1. Prime terre
- Autore: Lucia Cominoli
- Anno e numero: 2018/15 (monografia sul giocare all’incontro con le culture)
di Lucia Cominoli
Certo, i migranti li vediamo di tanto in tanto sui media, ne discutiamo, ma anche qui: tutto significa niente. Al massimo cataloghiamo i migranti nella categoria di vittime, con la conseguente ovvia retorica. Questa preoccupazione (narrativa) è la base di partenza del libro di Alessandro Leogrande, “La frontiera” (Feltrinelli). Leogrande è molto bravo perché interviene sulle questioni a freddo. Non sta lì nel tumulto a sentire il polso della piazza, nemmeno avvia inchieste jukebox, metti i soldi e ascolta la canzone che ti piace sentire. No, comincia dove gli altri finiscono. E invece di alzare il tono (non vuole preoccuparci per eccesso di pessimismo, nemmeno tranquillizzarci per smodato uso di ottimismo) ascolta gli altri – se vuoi aiutare qualcuno ascoltalo.
(Antonio Pascale, Frontiere e migranti. Come si racconta il trauma di un mondo che cambia, “Il Foglio”, 2 marzo 2016)
L’ultima volta che ci siamo incontrati vi abbiamo lasciato in mano un diario di viaggio. Una raccolta di esperienze, suggerimenti, punti di vista e buone pratiche nate a partire dal laboratorio “Dove non sono stato mai. Il viaggio tra immaginario, attese e possibilità”, che nell’anno scolastico 2014/15 abbiamo realizzato con gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio della Cooperativa Accaparlante di Bologna.
Insieme a loro abbiamo esplorato i desideri, le paure e le fantasie che precedono il momento della partenza, per poi scoprire, più nel concreto, che cosa vuol dire per una persona con disabilità motoria e/o cognitiva predisporsi al trasferimento in un luogo “altro”. Un trasferimento dentro e oltre i confini dell’identità, che si può preparare e personalizzare, anche quando il sogno ci sembra molto, troppo, lontano. Basta, lo abbiamo visto, un piccolo sforzo di consapevolezza in direzione di semplici autonomie (come scegliere il bagaglio più adatto alla propria destinazione per esempio), valorizzare il dialogo con le famiglie e le figure educative di riferimento, documentarsi e tenersi informati, grazie all’offerta sempre più ampia di associazioni, agenzie, strutture turistiche e alberghiere oggi dedicate al turismo accessibile.
A fare la differenza tuttavia, a farci venire voglia di partire, di trovare il coraggio per chiedere ai propri genitori di andare in vacanza da soli o di ipotizzare nuove mete, sono state le facce e i racconti. Le avventure vissute dai viaggiatori con e senza disabilità che abbiamo incrociato lungo il cammino ci hanno infatti consegnato ricordi intensi e presenti: immagini, odori, sapori, venti.
Quasi tutti hanno riportato con sé il volto di qualcuno, con una lingua diversa magari, con un colore della pelle diverso magari, con un abito luccicante magari, così bello da lasciarti ancora il colore sulle mani.
Viaggiare è incontrare altri mondi, paesi, è farsi ospiti nella casa di chi ti è straniero. Non sempre, la cronaca ce lo ricorda purtroppo ogni giorno, il passaggio è indolore. Molto spesso il viaggio si trasforma in fuga e chi si sposta lo fa migrando in cerca di un futuro migliore o per sopravvivere alla fame, alla guerra o ad altre situazioni di conflitto e, si sa, non è detto che raggiunga la meta né tanto meno che sia ben accolto.
Quando a settembre 2016 ci siamo recati alla Società Geografica Italiana a presentare il nostro lavoro al Festival della Letteratura di Viaggio di Roma, abbiamo subito percepito le ambiguità che questo tema, di base spensierato, si trascina ormai dietro.
Parlare di viaggi e di viaggiatori non può che oggi implicare tutti i dati, compreso il retro del quadro, come le migrazioni di massa e le vite dei suoi protagonisti.
Il “grande esodo” della nostra epoca, così come qualcuno lo ha definito1 , sta già profondamente cambiando il tracciato dei confini, i rapporti tra i popoli, modificando gli assetti e le culture nel quotidiano.
Quel settembre, a Roma, tra i relatori del festival c’era anche lo scrittore Alessandro Leogrande, presentava il suo ultimo libro, La frontiera, edito da Feltrinelli. Come noto Leogrande è improvvisamente scomparso, lasciando un grande vuoto tra gli intellettuali italiani.
Il suo sguardo, che per lungo tempo ha indagato da vicino la crisi migrante con sensibilità e pragmatismo, è stato commentato da un altro scrittore a noi caro, il campano Antonio Pascale, che nella nostra precedente monografia ha firmato il racconto inedito Dialogo nel buio, dedicato a una personale esperienza di percorso sensoriale sulla spiaggia con un gruppo di persone non vedenti.
