Rilanciare la cooperazione sociale di inserimento lavorativo
- Autore: Massimiliano Rubbi
di Massimiliano Rubbi
In quale mondo vogliamo vivere nel 2030? Le prospettive di sempre più breve termine in cui siamo immersi escludono domande di questo tipo dal nostro orizzonte abituale, ma non da quello di organismi internazionali come l’ONU, che nel settembre 2015 si è data una risposta approvando la “Agenda 2030”, un documento che riprende la struttura degli 8 “Obiettivi di sviluppo del Millennio” (MDG – Millennium Development Goals) adottati nel 2000 e li sviluppa ulteriormente in 17 “Obiettivi di sviluppo sostenibile” (SDG – Sustainable Development Goals), collegati a 169 risultati specifici da raggiungere. E in questo quadro si può porre la domanda più specifica: quale mondo del 2030 vogliamo costruire con e per le persone con disabilità?
Un ombrello universale
Il fatto stesso di specificare la domanda costituisce un progresso non scontato. Negli Obiettivi di sviluppo 2000-2015, infatti, non si nominava nemmeno una volta la condizione di disabilità, mentre le “persone con disabilità” sono citate 11 volte nell’Agenda 2030. In particolare, riferimenti sono contenuti negli obiettivi 4, per una “educazione di qualità”, 8, per un “impiego pieno e produttivo”, 10, per la “riduzione delle disuguaglianze”, 11, per “città inclusive”, e 17, sugli “strumenti di implementazione”. L’attenzione risulta ancor maggiore se consideriamo i 18 riferimenti alle persone “vulnerabili”, che includono, in base al paragrafo 23 della dichiarazione generale che sottolinea la necessità del loro empowerment, “tutti i bambini, i giovani, le persone con disabilità (oltre l’80% delle quali vive in povertà), le persone con HIV/AIDS, gli anziani, i popoli indigeni, i rifugiati, gli sfollati interni e i migranti”. Come rilevano le organizzazioni globali IDDC – International Disability and Development Consortium e IDA – International Disability Alliance in un loro documento illustrativo,“il movimento per la disabilità preferisce il termine ‘a rischio’ piuttosto che ‘vulnerabile’, ma ‘vulnerabile’ è più ampiamente accettato dai governi all’ONU. A causa della delicatezza dei negoziati per l’Agenda 2030, non è stato possibile cambiare questo termine”. Specie se accettiamo questa estensione semantica, i risultati da raggiungere entro il 2030 riguardano una gamma decisamente vasta di ambiti della vita delle persone con disabilità, che tengono conto dei diversissimi gradi di sviluppo del contesto in cui si trovano: “[misure di protezione sociale che garantiscano] sostanziale copertura dei poveri e dei vulnerabili” (1.3), “costruire e adeguare le strutture scolastiche in modo che siano adatte alle esigenze [di tutti]” (4.a), “un adeguato ed equo accesso ai servizi igienico-sanitari e di igiene per tutti ed eliminare la defecazione all’aperto, con particolare attenzione ai bisogni […] di coloro che si trovano in situazioni vulnerabili” (6.2), “la piena e produttiva occupazione e un lavoro dignitoso per tutte le donne e gli uomini, anche per i giovani e le persone con disabilità” (8.5), “fornire l’accesso a sistemi di trasporto sicuri, sostenibili e convenienti per tutti […] con particolare attenzione alle esigenze di chi è in situazioni vulnerabili” (11.2), “fornire l’accesso universale a spazi verdi pubblici sicuri, inclusivi e accessibili” (11.7).
