Skip to main content

 Violenza familiare di lungo termine. La sterilizzazione forzata delle donne con disabilità

di Massimiliano Rubbi

L’assemblea generale, svoltasi il 13-14 maggio 2017 a Madrid, dell’European Disability Forum (EDF), che riunisce a livello europeo le associazioni rappresentative delle persone con disabilità, ha presentato una bozza di rapporto intitolato “Mettere fine alla sterilizzazione forzata contro donne e ragazze con disabilità”; il rapporto definitivo, redatto insieme alla Fundación CERMI MUJERES con sede a Madrid e frutto di un lavoro avviato nel 2015 entro un piano per l’uguaglianza di genere, è stato pubblicato dall’EDF a fine novembre e presentato il 5 dicembre in un’udienza al Parlamento Europeo. La questione delle sterilizzazioni forzate era già stata toccata da un appello contro la violenza rivolta alle donne lanciato in occasione dell’8 marzo 2017 da una coalizione di 25 associazioni e ONG, tra cui la stessa EDF, Amnesty International e ENAR – Rete Europea contro il razzismo. L’appello ricorda come “le donne con disabilità sono soggette a essere vittime di violenza con una probabilità da 2 a 5 volte più alta rispetto alle donne non disabili, e sono soggette a sterilizzazione e aborto contro la loro volontà”, e invita pertanto l’Unione Europea a ratificare la Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne, approvata nel 2011 e già sottoscritta da 45 Stati.
An-Sofie Leenknecht, coordinatrice per i diritti umani dell’EDF, spiega la scelta di adottare un report e dedicare un’attenzione specifica al tema della sterilizzazione forzata delle donne con disabilità “perché è una pratica che purtroppo avviene ancora oggi, e che è poco nota e documentata. Volevamo aumentare la consapevolezza dei politici europei e nazionali su questa negazione dei diritti sessuali e riproduttivi, senza il consenso libero e informato della donna con disabilità”. Una pratica che, secondo quanto riportato da ricercatori e articoli di stampa, appare colpire oggi in particolare le donne appartenenti a minoranze vulnerabili, come quelle con disabilità mentale ma anche la comunità Rom, nei Paesi dell’Europa orientale in cui la sterilizzazione forzata era procedura diffusa durante il periodo comunista, ma su cui si dispone ancora di dati più che incompleti.

Il consenso come diritto
Il rapporto EDF definisce la “sterilizzazione” come “un processo o atto che rende un individuo permanentemente incapace di riproduzione sessuale”, sterilizzazione che è “forzata” quando “intrapresa senza conoscenza, consenso o autorizzazione della persona che è soggetta alla pratica, e quando ha luogo senza che vi sia una seria minaccia o rischio per la salute e la vita”. L’impostazione dichiarata del rapporto è quella di “un approccio alla disabilità basato sui diritti umani – che incorporano il diritto di prendere le proprie decisioni, i diritti riproduttivi e la capacità giuridica”; la sterilizzazione forzata è quindi “parte di un modello più ampio di negazione dei diritti umani delle donne e ragazze con disabilità”, collegata alla loro esclusione da una cura complessiva della salute riproduttiva e sessuale, alla cattiva gestione di gravidanza e parto e alla negazione del diritto alla genitorialità. La stretta connessione con la gravidanza e le sue conseguenze, ma anche con il vissuto personale delle mestruazioni, spiega perché la sterilizzazione forzata riguardi sì anche i maschi, ma su scala proporzionalmente molto più ridotta.