Citarlo in apertura ci è parso un filo rosso essenziale, una linea di continuità ideale al nostro percorso che ora vuole spostarsi sull’incontro diretto con l’altro, sull’incrocio dei saperi e soprattutto, come sottolinea Pascale, sull’atto dell’ascolto quale primo strumento a favore di una società curiosa, aperta, inclusiva.
Il 2008 è stato proclamato Anno europeo del dialogo interculturale, una sanzione ufficiale, si potrebbe dire, di un dato di realtà che ha preso forma ben prima: la presenza sempre più rilevante di cittadini con patrimoni culturali “altri” nel nostro paese.
I contesti in cui lavoriamo con i percorsi sulla diversità a cura del Progetto Calamaio sono tra quelli che per identità e tradizione più di tutti finiscono per coinvolgere i nuovi cittadini e i loro patrimoni. La scuola, i luoghi della cultura, gli spazi dedicati all’assistenza della persona con disabilità sono sicuramente ambiti per natura aperti all’incontro.
A scuola incontriamo quotidianamente bambini e ragazzi di seconda e terza generazione, provenienti in particolar modo dal Nord Africa, dal Pakistan, dal Bangladesh, dall’Europa dell’Est, dal Sud America, dalla Cina e dalle Filippine, che si sentono italiani a tutti gli effetti e che a volte, soprattutto i più piccoli, esitano sul momento a dichiarare le proprie origini.
Nei musei, a teatro, nei luoghi del divertimento e dello svago le narrazioni e il lavoro dei migranti stanno trovando voce e cominciando a farsi strada non solo nella denuncia o in una maggiore ricezione dell’offerta ma in alcuni casi anche nella direzione e nella progettazione di iniziative capaci di favorire processi di integrazione attraverso i linguaggi dell’arte. Accade anche a casa, sul lavoro, in vacanza, nel privato del tempo libero, sfere in cui i nostri colleghi con disabilità sono spesso circondati da figure che svolgono lavori cosiddetti “socialmente utili”: autisti, badanti, Oss, accompagnatori.
L’intercultura insomma è parte integrante della nostra vita.
Eppure, ci siamo accorti, i media, i pregiudizi storicizzati e in alcuni casi le paure indotte dai vissuti familiari, pongono ancora censure e distanze tra ciò che viviamo e ciò che pensiamo.
I difficili e complessi avvenimenti della storia recente, dagli attentati alle chiusure nazionaliste dell’Occidente, ci hanno costretto a prenderci del tempo per pensare. Educare alla diversità oggi non è più per noi solo una sfida è diventato un atto di responsabilità. Fare esperienza dell’incontro con chi è diverso da noi è alimentare la cultura di pace. Ecco allora che la disabilità diventerà ancora una volta l’occasione per farsi lente di ingrandimento sul reale, per modificare e ampliare il punto di vista, per valorizzare le differenze e riconoscere nelle specificità dell’altro un arricchimento delle proprie.
Fare formazione in quest’ottica implica ovviamente qualche consapevolezza in più da parte nostra e soprattutto da parte dei nostri colleghi con disabilità.
Come fare, ci siamo chieste, ad affrontare un tema tanto delicato con persone che, pur vivendo delle difficoltà su di sé, o forse proprio per questo, non sono immuni da paure e pregiudizi? E noi, educatori, ne siamo completamente privi? Quanto noi e i nostri colleghi conosciamo della storia dei loro autisti, dei volontari e delle badanti, con cui da tanti anni ci interfacciamo?
Così, da queste semplici domande, nell’anno scolastico 2016/2017, è nato “Da dove vengo io. Giocare all’incontro delle culture”. Un laboratorio che ha messo insieme gioco e approfondimento, rivolto agli animatori con disabilità del Progetto Calamaio e ai volontari del Servizio Civile Nazionale 2016/17. Tra quest’ultimi erano presenti alcuni stranieri, che in prima persona si sono spesi con entusiasmo nella realizzazione dei materiali preparatori alle attività, alla documentazione e soprattutto al racconto del loro vissuto, dandoci modo di fare esperienza diretta della dimensione del racconto, fino a condurci là, in quei territori di confine dove le culture si toccano.
“A ciascuno la sua tribù”, “L’identikit dei popoli”, “Indovina chi viene a cena”, “L’Atlante dei pregiudizi”, “Il paese dove non andresti mai”, “L’ospite inatteso”, sono state le tappe del nostro percorso di conoscenza di cui qui, ancora una volta, vi lasciamo in custodia il diario di bordo, corredato da alcune proposte di attività, materiali didattici e dalla voce di chi lo ha sperimentato.
A offrire riparo al cammino, alcuni bivacchi d’eccezione, tre tende, dei cui abitanti siamo stati ospiti e che qui ci hanno offerto il loro sguardo, soffermandosi sulle proprie storie di migrazione ma anche sugli usi e i costumi dei propri paesi, rendendoci parte di un vero e proprio samar, parola araba che indica “la veglia prolungata fino a tardi, molto dopo il calar del sole, nell’incanto del racconto, in una danza ininterrotta di parole” .
Esperienze, giochi, riflessioni e laboratori intermedi, sperimentati a scuola e nella sede del Centro Documentazione Handicap di Bologna, completano la mappa di questo piccolo, multiforme itinerario interculturale.
“Porta con te solo quello che conta” è la tipica frase che ci si sente dire quando si compie un salto nel vuoto. Noi abbiamo pensato di portare nello zaino alcuni libri, e una lettera, quella che Gabriele Del Grande, il giornalista e artista trattenuto in Turchia e poi rilasciato lo scorso anno a causa del suo lavoro, ha indirizzato ai bambini nello spettacolo Futuri Maestri della Compagnia Teatro dell’Argine, e alla cui lettura pubblica abbiamo assistito con il Progetto Calamaio.Lanterne e fuoco, a illuminare le imprese dei nostri mediatori, le foto di Tommaso Mitsuhiro Suzude.
Tenda n.1 A casa di Simon Peter – Uganda
Dalla conversazione con Simon Peter Kabari, volontario del Servizio Civile Regionale 2016/2017
Io mi chiamo Simon Peter Kabari. Sono di origine ugandese e sono qua da otto anni con la famiglia, sono venuto per gli studi. Adesso sto facendo un corso di Oss (Operatore, Socio, Sanitario). Sono venuto qua con la famiglia perché mia mamma si è sposata con un italiano.
Avevo 15 anni, ero abbastanza giovane… E qui era tutto un mondo nuovo per me! La prima cosa che mi ha colpito in Italia è stato il clima, il tempo, perché da noi non fa così freddo come qua! Noi siamo abituati a stare al sole con i 30/ 40 gradi. Invece qua quando fa freddo… Uno shock vedere la neve!
Quando sono arrivato in Italia mia mamma era già sposata con il suo compagno e viveva già qui ma da poco. Anche mia mamma non era abituata al clima, alla lingua… La lingua è abbastanza difficile. Diciamo che, rispetto a molti miei coetanei africani, sono stato molto fortunato! Venire qua è stato molto facile, il fatto che mia mamma si fosse sposata qui ha reso le cose più semplici per me. Sono venuto come studente, ho fatto le scuole, ho fatto l’alfabetizzazione prima per un annetto alle medie, anche se in realtà le avevo già fatte nel mio paese, ma ho dovuto rifarle qui con i ragazzi più piccoli di me. Andavo a scuola la mattina e di pomeriggio facevo un corso di italiano.
All’inizio è stata dura, nelle lezioni non capivo proprio niente, gli insegnanti non parlavano né l’inglese, né il francese e anche farsi delle amicizie era difficile.
Per fortuna a un certo punto ho incontrato un ragazzo filippino che, siccome da loro hanno come seconda lingua l’inglese come da noi, mi ha aperto la strada. Mi spiegava cosa veniva detto in classe, dopo la scuola mi portava in giro, mi faceva conoscere la città, mi insegnava un po’ la lingua pian pianino. È stato il mio primo amico! Si chiama Peter anche lui, me lo ricordo bene.
Dopo aver finito le scuole medie mi sono iscritto alle scuole superiori, ho fatto cinque anni alle scuole Fioravanti, un istituto tecnico, mi sono diplomato come manutentore. Il diploma mi è servito a farmi entrare nel mondo del lavoro, ho fatto gli stages, che sono anche andati bene, sono stato richiamato un po’ di volte. Tuttavia quello non era il mio mondo!
Mi è piaciuto di più quello dell’educazione, che ho incontrato facendo il Servizio Civile da voi, perché ha a che fare con la nostra vita quotidiana in qualche modo. Una delle cose che mi ha spinto a scegliere il Servizio Civile con delle persone con disabilità è che quando ero più piccolo nel villaggio dove abitavo avevo un parente disabile, un mio cugino di nome Nelson. Non si sapeva cosa avesse ma era talmente disabile che non riusciva a fare niente, l’unica cosa che poteva fare era guardare, era proprio immobilizzato.
I nostri parenti lo lasciavano a casa e andavano a lavorare nei campi e io rimanevo a casa con lui perché mi sentivo in colpa… Come fai a lasciare lì una persona che non si può muovere, non può parlare, non può fare niente… e io mi ero preso questa responsabilità fin da piccolissimo e ho iniziato a prendermi cura di lui. Gli davo da mangiare, lo aiutavo nei suoi bisogni e cercavo di tenerlo un po’ più attivo, provavo di tutto… Quando sono stato preso al Servizio Civile ho messo insieme tutte le mie vecchie esperienze e mi sono spinto avanti. Diciamo che grazie a lui, mi è venuta voglia di fare questa esperienza.