L’estensione e la profondità degli obiettivi, e la loro applicazione ai contesti nazionali molto diversi rappresentati all’ONU, implicano che ogni Stato è tenuto a definire una propria strategia per lo sviluppo sostenibile, con specifiche priorità e strumenti per perseguirle – un’innovazione non scontata rispetto ai precedenti Obiettivi di sviluppo del Millennio, la cui impostazione di fondo nella lotta contro la povertà era il riallineamento dei Paesi sottosviluppati a quelli ricchi. Inoltre, viene riconosciuto che non sarà possibile raggiungere risultati significativi senza l’azione coordinata del “settore privato” nella sua interezza, “dalle microimprese alle cooperative e alle multinazionali, e delle organizzazioni filantropiche e della società civile”. Nei termini del paragrafo 52 della dichiarazione generale, che riecheggiano un celebre slogan del movimento per la disabilità, “è un’Agenda delle persone, dal popolo e per il popolo – e questo, crediamo, assicurerà il suo successo”.
Riconoscere le specificità
Certo, l’effetto “libro dei sogni” è dietro l’angolo, e anche IDDC e IDA ricordano come l’Agenda 2030 sia “un impegno politico, non un documento legalmente vincolante”. In questo senso può essere interpretata la significativa assenza di riferimenti, in tutta l’Agenda, alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), dal 2006 punto di riferimento per il miglioramento delle condizioni di vita di questa fascia di popolazione. Se infatti la Convenzione, sia pure con i limiti di applicazione effettiva inerenti agli accordi internazionali, si incardina sulla nozione di “diritto umano” inviolabile e inalienabile, l’Agenda traccia piuttosto un sentiero da seguire, fornendo indicazioni comuni a tutti coloro che si trovano nei suoi diversi punti, e valorizzando i progressi più che la posizione in sé. Ciò non esclude che si possano tracciare collegamenti generali o puntuali tra i due documenti ONU, come hanno fatto ad esempio il progetto Global Disability Rights Now e di nuovo IDDC e IDA, secondo cui “solo utilizzando la CRPD per implementare i SDG si potrà garantire che non vengano create o perpetuate esclusione e disuguaglianza, come barriere istituzionali, attitudinali, fisiche, legali e alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, tra le altre barriere all’inclusione e alla partecipazione delle persone con disabilità”.
Forse più significativo è un problema rilevato sempre da IDDC e IDA in un altro documento in merito al monitoraggio periodico sullo stato di attuazione degli obiettivi dell’Agenda 2030. Mancano infattitantounadisaggregazionedeidati rilevati dagli indicatori generali perla “sottopopolazione” costituita dalle persone con disabilità, quanto un set di indicatoricheriflettalaspecificitàdi tale sottopopolazione entro gli obiettivi dell’Agenda. La prima, tecnicamente semplice (basterebbe rilevare attraverso un set di domande la condizione di disabilità di chi risponde ai censimenti e alle indagini a campione), eviterebbe possibili distorsioni nella lettura dei dati: ad esempio, un calo del tasso di disoccupazione potrebbe nascondere il fatto che a restare senza lavoro siano in proporzione maggiore le categorie svantaggiate, e così impedire i necessari interventi mirati. Anche indicatori specifici, come la “percentuale di insegnanti in servizio che abbiano ricevuto formazione sul campo negli ultimi 12 mesi per insegnare a studenti con bisogni educativi speciali” o la “percentuale di veicoli di trasporto pubblico che rientrano negli standard minimi nazionali per l’accessibilità da parte di persone con disabilità”, già suggeriti nel 2015 dal segretariato ONU per la CRPD, sarebbero indispensabili per impostare e monitorare politiche inclusive. Il sentiero tracciato dall’Agenda 2030 per il prossimo decennio è chiaro e sarebbe difficile non condividerlo – e, come già detto, perché una società possa percorrerlo in avanti è necessario lo sforzo di tutte le sue componenti, non solo dei decisori politici. Sarà nondimeno cruciale capire, nei prossimi anni, quali progressi potranno essere garantiti da scelte politiche in linea con l’Agenda 2030 restando all’interno del quadro di compatibilità economiche dell’attuale periodo post-crisi, e quanto la realizzazione degli obiettivi dell’Agenda richiederà una revisione anche profonda di questo quadro, con la considerazione in termini di “bilancio vincolante” delle sostenibilità sociale e ambientale a livello globale.
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