Il rapporto ricorda come la sterilizzazione forzata abbia un debutto storico, più che un precedente, nei programmi eugenetici della prima metà del Novecento, i quali, combinando un’impostazione ideologica alla sua asettica praticabilità tecnica, “miravano a garantire che solo gli ‘adatti’ e ‘produttivi’ fossero una parte della società, e gli altri non esistessero e/ o non si riproducessero”. Sarebbe però fuorviante pensare soltanto ai programmi ideati dai regimi totalitari, in particolare alla sterilizzazione forzata “contro le malattie ereditarie” che il nazismo adottò già nel luglio 1933, pochi mesi dopo il suo avvento al potere (e ben prima di passare nel 1939 all’eutanasia con la “Aktion T4”). Nel rapporto EDF si segnala come molti Stati USA e il Canada abbiano sterilizzato persone con disabilità intellettiva, insieme a “criminali” e “stupratori”, per tutta la prima metà del XX secolo; come la Svezia abbia messo in pratica, tra il 1934 e il 1976, un programma di sterilizzazione eugenetica che ha coinvolto oltre 20.000 persone; come la sterilizzazione forzata di persone con disabilità, specie se intellettiva, sia ancora una realtà (ancorché, come detto, difficile da quantifica- re) in Australia, dove non vigono leggi che la proibiscano, e in Spagna, in cui dati ufficiali per il periodo 2010-2013 parlano di “una media [annuale] di 96 sentenze di tribunale che autorizzano la sterilizzazione di persone con disabilità che sono state private della loro capacità giuridica”. Anche dopo la delegittimazione di una giustificazione eugenetica (almeno nella sua forma esplicita e istituzionale), si continuano quindi a praticare sterilizzazioni forzate. Perché? Il rapporto EDF individua con efficacia tre “miti”: “per il bene della società, della comunità o della famiglia”, inclusa la “spesa finanziaria extra dello Stato che deve fornire servizi sociali alle persone con disabilità”; perché “le donne con disabilità sono incapaci di essere madri”, a dispetto del fatto che “la ricerca non abbia mostrato una chiara relazione tra il livello di educazione o l’intelligenza di padri e madri e l’essere un buon padre o una buona madre”; “per il bene delle donne con disabilità”, come protezione da gravidanze indesiderate (rispetto a cui la sterilizzazione definitiva accresce però la vulnerabilità all’abuso sessuale) o dallo stress indotto dal ciclo mestruale in ragazze e donne con “autismo o severi disturbi di apprendimento” (uno stress ritenuto evidentemente più sopportabile della destabilizzazione fisica e mentale indotta dalla definitiva soppressione della capacità riproduttiva).
L’argomentazione fondamentale che l’EDF contrappone a queste giustificazioni verte sulla già citata piena capacità giuridica della persona con disabilità, e quindi sulla necessità del suo consenso informato per ogni trattamento sanitario. Un riferimento costante è la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), siglata nel 2006 e ratificata dalla UE nel 2010: “la CRPD sancisce un cambio di paradigma secondo cui le persone con disabilità sono titolari di diritti su una base di eguaglianza con gli altri. La CRPD pertanto riconosce che le persone con disabilità sono ‘persone davanti alla legge’ e hanno capacità giuridica su una base di eguaglianza con gli altri. Questo approccio implica un allontanamento dal ‘processo decisionale sostitutivo’ verso sistemi di sostegno più personalizzati. […] La CRPD si allontana dal modello della tutela e sottolinea il bisogno di un processo decisionale supportato, al fine di garantire il pieno godimento del diritto alla capacità giuridica per le persone con disabilità”. Di qui una sezione dedicata dal rapporto alle riforme giuridiche che stanno introducendo la “capacità giuridica assistita” in Irlanda, Svezia e Germania, così come, in altra parte del testo, i rilievi mossi ai singoli Stati dal Comitato ONU incaricato di vigilare sull’applicazione della CRPD, che spesso contestano la possibilità, mantenuta nelle giurisdizioni nazionali, di una decisione totalmente terza in merito alla sfera sessuale e riproduttiva dell’individuo. Sempre dall’impostazione legata alle convenzioni ONU discende, in modo coerente e significativo, la totale chiusura del rapporto EDF rispetto alla sterilizzazione di minorenni, affidate per definizione, in diverso grado, alla tutela dei genitori o soggetti esterni: “per prima cosa, la sterilizzazione non deve essere attuata su bambine.