Al CDH all’inizio non sapevo a cosa andavo incontro, cosa avrei trovato… poi ho iniziato a conoscere i ragazzi, uno a uno, e non era come me l’aspettavo. Mi aspettavo di trovare persone come mio cugino bisognose di assistenza in tutto. Qui invece mi sono accorto che la disabilità non è solo assistenza, la disabilità si manifesta in tanti modi e il CDH mi ha dimostrato questo, perché ho conosciuto dei ragazzi tutti con disabilità diverse, sono state esperienze che mi hanno fatto crescere mentalmente e anche divertire.
Ho anche imparato da loro e spero che anche loro abbiano imparato qualcosa da me per quel poco che ho dato. Per me è stata una esperienza veramente bella… Mi ricordo che mi svegliavo tutte le mattine e dicevo: “devo andare… c’è Ermanno… c’è la Titti… tutti che mi aspettano…”. Quindi ti svegli di mattina già carico!
Anche voi educatori siete stati veramente simpaticissimi. Svegliarsi sapendo che tutti ti aspettano, questo è stato veramente una cosa positiva. Non ho mai avuto un’esperienza così!
Quando invece ho lavorato nelle fabbriche, lì ti svegliavi di mattina e ogni scusa era buona per non andare, non avevo proprio voglia. Grazie a questa esperienza che ho avuto con i ragazzi del CDH, un’amica di mia madre che lavora in una comunità di minori mi ha proposto un lavoretto a Funo, dove andavo tutte le sere e nei weekend, c’era anche qualcuno con disabilità. Lì dovevo badare a ragazzi piccoli che vivevano in comunità, ragazzi che avevano problemi familiari. Anche lì mi sono trovato bene, a seguito dell’esperienza al CDH mi è sembrato tutto naturale. Il laboratorio interculturale a cui ho partecipato è stato una bella esperienza, non me l’aspettavo. È stato bello nel senso che ho dovuto conoscere altri paesi, perché io avevo una mentalità talmente diversa di come sono gli altri paesi… Ho avuto la possibilità di conoscere culture diverse dalle mie. Già che sono in Italia, questo è già qualcosa in più per me che sono nato in Uganda e ho vissuto tutta un’altra vita, lì è tutto diverso da qui e quindi facendo questo laboratorio ho aggiunto altre conoscenze che non sapevo. Ad esempio l’Etiopia che si trova in Africa è un paese che io non conoscevo proprio, anche se si trova in Africa. La maggior parte della gente pensa che l’Africa sia un paese unico. Lo dico ancora che non lo è, è un continente. Grazie all’incontro con Yousef ho imparato qualcosa in più rispetto al mio continente, l’Africa. Mi è piaciuto perché ho dovuto spiegare ai ragazzi come viviamo in Uganda, i nostri comportamenti, le differenze con l’Italia.
Tante, poi, le domande che mi hanno fatto i ragazzi che mi hanno colpito come “perché in Uganda c’è sempre la guerra?” e anche un’altra “perché siete neri?”. Hanno fatto bene a farmi queste domande, così sono riuscito a spiegare un po’ di più rispetto al mio paese. Ci sono state le guerre fino agli anni Ottanta, ma ora l’Uganda diciamo che è un paese libero, non ci sono più guerre, è un paese tranquillo. A proposito invece del colore della pelle invece non ci avevo mai pensato… Essendo però che siamo sempre esposti al sole… Cambia la cosa. Come dite? Ahahah! Sì, forse è vero, siete voi che vi siete sbiancati!
Penso sarebbe bello sperimentare questa attività a scuola, perché i ragazzi più piccoli hanno sempre questa curiosità di sapere, di conoscere, è meglio che imparino già da piccoli a sapere qualcosa sui diversi paesi, poi più crescono e più imparano. Io la consiglio!
Consiglierei anche ai ragazzi stranieri della mia età di fare amicizia con le persone del posto, perché la maggior parte dei miei amici africani, quando arrivano qua rimangono in gruppo fra di loro, si chiudono e questa è una cosa sbagliatissima.
Per conoscere bene la cultura del paese, il modo in cui si vive e per imparare bene la lingua bisogna stare con le persone del luogo e raccontare qualcosa di sé. Basterebbe “sfruttare” i contesti, la scuola, le associazioni, le opportunità come il Servizio Civile che ho fatto io… ti aprono un mondo. Tutti i servizi che coinvolgono le persone, le attività che propongono, sono cose molto utili.
Io vi voglio ancora ringraziare per avermi dato la possibilità di partecipare al laboratorio sull’intercultura, mi è veramente piaciuto, siete stati molto bravi. È stata una esperienza che me la ricorderò sempre.
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