
L’EDF, di fronte a questa contraddizione tra tutela dei diritti e rigore di finanza pubblica, riconosce che “la politica dell’Europa contro la crisi, con la sua en fasi sulle misure di austerità e la sua mancanza di legittimazione democratica, ha contribuito al sorgere dell’euroscetticismo, con molti cittadini europei che voltano le spalle alla UE (come rivelato da tutti i sondaggi di opinione), e i partiti euroscettici che aumentano il proprio pubblico”, e “stigmatizza che le attuali politiche economiche e sociali adottate dagli Stati Membri e dall’Unione Europea portino a un aumento nei numeri delle persone che patiscono esclusione sociale in Europa”.
Il rigore non viene tuttavia rigettato, ma piuttosto messo in subordine a un’altra strada per la crescita economica: “sebbene siamo d’accordo sul fatto che solide finanze pubbliche siano molto importanti, stigmatizziamo che le misure di consolidamento di bilancio si siano concentrate su tagli alla spesa sociale e su aumenti di tasse che toccano principalmente i redditi bassi e medi. Le misure di ripresa hanno finora trascurato l’importante contributo a crescita e occupazione che potrebbe essere portato dalle stesse persone con disabilità e dallo sviluppo dei servizi che esse ricevono e gestiscono”.
Secondo l’EDF, insomma, si impone un cambio di rotta che, seppur con ogni probabilità sulla base di un “contratto sociale” diverso da quello del passato, riaffermi l’Europa (nella sua interezza) come “modello sociale” avanzato, capace di garantire la tutela e promuovere il protagonismo delle persone con disabilità. Diversi europarlamentari uscenti di differenti partiti, in occasione della presentazione e in momen ti successivi, si sono impegnati a sostenere le politi che proposte dal Manifesto dell’organismo di rappresentanza, certo non ignorando che gli europei con di sabilità sono 80 milioni e costituiscono il 16% del corpo elettorale. Solo la composizione e, soprattutto, l’azione effettiva del Parlamento Europeo 2014-2019 diranno della serietà degli impegni presi in campagna elettorale.

Gli stalli di Strasburgo. La maggioranza nel nuovo Europarlamento e le politiche per la disabilità

Di Massimiliano Rubbi

Le elezioni del maggio 2014 sono state le più sentite e temute nella storia trentacinquennale del Parlamento Europeo. La previsione di una forte affermazione di partiti euroscettici e con forti componenti nazionaliste, quando non espressamente xenofobe, si è rivelata fondata, con l’affermazione come prima forza politica in alcuni Stati membri (e risultati significativi quasi ovunque) di partiti finora mai rappresentati a Strasburgo, o comunque esterni alle tradizionali “famiglie” politiche europee. I seggi attribuiti nel nuovo Parlamento Europeo a non iscritti o appartenenti a gruppi di nuova formazione, tuttavia, ammontano a un centinaio su 751 (cui si aggiungono i 70 Conservatori e Riformisti Europei,“euroscettici moderati”), mentre la maggioranza assoluta dei seggi, sebbene numericamente erosa, rimane alla somma dei due medesimi gruppi parlamentari che la detenevano nel mandato uscente: i popolari del PPE, con 221 seggi, e i Socialisti&Democratici (S&D) con 191.
In questa prospettiva di continuità, che mentre scriviamo si è tradotta nella designazione del candidato PPE Jean-Claude Juncker a Presidente della nuova Commissione Europea, occorre attendersi le politiche europee per il quinquennio 2014-2019, e per questo abbiamo chiesto ai due gruppi di maggioranza di illustrare le linee che perseguiranno nell’ambito delle politiche UE per la disabilità, entro il quadro delle politiche sociali e del modello sociale europeo.

Lavoro, sussidiarietà e diritti
Negli obiettivi del Gruppo Parlamentare S&D appare distintiva la centralità dell’occupazione e di una protezione sociale attiva. La lettera inviata prima delle elezioni alle organizzazioni nazionali di rappresentanza delle persone con disabilità da Martin Schulz, candidato socialista alla Presidenza della Commissione, parla di inclusione da perseguire attraverso “un reddito decoroso e protezione sociale” e “l’adeguatezza delle pensioni e di un reddito minimo”, agendo “contro i tagli nella spesa pubblica per i gruppi svantaggiati della società e correggendo gli errori del passato”. In un altro documento di portata più generale, intitolato “Posti di lavoro decorosi con migliori condizioni lavorative e salari minimi per tutti”, il gruppo socialista si impegna alla lotta contro la precarietà, alla “creazione di un Fondo Europeo per la Protezione Sociale” e alla fondazione su basi europee di un reddito minimo garantito, in ragione della “prominenza dei diritti sociali sulle libertà economiche”. Rilevante anche l’impegno a favore della deistituzionalizzazione e della vita indipendente delle persone con disabilità, con la promozione dell’integrazione come principio cardine nella discussione relativa ai regolamenti sui fondi europei delle prossime annualità.
La questione del lavoro compare anche nelle linee politiche del Gruppo Parlamentare PPE, che ricorda tra l’altro l’approvazione della “Garanzia Giovani” con una dotazione di 6 miliardi di Euro per combattere la disoccupazione giovanile, ma appare in posizione meno centrale. Non è condiviso l’impegno a una rete di protezione sociale fondata sul reddito minimo, mentre la disoccupazione è indicata come una “sfida” da monitorare e le misure per combatterla vengono collegate alla “mobilità dei lavoratori”. Secondo i Popolari europei,“il modello o i modelli sociali europei sono fondati su tre principi: solidarietà, responsabilità e sussidiarietà”, ed è nel rispetto del principio di sussidiarietà che il Gruppo PPE “continuerà a difendere adeguati standard di sicurezza sociale”. Significativo in questo senso anche l’accenno alla “conformità al dialogo sociale”, intesa come impegno alla cooperazione con CES, UNICE-BusinessEurope e CEEP (le tre confederazioni europee rispettivamente di sindacati, datori di lavoro privati e datori di lavoro a partecipazione pubblica o di interesse economico generale) e il coinvolgimento dei sindacati nazionali.
Ciò su cui i due gruppi di maggioranza nella legislatura europea al via paiono concordare è la lotta contro le discriminazioni legate alla disabilità. “Il Gruppo PPE continuerà a sostenere tutte le politiche che mirano a chiudere i divari nella legislazione europea anti-discriminazione che riguardano le persone disabili”, mentre il Gruppo S&D “sta combattendo perché la Commissione estenda una protezione onnicomprensiva contro tutte le forme di discriminazione”. Ovvio, e comunque esplicitato, il riferimento alla Convenzione ONU per i Diritti delle Persone con Disabilità, della quale in sostanza entrambi i gruppi si impegnano a monitorare l’attuazione e l’implementazione in quanto questione di diritti umani.

La separazione dei poteri
La direttiva sull’accessibilità, che stabilirebbe standard più rigorosi in materia per molti dei prodotti e dei servizi disponibili sul mercato europeo, è la “grande incompiuta” delle recenti politiche europee per la disabilità: si è ancora in attesa di un testo base che la Commissione doveva elaborare e diffondere nel 2012, nonostante ripetute sollecitazioni, tra cui una lettera congiunta dei gruppi parlamentari “che esprime forti preoccupazioni per quanto riguarda il progresso della Commissione”. A specifica domanda, il gruppo dei Socialisti&Democratici ricorda che “il potere di iniziativa legislativa spetta alla Commissione Europea, non al Parlamento. Quindi, fino a quando la Commissione non presenta un nuovo progetto, i gruppi parlamentari possono solo avanzare sollecitazioni e appelli”, e anche i Popolari, per un miglioramento dell’accessibilità che rimane “una delle sfide più grandi per 80 milioni di cittadini europei con disabilità”, ammettono che “la tabella di marcia concreta dipende dalla Commissione UE”.
Da questo caso emerge quello che è forse oggi il maggiore problema della “anomala” costruzione politica europea: il Parlamento Europeo, unico organismo eletto direttamente dai cittadini, non dispone pienamente del potere legislativo che ad esso associamo mentalmente in base agli assetti istituzionali nazionali, potere invece largamente affidato a una Commissione che riposa molto di più sugli equilibri tra governi degli Stati membri. Il Gruppo S&D ricorda che il progetto di direttiva sull’accessibilità “sembra avere seguito la proposta della Commissione per una direttiva anti-discriminazione nel 2008, che fu seppellita dagli Stati Membri nel Consiglio [Europeo]”, e che la sua lotta per una direttiva anti-discriminazione più ampia si svolge “nonostante l’opposizione della maggioranza di centro-destra nel Consiglio”.
Inevitabile dedurne che, nonostante la graduale crescita dei poteri affidati all’istituzione a elezione popolare diretta (che per la prima volta nel 2014 elegge il Presidente della Commissione, seppure su indicazione del Consiglio Europeo), la dialettica più decisiva per le politiche europee sulla disabilità rimanga non quella tra i gruppi parlamentari, quanto quella tra questi, i governi nazionali e, per certi versi nel mezzo, la Commissione con la sua autonomia. L’accordo tra i due gruppi parlamentari maggioritari, che sostiene la neonata Commissione, potrebbe quindi avere effetti limitati di fronte all’opposizione anche di pochi Stati membri: un elemento da tenere a mente per valutare, tra le altre, le proposte sull’accessibilità e sull’allentamento dell’impatto delle politiche di austerità sulle fasce sociali più deboli, e rispetto a cui il forte voto nazionale a partiti euroscettici diventa assai più preoccupante in prospettiva di quanto non sia oggi nella composizione dell’emiciclo di Strasburgo.

11. Credere fortemente nelle abilità e nel talento

intervista di Massimiliano Rubbi

Se la tecnologia può fare molto per avvicinare le persone con disabilità alla pratica musicale, a volte bastano soluzioni più artigianali, e soprattutto l’impegno personale. La Coalition for Disabled Musicians (CDM) è nata nel 1986 a New York per aiutare i musicisti con disabilità a registrare ed esibirsi. Abbiamo intervistato Linda Jaeger, che nel 1997 è subentrata al fondatore, suo cognato Donald, nella gestione dell’organizzazione.

Come è nata la vostra esperienza come CDM?
Nel 1981 Donald Jaeger, un batterista dilettante di meno di trent’anni, ebbe un incidente sul lavoro e subì un grave danno al midollo spinale. Sua moglie Lynn, che aspettava il loro secondo figlio, dovette tornare al lavoro poco più tardi, lasciando Don a occuparsi dei bambini. Per cinque anni lui dovette confrontarsi con limitazioni fisiche che lo costringevano a letto per parecchie ore al giorno, e con la depressione. La sua grande passione per la batteria dovette essere messa da parte – Don esisteva solamente. Ma è il primo ad ammettere: “La depressione è molto contagiosa. Le altre persone la percepiscono e diventano depresse. È molto difficile”. Si avvalse con successo della terapia per farcela.
Nel 1986, Jaeger ritornò alla batteria, ma solo per sedute molto brevi. Non poteva tenere il passo con musicisti normodotati, il dolore era a volte intollerabile. Comunque, con il sostegno della sua famiglia, divenne di nuovo attivo e vivo. “Mi resi conto che potevo suonare ancora la batteria, ma ero limitato da un problema di resistenza a causa del dolore cronico. Avevo bisogno di trovare persone con cui suonare che capissero questo problema”, disse. Così nacque la Coalition for Disabled Musicians, Inc. (CDM).
Donald descrive così l’“effetto terapia” della CDM: “È uno sfogo molto buono. La maggior parte delle persone sarebbe a casa se questo non fosse a disposizione, non facendo nulla se non esistere. Io dimentico tutto quando sto suonando. Mi dimentico anche del mio dolore per un momento. È molto terapeutico”.
La CDM procedette a formare tre gruppi; il primo è una rock band chiamata “Range of Motion”, il secondo un’orchestra di persone più anziane, chiamata “CDM Orchestra”, che esegue i vecchi standard, jazz e swing, e il terzo è un gruppo rock e hard rock chiamato “Rockin’ Chair”. I musicisti variano in età dai 15 agli 80 anni. Come varie sono le loro età, così le loro disabilità, che includono distrofia muscolare, paralisi cerebrale, sclerosi multipla, menomazioni visive e uditive, diabete, ictus, danni al midollo spinale e altre.

Quali sono le principali difficoltà che un musicista o gruppo con disabilità deve affrontare per la propria attività artistica?
I musicisti con disabilità possono affrontare diversi ostacoli. Devono essere sempre considerati il trasporto del musicista, il trasporto dell’attrezzatura musicale, il trovare persone che possano assistere nell’allestimento del palco, il dolore da movimenti ripetitivi dovuto alla disabilità, i problemi di resistenza (affaticarsi facilmente), e il superare la percezione del pubblico rispetto alle persone con una disabilità.

In che modo la tecnologia ha agevolato, o al contrario complicato, il potenziale artistico dei musicisti con disabilità, sia nelle registrazioni che negli spettacoli dal vivo?
Ci sono molto modi in cui la tecnologia può assistere un musicista con disabilità. Con così tanti progressi nel mondo del computer e del digitale, molti musicisti possono produrre suoni musicali solo con la pressione di un tasto. Con l’attrezzatura giusta, intere composizioni musicali possono essere prodotte attraverso un computer portatile. Lo svantaggio di tutta questa meravigliosa attrezzatura è la spesa per acquistarla, mantenerla e aggiornarla.

Comunque, alcune sistemazioni per musicisti con disabilità non richiedono un equipaggiamento hi-tech: ad esempio, quando Don si confrontò con allievi di batteria con arti mancanti e condizioni spastiche che rendevano difficile tenere le bacchette, attrezzò ingegnosamente cinghie e altri aggeggi per permettere a questi ragazzi di fare presa. E quando John Rinaldo, ex bassista nei “Range of Motion”, perse progressivamente forza a causa della distrofia muscolare, Don assemblò una postazione che gli permetteva di stare in piedi dietro lo strumento e suonarlo senza reggerne il peso. Sul nostro sito web, si possono trovare altri esempi di come alcuni dei nostri musicisti hanno superato gli ostacoli attraverso attrezzature adattive e l’uso della tecnologia.

In base alla vostra esperienza, come vivono i musicisti la propria disabilità sul palco e in tour?
Si vive la propria vita come la propria vita. Che si sia un banchiere, una segretaria, una casalinga o un musicista, la propria disabilità è sempre una parte di sé, solo non bisogna lasciare che essa ci definisca. A volte si può avere bisogno di fare adattamenti a uno stile di vita o a un metodo per portare a termine una certa attività, ma la maggior parte delle persone con disabilità si sforzano di vivere una vita “normale”. Questa situazione continua nelle esibizioni sul palco e in tour. Bisogna assicurarsi di gestire tutti gli aspetti artistici di un’esibizione, ma anche che i bisogni fisici (es. l’accesso per carrozzine) siano soddisfatti.

Come affrontano i media negli USA le esibizioni artistiche dei musicisti con disabilità?
Sebbene sia sempre difficile attirare l’attenzione dei media su qualsiasi musicista, i mass media stanno lentamente iniziando a riconoscere e apprezzare i musicisti con disabilità. Ci vuole un sacco di ricerca e perseveranza per fare uscire il proprio nome là fuori. Sono felice di dire che “American Idol” [reality show statunitense analogo all’italiano “X Factor”, ndt] al momento ha un musicista con disabilità tra i suoi primi 11 concorrenti.

Quali questioni vedete come più centrali per la CDM nel prossimo futuro?
La CDM è una piccola organizzazione non-profit gestita da volontari. Lottiamo per sopravvivere, come la maggior parte delle piccole organizzazioni. Abbiamo una manciata di volontari grandi lavoratori, che credono fortemente nelle “abilità” di un musicista con disabilità di talento. Globalmente, continueremo al meglio della nostra capacità ad assistere i musicisti attraverso Internet con consigli e informazioni per “perseguire i loro sogni musicali”, e localmente continueremo a mandare la nostra prima band di rock and roll classico, “Range of Motion”, nella comunità e nella scuola per programmi di consapevolezza e educazione. Di certo abbiamo sempre il sogno, come ogni altro musicista, di farcela un giorno!

Per saperne di più:
Coalition for Disabled Musicians

10. Per passione dal mio cuore

intervista di Massimiliano Rubbi

Troi “Chinaman” Lee è un dj londinese con una peculiarità: è sordo, e le sessions che organizza, i “Deaf Raves”, sono basate sulle sole vibrazioni dei bassi, molto amplificate e accompagnate da videoproiezioni di persone che ballano che aiutano a tenere il tempo.
Troi ha portato in vari paesi d’Europa i deaf raves, ed è già stato in Italia, da ultimo a Milano lo scorso ottobre; lo abbiamo intervistato.

Come è partita la tua esperienza come dj sordo?
Mentre crescevo, vedevo che i miei cugini e amici erano dj. Sono cresciuto con una passione musicale, come anche altri nella mia famiglia. Tutto è partito da quando bazzicavo le radio pirata. Rilassarsi e ascoltare Rave music era sbocciato allora a Londra, dal 1992. Era una gran cosa fare parte delle crew. Io ero l’unica persona sorda che fosse coinvolta. Quindi presi la mia prima piastra Technics, era penso il 1996. Cominciai a collezionare musica e dischi e a suonarli. Poi ebbi la mia prima esperienza da dj a un house party nel 2002. A tutti piacque molto, e certo abbiamo fatto tremare una casa da quattro stanze da letto. C’erano oltre 150 persone, e dopo allora le persone continuavano a chiedermi “a quando il prossimo?” Il deaf rave del 2003 era nato, e da allora ho aperto molte opportunità per altri dj sordi.

Come descriveresti i deaf raves a un pubblico “non iniziato”?
Il nostro Mondo Sordo è unico, perché tutti più che altro usano la lingua dei segni. C’è un po’ di discorso orale, ma questo non impedisce a nessuno di essere coinvolto nei party! Si sentono le persone dire che la musica è così forte, e per fortuna che hanno gli auricolari! A volte alcuni sono esausti! Quando il suono è così forte… non abbiamo problemi di comunicazione, perché chiacchieriamo normalmente senza badare a quanto siano profonde le vibrazioni e la musica.

Che riscontro avete dai partecipanti ai deaf raves?
Per molti è una grande prima esperienza. Alcuni sordi di altre nazioni vedono la nostra idea e cosa facciamo, imparano da noi e portano tutto nel loro paese e lo mettono in piedi. È bello che facciamo cose positive e le persone lo notino e facciano come noi!

Come gestisci l’equilibrio tra compiti artistici e organizzativi nella tua esperienza di musicista? Cosa pensi della possibilità di farne una professione?
Beh, è così difficile tenere in piedi tutto, perché tutta questa cosa dei deaf raves è fatta per passione dal mio cuore. Ho altri lavori che devo fare per vivere. La musica e i party sono le mie motivazioni, e ispirazioni per molti sordi. Questo è il mio obiettivo. Organizzare come se fosse un lavoro può essere folle, perché c’è così tanto da fare. Mi piacerebbe passare il tempo a fare musica. Quando potrò… lo farò! Vedrete quando sarà pronta!

Qual è la relazione tra il movimento deaf rave e il sistema dei media? Pensi che le caratteristiche uniche di questa espressione musicale siano trattate dai media a causa della loro rilevanza sociale o della loro singolarità artistica?
I media mi chiedono sempre domande diverse tutto il tempo, a cui sono felice di rispondere meglio che posso! Si tratta di sensibilizzare i sordi alla musica… noi sordi possiamo sentire o ascoltare la musica… quindi vogliamo solo abbattere le barriere e dire yeah, we love music!

Nella tua carriera, quali esperienze ti ricordi più felicemente, e quali avresti preferito non vivere?
Ci siamo divertiti tantissimo quando alle persone piace. Il meglio per me… fu il primo deaf rave 2003… vennero 700 persone, da tutto il mondo, e non me lo aspettavo. Questo è un di più, e abbiamo sempre molte persone diverse che vengono al nostro evento ogni volta. Quindi sono felice così com’è, e non posso chiedere di più! Anche esibirsi davanti al pubblico può essere grande, quando la mia esibizione va al 100%. Le volte brutte o tristi sono quando provo a motivare gli esecutori a continuare meglio. Molti sembrano deconcentrarsi per un po’ perché siamo una piccola comunità, e molte persone passano oltre. Questo mi va bene.

Che cosa pensi che la concezione e lo sviluppo dei deaf raves possano insegnare alla società in generale sull’integrazione delle persone con disabilità?
Continueremo ad aumentare la sensibilità e la cultura dei sordi. Teniamo in alto lo stendardo e ne siamo orgogliosi. Se non lo facessimo… ci sarebbero meno party eccitanti. Alla fine, si riduce a sforzo, passione e persone che vogliono fare qualcosa.

Quale futuro vedi per i deaf raves?
Vogliamo esibirci all’Olimpiade Culturale di Londra 2012. O esibirci e fare i dj ovunque,… fino a che motiviamo le persone sorde dovunque siamo. Andremo sempre avanti, la musica non si ferma mai! State sicuri!

Per saperne di più: www.deafrave.com

 Verso un Canada accessibile. La lunga consultazione per una legislazione federale che non c’è

di Massimiliano Rubbi

 Il governo canadese insediatosi nell’autunno 2015 e guidato dalla figura, divenuta iconica anche in Europa, di Justin Trudeau, ha dimostrato un’attenzione specifica al tema della disabilità sin dalla sua costituzione. Per la prima volta nella storia del Paese, a un ministro sono state esplicitamente attribuite responsabilità specifiche sulle “persone con disabilità”, integrate (sotto dipartimenti separati) a quelle del preesistente Ministero dello Sport: un abbinamento che suona curioso, rispetto alle connessioni più consuete con le politiche sociali o il lavoro, ma che ben si attagliava al profilo del ministro designato Carla Qualtrough, con un passato di atleta paralimpica nel nuoto e poi di membro del Comitato Paralimpico delle Americhe.
Nella lettera di mandato di Trudeau a Qualtrough, in modo ancor più significativo, la prima priorità individuata per il Ministero era “guidare un processo di coinvolgimento con province, territori, comuni e portatori di interesse che conduca all’approvazione di una legge per i canadesi con disabilità [Canadians with Disabilities Act]”. Il Canada infatti difetta di una normativa federale generale sull’accessibilità, a differenza del suo vicino statunitense e di alcune delle sue stesse province interne – a partire dalla più popolosa, l’Ontario, che sin dal 2001 ha un “Ontarians with Disabilities Act” e che nel 2005 ha integrato la sua normativa con l’obiettivo esplicito di “rendere la provincia pienamente accessibile entro il 2025”. Il percorso verso una legge federale sull’accessibilità non è ancora compiuto mentre scriviamo, ma appare di notevole interesse anche per le modalità con cui è stato intrapreso come, appunto, “percorso”.

In ascolto da due orecchie
Il Governo federale ha avviato nel giugno 2016 un processo di consultazione nazionale, lanciando il sito web “Accessible Canada” attraverso cui tutti i cittadini sono stati invitati a dire “cosa significa accessibilità per loro e cosa potrebbe significare per le loro comunità”, nonché organizzando 18 incontri in varie aree dello Stato, 9 tavole rotonde per mettere a confronto associazioni di persone con disabilità, esperti universitari e rappresentanti dell’industria, e un forum nazionale giovanile. Fonti governative sottolineano che nell’impostare la consultazione “sono state identificate – ove possibile – le migliori prassi, particolarmente rispetto al garantire un processo accessibile. Per esempio, gli incontri di persona sono stati pianificati per essere pienamente accessibili a una gamma di disabilità – fornendo sottotitolazione dal vivo in inglese e francese, Lingua dei Segni americana e del Québec, e servizi di mediazione per partecipanti sordo- ciechi. Nel Canada settentrionale è stata fornita anche la lingua dei segni Inuit”. La massima accessibilità è stata garantita anche per il sito web e per le modalità di contatto a distanza degli organizzatori. Il processo di consultazione è stato quindi l’occasione per testare nella pratica (e nei costi) gli standard di accessibilità che potranno essere imposti in futuro.
La consultazione si è chiusa il 28 febbraio 2017, con la partecipazione di oltre 6.000 cittadini e 90 organizzazioni, e i suoi esiti sono stati sintetizzati nel maggio 2017 in un rapporto governativo dal titolo “Creare una nuova legislazione nazionale sull’accessibilità: cosa abbiamo imparato” . Sono così state identificate linee generali e priorità per la nuova legislazione: ad esempio, che sia “ambiziosa”, che stabilisca definizioni di disabilità e di accessibilità al contempo coerenti, ampie e precise, e che includa “meccanismi  forti  di  conformità  e  di esecuzione che potranno essere applicati progressivamente”, il cui controllo sia affidato a una autorità indipendente.
Il Governo federale non si è tuttavia accontentato di condurre “le consultazioni più ampie e più accessibili sui temi della disabilità mai viste in Canada”, e, pur traendo dal loro esito “un orientamento chiaro sulla strada da percorrere”, ha ritenuto di finanziare direttamente alcuni portatori di interesse nel campo della disabilità, con 2 milioni di dollari canadesi (più di 1.200.000 Euro) su due anni, per aiutarli a coinvolgere le persone con disabilità nel percorso verso la nuova legislazione. Una delle organizzazioni finanziate è la “Alleanza per un Canada inclusivo e accessibile”, che riunisce 16 associazioni di persone con disabilità, e che di fatto ha raccolto il testimone del processo partecipativo governativo organizzando ulteriori consultazioni tra marzo e luglio 2017. Steven Estey, responsabile del settore internazionale del Consiglio dei canadesi con disabilità, ha lavorato a queste consultazioni, e ne spiega l’utilità notando che il Governo ha condotto le proprie soprattutto in grandi città: “il Canada è una grande nazione vuota, abbiamo un territorio enorme e 30 milioni di persone; forse 5 città hanno più di un milione di abitanti, il resto di noi vive in paesi piccolissimi o medie città. Le questioni relative all’accessibilità, per esempio, sono molto diverse nei grandi centri urbani da quanto non siano nelle piccole città, o nelle comunità isolate nel Nord o vicino al Polo Nord. Ciò che volevamo fare era quindi parlare ai canadesi che vivono nelle città secondarie e nei paesi più piccoli, per ascoltare cosa vogliono”.
Anche questo processo di consultazione ha prodotto due rapporti nelle sue diverse fasi, e i toni di alcune testimonianze appaiono più schietti: “la società pensa che per qualcuno con una disabilità vada bene avere il 70% di quello che hanno le altre persone”, oppure “nessuno vuole pagare le persone con disabilità. Ci si attende che le persone con disabilità lavorino da volontari, o per meno del salario minimo. Questa è schiavitù sottile”. I rapporti evidenziano molte questioni concrete da risolvere, a partire dalla condizione di povertà in cui vivono molte persone con disabilità (secondo dati governativi, nel 2011 le persone con disabilità avevano un tasso di impiego del 49% rispetto a quello del 79% tra i non disabili, e nel 2014 il 23% delle prime era in una condizione di basso reddito contro il 9% dei secondi), mettono in evidenza la doppia discriminazione cui sono soggette le persone con disabilità appartenenti alle comunità aborigene, e non nascondono che “i bisogni di diverse persone con disabilità a volte confliggono”, pur dichiarando la possibilità di trovare punti di equilibrio soddisfacenti. Si rileva inoltre, una volta di più, la necessità di una legislazione di livello federale, a fronte di un quadro dei servizi di assistenza e integrazione sociale che, oltre ad avere modalità di accesso “che disorientano e richiedono molto tempo”, sono gestiti da ogni provincia a proprio modo, costituendo un ostacolo non di rado insormontabile per le persone con disabilità che vorrebbero trasferirsi, spesso proprio per accedere a un lavoro, da una parte all’altra del Canada.

Mostrare i denti
Una consultazione così articolata è stata accolta positivamente dalla comunità delle persone con disabilità, la cui condizione era stata a lungo tenuta lontana dai riflettori. Secondo fonti governative, inoltre, il processo ha già prodotto un mutamento concettuale significativo per quella che, ricordiamo, era nata come normativa “per i canadesi con disabilità”: “dal momento che la legge porterebbe benefici anche ai canadesi che non si autoidentificano come persone con una disabilità. Quando il Governo, nel maggio 2017, rendeva noto “cosa aveva imparato”, la stampa anticipava che la proposta di legge sarebbe arrivata alla Camera dei Comuni all’inizio del 2018, ma la presentazione in parlamento è poi slittata a giugno 2018; nel frattempo, tra agosto 2017 e gennaio 2018, il Ministero competente ha avuto due avvicendamenti al vertice, anche se secondo Estey il ritardo non è da attribuire a questo. La Camera dei Comuni ha completato le tre letture richieste dal sistema parlamentare canadese nel novembre 2018, e nel febbraio 2019 si è avviata la discussione in Senato; per entrare in vigore, la legislazione sull’accessibilità dovrà essere approvata da entrambi i rami del Parlamento entro giugno 2019, quando il Governo entrerà in campagna elettorale in vista del termine della legislatura. Esiste quindi la possibilità che il vasto lavoro svolto non sfoci in alcun esito effettivo, e venga passato al prossimo governo, che potrebbe dimostrare una minore sensibilità sul tema.
Questa possibilità è resa ancor più probabile dal fatto che il testo licenziato dalla Camera dei Comuni è stato criticato come troppo “timido” dalle organizzazioni rappresentative delle persone con disabilità: secondo una di esse, la “AODA – Alleanza per la legge per l’accessibilità dei cittadini dell’Ontario con disabilità” (www.aodaalliance. org), “questa proposta non impone che alcuna barriera per la disabilità sia rimossa o impedita. Le buone intenzioni non trasformano una legge debole in una legge forte ed efficace”. Per questo in una lettera aperta del 30 ottobre 2018 ben 95 associazioni, esprimendo “significative preoccupazioni in merito”, avevano proposto 9 emendamenti per rafforzarlo. La Camera non ha raccolto   queste   preoccupazioni, e le organizzazioni stanno quindi esercitando pressione perché sia il Senato a farlo, nella discussione in aula e nelle probabili audizioni in programma – e tuttavia, la legge entrerà in vigore solo se approvata con il medesimo testo dalle due assemblee parlamentari.
Il rischio che i passaggi parlamentari portassero all’approvazione di norme “annacquate”, grazie all’affermazione di interessi diversi da quelli delle persone con disabilità, era del resto già noto. Estey afferma che “ovviamente, gli interessi del settore privato sono verso la minore regolazione possibile”, e che pertanto buona parte del suo lavoro attuale è “dietro le quinte, sviluppando relazioni con i membri del Parlamento così che possiamo parlare con loro a tempo debito. Le imprese stanno facendo azione di lobbying, e così anche sta facendo la comunità delle persone con disabilità”. Uno degli elementi che più chiaramente emerge dalla consultazione è la necessità di una legislazione “con i denti”, capace di imporre regole stringenti e standard ben definiti, magari destinando le sanzioni per il mancato rispetto delle nuove normative al finanziamento di incentivi per rientrare in requisiti ancor più rigidi. Imprese come banche, compagnie aeree ed emittenti radio-televisive, private ma soggette a regolazione federale, hanno spesso codici di autoregolamentazione su base volontaria in materia di accessibilità, che però si sono finora rivelati insufficienti a garantire una valida e tempestiva risposta ai bisogni delle persone con disabilità. Nelle parole di Estey, “non ha senso avere una legge senza denti, nessuno vuole aspettare le cose, per cui abbiamo bisogno di un robusto meccanismo di applicazione”, analogo a quello in vigore, grazie a leggi specifiche e ormai consolidate, negli Stati Uniti e in molte nazioni europee. Ciò contribuisce a spiegare la posizione di “all in” adottata dalle associazioni rappresentative rispetto alla discussione in Senato: “Perché non dovremmo semplicemente accettare la proposta di legge così com’è? Nessuna legge è perfetta. Perché non dovremmo semplicemente metterla in atto e poi provare a lavorarci? Non è meglio di niente? Stiamo rischiando di perdere tutto cercando di migliorare questo disegno di legge? […] Questa non è la nostra strategia, per ragioni ottime e testate nel tempo, basate su molti anni di esperienza ‘in trincea’ nel promuovere leggi in questo settore. Abbiamo imparato che il modo migliore per essere sicuri di non compiere ulteriori progressi è rinunciare a provare. Fino a quando un disegno di legge non ottiene l’ultimo voto di cui ha bisogno per diventare legge, c’è sempre un’opportunità per migliorarlo. La nostra tenacia è la nostra forza”.
È il Governo, nondimeno, a riconoscere che “la nuova legislazione federale da sola non può rimuovere tutte le barriere. Tutti hanno bisogno di lavorare insieme, nel settore sia pubblico che privato, per creare nuove opportunità di piena cittadinanza e partecipazione per le persone con disabilità e per aiutare a cambiare il modo in cui pensano le persone.
È anche per questo che il Governo del Canada offre molti programmi che sostengono le organizzazioni e le persone con disabilità rispetto alla loro inclusione nelle comunità, aiutandoli ad assicurarsi posti di lavoro e migliorando i servizi loro offerti. In aggiunta a queste misure, stiamo anche lavorando per un cambiamento di cultura, e aumentando la consapevolezza del potenziale delle persone con disabilità”. Fermo restando il ruolo di esempio che, per ammissione del Governo stesso, le istituzioni pubbliche devono guadagnarsi e mantenere rispettando per sé stesse i requisiti di accessibilità che impongono a tutti, le consultazioni svolte sul tema negli scorsi mesi possono davvero segnare un cambio di passo nell’immagine, e di conseguenza nella condizione, della comunità delle persone con disabilità nella società canadese – naturalmente, a patto che si traducano in una legislazione all’altezza di questa ambizione.

Rilanciare la cooperazione sociale di inserimento lavorativo

di Massimiliano Rubbi

 In quale mondo vogliamo vivere nel 2030? Le prospettive di sempre più breve termine in cui siamo immersi escludono domande di questo tipo dal nostro orizzonte abituale, ma non da quello di organismi internazionali come l’ONU, che nel settembre 2015 si è data una risposta approvando la “Agenda 2030”, un documento che riprende la struttura degli 8 “Obiettivi di sviluppo del Millennio” (MDG – Millennium Development Goals) adottati nel 2000 e li sviluppa ulteriormente in 17 “Obiettivi di sviluppo sostenibile” (SDG – Sustainable Development Goals), collegati a 169 risultati specifici da raggiungere. E in questo quadro si può porre la domanda più specifica: quale mondo del 2030 vogliamo costruire con e per le persone con disabilità?

Un ombrello universale
Il fatto stesso di specificare la domanda costituisce un progresso non scontato. Negli Obiettivi di sviluppo 2000-2015, infatti, non si nominava nemmeno una volta la condizione di disabilità, mentre le “persone con disabilità” sono citate 11 volte nell’Agenda 2030. In particolare, riferimenti sono contenuti negli obiettivi 4, per una “educazione di qualità”, 8, per un “impiego pieno e produttivo”, 10, per la “riduzione delle disuguaglianze”, 11, per “città inclusive”, e 17, sugli “strumenti di implementazione”. L’attenzione risulta ancor maggiore se consideriamo i 18 riferimenti alle persone “vulnerabili”, che includono, in base al paragrafo 23 della dichiarazione generale che sottolinea la necessità del loro empowerment, “tutti i bambini, i giovani, le persone con disabilità (oltre l’80% delle quali vive in povertà), le persone con HIV/AIDS, gli anziani, i popoli indigeni, i rifugiati, gli sfollati interni e i migranti”. Come rilevano le organizzazioni globali IDDC – International Disability and Development Consortium e IDA – International Disability Alliance in un loro documento illustrativo,“il movimento per la disabilità  preferisce il termine ‘a rischio’ piuttosto che ‘vulnerabile’, ma ‘vulnerabile’ è più ampiamente accettato dai governi all’ONU. A causa della delicatezza dei negoziati per l’Agenda 2030, non è stato possibile cambiare questo termine”. Specie se accettiamo questa estensione semantica, i risultati da raggiungere entro il 2030 riguardano una gamma decisamente vasta di ambiti della vita delle persone con disabilità, che tengono conto dei diversissimi gradi di sviluppo del contesto in cui si trovano: “[misure di protezione sociale che garantiscano] sostanziale copertura dei poveri e dei vulnerabili” (1.3), “costruire e adeguare le strutture scolastiche in modo che siano adatte alle esigenze [di tutti]” (4.a), “un adeguato ed equo accesso ai servizi igienico-sanitari e di igiene per tutti ed eliminare la defecazione all’aperto, con particolare attenzione ai bisogni […] di coloro che si trovano in situazioni vulnerabili” (6.2), “la piena e produttiva occupazione e un lavoro dignitoso per tutte le donne e gli uomini, anche per i giovani e le persone con disabilità” (8.5), “fornire l’accesso a sistemi di trasporto sicuri, sostenibili e convenienti per tutti […] con particolare attenzione alle esigenze di chi è in situazioni vulnerabili” (11.2), “fornire l’accesso universale a spazi verdi pubblici sicuri, inclusivi e accessibili” (11.7).
L’estensione e la profondità degli obiettivi, e la loro applicazione ai contesti nazionali molto diversi rappresentati all’ONU, implicano che ogni Stato è tenuto a definire una propria strategia per lo sviluppo sostenibile, con specifiche priorità e strumenti per perseguirle – un’innovazione non scontata rispetto ai precedenti Obiettivi di sviluppo del Millennio, la cui impostazione di fondo nella lotta contro la povertà era il riallineamento dei Paesi sottosviluppati a quelli ricchi. Inoltre, viene riconosciuto che non sarà possibile raggiungere risultati significativi senza l’azione coordinata del “settore privato” nella sua interezza, “dalle microimprese alle cooperative e alle multinazionali, e delle organizzazioni filantropiche e della società civile”. Nei termini del paragrafo 52 della dichiarazione generale, che riecheggiano un celebre slogan del movimento per la disabilità, “è un’Agenda delle persone, dal popolo e per il popolo – e questo, crediamo, assicurerà il suo successo”.

Riconoscere le specificità
Certo, l’effetto “libro dei sogni” è dietro l’angolo, e anche IDDC e IDA ricordano come l’Agenda 2030 sia “un impegno politico, non un documento legalmente vincolante”. In questo senso può essere interpretata  la  significativa  assenza di riferimenti, in tutta l’Agenda, alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), dal 2006 punto di riferimento per il miglioramento delle condizioni di vita di questa fascia di popolazione. Se infatti la Convenzione, sia pure con i limiti di applicazione effettiva inerenti  agli  accordi  internazionali, si incardina sulla nozione di “diritto umano” inviolabile e inalienabile, l’Agenda traccia piuttosto un sentiero da seguire, fornendo indicazioni comuni a tutti coloro che si trovano nei suoi diversi punti, e valorizzando i progressi più che la posizione in sé. Ciò non esclude che si possano tracciare collegamenti generali o puntuali tra i due documenti ONU, come hanno fatto ad esempio il progetto Global Disability Rights Now e di nuovo IDDC e IDA, secondo cui “solo utilizzando la CRPD per implementare i SDG si potrà garantire che non vengano create o perpetuate esclusione e disuguaglianza, come barriere istituzionali, attitudinali, fisiche, legali e alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, tra le altre barriere all’inclusione e alla partecipazione delle persone con disabilità”.
Forse più significativo è un problema rilevato sempre da IDDC e IDA in un altro documento in  merito  al  monitoraggio periodico sullo stato di attuazione degli obiettivi dell’Agenda 2030. Mancano infattitantounadisaggregazionedeidati rilevati dagli indicatori generali perla “sottopopolazione” costituita dalle persone con disabilità, quanto un set di indicatoricheriflettalaspecificitàdi tale sottopopolazione entro gli obiettivi dell’Agenda. La prima, tecnicamente semplice (basterebbe rilevare attraverso un set di domande la condizione di disabilità di chi risponde ai censimenti e alle indagini a campione), eviterebbe possibili distorsioni nella lettura dei dati: ad esempio, un calo del tasso di disoccupazione potrebbe nascondere il fatto che a restare senza lavoro siano in proporzione maggiore le categorie svantaggiate, e così impedire i necessari interventi mirati. Anche indicatori specifici, come la “percentuale di insegnanti in servizio che abbiano ricevuto formazione sul campo negli ultimi 12 mesi per insegnare a studenti con bisogni educativi speciali” o la “percentuale di veicoli di trasporto pubblico  che  rientrano  negli  standard minimi nazionali per l’accessibilità da parte di persone con disabilità”, già suggeriti nel 2015 dal segretariato ONU per la CRPD, sarebbero indispensabili per impostare e monitorare politiche inclusive. Il sentiero tracciato dall’Agenda 2030 per il prossimo decennio è chiaro e sarebbe difficile non condividerlo – e, come già detto, perché una società possa percorrerlo in avanti è necessario lo sforzo di tutte le sue componenti, non solo dei decisori politici. Sarà nondimeno cruciale capire, nei prossimi anni, quali progressi potranno essere garantiti da scelte politiche in linea con l’Agenda 2030 restando all’interno del quadro di compatibilità economiche dell’attuale periodo post-crisi, e quanto la realizzazione degli obiettivi dell’Agenda richiederà una revisione anche profonda di questo quadro, con la considerazione in termini di “bilancio vincolante” delle sostenibilità sociale e ambientale a livello globale.

 Violenza familiare di lungo termine. La sterilizzazione forzata delle donne con disabilità

di Massimiliano Rubbi

L’assemblea generale, svoltasi il 13-14 maggio 2017 a Madrid, dell’European Disability Forum (EDF), che riunisce a livello europeo le associazioni rappresentative delle persone con disabilità, ha presentato una bozza di rapporto intitolato “Mettere fine alla sterilizzazione forzata contro donne e ragazze con disabilità”; il rapporto definitivo, redatto insieme alla Fundación CERMI MUJERES con sede a Madrid e frutto di un lavoro avviato nel 2015 entro un piano per l’uguaglianza di genere, è stato pubblicato dall’EDF a fine novembre e presentato il 5 dicembre in un’udienza al Parlamento Europeo. La questione delle sterilizzazioni forzate era già stata toccata da un appello contro la violenza rivolta alle donne lanciato in occasione dell’8 marzo 2017 da una coalizione di 25 associazioni e ONG, tra cui la stessa EDF, Amnesty International e ENAR – Rete Europea contro il razzismo. L’appello ricorda come “le donne con disabilità sono soggette a essere vittime di violenza con una probabilità da 2 a 5 volte più alta rispetto alle donne non disabili, e sono soggette a sterilizzazione e aborto contro la loro volontà”, e invita pertanto l’Unione Europea a ratificare la Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne, approvata nel 2011 e già sottoscritta da 45 Stati.
An-Sofie Leenknecht, coordinatrice per i diritti umani dell’EDF, spiega la scelta di adottare un report e dedicare un’attenzione specifica al tema della sterilizzazione forzata delle donne con disabilità “perché è una pratica che purtroppo avviene ancora oggi, e che è poco nota e documentata. Volevamo aumentare la consapevolezza dei politici europei e nazionali su questa negazione dei diritti sessuali e riproduttivi, senza il consenso libero e informato della donna con disabilità”. Una pratica che, secondo quanto riportato da ricercatori e articoli di stampa, appare colpire oggi in particolare le donne appartenenti a minoranze vulnerabili, come quelle con disabilità mentale ma anche la comunità Rom, nei Paesi dell’Europa orientale in cui la sterilizzazione forzata era procedura diffusa durante il periodo comunista, ma su cui si dispone ancora di dati più che incompleti.

Il consenso come diritto
Il rapporto EDF definisce la “sterilizzazione” come “un processo o atto che rende un individuo permanentemente incapace di riproduzione sessuale”, sterilizzazione che è “forzata” quando “intrapresa senza conoscenza, consenso o autorizzazione della persona che è soggetta alla pratica, e quando ha luogo senza che vi sia una seria minaccia o rischio per la salute e la vita”. L’impostazione dichiarata del rapporto è quella di “un approccio alla disabilità basato sui diritti umani – che incorporano il diritto di prendere le proprie decisioni, i diritti riproduttivi e la capacità giuridica”; la sterilizzazione forzata è quindi “parte di un modello più ampio di negazione dei diritti umani delle donne e ragazze con disabilità”, collegata alla loro esclusione da una cura complessiva della salute riproduttiva e sessuale, alla cattiva gestione di gravidanza e parto e alla negazione del diritto alla genitorialità. La stretta connessione con la gravidanza e le sue conseguenze, ma anche con il vissuto personale delle mestruazioni, spiega perché la sterilizzazione forzata riguardi sì anche i maschi, ma su scala proporzionalmente molto più ridotta.
Il rapporto ricorda come la sterilizzazione forzata abbia un debutto storico, più che un precedente, nei programmi eugenetici della prima metà del Novecento, i quali, combinando un’impostazione ideologica alla sua asettica praticabilità tecnica, “miravano a garantire che solo gli ‘adatti’ e ‘produttivi’ fossero una parte della società, e gli altri non esistessero e/ o non si riproducessero”. Sarebbe però fuorviante pensare soltanto ai programmi ideati dai regimi totalitari, in particolare alla sterilizzazione forzata “contro le malattie ereditarie” che il nazismo adottò già nel luglio 1933, pochi mesi dopo il suo avvento al potere (e ben prima di passare nel 1939 all’eutanasia con la “Aktion T4”). Nel rapporto EDF si segnala come molti Stati USA e il Canada abbiano sterilizzato persone con disabilità intellettiva, insieme a “criminali” e “stupratori”, per tutta la prima metà del XX secolo; come la Svezia abbia messo in pratica, tra il 1934 e il 1976, un programma di sterilizzazione eugenetica che ha coinvolto oltre 20.000 persone; come la sterilizzazione forzata di persone con disabilità, specie se intellettiva, sia ancora una realtà (ancorché, come detto, difficile da quantifica- re) in Australia, dove non vigono leggi che la proibiscano, e in Spagna, in cui dati ufficiali per il periodo 2010-2013 parlano di “una media [annuale] di 96 sentenze di tribunale che autorizzano la sterilizzazione di persone con disabilità che sono state private della loro capacità giuridica”. Anche dopo la delegittimazione di una giustificazione eugenetica (almeno nella sua forma esplicita e istituzionale), si continuano quindi a praticare sterilizzazioni forzate. Perché? Il rapporto EDF individua con efficacia tre “miti”: “per il bene della società, della comunità o della famiglia”, inclusa la “spesa finanziaria extra dello Stato che deve fornire servizi sociali alle persone con disabilità”; perché “le donne con disabilità sono incapaci di essere madri”, a dispetto del fatto che “la ricerca non abbia mostrato una chiara relazione tra il livello di educazione o l’intelligenza di padri e madri e l’essere un buon padre o una buona madre”; “per il bene delle donne con disabilità”, come protezione da gravidanze indesiderate (rispetto a cui la sterilizzazione definitiva accresce però la vulnerabilità all’abuso sessuale) o dallo stress indotto dal ciclo mestruale in ragazze e donne con “autismo o severi disturbi di apprendimento” (uno stress ritenuto evidentemente più sopportabile della destabilizzazione fisica e mentale indotta dalla definitiva soppressione della capacità riproduttiva).
L’argomentazione fondamentale che l’EDF contrappone a queste giustificazioni verte sulla già citata piena capacità giuridica della persona con disabilità, e quindi sulla necessità del suo consenso informato per ogni trattamento sanitario. Un riferimento costante è la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), siglata nel 2006 e ratificata dalla UE nel 2010: “la CRPD sancisce un cambio di paradigma secondo cui le persone con disabilità sono titolari di diritti su una base di eguaglianza con gli altri. La CRPD pertanto riconosce che le persone con disabilità sono ‘persone davanti alla legge’ e hanno capacità giuridica su una base di eguaglianza con gli altri. Questo approccio implica un allontanamento dal ‘processo decisionale sostitutivo’ verso sistemi di sostegno più personalizzati. […] La CRPD si allontana dal modello della tutela e sottolinea il bisogno di un processo decisionale supportato, al fine di garantire il pieno godimento del diritto alla capacità giuridica per le persone con disabilità”. Di qui una sezione dedicata dal rapporto alle riforme giuridiche che stanno introducendo la “capacità giuridica assistita” in Irlanda, Svezia e Germania, così come, in altra parte del testo, i rilievi mossi ai singoli Stati dal Comitato ONU incaricato di vigilare sull’applicazione della CRPD, che spesso contestano la possibilità, mantenuta nelle giurisdizioni nazionali, di una decisione totalmente terza in merito alla sfera sessuale e riproduttiva dell’individuo. Sempre dall’impostazione legata alle convenzioni ONU discende, in modo coerente e significativo, la totale chiusura del rapporto EDF rispetto alla sterilizzazione di minorenni, affidate per definizione, in diverso grado, alla tutela dei genitori o soggetti esterni: “per prima cosa, la sterilizzazione non deve essere attuata su bambine.
Il ‘Comitato sui diritti dell’infanzia’ [che vigila sull’applicazione della corrispondente Convenzione ONU] ha identificato la sterilizzazione forzata di ragazze con disabilità come una forma di violenza e ha notato che ci si attende che gli Stati [aderenti alla Convenzione] proibiscano per legge la sterilizzazione forzata di bambine con disabilità.
Il Comitato ha inoltre spiegato che il principio dei ‘migliori interessi del bambino’ non può essere utilizzato ‘per giustificare pratiche che confliggano con la dignità umana e il diritto all’integrità fisica del bambino”. Tra le raccomandazioni finali, di conseguenza, troviamo che “si dovrebbe assicurare un’interdizione su qualunque sterilizzazione di persone sotto i 18 anni, a meno che sia attuata per salvare una vita o in un’emergenza medica”, oltre alla necessità di una ricerca sul “consenso informato” che includa il “controllare con urgenza i processi e le procedure utilizzati nella sterilizzazione di persone che sono state dichiarate ‘incapaci’ di concedere il proprio consenso informato”.
La questione non è comunque affidata al solo lavoro delle istituzioni: “solo quando capovolgeremo le convinzioni sociali prevalenti riguardanti il diritto delle donne e delle ragazze con disabilità a prendere le proprie decisioni sulle proprie vite, accorderemo loro il diritto di essere se stesse”.
A chiudere il rapporto EDF è il resoconto della testimonianza personale di una donna affetta da sordità, la quale, dopo aver sposato un uomo con lo stesso deficit e aver tentato invano di rimanere incinta, viene a sapere che i propri genitori (udenti) la avevano fatta sterilizzare anni prima, quando era già adulta, approfittando della sua limitata capacità di lettura e dell’assenza di un interprete in linguaggio dei segni. “La donna ha affrontato sua madre, che le ha detto che il dottore pensava che la sterilizzazione fosse la cosa migliore da fare per bloccare la trasmissione del gene della sordità alla generazione successiva della famiglia”. La donna ha successivamente adottato un bambino e ha “infelicemente accettato la propria situazione”.

Individuare il soggetto debole
Nel febbraio 2015, la “Corte di protezione” di Londra, titolare del giudizio su casi che implicano la “mancanza di capacità fondamentale”, è stata chiamata a prendere una decisione sul caso di DD, “una donna di 36 anni con disordine dello spettro autistico e un disturbo di apprendimento lieve/borderline con un QI di 70”, con un’esperienza di “abuso fisico e forse sessuale” nell’infanzia, una relazione stabile con BC, con disturbi di autismo e apprendimento più gravi di lei, e “una storia ostetrica straordinaria, tragica e complessa: ha avuto sei figli oggi di età tra 6 mesi e 12 anni, tutti allevati da assistenti sostitutivi permanenti, cinque di essi in famiglie adottive. DD non ha contatto continuo con alcuno dei suoi figli.
DD non ha mai dimostrato il desiderio o la capacità di impegnarsi nel livello di sostegno che è probabilmente richiesto per assicurare la sicurezza di un bambino nella sua cura”. Dopo una serie di 5 gravidanze ravvicinate (in 3 casi tenute nascoste fino alle 24 settimane previste per l’aborto volontario, e portate a termine in 4 casi con parto cesareo), per DD era “altamente probabile che il rischio di una futura gravidanza, specialmente se nascosta, l’avrebbe condotta alla morte” per complicazioni perinatali.
Data la “resistenza sempre più determinata di DD al consiglio e al sostegno medico e/o professionale”, la Corte è stata incaricata di valutare la sua capacità di decidere su una contraccezione di lungo termine o sulla sterilizzazione e, in assenza di tale capacità, di valutarne l’adozione forzata “nei migliori interessi di DD”.La sentenza della Corte ha decretato l’impossibilità per DD di prendere decisioni su se stessa e disposto la sua sterilizzazione terapeutica, e lo ha fatto sulla base di un’analisi articolata, tanto della storia del caso discusso quanto delle norme a esso applicabili, esplicitando la cicostanza che “questo caso non riguarda l’eugenetica” bensì la salvaguardia della vita dell’interessata, e la necessità di “tenere conto del modo meno restrittivo di conseguire l’obiettivo ultimo”. In diversi punti del dispositivo si fa riferimento alla “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (ECHR), un documento siglato nel 1950, seppure con successive modifiche, e dunque di impianto assai più antico della CRPD, ma tuttora vigente: in particolare, in uno dei passaggi iniziali della sentenza, la legittimità di intervento nel caso viene individuata nel fatto che “coloro che mancano di capacità hanno gli stessi diritti umani di tutti gli altri, e hanno il diritto di godere di tali diritti senza discriminazione in virtù della loro mancanza di capacità. L’ECHR riconosce tuttavia che in determinate circostanze può essere giustificabile interferire nella loro vita privata e privarli  anche della loro libertà”. A questo riferimento all’articolo 8 della Convenzione, in materia di rispetto della vita privata, si aggiunge poi una discussione sull’articolo 12, relativo al diritto di contrarre matrimonio e fondare una famiglia, mentre subito dopo la CRPD, ratificata dal Regno Unito ma non integrata nella sua legislazione, viene liquidata come non pertinente e comunque non giuridicamente applicabile al caso.
La ricostruzione della vicenda compiuta dalla sentenza porta a escludere che DD sia stata “abbandonata a se stessa”. Sono citate le testimonianze di decine di operatori sociali e sanitari che negli anni si sono occupati della coppia, riferite anche a episodi specifici, e si conclude che “DD e BC sono stati e sono fieramente resistenti al supporto medico e professionale”, con “livelli di cooperazione molto limitati da entrambi” e anzi “opposizione e rifiuto dell’aiuto”. In alcune interazioni con gli operatori, DD (che, come BC, non partecipa al processo) afferma di ritenersi “normale” e di voler essere trattata come tale, e rivendica “il mio corpo è mio” in base a una questione di “diritti umani”, respingendo quindi il coinvolgimento di professionisti socio-sanitari nella propria esistenza. DD, riportano le note mediche, ha ricevuto sia da adolescente che da adulta informazioni sulla contraccezione, e ne ha utilizzato diverse forme nel corso degli anni, ma in maniera non continuativa, e dunque inefficace, senza fornire spiegazioni ritenute ragionevoli.
Un elemento che viene citato quasi di passaggio, in quanto non pertinente al caso (il cui oggetto è come detto la tutela della salute di DD), assume nondimeno un rilievo particolare nel considerare la vicenda nel suo complesso. “Due bambini sono nati a casa sua, descritta come non igienica e invasa da animali domestici; un parto era stato apparentemente compiuto con mezzi pericolosamente poco ortodossi (c’erano prove, anche se lo si è negato, che BC avesse usato pinze per barbecue come forcipe); la possibilità limitata di DD e BC di prendersi cura di questi due neonati a casa (prima che intervenissero le autorità) è stata osservata essere notevolmente dannosa per i neonati”. Dopo Ladybird Ladybird di Ken Loach, è legittimo dubitare dei presupposti politici e quindi della correttezza della ricostruzione da parte del sistema di assistenza sociale britannico, ma il rifiuto di DD di comparire in giudizio (sulla base del rifiuto di interferenze sopra citato) non consente di valutare un eventuale contraddittorio.
Premettendo che “l’EDF non può giudicare, perché non siamo a conoscenza di tutti gli elementi e della storia del caso”, An-Sofie Leenknecht commenta la sentenza affermando che “gli standard di diritti umani e la CRPD non sono stati rispettati, dal momento che alla donna è stata negata la capacità giuridica, e pertanto la capacità di decidere lei stessa, con il necessario supporto, in merito alla sterilizzazione. Questo è uno dei diritti fondamentali in base alla CRPD (articolo 12 sul processo decisionale supportato) che non è stato rispettato dal sistema giudiziario britannico”. L’approccio centrato sui diritti umani presuppone la considerazione della donna con disabilità come soggetto vulnerabile, la cui capacità di decisione autonoma va supportata e al contempo protetta da interferenze e prevaricazioni esterne. E tuttavia, è difficile non osservare che i figli nati dalle gravidanze di DD, portate oltre il termine per l’aborto volontario, si pongono come ulteriore soggetto vulnerabile meritevole di tutela, rispetto a cui il diritto alla decisione autonoma della madre trova una possibile limitazione. Se il rapporto EDF ricorda che “per le donne con disabilità psicologiche dovrebbe essere menzionato il pregiudizio che potrebbero nuocere ai loro figli. La giustificazione ‘pericolosità’ viene utilizzata per limitare i loro diritti in molte aree della vita.
Questo nonostante le prove evidenti che sono più spesso le vittime, piuttosto che gli autori, della violenza”, non si può cadere nel pregiudizio opposto, ovvero ritenere che le condizioni di pericolo per i figli non possano mai sussistere. La scelta dell’affidamento dei neonati ad altri non viene né discussa dalla sentenza né, a quanto risulta da un giudizio precedente sulla stessa vicenda, contestata dai genitori; la Corte, peraltro, si propone di evitare che DD stessa si ponga in pericolo di vita, sulla base della scelta di affrontare un’ulteriore gravidanza – e rimane assai dubbio che l’opzione per una contraccezione non permanente e per l’eventuale aborto terapeutico in caso di gravidanza, implicando una sorveglianza stretta (e, come si è visto, rifiutata ed elusa dall’interessata) da parte dei professionisti socio-sanitari tenuti alla tutela di DD, sarebbe risultata meno invasiva e “paternalistica”. È la sentenza stessa a sostenere che “è molto più probabile che in questo contesto la sterilizzazione, in realtà, la liberi da ulteriori intrusioni nella sua ‘vita privata’ da parte di professionisti, mentre l’inserimento di una spirale (portando con sé un maggiore bi- sogno di monitoraggio e sostituzione/rimozione a tempo debito) non lo farebbe”: e il “contesto” in cui matura questo giudizio, in sé decisamente paradossale, è stato creato, con l’eccezionalità della sua storia ostetrica, proprio da un supporto più rispettoso dell’autonomia decisionale di DD e BC e della loro vita sessuale.
Queste considerazioni portano a ipotizzare che il tema della sterilizzazione forzata pertenga al campo “accidentato” della bioetica, sociale e basato sulla definizione di confini, non meno che a quello “lineare” del diritto umano, individuale e inalienabile. Come se ciò non bastasse, la questione mette in discussione proprio quel ruolo di rappresentanza nei con- fronti della società che generalmente viene accordato in modo incondizionato ai genitori delle persone con disabilità (come implicito, ad esempio, nella formulazione linguistica “dopo di noi”), e anzi traccia nette linee di frattura tra la loro valutazione dell’interesse dei figli e la stessa integrità psico-fisica di questi ultimi. Per fare un esempio in più: la stessa Corte di protezione britannica, nel febbraio 2013, ha respinto la sterilizzazione di una studentessa 21enne con sindrome Down richiesta dai suoi genitori, in una famiglia che la sentenza pur non manca di definire “amorevole, vicina, dedita e di supporto”. Le raccomandazioni finali del rapporto EDF sostengono, al contrario, che “ogni richiesta di sterilizzazione deve essere considerata una procedura che è attuata ‘sulla persona con disabilità’ e non ‘per la persona con disabilità’”. È quindi auspicabile che di sterilizzazione forzata, e più in generale di sessualità delle donne con disabilità, si discuta più spesso di quanto avviene oggi – senza paura di affrontare anche nodi che potrebbero risultare assai problematici e dolorosi.

12. Un “viaggio gentile” di successi in affari

di Massimiliano Rubbi

Se avete in mente di cercare lavoro per trasferirvi in Australia e dintorni, una visita al sito web di Successful Resumes, www.successfulresume.com.au, potrebbe esservi di aiuto per avere un curriculum vitae più efficace e un primo contatto con le aziende del luogo. Dal sito non potreste però desumere la storia di John Little, l’imprenditore con disabilità che ha fondato questo servizio nel 1991 e lo ha gestito fino al 2016, una storia di grande interesse nella sua apparente “normalità”.
Nel 1989 John Little aveva già alle spalle una lunga carriera, di fotografo prima e poi di pubblicitario, e decise di vendere al suo socio in affari l’agenzia pubblicitaria che nel 1982 aveva avviato da zero, per trasferirsi con la famiglia da Sydney nel Queensland, a mille chilometri di distanza, e godersi la pensione. Le entrate però non bastavano: “per caso sono stato introdotto alla scrittura di curricula per persone che volevano un lavoro. Ho deciso che quello che si faceva al tempo non andava molto bene, e ciò che dovevo davvero fare era utilizzare le mie competenze in pubblicità e marketing per migliorare la presentazione, lo stile e l’efficacia dei curricula. Così ho portato un aspetto nuovo a vedersi nella scrittura dei curricula, e non con mia sorpresa, ma certamente con mia gioia, le persone venivano e volevano sapere quel che facevo, e volevano curricula come quelli che facevo io. E così, all’improvviso, ho scoperto di essere molto impegnato”.
A 16 anni di età Little aveva ricevuto una diagnosi di distrofia muscolare, e quando nel 1991 iniziò l’attività di scrittura di curricula sentiva di essere prossimo all’essere costretto su una carrozzina: “avevo vissuto la maggior parte della mia vita con l’idea che la mia disabilità mi avrebbe portato un giorno a quel punto, ma ho anche pensato ‘se non ce la faccio, se non posso scrivere curricula da casa, in carrozzina, possono farlo anche altri’, così ho guardato come avrei potuto formare le persone a fare quel che facevo io”. Vivere in una piccola città che era soprattutto un luogo di vacanze non lo aiutava nel cercare partner e clienti, e quindi decise di tornare a Sydney, una metropoli di 4 milioni e mezzo di abitanti, per una singolare ricerca di mercato: “a Sydney c’erano già molti scrittori di curricula, e ho telefonato a tutti, come se fossi un cliente, per sapere che cosa offrivano, come si presentavano e quali sarebbero stati i costi, e con mio piacere non erano molto bravi, e ho pensato ‘bene, posso fare meglio di voi’”. Trasferitosi di nuovo a Sydney con la moglie, avviò la sua impresa, e per farla crescere dopo un buon successo iniziale si unì a due amici con competenze imprenditoriali per costituire il franchising “Successful Resumes Australia”, da vendere come “pacchetto” ad altri licenziatari. “Come è poi saltato fuori, senza puntare in modo particolare in quella direzione, non pochi dei miei licenziatari in franchising avevano questo o quel tipo di disabilità – e perché non avrebbero dovuto, dal momento che il 20% circa della popolazione ha una disabilità”. Oggi l’impresa ha 35 sedi in franchising – la maggior parte in Australia, ma anche 6 in Nuova Zelanda e una a Singapore e Hong Kong, mentre quelle aperte in Gran Bretagna e Stati Uniti sono state chiuse per le difficoltà incontrate e perché “avevamo un sacco di lavoro da fare anche solo con quelle nella nostra parte del mondo”.
Nel 2016, a 71 anni di età e con una disabilità che continua ad aggravarsi, Little ha ceduto la gestione di “Successful Resumes” alla moglie e alla figlia; preferisce però parlare di “rallentamento” piuttosto che di “pensionamento”, anche perché non ha abbandonato la sua seconda attività. Dodici anni fa fondò infatti, con un socio in affari, un’impresa di noleggio carrozzine e scooter per persone disabili, soprattutto turisti con disabilità che sbarcano a Sydney da una crociera. “E tutto è partito semplicemente da una cosa: avevo una carrozzina che avevo aggiornato con una nuova, cercai di vendere quella che mi era avanzata e nessuno voleva comprarla, così pensai: ‘beh, cosa posso fare, penso di poterla probabilmente dare a noleggio’; misi su un piccolo sito web, e le persone iniziarono a telefonare da tutto il mondo, con l’intento di noleggiare carrozzine, e io ne avevo solo una! Così mi sono procurato un socio in affari, che guida il taxi, abbiamo acquistato alcune carrozzine manuali ed elettriche e alcuni scooter, e d’improvviso eravamo in affari”. Oggi “Wheelchairs To Go” (www.wheelchairstogo.com.au) lavora molto, soprattutto nei sei mesi estivi in cui più frequenti sono le crociere, accompagnando clienti da tutto il mondo dall’aeroporto alla nave da crociera e ritorno, o in giro per la città e i suoi dintorni con un “maxi-taxi” dotato di una rampa idraulica sul retro. “Mentre parlo, sto guardando tra due edifici locali giù al porto, e c’è una nave che fa manovra in uscita dal terminal, pronta per andare in crociera – probabilmente ci sono tante nostre carrozzine sopra”.

Consigli di amministrazione
La vicenda di un capitano d’impresa di successo con una malattia degenerativa potrebbe facilmente prestarsi a una narrazione “epica”, incentrata sulla doppia sfida con i rivali in affari e la malattia, e magari su un momento di difficoltà in cui si è a un passo dall’abbandonare tutto, per poi rialzarsi e tornare a vincere… E invece: “Sì, abbiamo avuto singoli clienti che sono stati difficili, ma immagino che è questo che accada nelle imprese centrate sul cliente. Non ho mai pensato di abbandonare”. Ripensando alla vacanza a Singapore durante la quale ha deciso di cedere ai familiari “Successful Resumes”, Little si limita a notare che “avevo già affrontato nel corso degli anni le mie difficili circostanze legate alla disabilità, non perché gli affari non stessero procedendo in modo ‘liscio’, bensì perché io non stavo procedendo in modo ‘liscio’ – il mio corpo stava iniziando a diventare goffo e a non fare ciò che avrebbe dovuto”. Il rapporto con la disabilità è stato vissuto negli anni in modo consapevole e non drammatico, facendo appello alle “abilità residue” in maniera tutt’altro che nominale: “Non è una storia triste, è solo che va così. Non sono come una persona che è stata in forma e attiva, che improvvisamente diventa paraplegica o quadriplegica per un evento catastrofico, così è davvero dura per loro. Ho avuto un gentile viaggio attraverso tutta la mia vita, sapendo che un giorno sarei stato in carrozzina, per cui per me non è stata una sorpresa, e ogni volta che c’era un deterioramento nella mia condizione ho sviluppato un modo di eluderlo, e l’ho chiamato la mia ‘nuo- va normalità’, e ho avuto ‘nuove normalità’ per tutta la vita, moltissime volte. Lo spirito e il cervello umano sono una buona cosa, si allenano a fare le cose con una nuova normalità”.
Accanto a questa grande duttilità, e non sarebbe inopportuno sostenere proprio grazie ad essa, Little mostra un notevole “fiuto per gli affari”. La sua capacità di trasformare una carrozzina in disuso in un noleggio di carrozzine viene descritta una volta di più con un certo understatement: “È stata solo una grande opportunità, buona sorte, chiamatela come volete, imprenditorialità – non ne ho idea, ma stiamo andando avanti da 12 anni”. Nel notare che molte delle migliori carrozzine sul mercato sono disegnate e prodotte da imprese condotte da persone con disabilità, l’imprenditore rileva come questa conoscenza diretta della condizione abbia anche per lui riflessi personali e commerciali: “Quando parlo con i clienti del noleggio di carrozzine, si sentono più fiduciosi a parlare con me perché li informo del fatto che sono in carrozzina, e possono farmi domande sull’accessibilità, sui problemi che potrebbero affrontare su una nave, o in una città in cui non sono mai stati prima. Posso dare loro, e mi offro di impiegare tempo in questo, consigli e informazioni che toglieranno l’inevitabile ansietà che le persone che viaggiano per la prima volta, o che non hanno grande esperienza, affrontano” quando hanno una disabilità motoria, sensoriale o intellettiva. “Si sentono molto meglio a parlare con qualcuno che ha una disabilità, possono credergli – e a me fa molto piacere”.
Senza sentirsi un esempio particolare, Little si è sempre reso disponibile a dare consigli ad altre persone, con disabilità o meno, che vogliano mettere in piedi la propria attività: “Certamente sono felice di fare da mentore alle persone: non lo faccio di professione, non metto una tariffa per farlo, ma negli anni ho dato consigli e parlato con persone che volevano entrare in affari”. Per un certo periodo, questa attività ha assunto anche una forma più strutturata: tra il 2009 e il 2010 John fondò insieme a Rob Crawford, un altro imprenditore con disabilità incontrato in rete che vive e lavora in Arizona, il “GNED – Global Network for Entrepreneurs with Disabilities” , una rete composta da persone con disabilità titolari di azienda con nodi anche tra Canada, Regno Unito e Pakistan, per fornire consigli a imprenditori con disabilità consolidati e potenziali e stabilire relazioni di affari. Questa rete oggi appare però in stand-by, come afferma Little: “Non ci ho più molto a che fare, ma per alcuni anni è stato un sito web molto efficace, e abbiamo incoraggiato le persone più che potevamo a diventare imprenditori, a seguire le proprie idee”. Anche Rob Crawford ha di fatto abbandonato l’attività nel GNED nel momento in cui da rete informale stava evolvendosi in un’organizzazione basata su iscrizioni a pagamento (un’evoluzione che non si è poi completata), e ha preferito dedicarsi, accanto alla sua attività professionale nel settore educativo con il Life Development Institute all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità attraverso il miglioramento della loro impiegabilità individuale e la costruzione di relazioni con potenziali datori di lavoro. Anche la moglie di John Little, Suzanne Colbert, è da anni attiva in questo ambito: nel 2000, per migliorare l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità (il 45% delle quali in Australia vive ancora in stato di povertà), ha fondato con il marito l’AND – Australian Network on Disability (www.and.org.au), contattando e coinvolgendo grandi datori di lavoro per fornire loro strumenti finalizzati all’inserimento di lavoratori e al servizio a clienti con disabilità. Per le attività di questa organizzazione, di cui è tuttora amministratrice delegata, Colbert ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti di carattere nazionale in Australia. Little ricorda: “ero nel consiglio di amministrazione, all’inizio, e aiuto ancora a farla funzionare. Lei diceva: ‘c’è una persona e mezza che lavora in questa attività, e tu sei la mezza’, indicando me. Facevo lavoro amministrativo, la gestivamo da casa nostra, il nostro tavolo di cucina era la nostra scrivania, e ora è una organizzazione molto grande, non gigante, ma di grande successo”. Un esempio di inserimento lavorativo promosso da AND e citato da Little è quello di “un ragazzo con un QI di 80 che un giorno lavorava in un laboratorio protetto, e guadagnava 5 dollari al giorno svolgendo noiosi compiti manuali, impacchettando cose, e il giorno dopo iniziò a lavorare con una compagnia di elettronica, che era un’impresa molto hi-tech, e ci è rimasto per 15 anni come uno dei lavoratori-chiave, svolgendo i lavori più complessi su apparecchiature altamente tecniche. Non doveva quindi essere in un laboratorio protetto, poteva fare un lavoro veramente significativo, ed essere pagato in modo appropriato”.
Come si è detto, la condizione di deterioramento progressivo delle capacità funzionali ha consentito a John Little di adattarsi alle diverse fasi della propria vita, a differenza di un evento traumatico. D’altro canto, quando Little afferma che “la disabilità mi è stata intorno per tutto il tempo”, mette sul piatto, così senza parere, quella che per tanti altri è una ragione di scoramento di vita irreversibile. Il successo negli affari non è, né può strutturalmente essere, appannaggio di tutti; il pensiero di “andare avanti e ingrandirsi” che Little ha messo costantemente nella propria attività di imprenditore, il “provarci”, senza vantarsi di doti eroiche ma sapendo che “così va il mondo”, è invece uno spirito il cui valore si estende ben oltre l’ambito dell’attività di impresa.

Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune. Sul vantaggio di potersi misurare, del non dipendere da altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella propria opera. Sul piacere del veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a guardarla da vecchio, e ti sembra bella, e non importa poi tanto se sembra bella solo a te, e puoi dire a te stesso “forse un altro non ci sarebbe riuscito”.
(Primo Levi, La chiave a stella)

11. Porta i tessuti maya su Instagram (e a Londra)

di Massimiliano Rubbi

Non è certo facile entrare a soli 20 anni nella lista delle 100 donne più influenti del mondo compilata ogni anno dalla BBC. Ma nel 2016 Isabella Springmuhl Tejada, una disegnatrice di moda guatemalteca con sindrome di Down, ci è riuscita. E tutto è cominciato con un “no” ricevuto all’Università…
Da sempre Isabella ha avuto una passione per gli abiti, e quando nel 2013 si è diplomata ha chiesto di iscriversi alla Universidad del Istmo per studiare disegno di moda, ma ha ricevuto un diniego a causa della sua condizione. Come lei stessa ci rac- conta, “quando mi hanno respinto all’Università, ho capito che disegnare era quello che volevo di più”. Isabella si è messa in azione e ha iniziato a prendere lezioni di disegno di moda, cucito e maglia in maniera indipendente. Nel frattempo, però, Isabella stava constatando la carenza di vestiti adatti alle persone con sindrome di Down: “è difficile per noi trovare abiti che ci stiano bene, perché abbiamo tipi di corpo diversi, tendiamo ad avere un torso corto, braccia e gambe corte, oppure siamo troppo magri…”.
La madre di Isabella ha sostenuto completamente la sua idea di disegnare abiti pensati per persone Down, che si inserisce in una tradizione familiare: “mia nonna era una famosa stilista in Guatemala 32 anni fa, perciò ho deciso di denominare il mio marchio ‘Down to Xjabelle’ – ‘Down’ perché ho la sindrome di Down e ‘Xjabelle’ perché era il nome dell’atelier di mia nonna”. Isabella ha creato le sue prime e più caratteristiche borse, le “Mashtates”, che sono andate vendute con incredibile rapidità; forte di questo incitamento, “con l’aiuto di mia madre ho assunto una sarta e ho iniziato a disegnare e realizzare vestiti… sono stati un successo, ho iniziato a fare soldi con le vendite e mia madre ha trasformato il suo studio d’arte in un atelier di moda”, atelier in cui da allora sono state create tre collezioni.
La svolta per “Down to Xjabelle” arriva quando nel febbraio 2016, insieme ad altri stilisti dal Guatemala, Isabella viene chiamata a partecipare alla sezione internazionale della “London Fashion Week”: “ero la prima stilista emergente con bisogni speciali invitata. Da allora, mi capitano solo cose buone, interviste e inviti da tutto il mondo… tutto!”. Nell’ottobre 2016, Isabella è a Roma per il progetto “Sogni – Del tamaño de tu sueños así serán tus logros” (“della dimensione dei tuoi sogni saranno i tuoi successi”) del Gruppo Artistico “Guatemala es Guatemala”. Un mese dopo, come detto, la BBC la cita tra le 100 donne più influenti del mondo, accanto a celebrità come Alicia Keys e alla donna politica francese Rachida Dati: “mi sono sentita così fiera di me stessa, ho lavorato duro, e sono così felice per me e per tutte le persone con sindrome di Down. Ora, le persone possono vedere che siamo capaci di raggiungere tanti obiettivi”.
“Down to Xjabelle”, con le sue collezioni pensate per tutti (non solo per le persone con sindrome di Down) e affidate alla produzione di 4 sarte, mescola consapevolmente tradizione e modernità. Da un lato, gli abiti e gli accessori realizzati dai disegni di Isabella si ispirano a colori e materiali della ricca cultura tessile tradizionale Maya in Guatemala: “continuo a disegnare quello che mi piace, usando tessuti guatemaltechi. Sono colorati e pieni di motivi, tutto è tessuto a mano e ogni pezzo è unico nei suoi modelli e nella storia che racconta. Mi ispiro agli huipiles (tuniche tradizionali delle donne centroamericane) di diversi gruppi di donne nell’altopiano del Guatemala”. Da quanto detto emerge inoltre la bella e forte relazione familiare di Isabella con la nonna Blanqui e la madre Isabel Tejada, che nel 1998, dopo la nascita di Isabella, ha creato insieme ad altre donne la Fondazione Margarita Tejada per l’inclusione lavorativa di persone con sindrome di Down, specie se in situazione di povertà.
Allo stesso tempo, “Down to Xjabelle” fa un uso avanzato delle nuove tecnologie, promuovendo e vendendo online le sue collezioni sul suo sito e sviluppando una comunità tramite i suoi account nei social media – Down to Xjabelle su Facebook e in particolare @downtoxjabelle su Instagram, dove oltre 7.000 followers commentano con entusiasmo le immagini di abiti e accessori, unici per i colori luminosi e i modelli vivaci prima che per le caratteristiche di chi li ha ideati.
Nel marzo 2017 Isabella ha partecipato alla sfilata di moda inclusiva “Runway Together, Everybody Fits In” dell’Università di Anahuac in Messico, con la sua collezione “Cornucopia”, e sempre in Messico, all’interno della settimana Intermoda di Guadalajara, è stata in luglio invitata a presentare la sua ultima collezione. “Down to Xjabelle” sta ricevendo attenzione, ordini e inviti per eventi a livello internazionale, realizzando uno dei sogni di Isabella: “Voglio aprire una boutique ed esportare i miei vestiti in tutto il mondo! Mi piacerebbe partecipare a progetti di moda. Adoro viaggiare”. E ci confessa un legame particolare con l’Italia, non solo come capitale della moda: “Mi piace soprattutto disegnare, ma ho molti interessi e hobbies. Uno di essi è cantare. Sono un mezzosoprano lirico, ho già fatto due recital, e mi piace moltissimo l’opera. Adoro Andrea Bocelli, Placido Domingo e Pavarotti. Quando ero bambina i miei genitori mi portarono a un concerto dei Tre Tenori… li adoro, come adoro Il Volo e Il Divo”.
Il successo ha cambiato Isabella? “Non penso di essere cambiata, continuo a fare quello che facevo e a disegnare. Ora ricevo aiuto nel cucire i vestiti, ma mi sento molto felice e fiera di me stessa”. Al contempo, Isabella sa di costituire un esempio per altre persone con sindrome di Down o altre difficoltà, che spesso vengono respinte anche dall’università della vita – e tuttavia l’Universidad del Istmo, la stessa che l’aveva rifiutata, di recente ha invitato Isabella a un forum sull’inclusione e ha espresso l’impegno a iniziare ad accettare studenti con bisogni speciali, dando così un riconoscimento alla forza delle parole di Isabella: “Voglio ispirare persone come me, voglio dire loro di seguire i loro sogni, di non accettare un no, di continuare a lottare per ciò che vogliono fare!”.

10. Unire le forze per essere liberi

di Massimiliano Rubbi

Valter Mahnic, nato nel 1982 a Trieste e da alcuni anni paraplegico in seguito a un’ischemia midollare, ha trasformato la necessità di utilizzare in maniera più libera e sicura i bagni pubblici, per garantirsi un’effettiva libertà di movimento nella vita quotidiana, in un ausilio brevettato, FLY, che tiene aperti pantaloni e abbigliamento, consentendo di avere le mani libere e quindi autonomia nella funzione anche con capacità degli arti superiori ridotte. FLY è prodotto dall’impresa TIK.AM., che Mahnic stesso ha fondato nel 2013, e che ha vinto il Premio Solidarietà 2015 della Regione Friuli-Venezia Giulia per la capacità di “migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità, inventando e progettando prodotti semplici ed innovativi”.
Per passare da un’esigenza, legata alla condizione di disabilità acquisita, alla produzione diretta e professionale della sua idea per soddisfarla, Mahnic ha avuto bisogno della propria determinazione e competenza, ma anche di tornare a studiare e di mettersi in relazione con altri.

Da quali esperienze e idee è nata la scelta di costituire un’impresa come TIK.AM? TIK.AM. Srl è una start up innovativa, che nasce dalla volontà dei due soci fondatori, io e Salvatore Oggiano, e si costituisce per poter offrire a chi ne ha bisogno soluzioni tecniche d’avanguardia per l’autonomia e il benessere in presenza di condizioni fisico-motorie difficili o delicate. L’idea che accomuna la fondazione è FLY, un di- spositivo precedentemente brevettato da me, che facilita e velocizza il cateterismo intermittente maschile. La mission di TIK.AM. è indirizzata a fornire soluzioni innovative, semplici e sicure per agevolare la vita delle persone colpite da disabilità motorie.

Quali difficoltà avete affrontato e superato per creare TIK.AM, in termini di capitale di avvio, registrazione brevetti…?
Le prime difficoltà sono state di formazione, in quanto non ero in possesso di studi superiori né tecnici. Ho sentito quindi la necessità di integrare tale formazione seguendo alcuni corsi in “Area Science Park”, un centro di sviluppo di tecnologie innovative e formazione a Trieste. Proprio in quella occasione ho incontrato il mio attuale socio, che era lì in veste di docente. Dopo aver valutato le potenzialità del progetto, lo scoglio immediatamente successivo è stato naturalmente reperire il capitale necessario, e nonostante la presenza di vari bandi, per velocizzare, abbiamo investito di tasca nostra.

In quale momento ha percepito di essere a un “punto di svolta” nello sviluppo dell’impresa, ovvero che TIK.AM poteva effettivamente reggersi come azienda sul mercato?
Il punto di svolta nello sviluppo dell’impresa è un pensiero ardito, soprattutto per una start up innovativa. Semplificherei così: siamo riusciti a industrializzare il prodotto a renderlo performante, abbiamo iscritto l’azienda al MePA, mercato elettronico di fornitura per le pubbliche amministrazioni, tutto questo non come “punto di svolta” ma come “buon inizio”.

Nella produzione di ausili per disabili, quale valore aggiunto viene portato dal loro essere ideati da, e non solo per, persone con disabilità?
Il valore aggiunto di lavorare per le persone disabili conoscendo la disabilità da dentro ritengo si manifesti in due aspetti importanti. Il primo è quello di poter riconoscere e dedicare attenzione anche a tutte le caratteristiche secondarie di ogni ausilio, e fare in modo che anch’esse siano in linea con tutte quelle necessità non facilmente comprensibili della vita delle persone disabili. Tali necessità, scontate per la persona disabile, sono proprio per questo raramente espresse e dunque difficilmente percepite dai produttori standard. Il secondo è che “parlando la stessa lingua” di chi utilizza i nostri ausili siamo in grado di comprendere meglio le loro necessità e offrire un servizio migliore, oltre che avere una più immediata e completa comprensione dei feedback che l’utilizzatore ci dà. Ciò ci permette di migliorare costantemente prodotti e servizi.

In che modo il successo di TIK.AM ha cambiato il modo in cui percepisce se stesso e la sua condizione personale?
TIK.AM. nasce da pure energie positive; oggi sono imprenditore e intraprendo grazie alle mie idee, ma il resto della mia vita prosegue come prima di fondare questa impresa.

Pensa che il suo esempio possa essere di ispirazione per le scelte lavorative e personali di altre persone con disabilità, e se sì perché?
Penso che qualsiasi esperienza come quella di TIK.AM. possa essere un grande esempio, e l’ho comunicato in vari articoli e interviste precedenti, in quanto TIK.AM non nasce per dimostrare qualcosa, ma trasmette al contempo l’idea che dandosi da fare e lavorando con buone intenzioni che non siano incentrate solo sul profitto le possibilità di realizzarsi ci sono sempre. Questo che si sia disabili o meno – anche se, naturalmente, con le energie più limitate caratteristiche della disabilità si fa un po’ più di fatica.
Inoltre, per sua natura TIK.AM. rappresenta, tramite i suoi due soci fondatori, l’integrazione ideale tra una persona normodotata e una disabile, che uniscono le energie per realizzare insieme qualcosa di bello e positivo, e si trova quindi ad anni luce di distanza da quelle visioni che integrano a forza “perché è giusto”, “perché si deve”, e con ciò trasmettono comunque ancora una visione della disabilità come peso sociale da gestire.

Quali sono i progetti di sviluppo per TIK.AM nel prossimo futuro?
In TIK.AM. abbiamo come obiettivi attuali e futuri innanzitutto mantenere costante la qualità e l’innovatività che ci contraddistinguono, sia nell’affinamento degli ausili attuali – in vendita sul sito– che nello sviluppo dei prodotti innovativi ai quali stiamo lavorando. Oltre a ciò, l’ulteriore consolidamento del mercato nazionale e, quando saremo pronti, l’apertura verso l’estero.

7. Il sale e il lievito

di Massimiliano Rubbi

La genuinità dei prodotti alimentari che riflette quella di lavoratrici e lavoratori che li preparano, in un gruppo composto per la maggior parte da persone con disabilità cognitiva inserite a pieno titolo nelle attività e nella responsabilità per l’andamento dell’impresa. Da questa impostazione della cooperativa sociale Via Libera, in cui la proporzione minima del 30% di lavoratori svantaggiati risulta ribaltata in un 30% circa di lavoratori non svantaggiati, e dell’associazione L’Impronta ONLUS che alla cooperativa sociale ha dato vita, sono nati a Milano prima il ristorante Gustop nel 2012, e poi il panificio Gustolab nel 2014.
Abbiamo intervistato Silvia, 22 anni, e Giovanni, 24 anni, due giovani membri con disabilità della “squadra”.

Da quanto tempo lavorate presso Gustolab/Gustop? Avete avuto altre esperienze lavorative in precedenza?
GIOVANNI: Io sono assunto da due anni, e lavoro a Gustolab la mattina dalle 9.30-10.00 alle 11.00, e a Gustop dal martedì al giovedì dalle 12.30 alle 15.00. Prima ho avuto un’esperienza di un anno nel panificio di un’altra cooperativa, in cui facevo un po’ di tutto, ma non mi hanno rinnovato il contratto, e mi hanno proposto di andare a lavorare a Gustop per fare più esperienza nel settore; qui sono molto più contento. A Gustop mi occupo di stare in sala e portare i “rifornimenti”, quello che manca nel locale, stando a contatto con i clienti, oppure sto “dietro” a dare una mano, svuotare i carrelli o pulire la cucina. A Gustolab do una mano ai panificatori, soprattutto per smaltire gli ordini grossi – ad esempio, se c’è da preparare un impasto di 30 chili per il giorno dopo, lo prepariamo subito in due e lo mettiamo per il giorno dopo in “ferma-lievita”, una macchina che consente di accelerare o rallentare la lievitazione, e che ci permette di non iniziare troppo presto il turno di lavoro la mattina.
SILVIA: Io lavoro a Gustolab da più o meno tre anni. Mi hanno inserito tramite l’Afol, il centro per l’impiego, con l’aiuto di un tutor, prima con un tirocinio in laboratorio a panificare; e poi, quando due anni fa si è deciso di aprire il negozio al pomeriggio, mi sono spostata direttamente alla vendita, dove mi occupo da sola direttamente anche delle pulizie e della chiusura dalle 16.00 alle 19.00. Il sabato facciamo tutta la giornata a turni alternati, e se c’è bisogno, per sostituzione di altri che sono assenti, per necessità in spazi aziendali temporanei o per “sovrapproduzioni” che richiedono ore in più, ci sono sempre. Non ho avuto nessuna esperienza lavorativa prima di Gustolab, sono stata a casa due anni cercando lavoro e mandando i curricula ma non trovavo niente.

Come vi trovate al lavoro, sia per le mansioni che svolgete sia per il rapporto che avete con i colleghi?
SILVIA: Mi trovo bene in tutti i sensi, i miei colleghi mi mettono a mio agio, se c’è bisogno ci aiutiamo a vicenda. Il lavoro mi piace anche perché è una responsabilità nei miei confronti, alla fine ho in mano il negozio tutto il pomeriggio, e sono orgoglio- sa che abbiano deciso di assegnarmi questo compito.
GIOVANNI: Anch’io mi trovo molto bene, con i miei colleghi scherziamo sempre, ma se c’è qualche problema ci aiutiamo tra di noi per risolverlo subito. Sono sempre stato gentile e accogliente con le persone, per farle sentire come a casa quando vengono al ristorante.

In che misura vi sentite responsabili e protagonisti nell’azienda in cui lavorate?
GIOVANNI: Ti faccio un esempio relativo a un prodotto che facciamo in panificio, il “focaccione” con sale grosso e rosmarino: quando sono entrato non c’era, ho chiesto di fare una prova e l’ho fatto assaggiare, è piaciuto anche ai clienti e ora lo produciamo tutte le mattine. In questa cosa mi sono sentito molto protagonista, perché ho portato un nuovo tipo di ricetta che prima non avevamo.
SILVIA: Condividiamo tutti insieme in équipe, in incontri mensili operativi (separati dalle assemblee generali della cooperativa), le difficoltà e le esigenze.

Questo vostro lavoro ha cambiato il modo in cui vedete voi stessi e gli altri?
GIOVANNI: No, questo ambito mi è sempre piaciuto e ho fatto una scuola per farlo da grande, per impegnarmi fino in fondo e regalare delle soddisfazioni ai clienti. Il lavorare qui mi consente di vedere molte più persone soddisfatte del nostro prodotto. Sono sempre stata una persona molto aperta e attenta a risolvere i problemi, e qui ho la possibilità di farlo.
SILVIA: A me ha cambiato la vita, perché adesso ho la mia libertà, posso uscire o comprare qualcosa con i miei soldi senza chiedere ai miei genitori. Se prima ero un po’ più timida, stando a contatto con il pubblico sono stata spronata ad aprirmi anche fuori dal lavoro.

Avete degli aneddoti significativi sulla vostra esperienza di lavoro?
SILVIA: La cosa più simpatica che succede è quando i clienti ordinano qualcosa al telefono e poi non passano, o si dimenticano, e alla sera non sai se aspettarli o meno. Abbiamo molti clienti anziani, che fanno ordini piccoli ma poi si “perdono”. In genere abbiamo una clientela che viene tutti i giorni, il lunedì c’è un po’ più affluenza perché c’è il mercato di fronte, ma gli altri giorni i clienti sono quelli “affezionati”.
GIOVANNI: A volte è capitato che venissero a fare un servizio televisivo presso il panificio, e io mi sorprendevo che un panificio così piccolo fosse stato scelto dalla TV per mostrare i suoi prodotti e la lavorazione in cui mettiamo tanta passione.

Quanto pensate che conti l’aspetto sociale di Gustolab e Gustop nella scelta dei clienti di venire da voi rispetto alla qualità della vostra proposta?
GIOVANNI: A Gustop si mangia bene e con ottimi prezzi – con un menu da 10 Euro e 50 prendi un primo, un secondo, un contorno, la frutta o il dolce, l’acqua e il pane.
Sia al ristorante che al panificio andiamo molto incontro al cliente, che è quello su cui si sostengono entrambi e che spesso si affeziona a noi e ritorna. Giusto oggi al ristorante abbiamo avuto molti più clienti, perché oltre a quelli abituali è arrivata la squadra Giovanissimi del Milan, che ha organizzato per venire a mangiare anche nei prossimi giorni, e per me è una soddisfazione enorme.
SILVIA: Il pane è buono, biologico e delle diverse varietà che possono piacere ai clienti, e c’è un passaparola tra di loro. I clienti vengono però anche perché li accogliamo sempre con l’umore giusto, e chi lavora riceve una formazione anche su questa accoglienza, pur se sempre di tipo commerciale. Questo abbinare il prodotto al servizio, più che il nostro essere “sociale” che non sbandieriamo, riteniamo sia la nostra prerogativa.

Che consigli dareste a un nuovo collega appena assunto?
SILVIA: Di stare tranquillo, che lo faremo sentire a suo agio e che per qualsiasi problema o difficoltà può contare su di noi.
GIOVANNI: Come Silvia, se avrà difficoltà verrò subito a dare una mano.

Che progetti avete per il futuro? Gustolab e Gustop sono per voi un punto di arrivo o di partenza?
GIOVANNI: Per me è tutto un progetto nel futuro. Qui mi trovo bene, ci sono dei colleghi fantastici e se mi rinnovano il contratto a tempo determinato a ottobre non me la sento di andarmene. Però, un mio sogno è di aprire un bel panificio con bar e pasticceria, e in futuro voglio mettere l’esperienza che ho accumulato in comune con altri.
SILVIA: Io invece ho un contratto fisso da circa un anno, e credo di proseguire questo lavoro perché mi piace e mi trovo a mio agio.

A conclusione dell’intervista, Andrea Miotti, presidente di L’Impronta ONLUS, ricorda che per garantire il lavoro nel tempo è fondamentale che le attività funzionino da un punto di vista commerciale, e che quindi un “mantra” condiviso dal gruppo è quello dell’impegno nel lavoro, per “starci dentro” e aprire nuove opportunità ad altri.
Questo approccio sembra riuscire a battere la crisi: oltre a progetti di espansione interni alle attività esistenti, come il potenziamento del catering per Gustop e delle attività di pasticceria per Gustolab, per completare la filiera a monte si sta definendo una nuova attività di orticoltura biologica e sociale, tramite una cooperativa agricola sociale, Agrivis, fondata nel 2016 dallo stesso gruppo di lavoro e che coltiverà terreni nella campagna a sud di Milano.
Andrea pare molto contento che Giovanni voglia aprire in futuro una sua panetteria – gli chiede solo di farlo in una zona diversa di Milano!

Per saperne di più:
www.panificiogustolab.it
www.gustop.it

3. Un indice puntato verso l’inclusione

di Massimiliano Rubbi

Parafrasando Giulio Andreotti, “non basta (saper) fare un buon prodotto: bisogna avere anche qualcuno che te lo compri”. Per questo diventano cruciali le relazioni di affari, uno dei benefit più rilevanti promessi dai programmi di certificazione proposti negli USA dal “DSDP – Disability Supplier Diversity Program”. Il programma è gestito dall’USBLN – Business Leadership Network, una non-profit che affilia oltre 5.000 imprese negli USA con l’obiettivo di “influenzare l’inclusione della disabilità sui luoghi di lavoro, nella catena di distribuzione e nel mercato”, e si rivolge tanto alle “DOBEs – Disability-Owned Business Enterprises”, le aziende il cui possesso è almeno al 51% in mano a una o più persone con disabilità, quanto ad altre imprese in cerca di “diversificazione della catena di distribuzione”: mentre le prime sono oggetto del processo di certificazione, le seconde vengono messe in contatto con esse per stabilire appunto relazioni di affari proficue (oltre, come si dirà, a essere oggetto di un diverso ordine di “valutazione”). Alle DOBEs vengono inoltre forniti seminari di formazione e tutoraggio formale in aree come accesso ai capitali, redazione di business plan, strategie di sviluppo e gestione della catena di distribuzione – e, in aggiunta, la possibilità di partecipare alla conferenza annuale USBLN, la cui 20° edizione, nell’agosto 2017, ha visto la presenza di circa 1.200 persone, tra cui oltre 500 dirigenti di impresa e settore pubblico.
Le DOBEs certificate al momento sono un centinaio, presenti in quasi la metà degli Stati USA, tra grandi aree metropolitane e zone rurali. Contro una facile aspettativa, circa un quarto di esse hanno una dimensione di mercato internazionale, in alcuni casi con fatturati nell’ordine dei milioni di dollari. Come sottolinea Philip DeVliegher, che collabora con l’USBLN come fondatore della società di consulenza pDe- vl, “la maggior parte sono o di proprietari unici, o, se sono una società, la maggioranza è di una o due persone con disabilità, su magari 2 o 3 proprietari di imprese ancorché grandi – non certifichiamo aziende quotate in Borsa”. Quanto ai vantaggi offerti dalla certificazione, secondo DeVliegher non possono essere citati singoli casi di imprese di successo perché “ne abbiamo di innumerevoli. Immagino che dipenda da come si definisce il successo, ma penso che molti direbbero di essere di successo. Molte, se non tutte le multinazionali che acquistano da queste imprese richiedono che esse siano certificate DOBEs, entro robusti programmi di diversificazione dei fornitori che includono imprese a proprietà femminile, di minoranze, e altre classificazioni certificate per proprietari di impresa che sono considerati svantaggiati negli Stati Uniti”.
L’adozione di sistemi di acquisto diversificati e orientati a categorie svantaggiate è una scelta volontaria ma consolidata delle grandi imprese, che in questo appaiono avere una posizione molto più avanzata del public procurement. Su 50 Stati federali, Massachusetts e Pennsylvania appaiono infatti gli unici due ad aver adottato (e solo dal 2015) impegni verso le imprese di persone con disabilità, estendendo a questo ambito i loro programmi rivolti alla valorizzazione di “piccole imprese diverse” gestite da minoranze o persone svantaggiate (donne, veterani, persone LGBT). Nel riconoscimento delle imprese di persone con disabilità, identificate sulla base della certificazione DOBE, ai due Stati si stanno affiancando nell’estate 2017 lo Stato del New Jersey e la città di New York. Come racconta Elaine Kubik, responsabile dei rapporti con i media per USBLN: “sono stata di recente a un evento tenuto dal responsabile del controllo di gestione della città di New York; hanno già un programma, vogliono diversificare il denaro speso dalla città per assicurarsi che vada a minoranze e donne in affari, e questo recente evento era per includere imprese possedute da proprietari LGBTQ e con disabilità. Stiamo vedendo questa sorta di ‘effetto domino’ in altre città; penso che in generale le città vogliano avere opportunità per diverse minoranze a tutto campo, per cui quando iniziano con le donne in affari, allora c’è una pressione per dire ‘OK, ma allora che facciamo di queste altre minoranze?’, e si inizia a espanderle”. Questa espansione, apparentemente tutta concentrata nelle “tredici colonie” lungo la East Coast, porterebbe le DOBE ad “aggredire” budget di spesa complessivi nell’ordine delle centinaia di miliardi di dollari, senza però prevedere, almeno fino a oggi, quote a loro riservate entro la spesa pubblica diretta o indiretta (tramite obblighi di sub-approvvigionamento imposti ai fornitori).
In base alla “Section 503” della normativa USA sull’handicap, solo le imprese che hanno contratti con gli organismi federali sono tenute ad assumere direttamente quote di dipendenti con disabilità – un obbligo stabilito solo nel 2014 e meno stringente di quello in vigore in molti Stati europei. Sarebbe auspicabile perseguire l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità non tramite più assunzioni dirette, ma con obblighi più estesi e vincolanti di inserire DOBEs tra i propri fornitori?
La risposta di DeVliegher è negativa: “Penso che sarebbe un problema, non risolverebbe la questione. Sappiamo che le persone con disabilità hanno un tasso di disoccupazione molto più alto, per cui lo scopo di questa normativa era di includere più persone con disabilità nella prassi dell’assunzione. Assumere persone con disabilità e includerle nella propria catena di distribuzione sono due cose differenti, per cui non penso che questo sarebbe efficace”. DeVliegher segnala anche che l’USBLN non ha mai rilevato se le DOBEs certificate abbiano o meno una politica di assunzioni più orientata a includere persone con disabilità nella propria forza lavoro rispetto alle altre aziende, e sta iniziando ora a raccogliere dati su questo.

Valori di mercato
Per le aziende a proprietà diffusa, o comunque non possedute da persone con disabilità, che mette in contatto con le DOBEs, l’USBLN, insieme alla AAPD – American Association of People with Disabilities, ha creato dal 2012 un processo di certificazione relativo alla disability-friendliness. Il “DEI – Disability Equality Index” si presenta come “uno strumento di benchmarking nazionale, trasparente e annuale che offre alle imprese l’opportunità di ricevere un punteggio oggettivo, su una scala da 0 a 100, sulle proprie politiche e pratiche di inclusione della disabilità”. L’indice si compone di valutazioni su diverse aree, per la maggior parte legate alla cultura e alle politiche adottate dall’impresa al proprio interno, e si basa su un’autodichiarazione dell’impresa richiedente, soggetta poi a verifica; solo le aziende che ottengono un punteggio minimo di 80 vengono rese note, e promosse come “DEI Best Places to Work” (nel 2016 sono state 69, tra cui giganti come Walmart, Axa e UPS). La diffusione pubblica di un buon punteggio nel DEI è rivolta ai clienti, in una logica di responsabilità sociale di impresa, ma anche e ancor più agli investitori effettivi e potenziali, come spiega Kubik: “negli Stati Uniti, quando società o individui hanno intenzione di investire in un’impresa, spesso guardano al risultato finanziario, ma sempre più guardano all’ESG – Environmental, Social and Governance Rating, che ne attesta la sostenibilità ambientale, sociale e delle pratiche di governo. Ci sono diversi strumenti di rating in giro, ma stiamo vedendo che i nostri partner aziendali usano davvero il DEI per integrare il rating ESG, perché vedono che la valutazione arriva solo fino a un certo punto, e quando hai un alto indice di qualità sulla disabilità, questo mostra una cultura aziendale migliorata, il mantenimento e la soddisfazione dei dipendenti, il che gioca un altro ruolo chiave nella performance di lungo termine dell’azienda. Funziona sempre più nelle due direzioni: i partner aziendali che ottengono un punteggio alto continuano a raccontarlo agli investitori, e anche gli investitori cercano da soli di vedere se le aziende hanno questo punteggio addizionale”. Non si tratta quindi tanto di far leva sul senso etico del pubblico per vendere di più, quanto di accreditare la propria capacità di creare valore nel tempo.
I consigli che l’USBLN darebbe a una persona con disabilità che voglia mettersi in proprio si riassumono in una analisi completa e coerente del contesto di mercato in cui ci si vuole inserire, e nell’“assicurarsi che il proprio prodotto/servizio a valore aggiunto soddisfi un reale bisogno e possa competere con successo sul mercato”: gli stessi che si darebbero a qualunque imprenditore in fase di avvio, senza alcuna specificità legata alla situazione individuale di handicap. Le certificazioni DOBEs, del resto, attestano la proprietà dell’impresa, non la sua capacità di creare effettivamente valore. Questo ci porta a uno storico nodo di fondo delle politiche di “azione positiva”: perché rivolgersi in modo preferenziale a imprenditori con disabilità, quando essi devono essere in grado di competere con e come tutti gli altri? La spiegazione di DeVliegher fa riferimento a un aspetto storico, più che etico in senso assoluto, e distingue tra “essere” e “stare” sul mercato: “da un punto di vista degli affari, un punto di vista del prodotto o del servizio, sì, dovremmo trattare tutti allo stesso modo. Ma quando si tratta di gruppi di persone storicamente svantaggiati, dobbiamo seriamente riconoscere che coloro che sono stati esclusi dalle opportunità nel procurement nel passato hanno bisogno di essere inclusi. Noi guardiamo quegli svantaggi, e rendiamo chiaro che vogliamo includere coloro che hanno quegli svantaggi. Quindi, uno dei nostri scopi è assicurarci che tutti siano in grado di sedersi a tavola e fare affari; questo non vuol dire che essi si procurino affari ‘alla fine della fiera’”.
La filosofia dell’USBLN e gli strumenti usati per tradurla in azioni concrete non ci risultano avere un analogo nel resto del mondo. È forse anche per questo che l’associazione statunitense ha recentemente deciso di “diventare globale” creando un registro aperto alle imprese esterne agli USA, cui è possibile autoiscriversi online alle stesse condizioni previste per le DOBEs, e tramite cui si può entrare in contatto con lo stesso sistema di aziende partner come loro “venditori potenziali”. Il registro è per USBLN un “primo passo naturale” verso una strategia di crescita globale per le certificazioni e gli indicatori di cui abbiamo parlato, ed è per gli imprenditori con disabilità un’opportunità in più per la penetrazione nel mercato statunitense e internazionale, rispetto a cui le aziende italiane, per ragioni dimensionali e storiche, hanno sempre incontrato non poche difficoltà.

1. Introduzione

di Massimiliano Rubbi

I principali sindacati confederali italiani hanno tutti un ufficio dedicato a studiare ed elaborare politiche per l’handicap (cui spesso corrisponde un’articolazione in sportelli di contatto a livello locale); a quanto ci risulta, nessuna delle organizzazioni datoriali (Confindustria, ma anche CNA e Confapi) ha un ufficio analogo, oppure prevede servizi anche solo sperimentali dedicati a imprenditori con disabilità. Basterebbe questa constatazione a delineare la concezione dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità nel nostro Paese, tutta concentrata sul lavoro subordinato (soprattutto tramite le “quote” entro le imprese medio-grandi, che però sono minoranza nel nostro tessuto economico) o sulle cooperative sociali (anche qui in qualità di “quota” minima e minoritaria). L’idea che una persona con disabilità abbia l’intento di fondare un’impresa, anche individuale, e abbia bisogno di un aiuto in ragione delle proprie specificità, rimane fuori dall’orizzonte – forse anche perché la nozione di lavoratore “autonomo” appare in contraddizione con la limitazione delle “autonomie” che il deficit porta con sé.
Eppure, questa contraddizione non sta granché in piedi. I dati dell’European Community Household Panel, riferiti al periodo 1995-2001, mostrano che il tasso di occupazione autonoma sul totale degli occupati era spesso più alto per lavoratrici e lavoratori con disabilità di quanto non fosse per normodotate e normodotati, e ciò tanto nei Paesi in cui l’autoimpiego è più diffuso (Grecia, Italia, Portogallo) quanto in quelli in cui lo è meno (Germania, Francia, Austria). A conclusioni analoghe arrivano le analisi relative agli USA e al periodo fino al 2009. Certo, il tasso di occupazione complessivo rimane molto più basso per le persone con disabilità: si può concludere che per guadagnarsi da vivere queste ultime trovano nell’autoimprenditorialità una opzione più praticabile dell’impiego alle dipendenze. Se da un lato ciò può essere frutto di un respingimento subito da parte del mercato del lavoro (“non mi hanno voluto e ho preferito fare da solo/a”), dall’altro, per un numero di persone limitato ma non marginale, un’idea di impresa riesce semplicemente a diventare un’attività che “funziona”.
Nelle esperienze che abbiamo cercato di descrivere in questo numero, è significativamente assente ciò che una parola inglese brutale ma efficace definisce creeploitation: lo sfruttamento della condizione di disabilità per stimolare acquisti che altrimenti non avverrebbero. Dalle michette agli abiti, dalle birre ai curricula vitae, tutto si vende in ragione del rapporto qualità/prezzo e non di meccanismi pietistici. Al contempo, in diversi casi le risorse necessarie a far nascere o crescere un’azienda derivano da sistemi di crowdfunding, che rimandano a caratteristiche “speciali” della realtà che si va a sostenere, e non da un “tradizionale” e oneroso accesso al credito – un esempio ulteriore e significativo è quello dei biscotti Collettey’s (www.colletteys.com), prodotti da un’impresa fondata nel 2011 a Boston da Collette, una ragazza con sindrome di Down, che raccoglie stabilmente donazioni finalizzate a “creare posti di lavoro per persone con disabilità e far crescere l’azienda”.
Inoltre, non di rado il successo dell’impresa scatta nel momento in cui i media generalisti puntano i propri riflettori su un’esperienza il cui interesse risiede proprio nella disabilità delle persone coinvolte (nel caso di Collette, “la mia storia è stata raccolta dalla CBS locale di Boston, e trasmessa come storia ‘per stare bene’ durante le vacanze. Beh, è diventata più di questo! In 10 giorni, avevo oltre 9.500 visualizzazioni su Facebook e più di 50.000 biscotti ordinati”). Nell’intreccio tra ricerca del profitto e finalità solidale si mostra quindi una contraddizione in diverse imprese che per il resto, nel loro quotidiano, appaiono capaci di “stare sul mercato” e riescono a “battere la crisi” meglio di tante altre.
Dalle storie che abbiamo raccolto emergono due elementi che, nella citata assenza di supporti specifici alla creazione di impresa, possono risultare utili a una persona con disabilità che voglia mettersi in proprio. Innanzitutto, il motto “niente per noi senza di noi”, ideato in relazione alle istanze sociali, può applicarsi anche a quelle commerciali: una persona con disabilità in cerca di un prodotto o un servizio rivolto alle sue esigenze specifiche (un ausilio, una progettazione…) tenderà a fidarsi di più di chi glielo propone a partire da una medesima condizione vissuta personalmente – e questo apre di per sé possibili spazi di mercato preferenziali.
In secondo luogo, e in modo ancor più importante, è probabilmente tempo di superare una retorica del self-made-man che dagli anni ’80 in poi non ci ha mai lasciati, invitandoci a cercare il successo massimizzando le nostre capacità individuali (un successo così precluso in partenza a chi se le ritrova limitate da una condizione di deficit) e sulla base di relazioni improntate a una spietata competizione. Dalla rilettura delle vicende di molte delle aziende che abbiamo avuto l’opportunità di conoscere, emerge piuttosto la convinzione che “nessuno ce la fa da solo”: a porre le basi per il successo è la cooperazione con gli altri, che si tratti dei soci in affari con cui si rivela necessario fondare un’impresa, delle reti di fornitori e clienti stabilite nel corso della sua attività, degli altri soci-lavoratori sui quali si deve fare affidamento per il buon andamento di una cooperativa. È forse in questo snodo tra competizione e cooperazione nel mercato, di cui quello citato sopra come contraddittorio appare per alcuni versi un riflesso, che sta la lezione più importante da trarre dalle esperienze che ci sono state raccontate.

 Sul piano dei diritti. Progetti e azioni dell’Intergruppo Disabilità al Parlamento Europeo

di Massimiliano Rubbi

Nel gennaio scorso, l’European Disability Forum ha avviato i festeggiamenti per il suo ventesimo anniversario, che ricorre nel 2017, con un incontro con l’Intergruppo Disabilità al Parlamento Europeo per discutere le priorità di azione per il futuro. I “20 anni di lotta per diritti umani, inclusione e partecipazione” delle persone con disabilità che l’EDF celebra saranno portati alla pubblica attenzione da una campagna il cui motto è “Niente su di noi, senza di noi. Visibilità dei diritti per la disabilità ovunque”.
L’incontro di gennaio è stato l’occasione per condividere e discutere i temi al centro del programma di lavoro che l’Intergruppo Disabilità si è dato per il periodo 2017-2019 (ovvero fino alla fine della legislatura europea), tra cui l’impatto della crisi economica sulle persone con disabilità e il dialogo tra il movimento legato alla disabilità e i membri del Parlamento Europeo. L’agevolazione di questo dialogo è funzione cruciale dell’Intergruppo Disabilità, svolta in cooperazione particolarmente stretta con l’EDF, che cura anche la segreteria dell’Intergruppo. La forma del raggruppamento trasversale alle nazionalità e alle famiglie politiche, di cui l’Intergruppo Disabilità si presenta come uno degli esempi più longevi e numerosi (è nato nel 1980 e riunisce 109 europarlamentari sui 751 totali), ha consentito negli anni di portare nella legislazione europea elementi di miglioramento delle condizioni di vita delle persone con disabilità che probabilmente sarebbero stati raggiunti con maggiori difficoltà e ritardi senza la sua azione. Come rileva Brando Benifei, tra i parlamentari europei più giovani (31 anni) e vicepresidente dell’Intergruppo sin dall’inizio della legislatura, “da una parte, l’appartenenza a una ‘comunità’ permette di lavorare nella propria Commissione parlamentare in sinergia coi Deputati membri dell’Intergruppo appartenenti ad altre Commissioni parlamentari, coordinando l’impegno speso e rafforzando l’incisività del messaggio che vogliamo portare avanti. Dall’altra parte, proprio in virtù delle differenti affiliazioni politiche che abbiamo, l’Intergruppo più efficacemente riesce a sensibilizzare altri Deputati e a ottenerne il sostegno, allargando la condivisione dei nostri valori”.

Diritti non scontati
Secondo Michela Giuffrida, europarlamentare recentemente nominata vice-presidente dell’Intergruppo, obiettivo del programma di lavoro 2017-2019 dell’Intergruppo Disabilità è “prima di tutto favorire la partecipazione alla vita politica delle persone con disabilità; tutti devono essere in grado di poter fare una scelta consapevole alle prossime elezioni europee del 2019. In troppi Paesi, purtroppo, la disabilità coincide con una riduzione del diritto di voto”. Per quanto ciò possa sembrare incredibile, infatti, il pieno godimento dei diritti politici da parte delle persone con disabilità riguarda solo una minoranza degli Stati UE: 15 Stati membri privano automaticamente del diritto di voto le persone con disabilità sotto tutela, e per altri 6 Paesi una valutazione medica può condurre alla stessa esclusione dal voto. A questa barriera legale si aggiungono le barriere fisiche ai seggi e la frequente inaccessibilità di programmi elettorali e dibattiti politici. Dal momento che non esiste un diritto di voto per il Parlamento Europeo fondato su principi comuni, e le modalità di voto sono affidate per una parte significativa a scelte nazionali, si può concordare con Giuffrida sul fatto che l’Intergruppo abbia “un programma di lavoro molto ambizioso”.
L’Intergruppo inserisce tra le proprie priorità lo svolgimento del 4° Parlamento Europeo delle persone con disabilità, conferenza tra delegati delle organizzazioni di rappresentanza e autorità europee previsto per novembre/dicembre 2017, e la considerazione dei diritti delle donne con disabilità nelle politiche comunitarie per l’uguaglianza di genere.
Un obiettivo particolarmente delicato riguarda rifugiati e migranti con disabilità, delle cui precarie condizioni nei mesi di apertura della rotta balcanica si è già scritto in queste pagine: spicca l’intento per cui “ogni finanziamento UE ai suoi Stati membri e ai Paesi vicini, inclusa la Turchia, dovrebbe prioritariamente fornire sostegno ai minori e alle persone con disabilità, e alle loro famiglie in movimento, in particolare donne e bambini con disabilità”. Un altro riferimento importante è quello ai 17 “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile”, adottati nel settembre 2015 da tutti i Paesi membri ONU, e a cui le politiche UE dovrebbero conformarsi per “raggiungere l’obiettivo di non lasciare nessuno indietro”.
Un approccio basato sui diritti umani, definito nel contesto delle Nazioni Unite, è ugualmente alla base della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, la cui attuazione figura come primo punto e perno generale del programma di lavoro dell’Intergruppo (“cuore di ogni nostra attività e iniziativa”, sintetizza Giuffrida). La UE è stata il primo organismo sovranazionale ad aver ratificato la Convenzione nel 2010, e per prima è stata esaminata dal comitato delle Nazioni Unite che sorveglia sulla sua attuazione; le preoccupazioni e raccomandazioni all’Unione Europea contenute nelle “osservazioni conclusive” adottate dal comitato nel settembre 2015 delineano di per se stesse una traccia di lavoro fino alla prossima revisione nel 2021. La possibile idea che norme così generali abbiano limitato impatto concreto nella vita delle persone con disabilità è respinta da Benifei: “le ricadute pratiche sono infinite. Perché la Convenzione è un Trattato di Diritti Umani, e i diritti sono qualcosa di estremamente concreto. Parliamo di inclusione attiva, educazione inclusiva, accesso al mercato del lavoro, accessibilità dei trasporti e promozione della mobilità, deistituzionalizzazione, salvaguardia dei diritti politici, diritto all’autodeterminazione e accesso alla giustizia, portabilità intraeuropea dei diritti, accesso al diritto alla salute, solo per citare alcuni temi”. Di importanza almeno pari è però il carattere complessivo della protezione istituita: “la Convenzione è un trattato a tutto tondo, e copre ogni aspetto della vita di un individuo.
Tesse una ‘trama’ fitta, impenetrabile: non si può tutelare un diritto a scapito di un altro. Per questo, come Deputati, non solo ne chiediamo piena attuazione, ma la prendiamo a riferimento anche come metodo, o approccio”.
L’Intergruppo lascia tuttavia intuire nel suo stesso programma che la Convenzione si è rivelata in questi anni il “vaso di coccio” rispetto ad altre linee guida delle politiche europee: “la crisi economica, e le conseguenti continuate misure di austerità, hanno avuto un impatto negativo sulle condizioni di vita delle persone con disabilità e sul loro godimento dei diritti umani in molti Stati membri UE”. Di qui la necessità di integrare la Convenzione nel nuovo “Pilastro europeo dei diritti sociali” annunciato per la prima volta dal Presidente Juncker nel settembre 2015, e su cui l’Europarlamento ha votato una risoluzione il 19 gennaio 2017.
Giuffrida, citando la risoluzione, indica che nel pilastro sociale “devono essere inclusi almeno il diritto a un lavoro dignitoso e privo di barriere architettoniche in ambienti e mercati del lavoro pienamente inclusivi, aperti e accessibili, servizi e la sicurezza di un reddito di base adeguati alle specifiche esigenze individuali, in modo da consentire un livello di vita dignitoso e l’inclusione sociale, la garanzia della libera circolazione e della trasferibilità delle prestazioni tra Stati membri dell’UE, istruzione e formazione inclusive, comprese le disposizioni per un’adeguata alfabetizzazione digitale, e disposizioni specifiche sulla protezione dallo sfruttamento e dal lavoro forzato delle persone con disabilità, in particolare le persone con disabilità intellettive o psicosociali o le persone prive di capacità giuridica”. Come spiega Benifei, “l’obiettivo dichiarato del pilastro sociale è quello di rafforzare la dimensione sociale dell’Unione economica e monetaria europea attraverso il coordinamento delle politiche sociali e occupazionali dei paesi membri. Si tratta di un’iniziativa importante, perché dopo anni di politiche di austerità ripropone per la prima volta come necessità improrogabile maggiori tutele per la riduzione delle disuguaglianze, e ridà centralità al lavoro come strumento di emancipazione economica, sociale, politica”. Occorrerà tuttavia valutare quanto risulteranno vincolanti per gli Stati e per la UE stessa le disposizioni del pilastro, quando esso sarà effettivamente operativo, e anche quale peso rispettivo avranno i due aggettivi di una delle tre categorie nello schema preliminare su cui nel 2016 è stata svolta una consultazione pubblica, quella che propone una protezione sociale “adeguata e sostenibile”.

La battaglia dell’accessibilità
Giuffrida non nasconde che l’Intergruppo esercita un “potere di ‘lobby’, inteso come capacità di fare pressione e portare avanti degli interessi collettivi”, ciò che presuppone l’esistenza di altri interessi collettivi contrapposti a quelli delle persone con disabilità nella definizione delle politiche europee. Questa contrapposizione emerge con inusuale chiarezza a proposito dell’“Accessibility Act”, la direttiva sull’accessibilità di una vasta gamma di prodotti e servizi in discussione a inizio 2017. Ricordando le energie profuse per anni dall’Intergruppo per arrivare a un provvedimento su questo tema e di questa portata, Benifei fa presente che “attualmente non vi è alcuna specifica normativa UE in materia di accessibilità per le persone con disabilità. Tale legislazione è tuttavia necessaria, perché troppi prodotti e servizi in Europa sono ancora inaccessibili: pensiamo in particolare a smartphone, tablet e computer, biglietterie automatiche, sportelli bancomat, applicazioni mobili e siti web per lo shopping online, libri elettronici”.
La proposta di direttiva della Commissione Europea è stata presentata, dopo lunga attesa, nel dicembre 2015; i parlamentari dell’Intergruppo, secondo Benifei, l’hanno “salutata con entusiasmo”, e anche EDF, pur criticandone alcuni aspetti, ha valutato in modo positivo il testo di una normativa sull’accessibilità la cui necessità aveva sostenuto da anni. Ben diverso è il giudizio sulla bozza di relazione che la Commissione parlamentare per il mercato interno e la protezione dei consumatori ha proposto nei primi giorni del 2017 per la discussione al Parlamento Europeo: secondo EDF la relazione, attraverso i suoi 163 emendamenti, “sta annacquando la proposta di legge a tal punto che parti di fondamentale importanza della legge potrebbero essere perdute”. Tra i punti contestati, l’eliminazione del requisito di accessibilità dell’ambiente costruttivo (con possibili effetti paradossali, come sportelli bancomat accessibili in posizioni non accessibili), l’esenzione totale per le microimprese, l’assunto che gli attuali requisiti di accessibilità nel campo dei trasporti siano sufficienti (punti citati anche da Giuffrida, secondo cui “la relazione del Parlamento è piuttosto debole rispetto anche alla proposta della Commissione”). Contro questa diluizione dei vincoli, che va nella direzione opposta a un “Atto Europeo sull’Accessibilità forte e ambizioso”, il 6 marzo l’EDF, in un’azione senza precedenti, ha portato la sua protesta di fronte al Parlamento Europeo, con la manifestazione “Accessibility? Act!” (“Accessibilità? Agisci!”) in Place du Luxembourg a Bruxelles.
Secondo Benifei, a fronte di “un testo di base già di buon livello” della Commissione Europea, su cui si stava lavorando per ulteriori miglioramenti, “alcuni altri colleghi all’Europarlamento si sono mostrati molto sensibili – troppo – alle richieste dei grossi gruppi industriali, insofferenti alle proposte di regolamentazione che vivono come un ostacolo allo sviluppo”. Anche limitandosi a valutazioni economiche, tuttavia, “nel contesto della rivoluzione digitale in atto, sarebbe davvero una posizione antistorica quella di non indirizzare le nuove tecnologie e le innovazioni verso un mercato inclusivo e alla portata di tutti”, tagliando così fuori la capacità di spesa di 80 milioni di europei con disabilità. Benifei è comunque ottimista sull’esito del negoziato parlamentare, così come Giuffrida: “il procedimento è nella sua fase iniziale, ci sono dei margini di miglioramento molto ampi”. EDF ha lanciato la sua campagna sulla libertà di movimento, di cui l’Accessibility Act era uno dei due principali esiti attesi, nell’ormai lontano 2011; c’è da augurarsi che il negoziato, oltre che proficuo, si riveli tempestivo.

4. Un movimento senza confini

4.1. Ippopomati sulla luna
di Roberto Parmeggiani

La sensazione che si prova assomiglia a quella che deve aver vissuto Alice quando è entrata nel paese delle meraviglie. Un misto di stupore e curiosità. Una specie di smarrimento insieme alla sensazione di trovarsi in un luogo familiare.
Per arrivarci bisogna salire una scala di pietra dietro la Biblioteca Municipale di Sintra. Si raggiunge così un grande giardino su cui si affaccia una veranda con alcuni tavoli e tanti cuscini colorati. L’erba del giardino è sufficientemente morbida per potersi sdraiare o rotolare, ci sono alcune sculture con cui i visitatori possono interagire e una vista da togliere il fiato sulle colline e la città medioevale.
Ecco, in questo contesto potete trovare un luogo speciale: un misto tra una Casa della lettura e una Casa del tè.
Quando ho visitato Hipopomatos na Lua per la presentazione di un libro era fine marzo. Appena ho messo piede in quello spazio, ho immediatamente pensato che descrivesse perfettamente il senso della monografia che state leggendo.
È una libreria ma non solo.
È una sala di lettura ma non solo.
È una sala da tè con ottimi dolci ma non solo.
È un rifugio, una casa, una culla, una nave, una foresta. Chiacchiere, discussioni, sorprese, dolcezze, scoperte, avventure.
*Nazaré de Sousa, responsabile del progetto, racconta di aver dato vita a questo spazio per poter avere un luogo dove entrare e trovare qualcosa di bello e di buono, cose semplici e importanti allo stesso tempo.
“Crediamo che una parte di noi sia fatta di lettere che si uniscono una all’altra e in tutta la loro estensione ci conferiscono l’individualità che siamo. Ci costruiamo a partire dai libri che leggiamo e ci sono parti di noi che sono la somma di ciò che abbiamo ricevuto da loro. Leggere è formare l’identità e questo facciamo da quando siamo arrivati qui”.
Il pubblico che varca la soglia di Hipopomatos na Lua è il più vario, tutti interessati però a un incontro diretto con il libro. Agli adulti che riprendono i bambini invitandoli a non toccare o a fare piano, Nazaré e le sue colleghe dicono che, al contrario, quello è un luogo dove i bambini (ma anche gli adulti in verità) devono toccare e fare come se fossero a casa loro.
A differenza di altri spazi dedicati al libro, in questa strana casa della lettura al centro di tutto c’è proprio la relazione con il libro: come oggetto, come esperienza, come viaggio immaginario. Una relazione libera da stereotipi o buone maniere che, un po’ alla volta, modifica concretamente l’idea che si ha della lettura.
Non più un dovere o una scocciatura ma nemmeno un’esperienza quasi sacra e reverenziale. L’incontro con il libro, personale e unico, avviene attraverso tutti i sensi anche per il fatto di poter bere un buon tè alle tre mente e assaggiare una fetta (e che fetta!) di torta al cioccolato o al mascarpone e frutti di bosco.
Il necessario e il necessario, direi.
Perché, almeno lì, non si deve scegliere tra una cosa o l’altra ma è possibile scoprire come il pane e le rose possono trovare posto sulla stessa tavola.
Quando ho visitato la libreria, mentre parlavo con Nazaré, vedevo i bambini muoversi liberamente nella grande stanza, avvicinarsi agli scaffali e prendere liberamente i libri. Ognuno portava quello scelto o al tavolo tondo oppure sui grandi cuscini o anche in veranda, sull’amaca. Bambini diversi ed eccitati o calmi e pazienti che leggevano il libro intero oppure irrequieti cambiando più spesso testo. Ecco questa libertà, ancora una volta, mi è sembrata la metafora più adatta per descrivere un percorso di educazione alla lettura che possa funzionare: una relazione libera con il libro, scelto dal bambino per un qualsiasi motivo o per nessun motivo particolare, libero di immergersi nel testo o nelle immagini, da solo, sdraiato, seduto, appoggiato oppure in gruppo con qualcuno che legge e qualcuno che ascolta.
Libero il libro, liberi i lettori e libera la relazione.
I libri, lo sappiamo, nascono due volte: quando l’autore li scrive e quando il lettore li legge. A noi adulti il compito di creare spazi in cui questa seconda nascita possa av- venire nel modo più naturale possibile.

Hipopomatos na Lua è la prima libreria specializzata in letteratura per ragazzi e si trova nella città di Sintra (Portogallo). È aperta a tutte le famiglie per ritrovarsi attorno ai libri e alle storie. Per fare merenda si possono trovare tè, caffè, torte e biscotti.
Per saperne di più: http://hipopomatosnalua.blogspot.it

4.2.Biblioteche in movimento
di Massimiliano Rubbi, giornalista e lettore

“Se il lettore non va al libro, il libro va al lettore”. Come promuovere la lettura, specie tra bambini e ragazzi, dove l’acquisto dei libri è un lusso insostenibile per molti e le distanze rendono impossibile frequentare una classica biblioteca? Mettendo i libri in una “biblioteca in movimento” che raggiunga periodicamente le comunità e le scuole, per consegnare quelli che al primo impatto possono apparire oggetti astrusi e poi tornare a riprenderli; e il veicolo è lo stesso usato abitualmente per spostarsi dalla popolazione.
Non poche, e spesso curiose, sono le esperienze di questo tipo. Nel 1995 Obadiah Moyo, fondatore del Programma di Sviluppo per le Biblioteche e le Risorse Rurali (RLRDP), ha guidato la prima biblioteca mobile con un carretto trainato da un asino in giro per lo Zimbabwe: oggi questi “biblio-asini” sono 15, e ognuno dei carretti da loro trainati può contenere fino a 1.200 libri. Come spiega Moyo, “gli asini sono donati dai membri della comunità, e gli abitanti del villaggio in realtà fanno a gara per assicurarsi che siano usati i loro asini, perché sanno che stanno facendo progredire l’educazione entro le proprie comunità locali, e questo porta prestigio”. I libri, forniti dall’associazione Book Aid International, vanno da quelli sonori pensati per chi impara a leggere a quelli educativi e di narrativa, e “quando il carretto si avvicina a una scuola, è meraviglioso vedere l’eccitazione dei bambini quando corrono fuori a salutarlo. Ma non è semplicemente che il carretto venga scaricato e prosegua. Il carretto rimane per tutto il giorno; i bambini esplorano i libri, condividendo quel che hanno letto, e cantastorie locali della comunità arrivano per dare vita alle storie. È davvero un giorno per diffondere il concetto della lettura e per sviluppare la cultura della lettura per la quale stiamo tutti lavorando”. La nuova abitudine alla lettura ha portato in pochi anni a incrementi significativi nei tassi di successo degli esami di inglese nelle scuole secondarie dello Stato africano (in un caso, a decuplicare le promozioni in 6 anni!).
L’asino smentisce fieramente lo stereotipo che lo vede associato all’ignoranza, trasportando in giro libri e conoscenza, anche in Colombia. Il “biblioburro” ideato a fine anni ’90 dal giovane insegnante Luis Soriano, con due asini (“Alfa” e “Beto”!) e 70 libri portati in giro sui loro dorsi, continua a svolgere tuttora la sua funzione ogni sabato, tra i villaggi più isolati dei dipartimenti di Cesar e Magdalena, e con forze moltiplicate: 8 asini e 4.800 libri, in buona parte frutto di donazioni pervenute dopo che una trasmissione radiofonica si era occupata della storia. Il progetto del “biblio- burro”, oggetto anche di un documentario nel 2007, non si è fermato neppure quando el profesor Soriano, nel 2012, ha subito l’amputazione di una gamba dopo un incidente con un suo asino, e oggi, dopo essere valso al suo ideatore il premio di “Colombiano Ejemplar” nel 2014, si accinge a festeggiare il 20° compleanno. La Colombia vanta diversi esempi di biblioteca mobile: il bibliotecario Oswaldo Gutiérrez nel 2002 ha inventato la “bibliocarreta”, una carretta che la domenica porta i libri nei parchi e tra le case della città di Sabaneta, mentre la biblioteca della cittadina montana di Guatapé è già passata da un esperimento di “bibliocarreta” alla bicicletta attrezzata “PedaLeo” (“PedaLeggo”), che con il suo campanello avvisa del suo arrivo tra i negozi, prima per conoscere i gusti di lettura dei commercianti, troppo impegnati dal loro lavoro per passare in biblioteca, e poi per portare loro i libri (e riprenderli). Come sottolinea in un articolo la rete bibliotecaria di Medellin, “l’obiettivo di ‘Al son del PedaLeo’ è portare a termine una delle missioni più importanti che hanno le biblioteche di oggi: essere inclusivi. E non solo con chi ha difficoltà fisiche o psicologiche per leggere o avvicinarsi alla conoscenza, ma anche con chi per qualunque motivo non ha la possibilità di visitare la biblioteca”.
Tornando alla trazione animale (e all’Africa), risale addirittura al 1985 l’uso dei cammelli per il trasporto di libri nelle regioni aride e isolate del Kenya nord-orientale. Come riferisce il servizio bibliotecario nazionale keniota, “i cammelli trasportano i libri in scatole specificamente create per il progetto e li portano ai bambini nelle scuole isolate. Inclusi nelle scatole ci sono anche tende e tappetini perché i bambini li usino sul campo”. La biblioteca mobile su cammelli, riporta la BBC, risulta anche l’unico modo per raggiungere le popolazioni nomadi della zona nel luogo in cui si trovano e potrebbero non trovarsi più il giorno dopo, popolazioni molto povere in cui “quando un genitore ha un po’ di denaro, preferisce comprare cibo, e quando vede un libro non gli dà valore”.
Cambia la zona del mondo, cambia il mezzo di trasporto, ma non cambia il sistema: il progetto “Books-by-Elephant” si serve di 20 elefanti per trasportare libri ai bambini in 37 villaggi montuosi della Thailandia settentrionale, insieme a lavagne di metallo appositamente disegnate per non rompersi durante il trasporto sul dorso dell’elefante, un’esperienza esportata anche nelle province di Xaignabouli e Oudomxay nel Laos settentrionale: e quando arrivano gli elefanti, riferisce l’Elephant Conservation Center che si occupa del servizio in Laos insieme alla ONG Community Learning International, “molti dei bambini leggono attentamente ogni pagina nel punto in cui sono, mentre altri stringono semplicemente il libro al petto come un bene prezioso, e nella maggior parte dei casi è così, essendo il libro il primo oggetto che il bambino abbia mai posseduto”.
Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che le “biblioteche mobili”, con il loro effetto spesso pittoresco, siano da associare esclusivamente alle zone più isolate e depresse di Paesi economicamente arretrati, e siano destinate perciò a scomparire, con lo sviluppo socio-economico, a favore di strutture bibliotecarie “tra quattro mura”. Il 12 aprile scorso è stata festeggiata negli Stati Uniti la settima Giornata Nazionale delle Biblioteche Mobili (National Bookmobile Day), per celebrare “una parte integrale e vitale del servizio bibliotecario negli Stati Uniti da oltre 100 anni”, che “ha consegnato informazioni, tecnologia e risorse per l’apprendimento permanente ad americani di tutti i ceti sociali”. Il primo servizio di questo tipo fu istituito nel 1905 dalla bibliotecaria Mary Lemist Titcomb nel Maryland, dapprima appoggiandosi a negozi e uffici postali, poi con un carro a cavalli capace di battere le fattorie della zona con un guidatore e un bibliotecario, e infine dal 1912 con un servizio motorizzato. Anche se il loro numero è in calo negli ultimi anni, i servizi di biblioteca mobile negli USA rimangono oggi 660, concentrati in Stati tra Sud e Midwest come Kentucky e Ohio ma anche in California; alla resistenza delle biblioteche su ruote contribuisce in modo determinante il fatto che esse “possono essere spesso un mezzo efficiente di fornire servizi bibliotecari a grandi aree geografiche”, grazie a un costo di 200.000$ che è di 8 volte inferiore a quello di costruzione di una nuova biblioteca stabile. Oltre ai libri, le biblioteche mobili portano nelle comunità rurali giornali, periodici e DVD, offrono servizi di consulenza, corsi e attività, e spesso forniscono tecnologie adattive per persone con disabilità, accesso a Internet, a volte videogiochi, sempre più spesso con veicoli specializzati per obiettivi identificati da nomi come “Techno-mobile”, “JobLink”, “Kidmobile” o “ABC Express”, e con tecnologie green che riducono l’impatto ambientale dei loro lunghi viaggi. Per questo, non senza un po’ di retorica, le biblioteche mobili possono essere definite nei materiali promozionali del National Bookmobile Day “parte del Sogno Americano – luoghi di opportunità, educazione, auto-aiuto e apprendimento permanente”.
Biblioteche mobili sono presenti anche in Giappone, un Paese ad alta tecnologia e fortemente antropizzato ma che le statistiche collocano tra quelli con le minori medie di lettura al mondo, così come in Norvegia, dove sin dal 1963 la nave Epos passa l’inverno a portare libri a 150 villaggi della costa sud-occidentale, compiendo due giri di 45 giorni ognuno (occhio a non mancare il giorno in cui restituire i prestiti!), per poi essere convertita a servizio dei turisti in estate.
La biblioteca mobile più curiosa e significativa del mondo è però con ogni probabilità quella realizzata alcuni anni fa dall’assai eccentrico artista argentino Raul Lemesoff a Buenos Aires: una Ford Falcon del 1979 usata al tempo dalla giunta militare, trasformata in “carro armato” e riempita di 900 libri per diventare, secondo il nome che l’autore le ha dato, una “arma di istruzione di massa”. Lemesoff gira tuttora per le città e le campagne dell’Argentina, regalando un libro in cambio della sola promessa di leggerlo e ricostituendo periodicamente la biblioteca attraverso donazioni private, con l’obiettivo di “combattere l’ignoranza” e portare “un contributo alla pace attraverso la letteratura”. Ed è forse questa idea di “mettere dei fogli nei cannoni” che in fondo anima tutti i bibliotecari che ogni giorno, in tutto il mondo, percorrono decine di chilometri, su veicoli quasi sempre scomodi, insieme all’intento di impedire che qualcuno rimanga separato, a causa della distanza, dal libro che cambierà la sua vita.

4.3. Una biblioteca per Korogocho
di Simona Venturoli, Project Manager Servizio Progetti Estero di AIFO

Può sembrare un azzardo la realizzazione di una biblioteca a Korogocho, una barac- copoli di Nairobi e Baba Dogo con più di 200 mila abitanti, eppure Mwangaza Community Library Project questa esperienza l’ha realizzata e la sta portando avanti.
Dal 2003 AIFO (Associazione Italiana Amici di Follereau) opera in questo difficile contesto attraverso il sostegno a KoskobarK (Korogocho Slum Community Based Rehabilitation – Kenya), un’organizzazione comunitaria di Korogocho, ufficialmente riconosciuta dal governo keniota.
La biblioteca offre numerosi servizi culturali alla comunità e nei suoi locali ha sede anche un centro di riabilitazione per persone svantaggiate che lavorano all’interno di laboratori di sartoria, fabbricazione di candele e tipografia. La biblioteca ha bisogno di fondi per acquistare e riparare libri, riviste e dvd, per aggiustare le finestre e sistemare la rete fognaria.
Mwangaza in lingua swahili significa luce e questo la dice lunga sul senso di questo progetto: vuol portare la luce alle persone che vivono a Korogocho, una luce che si manifesta però sotto la forma dell’educazione e dell’informazione. Anche lo slogan che accompagna questo progetto, “Nuru ya Korogocho” ovvero luce di Korogocho, ne sottolinea la funzione.
La biblioteca ha aperto i battenti nel marzo del 2012 ed è situata ai bordi dello slum di Nairobi, diventando così la meta anche di ragazzi e bambini che studiano nei quartieri vicini a Korogocho. La presenza di un libraio formato e di due assistenti volontari permette la sua apertura in tutti i giorni feriali dalle 8 alle 18 e il sabato dalle 9 alle 16. Mediamente si registra un accesso di 30 persone al giorno, con punte di 60 il sabato e nei periodi di sospensione scolastica. Nei primi 4 mesi del 2016 la biblioteca ha registrato un totale di 835 ingressi per persone sopra i 17 anni e di 312 ingressi per persone sotto i 17 anni.
Per accedervi basta pagare una piccola retta annuale, dalla quale però sono escluse le persone disabili che entrano gratuitamente.
La struttura non riceve finanziamenti pubblici e queste entrate assieme ad altre previste per il futuro (servizio di consulenza per l’uso del proprio telefono cellulare, attività di copisteria e stampa…) servono al mantenimento della struttura e per l’acquisto e la manutenzione dei libri e dei dvd.
Mwangaza Community Library è partita con il sostegno di AIFO e dell’iniziativa “Biblioteche solidali” del comune di Roma. Attualmente (fine 2016) la biblioteca dispone di circa 3.323 libri, 1.324 copie di 2 quotidiani nazionali locali, il “Daily Nation” e “The Standard”, e decine di video e materiali audio visionabili presso la sala comunitaria TV con DVD reader, dove vengono offerte anche attività di intrattenimento. Riceve e archivia anche la “Kenya Gazette” (Gazzetta ufficiale del governo). Inoltre ha attive tre postazioni per l’accesso a internet, offre un servizio di fotocopie a costo inferiore rispetto al mercato e ha una saletta dedicata ai bambini con arredi funzionali.
Mwangaza è quindi la risposta a una sfida, quella di ridurre la mancanza di spazi a Korogocho dove i bambini possono studiare e di offrire ai ragazzi una struttura ricreativa, di dare, in generale, alla popolazione dello slum un luogo dove potersi informare. A Korogocho, dove le famiglie sono composte da molti figli e le case si riducono spesso a un’unica stanza, la possibilità di aver un luogo tranquillo dove studiare è un’esigenza molto sentita. Spesso i bambini e i ragazzi non hanno la possibilità di studiare proprio per la mancanza di luoghi che nemmeno la scuola pubblica può offrire. “La biblioteca mi permette di fare i compiti – dice Achola Samuel Omondi, uno studente di 16 anni – a casa non riesco a fare bene il mio lavoro, c’è troppa confusione; qui posso trovare anche altri libri che io non possiedo”. Molti dei libri della biblioteca ri- guardano infatti le materie che gli studenti devono studiare per la scuola.
La biblioteca che apre alle 8 e chiude alle 18 ha in realtà orari elastici per venire incontro alle esigenze degli studenti e spesso i tre volontari che gestiscono il luogo la tengono aperta fino a tarda sera. È soprattutto durante le vacanze scolastiche che Mwangaza ha il suo picco di utenti; in quei giorni i posti a sedere non bastano più e i ragazzi si mettono sul pavimento per proseguire i loro studi.
Il luogo via via si è aperto anche alla popolazione residente che non studia ma ha altre esigenze. Mancano infatti nello slum i luoghi dove riunirsi e parlare, ecco allora che fuori dall’edificio è stata allestita una grande tenda chiusa collocata nel cortile interno (60 posti a sedere) dove i membri della comunità possono fare incontri, corsi di formazione, dibattiti e riunioni.
Spiega Richard Omwele, un residente: “Eravamo abituati a incontrarci nelle nostre case o semplicemente all’aperto. Adesso invece la biblioteca ci offre una tenda per le riunioni e anche le discussioni si fanno meglio. Ci sentiamo più liberi di parlare e abbiamo una certa privacy che prima all’aperto non avevamo”.
Mwangaza infine è anche un centro di riabilitazione per persone con disabilità che frequentano corsi di formazione per la fabbricazione di candele, di sartoria, di artigianato. Racconta Morris Obiero: “Sono venuto in biblioteca sperando di leggere il mio giornale preferito e invece ho seguito il corso di formazione su come fare le candele! Questo ha migliorato la mia situazione economica, ha rivoluzionato la mia vita”.

4.4. Un cambiamento possibile
di Roberto Parmeggiani

Il primo libro che Otávio de Souza Júnior César ha preso in mano è stato Don Gatón. Diversamente da molti bambini che conosco, lui non l’ha ricevuto in regalo e nemmeno ha potuto sceglierlo tra gli scaffali di una libreria o, almeno, di una biblioteca. Otávio aveva otto anni e trascorreva le sue giornate accanto al campo di calcio della favela dell’Alemão, una delle zone più violente di Rio de Janeiro. Cresceva, come molti dei bambini che lì vivevano, sognando di diventare un calciatore e poter fuggire da quella realtà troppo stretta per chi, come lui, aveva voglia di volare.
Un giorno, mentre come tanti altri giorni tutti uguali, stava rovistando tra la spazzatura, trovò una scatola con alcuni oggetti per bambini. La lotta con gli altri ragazzi fu dura, tutti volevano accaparrarsi il gioco migliore, anche se rotto o molto rovinato. La sua attenzione, però, venne attirata da un libro. Lo prese al volo (anche perché non interessava a nessun altro) e corse a casa.
Il libro in questione era proprio Don Gatón.
“Ho passato una delle notti più belle della mia vita in quel nuovo mondo che avevo appena scoperto” – racconta – “e il giorno dopo ho chiesto alla mia insegnante perché la biblioteca della scuola era stata chiusa. Lei l’aprì e da quel giorno fui l’unico che la frequentava per leggere”. Quando la biblioteca della scuola diventò piccola si spostò in una un po’ più grande anche se per raggiungerla, dalla sua favela, doveva camminare più di 40 minuti.
Quell’esperienza ha marcato profondamente la vita di Otávio.
L’incontro con i libri, con le storie, con quei personaggi gli ha permesso di immaginare un futuro diverso, di potersi pensare altro rispetto allo stereotipo del favelado senza un futuro diverso da quello di chi è venuto prima.
Oggi Otávio è uno scrittore, un narratore, è il fondatore e il coordinatore del progetto “Ler è 10 – Leggere nella favela”, che mira ad aprire biblioteche nel complesso dell’Alemão. La missione principale del programma è quella di mostrare ai bambini – circa l’80% dei partecipanti – e ai giovani, che i libri possono aprire porte e orizzonti che l’ingiustizia sociale e l’assenza dello Stato si impegnano a chiudere. Un nuovo orizzonte che valichi quello offerto dalla favela, un nuovo immaginario a cui riferirsi per pensarsi adulti.
“Ho vissuto per molti anni in una comunità violenta, dove la realtà quotidiana era molto dura, con scontri continui tra trafficanti di droga e la polizia. Una delle cose che mi rendeva più triste era il fatto che i narcos erano visti come eroi a Rio: compravano i vestiti migliori, le scarpe più belle, avevano le auto più costose”.
Per questo un giorno Otávio decise che avrebbe tentato di “invertire i valori” usando la letteratura che aveva tanto influito nella sua vita.
Cominciò a spostarsi nella comunità in cui viveva portando con sé una valigia piena di libri. Stendeva un tappeto colorato e invitava la gente ad avvicinarsi e a leggere.
Più di una volta è stato fermato dalla polizia a cui ha dovuto spiegare che in quella valigia non era contenuta droga o grandi quantità di banconote ma qualcosa di molto più importante.
Quell’esperienza di incontro e divulgazione è stato il primo nucleo di ciò che poi sarebbe diventata una vera e propria biblioteca nata anche grazie alla partecipazione di Otávio a un reality show per raccogliere fondi. Dopo aver camminato a piedi nudi sopra una corda riuscì a guadagnare 5000 dollari che poté reinvestire nel progetto. “All’inizio mi consideravano come una specie di Don Chisciotte, mi conoscevano come il pazzo dei libri”.
Oggi, grazie a tutto ciò, la comunità conta su una biblioteca stabile e altre itineranti che vanno incontro alle persone per avvicinarle alla lettura e promuovere un’educazione alla libertà di pensiero.
Oltre al servizio di prestito dei libri e alla possibilità di utilizzare spazi per studiare o anche, semplicemente, per fare comunità in un luogo tranquillo e protetto, il progetto prevede attività anche fuori dalla comunità quali la visita alla Biblioteca nazionale di Rio de Janeiro, alle librerie della città oppure gite culturali in generale. “Molti dei bambini che partecipano al progetto non avevano denaro per permettersi tali esperienze, così attraverso la letteratura abbiamo cercato anche di superare i limiti geografici”.
Quel primo libro, nelle mani di Otávio, si è trasformato in centinaia di libri che, uno dopo l’altro, hanno modificato radicalmente la realtà nella quale vivevano. Un esempio concreto dell’importanza di un luogo come la biblioteca: apparentemente innocuo ma vero promotore di un cambiamento possibile.

Nel paese dei libri
Una manciata di libri per i più piccoli (ma anche per gli adulti che leggeranno con loro) per immergersi in un mare di suggestioni, bellissime illustrazioni e piccole storie per navigare tra fiumi e nuvole di parole, per trovare parole per dire la rabbia, la gioia, la tristezza, per sorridere e lasciarsi abbracciare. A questi suggerimenti aggiungiamo un ultimo libro che racconta la storia, vera, di Alja che è riuscita a salvare quasi tutti i libri della biblioteca di Bassora, in Iraq, prima che la guerra la distruggesse.

Oliver Jeffers, Sam Winston, La bambina dei libri, Lapis, 2016
Alessandro Sanna, Castelli di libri, Franco Cosimo Panini, 2014
Quint Buchholz, Nel paese dei libri, Beisler, 2014
Sergio Ruzzier, Stupido libro!, Topipittori, 2016
Lane Smith, È un libro, Rizzoli, 2010
Silvia Borando, Questo libro fa tutto, Minibombo, 2017
Jeanette Winter, Alja la bibliotecaria di Bassora, Mondadori, 2006