Il ‘Comitato sui diritti dell’infanzia’ [che vigila sull’applicazione della corrispondente Convenzione ONU] ha identificato la sterilizzazione forzata di ragazze con disabilità come una forma di violenza e ha notato che ci si attende che gli Stati [aderenti alla Convenzione] proibiscano per legge la sterilizzazione forzata di bambine con disabilità.
Il Comitato ha inoltre spiegato che il principio dei ‘migliori interessi del bambino’ non può essere utilizzato ‘per giustificare pratiche che confliggano con la dignità umana e il diritto all’integrità fisica del bambino”. Tra le raccomandazioni finali, di conseguenza, troviamo che “si dovrebbe assicurare un’interdizione su qualunque sterilizzazione di persone sotto i 18 anni, a meno che sia attuata per salvare una vita o in un’emergenza medica”, oltre alla necessità di una ricerca sul “consenso informato” che includa il “controllare con urgenza i processi e le procedure utilizzati nella sterilizzazione di persone che sono state dichiarate ‘incapaci’ di concedere il proprio consenso informato”.
La questione non è comunque affidata al solo lavoro delle istituzioni: “solo quando capovolgeremo le convinzioni sociali prevalenti riguardanti il diritto delle donne e delle ragazze con disabilità a prendere le proprie decisioni sulle proprie vite, accorderemo loro il diritto di essere se stesse”.
A chiudere il rapporto EDF è il resoconto della testimonianza personale di una donna affetta da sordità, la quale, dopo aver sposato un uomo con lo stesso deficit e aver tentato invano di rimanere incinta, viene a sapere che i propri genitori (udenti) la avevano fatta sterilizzare anni prima, quando era già adulta, approfittando della sua limitata capacità di lettura e dell’assenza di un interprete in linguaggio dei segni. “La donna ha affrontato sua madre, che le ha detto che il dottore pensava che la sterilizzazione fosse la cosa migliore da fare per bloccare la trasmissione del gene della sordità alla generazione successiva della famiglia”. La donna ha successivamente adottato un bambino e ha “infelicemente accettato la propria situazione”.

Individuare il soggetto debole
Nel febbraio 2015, la “Corte di protezione” di Londra, titolare del giudizio su casi che implicano la “mancanza di capacità fondamentale”, è stata chiamata a prendere una decisione sul caso di DD, “una donna di 36 anni con disordine dello spettro autistico e un disturbo di apprendimento lieve/borderline con un QI di 70”, con un’esperienza di “abuso fisico e forse sessuale” nell’infanzia, una relazione stabile con BC, con disturbi di autismo e apprendimento più gravi di lei, e “una storia ostetrica straordinaria, tragica e complessa: ha avuto sei figli oggi di età tra 6 mesi e 12 anni, tutti allevati da assistenti sostitutivi permanenti, cinque di essi in famiglie adottive. DD non ha contatto continuo con alcuno dei suoi figli.
DD non ha mai dimostrato il desiderio o la capacità di impegnarsi nel livello di sostegno che è probabilmente richiesto per assicurare la sicurezza di un bambino nella sua cura”. Dopo una serie di 5 gravidanze ravvicinate (in 3 casi tenute nascoste fino alle 24 settimane previste per l’aborto volontario, e portate a termine in 4 casi con parto cesareo), per DD era “altamente probabile che il rischio di una futura gravidanza, specialmente se nascosta, l’avrebbe condotta alla morte” per complicazioni perinatali.
Data la “resistenza sempre più determinata di DD al consiglio e al sostegno medico e/o professionale”, la Corte è stata incaricata di valutare la sua capacità di decidere su una contraccezione di lungo termine o sulla sterilizzazione e, in assenza di tale capacità, di valutarne l’adozione forzata “nei migliori interessi di DD”.La sentenza della Corte ha decretato l’impossibilità per DD di prendere decisioni su se stessa e disposto la sua sterilizzazione terapeutica, e lo ha fatto sulla base di un’analisi articolata, tanto della storia del caso discusso quanto delle norme a esso applicabili, esplicitando la cicostanza che “questo caso non riguarda l’eugenetica” bensì la salvaguardia della vita dell’interessata, e la necessità di “tenere conto del modo meno restrittivo di conseguire l’obiettivo ultimo”. In diversi punti del dispositivo si fa riferimento alla “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (ECHR), un documento siglato nel 1950, seppure con successive modifiche, e dunque di impianto assai più antico della CRPD, ma tuttora vigente: in particolare, in uno dei passaggi iniziali della sentenza, la legittimità di intervento nel caso viene individuata nel fatto che “coloro che mancano di capacità hanno gli stessi diritti umani di tutti gli altri, e hanno il diritto di godere di tali diritti senza discriminazione in virtù della loro mancanza di capacità. L’ECHR riconosce tuttavia che in determinate circostanze può essere giustificabile interferire nella loro vita privata e privarli  anche della loro libertà”. A questo riferimento all’articolo 8 della Convenzione, in materia di rispetto della vita privata, si aggiunge poi una discussione sull’articolo 12, relativo al diritto di contrarre matrimonio e fondare una famiglia, mentre subito dopo la CRPD, ratificata dal Regno Unito ma non integrata nella sua legislazione, viene liquidata come non pertinente e comunque non giuridicamente applicabile al caso.
La ricostruzione della vicenda compiuta dalla sentenza porta a escludere che DD sia stata “abbandonata a se stessa”. Sono citate le testimonianze di decine di operatori sociali e sanitari che negli anni si sono occupati della coppia, riferite anche a episodi specifici, e si conclude che “DD e BC sono stati e sono fieramente resistenti al supporto medico e professionale”, con “livelli di cooperazione molto limitati da entrambi” e anzi “opposizione e rifiuto dell’aiuto”. In alcune interazioni con gli operatori, DD (che, come BC, non partecipa al processo) afferma di ritenersi “normale” e di voler essere trattata come tale, e rivendica “il mio corpo è mio” in base a una questione di “diritti umani”, respingendo quindi il coinvolgimento di professionisti socio-sanitari nella propria esistenza. DD, riportano le note mediche, ha ricevuto sia da adolescente che da adulta informazioni sulla contraccezione, e ne ha utilizzato diverse forme nel corso degli anni, ma in maniera non continuativa, e dunque inefficace, senza fornire spiegazioni ritenute ragionevoli.
Un elemento che viene citato quasi di passaggio, in quanto non pertinente al caso (il cui oggetto è come detto la tutela della salute di DD), assume nondimeno un rilievo particolare nel considerare la vicenda nel suo complesso. “Due bambini sono nati a casa sua, descritta come non igienica e invasa da animali domestici; un parto era stato apparentemente compiuto con mezzi pericolosamente poco ortodossi (c’erano prove, anche se lo si è negato, che BC avesse usato pinze per barbecue come forcipe); la possibilità limitata di DD e BC di prendersi cura di questi due neonati a casa (prima che intervenissero le autorità) è stata osservata essere notevolmente dannosa per i neonati”. Dopo Ladybird Ladybird di Ken Loach, è legittimo dubitare dei presupposti politici e quindi della correttezza della ricostruzione da parte del sistema di assistenza sociale britannico, ma il rifiuto di DD di comparire in giudizio (sulla base del rifiuto di interferenze sopra citato) non consente di valutare un eventuale contraddittorio.
Premettendo che “l’EDF non può giudicare, perché non siamo a conoscenza di tutti gli elementi e della storia del caso”, An-Sofie Leenknecht commenta la sentenza affermando che “gli standard di diritti umani e la CRPD non sono stati rispettati, dal momento che alla donna è stata negata la capacità giuridica, e pertanto la capacità di decidere lei stessa, con il necessario supporto, in merito alla sterilizzazione. Questo è uno dei diritti fondamentali in base alla CRPD (articolo 12 sul processo decisionale supportato) che non è stato rispettato dal sistema giudiziario britannico”. L’approccio centrato sui diritti umani presuppone la considerazione della donna con disabilità come soggetto vulnerabile, la cui capacità di decisione autonoma va supportata e al contempo protetta da interferenze e prevaricazioni esterne. E tuttavia, è difficile non osservare che i figli nati dalle gravidanze di DD, portate oltre il termine per l’aborto volontario, si pongono come ulteriore soggetto vulnerabile meritevole di tutela, rispetto a cui il diritto alla decisione autonoma della madre trova una possibile limitazione. Se il rapporto EDF ricorda che “per le donne con disabilità psicologiche dovrebbe essere menzionato il pregiudizio che potrebbero nuocere ai loro figli. La giustificazione ‘pericolosità’ viene utilizzata per limitare i loro diritti in molte aree della vita.
Questo nonostante le prove evidenti che sono più spesso le vittime, piuttosto che gli autori, della violenza”, non si può cadere nel pregiudizio opposto, ovvero ritenere che le condizioni di pericolo per i figli non possano mai sussistere. La scelta dell’affidamento dei neonati ad altri non viene né discussa dalla sentenza né, a quanto risulta da un giudizio precedente sulla stessa vicenda, contestata dai genitori; la Corte, peraltro, si propone di evitare che DD stessa si ponga in pericolo di vita, sulla base della scelta di affrontare un’ulteriore gravidanza – e rimane assai dubbio che l’opzione per una contraccezione non permanente e per l’eventuale aborto terapeutico in caso di gravidanza, implicando una sorveglianza stretta (e, come si è visto, rifiutata ed elusa dall’interessata) da parte dei professionisti socio-sanitari tenuti alla tutela di DD, sarebbe risultata meno invasiva e “paternalistica”. È la sentenza stessa a sostenere che “è molto più probabile che in questo contesto la sterilizzazione, in realtà, la liberi da ulteriori intrusioni nella sua ‘vita privata’ da parte di professionisti, mentre l’inserimento di una spirale (portando con sé un maggiore bi- sogno di monitoraggio e sostituzione/rimozione a tempo debito) non lo farebbe”: e il “contesto” in cui matura questo giudizio, in sé decisamente paradossale, è stato creato, con l’eccezionalità della sua storia ostetrica, proprio da un supporto più rispettoso dell’autonomia decisionale di DD e BC e della loro vita sessuale.
Queste considerazioni portano a ipotizzare che il tema della sterilizzazione forzata pertenga al campo “accidentato” della bioetica, sociale e basato sulla definizione di confini, non meno che a quello “lineare” del diritto umano, individuale e inalienabile. Come se ciò non bastasse, la questione mette in discussione proprio quel ruolo di rappresentanza nei con- fronti della società che generalmente viene accordato in modo incondizionato ai genitori delle persone con disabilità (come implicito, ad esempio, nella formulazione linguistica “dopo di noi”), e anzi traccia nette linee di frattura tra la loro valutazione dell’interesse dei figli e la stessa integrità psico-fisica di questi ultimi. Per fare un esempio in più: la stessa Corte di protezione britannica, nel febbraio 2013, ha respinto la sterilizzazione di una studentessa 21enne con sindrome Down richiesta dai suoi genitori, in una famiglia che la sentenza pur non manca di definire “amorevole, vicina, dedita e di supporto”. Le raccomandazioni finali del rapporto EDF sostengono, al contrario, che “ogni richiesta di sterilizzazione deve essere considerata una procedura che è attuata ‘sulla persona con disabilità’ e non ‘per la persona con disabilità’”. È quindi auspicabile che di sterilizzazione forzata, e più in generale di sessualità delle donne con disabilità, si discuta più spesso di quanto avviene oggi – senza paura di affrontare anche nodi che potrebbero risultare assai problematici e dolorosi.



Categorie:

naviga: