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2. “Da dove vengo io. Giocare all’incontro delle culture”.

Diario di un laboratorio a cura di Progetto Calamaio
di Lucia Cominoli

Un giorno, dei cavalieri attraversano un villaggio.
Montano cavalli nervosi.
Indossano begli abiti
e parlano con voce sonora.
Chiedono foraggio,
acqua, carne e pane…
(F. Place, Il Re dei Tre Orienti)

2.1. A ciascuno la sua tribù
Avete mai sentito parlare degli Aymara? Abitano vicino al Lago Titicaca, tra la Bolivia e il Perù. Sapevate che gli Evenchi sono una popolazione nomade della Siberia e che i Mãori della Nuova Zelanda sono famosi per i loro bellissimi tatuaggi? Gli uomini Wodaabe invece vengono scelti dalle donne sulla base del sorriso, in autunno partecipano a una festa, chiamata Guérewol, dove i ragazzi si esibiscono davanti alle ragazze con canti e balli, durante i quali le giovani scelgono il loro fidanzato. Per attirare l’attenzione dell’amata i Wodaabe prestano molta cura ai loro denti. Più i denti sono grandi e bianchi, così come gli occhi, più il successo è assicurato!
Ci sono popoli nel mondo dagli usi e i costumi che non hanno nulla a che fare con i modelli cui siamo abituati e che molto spesso sono portatori di credenze e tradizioni affascinanti che possono aggiungere qualcosa al nostro modo di guardare agli altri e alla terra tutta.
Il libro di Liuna Virardi ABC dei popoli (Terre di mezzo Editore, 2016) ci ha offerto subito lo spunto per approcciarci al tema in modo leggero e profondo insieme, buttandoci verso l’esplorazione e la conoscenza di comunità completamente diverse dalle nostre fino ad arrivare a immaginare di ricrearne delle nuove. Che cosa succederebbe se potessimo dare vita a un nuovo popolo? In quali territori abiterebbe? Sarebbe nomade? Stanziale? Uomini e donne avrebbero tutti gli stessi diritti? Quali i cibi preferiti? E i disabili? Ci sarebbe spazio anche per loro?
Lasciandoci andare alla fantasia abbiamo iniziato così a percorrere strade nuove, sbizzarrendoci sui nostri desideri e senza mai voltarci indietro. D’altronde l’esploratore svedese Sven Hedin (1865-1952) diceva sempre: “Non cammino mai sulle mie orme. È contro la mia religione”.

 Scheda tecnica
Partecipanti
15 animatori con disabilità 2 educatori
6 volontari

Durata
2 h, 1h e 30’ di attività e 30’ di restituzione.

Luogo
Un’ampia stanza

Obiettivo generale
Acquisire consapevolezza della presenza nel mondo di società culturalmente diverse dalla propria, imparare a osservare e mettere in crisi i modelli di appartenenza.

Obiettivi specifici
Scoprire nel confronto con gli altri partecipanti usi e costumi di paesi e luoghi lontani in cui riconoscere altre forme di diversità socialmente accettate, guardare alla diversità come a un valore e a una ricchezza e non come a una mancanza, scoprire che anche popolazioni che possono farci paura anche dal punto di vista dell’aspetto fisico, racchiudono sempre, nei loro modi di agire e di apparire, storie e significati complessi, proprio come noi.

Attività
I partecipanti vengono divisi in quattro gruppi e a ciascuno viene consegnato un rotolo di stoffa grezza, legato da una cordicella. Si tratta un taccuino improvvisato, ispirato a quelli degli esploratori di fine Ottocento, il nostro nuovo diario di bordo, in cui, di volta in volta, raccoglieremo il lavoro dei singoli incontri.
I gruppi vengono divisi per popoli: Aymara, Evenchi, Mãori e Wodaabe.
Ogni gruppo scopre chi è il popolo che gli è stato assegnato e insieme agli altri partecipanti comincia a discuterne, scoprendone abitudini, costumi e tradizioni. La discussione viene condivisa con il gruppo esteso e guardiamo insieme quattro brevi video legati ai popoli scelti.

Il decalogo
Ogni gruppo, a partire dalla visione dei video e dai racconti appresi sulla propria nuova tribù, cerca di capire di che cosa si compone l’identità di un popolo.
Proviamo a stilare insieme un decalogo: clima, cibo, casa, struttura familiare, lavoro, religione, feste e ritualità, arte, religione, istruzione.

Materiali
4 tavoli
Proiettore
Libro ABC dei popoli di Liuna Virardi, Terre di mezzo Editore Rotoli di stoffa bianchi e spago
Stampa a colori delle figure di quattro popoli a scelta su cartoncino. Sul fronte l’immagine, sul retro la descrizione.
Lente di ingrandimento. Le osservazioni dei partecipanti

DANAE: Io non ho mai conosciuto tutti questi popoli perché non mi ricordo quasi mai di guardare il mio mappamondo che ho a casa. Il mio popolo era Wodaabe. Ho scoperto una lingua nuova, come si vestono, dove abitano, i cibi che mangiano diversi dai nostri.

SIMONA: Tra i cibi mi ha colpito il matoke, una sorta di banana verde che viene preparata con un misto di verdure e carne, c’è anche in Uganda… Sembra buona!

MARIO: Cerco di vivere ogni esperienza della vita come se fosse sempre e comunque la prima volta, cercando di tenere, al contempo, alta la mia apertura mentale verso tali “novità”. Tutto è da scoprire e riscoprire nelle sue infinite sfaccettature, arricchendo l’animo anche di quelle conoscenze e usanze altrui. Infatti, l’essere umano è lo stesso in ogni parte del mondo, cambia il tipo e il grado di evoluzione sociale che, a sua volta, plasma il comportamento umano. Le danze e il tipo di corteggiamento dei popoli esaminati e conosciuti somigliano tanto ai luoghi “discotecari” o alle feste di piazza che si vivono altrove. Ci si avvicina, si sorride, si sceglie la “preda” con la quale interloquire. Le ragazze sfoggiano gli abiti più variopinti e provocanti, di modo da attirare le attenzioni degli uomini che, a loro volta, scimmiottano sguardi e comportamenti da latin lover. Ci si incontra e si conosce l’altra persona fino a decretare e manifestare le proprie preferenze e scelte. Tutto è da sempre e dappertutto uguale nella “ars amatoria” messa in scena dagli attori coinvolti. Cambiano solo le usanze e mode, ma in definitiva il gioco è sempre lo stesso.

 2.2. L’identikit dei popoli
Scoprire che gli elementi di cui si compone l’identità di un popolo sono gli stessi per tutti ci ha fatto rivedere alcuni punti di vista. Abbiamo capito che tutti, nessuno escluso, abbiamo bisogno di alcune necessità fondamentali: mangiare, dormire, amare e sognare.
Intorno a queste necessità primarie e al clima, prima ancora che le contaminazioni storiche, si sviluppano le identità umane e delle popolazioni. Le stesse a cui tentano di rispondere i migranti al momento della fuga. Eddie Vedder, il frontman dello storico gruppo grunge dei Pearl Jam, usò proprio queste parole in riferimento all’esodo siriano e ad alcuni atti terroristici ad esso legati durante un suo concerto. “Vogliamo tutti le stesse cose”, disse. Un bel modo che il rocker utilizzò per alimentare nel suo pubblico una cultura di pace, esortandolo così a non cedere alla paura e contemporaneamente rivolgendosi ai ragazzi che potrebbero essere sedotti da forme di ribellione violenta.
Complice la musica, che come sempre insieme al cibo si dimostra lo strumento più rapido all’avvicinamento tra le culture, prendiamo spunto da Eddie e andiamo avanti con il nostro decalogo. Una volta che avremo destrutturato e reso più accessibili alcune tradizioni e specificità riusciremo infatti a distinguere quelle che sono le radici comuni dalle interpretazioni indotte, per riconoscerci a nostra volta un elemento possibile tra i tanti, non certo l’unico.
Che cosa faremmo se, per una volta, avessimo totale carta bianca? Quali usi e costumi metteremmo in campo? E soprattutto, quali sono gli elementi che compongono l’identità nel nostro popolo, sia esso italiano o non?

Scheda tecnica
Partecipanti
15 animatori con disabilità 2 educatori
6 volontari

Durata
2 h, 1h e 30’ di attività e 30’ di restituzione

Luogo
Un’ampia stanza

Obiettivo generale
Riconoscere in tutti i popoli e le culture comuni valori di fondo.

Obiettivi specifici
Acquisire consapevolezza sulle caratteristiche della popolazione di appartenenza e individuare quelle dell’altro, sviluppo delle proprie competenze critiche e creative.

Attività
A ciascun partecipante viene consegnato un identikit da compilare, dal titolo “Come è fatto il tuo popolo? Prova a comporre il tuo identikit!”. Ognuno dovrà inserirvi: clima e natura, cibo, casa, struttura familiare, scuola e educazione, lavoro, tradizioni, lingua, religione, forma di governo.
Inventa il tuo popolo
Con i materiali esposti sui tavoli, viene chiesto a ogni gruppo di creare e disegnare una maschera su un cartoncino, inventando un popolo di fantasia, dopodiché comporre l’identikit del proprio nuovo popolo a partire dal decalogo di riferimento. Le maschere verranno esposte con una piccola targa.

Materiali
4 tavoli
4 cartoncini
Colori a cera, timbri, pennarelli, gli elementi cartacei proposti sul libro ABC dei popoli, scaricabili al link indicato nell’ultima pagina, matite, piume e tutto quello che l’estro vi suggerisce!
Lente di ingrandimento. Le osservazioni dei partecipanti

SARA: Fare l’identikit è stato molto difficile.

FRANCESCA: Mi sono resa conto di sapere proprio poche cose del mio paese, alcune domande non me le sono proprio mai fatte, non ci ho mai pensato.

DANAE: Per me l’identikit è stata l’occasione per scoprire qualcosa in più del paese dove sono nata, il Brasile. Me lo sono portata a casa e ho provato a verificare con mia madre e mio fratello se alcune cose che avevo immaginato sono vere oppure no.

LORELLA: Il mio popolo? Balla tutto il giorno!

ERMANNO: Il mio va a pescare!

DIEGO: Il mio non fa la guerra.

MIMMI: Il mio abita al caldo.

SIMONA: Nel mio comandano le donne.

TATIANA: Il mio vive al mare ed è custode della Luna.

Tenda n.2 A casa di Stella – Brasile e Argentina
Conversazione con Stella Dante Morales – impiegata e mamma di una ragazza con disabilità
Ho lasciato l’Argentina con mio marito e mio figlio Alexis, nel ’99, quando mia figlia Danae, che è disabile, aveva 13 anni. In Argentina c’erano le scuole speciali e Danae a 10 anni ha cominciato ad avere delle crisi epilettiche difficili da gestire. Ci siamo messi in moto per cercare un contesto che fosse il possibile adatto a lei, che potesse offrirci maggiori libertà e tutele. Prima di partire abbiamo fatto un po’ di ricerca ma l’Italia ci è sembrato uno dei paesi più aperti in questo senso, inoltre, io che sono di origine italiana, avevo già il passaporto italiano, quindi la scelta è stata poi quella più naturale.
Quando siamo arrivati, benché l’accoglienza rivolta a Danae sia stata buona, dal punto di vista medico come da quello scolastico, non è stato facile per noi trovare una casa e un lavoro. I primi tempi abbiamo vissuto in un hotel. Quando poi dovevamo finalmente lavorare non avevamo modo di stare con Danae né di pagare qualcuno che potesse stare con lei, non potevamo lasciarla a casa da sola e al contempo c’era l’affitto. Ho cercato in tutti i modi degli aiuti extrascolastici, anche rivolgendomi ai servizi sociali ma non è stato possibile trovarli. Per anni siamo stati costretti a lavorare in nero, nel precariato più totale. Le cose sono migliorate lentamente. Oggi mio marito Anton lavora come impiegato pubblico, io in passato ho lavorato in Regione e per la scuola, come mediatrice culturale. Mi occupavo dei bambini e dei ragazzi provenienti dal Sud America che parlavano lo spagnolo e vivevano in contesti familiari problematici. Penso che il ruolo del mediatore sia molto importante e prezioso e che non venga abbastanza riconosciuto. Avere una persona di riferimento con cui potersi confrontare e di cui fidarsi è importante per gli studenti ma lo è anche per i genitori e gli insegnanti che aiuti da un lato a orientarsi nelle burocrazie di un altro paese e dall’altro con forme di pensiero diverse dalle tue. Con Danae le difficoltà sono iniziate alle superiori, alla Scuola d’Arte che ha frequentato, dove, rispetto alle medie, l’inclusione è stata carente. La difficoltà maggiore era che le figure educative e di sostegno che la affiancavano cambiavano continuamente e ogni volta si doveva ripartire da zero. Non volevano neanche portarla in gita di classe, ma l’ultimo anno mi sono impuntata.
Sono problemi questi che affrontano tanti ragazzi con disabilità, anche italiani, non c’entra da dove vieni. Le leggi ci sono ma molto dipende da chi ti capita.
Fortunatamente in Italia esiste la legge di diritto allo studio e questo rispetto ad altri paesi cambia di molto le cose. Se c’è qualcosa che non va puoi farlo presente, il diritto è sancito dalla legge e come tale puoi impugnarla.
La Costituzione dice anche che siamo tutti uguali, un altro principio importante che può sempre essere ribadito. In questo senso l’Italia rappresenta un’eccellenza rispetto ad altri paesi, come la Francia per esempio, dove i disabili sono molto poco tutelati. Dal punto di vista degli stili di vita non ho molto da dire… Mi piacciono, sono molto vicini a quelli dell’Argentina e del Brasile. Vivevo in Brasile quando Danae è nata. Posso dire che, forse, lì fa molto la differenza, ancora più che in Italia, la tua disponibilità economica. Se hai soldi ti vogliono tutti, nei migliori centri e nelle migliori scuole, altrimenti no.
Né io né la mia famiglia abbiamo mai affrontato problemi legati al razzismo. Di base ci siamo sempre sentiti accolti. Bologna poi, è davvero bellissima.
Penso che ci siano razzisti e persone accoglienti in Sud America come in Italia e così dalle altre parti del mondo. Sei tu che scegli da che parte stare. Quando facevo la mediatrice, insegnavo ai ragazzi di essere orgogliosi della propria storia e delle proprie origini, lo dico anche oggi e lo dico anche a mia figlia.

 2.3. Indovina chi viene a cena
Vi ricordate Indovina chi viene a cena? La commedia di Stanley Kramer del 1967 con protagonisti Sidney Poitier, Katharine Hepburn e Spencer Tracey?
Si raccontava la storia di una ragazza statunitense che, innamoratasi di un medico afroamericano, lo invitava a casa dei genitori per presentarlo loro in vista dell’imminente matrimonio. A portare avanti numerose perplessità non furono in quel caso solo i genitori della ragazza, furono anche quelli del giovane, preoccupati per le rispettive differenze culturali. Al di là dell’happy end annunciato, quello che di questo film fece storia fu innanzitutto la rappresentazione non stereotipata di Poitier, un attore nero, qui non caratterista ma a tutti gli effetti protagonista, qualificato, per giunta, con un mestiere e uno status di tutto rispetto. Tutto il film insomma si basa sull’effetto sorpresa, sul colpo di scena che, in un baleno, destruttura i pregiudizi della vecchia generazione.
Ognuno di noi, anche chi porta con sé una disabilità, conserva stereotipi e
pregiudizi, a volte appresi in famiglia, altre volte condizionati dalla paura di ciò che non si conosce.
Ecco allora che abbiamo provato a farci anche noi interpreti di una cena improvvisata immaginando di ospitare alla nostra tavola alcune figure generiche, prive di nome e cognome, identificabili solo come categoria: uno zingaro, uno sportivo, un musicista, un attore, uno scrittore e via dicendo.
La convivialità, in particolar modo il cibo e la musica, come già ci dicevamo, sembra essere la forma più spontanea di incontro dal basso, gestita cioè nel quotidiano dalle persone, capace di favorire il miglior coinvolgimento. La convivialità, per fortuna è resistente, resistente al ventriloquismo della politica e ai modelli imposti.
Una volta che il tuo ospite immaginario avrà accettato l’invito, che cosa gli chiederesti? Inutile fingere e trattenere le domande, gli stereotipi, per dirla con Beppe Severgnini, esistono. Meglio giocarci a cena che nasconderli sotto il letto! Segnaliamo che la presente attività, da noi rielaborata e personalizzata, viene spesso utilizzata anche nei percorsi scolastici sui diritti umani a cura di Amnesty International.

Scheda tecnica
Partecipanti
15 animatori con disabilità 2 educatori
6 volontari

Durata
2 h, 1h e 30’ di attività e 30’ di restituzione

Luogo
Un’ampia stanza

Obiettivo generale
Confrontarsi con i propri stereotipi a partire dalla conoscenza e dall’informazione, dalla dimensione della convivialità e dell’incontro.

Obiettivi specifici
Sviluppare nel dialogo con l’altro la capacità di elaborare domande coerenti con il proprio pensiero iniziale, verificare la veridicità delle proprie credenze, farsi sorprendere da se stessi: spesso ci comportiamo in maniera più tollerante di quello che professiamo e viceversa.

Attività
Su ogni tavolo sono presenti un piatto di carta e una lista di persone che i partecipanti potranno invitare alla loro tavola: uno sportivo, uno zingaro, un cinese, un disabile, uno scrittore, un attore, un omosessuale, un esploratore e un missionario.
Si chiede ai partecipanti seduti a ogni tavolo di sceglierne uno e di immaginare cinque domande da porgli o porle.
Alla fine viene svelata l’identità dell’ospite e dalle biografie proviamo a rispondere insieme alle domande. Le risposte ci sorprenderanno! Perché?
Ecco qui i nostri ospiti:
Lo sportivo – Bebe Vio
Lo zingaro – Bireli Lagrène (musicista)
Il cinese – Ho Wu Yin Chingv (poetessa)
Il disabile – Stephen Hawking (scienziato)
Lo scrittore – Zadie Smith (scrittrice anglo giamaicana)
L’attore – Rami Malek (il pluripremiato attore arabo) L’omosessuale – Ricky Martin
L’esploratore – Marianne North (esploratrice dell’800)
Il missionario – Alex Zanotelli
Segue discussione sugli stereotipi e le esperienze personali di incontri con persone di diversa nazionalità.

Materiali
4 tavoli
piatti, posate, bicchieri, bevande e tovaglioli biro/pennarelli
scheda degli ospiti (sul fronte il nome, sul retro una breve biografia)
Lente di ingrandimento. Le osservazioni dei partecipanti

TATIANA: Non so perché ma gli zingari mi attirano e respingono insieme. Aver incontrato un musicista mi ha tranquillizzato. Mi piacerebbe sapere perché il loro popolo è così legato ai cavalli, il mio animale preferito.

MARIO: Speravo di incontrare una bella ragazza cinese e mi sono ritrovato con una professoressa dell’Università di Pechino… Una poetessa però… Qualche argomento di conversazione lo troverò di sicuro!

DANAE: Ho scoperto che Ricky Martin ha un secondo cognome, Morales, proprio come il mio!

ANDREA: Non pensavo che Ricky Martin fosse omosessuale, non me lo aspettavo. A me gli omosessuali non piacciono. Non so se davvero non puoi sceglierlo se esserlo o no. Ne ho invitato uno alla mia tavola proprio per questo, per fargli alcune domande. Molte persone gay però sono artisti, e gli artisti mi piacciono.

Tenda n. 3 A casa di Tommaso – Italia e Giappone
di Tommaso Mitsuhiro Suzude, fotografo e volontario del Servizio Civile Nazionale 2016/2017
Nuvole. Un ingombrante strato incornicia la cima del monte Fuji e la nasconde alla vista. Questa montagna è l’essenza della cultura giapponese, il suo simbolo per eccellenza – o almeno così me l’hanno sempre descritta. Io, infatti, sono nato sotto le mura del Colosseo, nella periferia della capitale. Quello giapponese è mio padre, che negli anni ’70 si è trasferito per frequentare l’Accademia delle Belle Arti. Mia madre, viterbese d’origine, conobbe mio padre grazie al Buddismo di Nichiren Daishonin e da questa unione siamo nati io e mia sorella.
Crescere in una famiglia mista ha avuto i suoi pro e contro e solo con il passare degli anni ho imparato ad apprezzare quelle differenze che prima mi facevano soffrire. Spesso, infatti, la diversità porta ad avere dei conflitti non solo verso gli altri ma anche con se stessi. A capire che non ero come i miei coetanei non c’ho messo molto: a scuola compresi subito che la mia era una famiglia speciale e che gli altri bimbi il venerdì sera non mangiavano sushi. L’incontro di queste due culture ha generato in me una certa confusione, che fortunatamente col tempo si è evoluta in una forte consapevolezza: ogni individuo è unico e ha il diritto di esprimere quello che ha dentro di sé in piena libertà. Accettare a pieno le mie origini mi ha permesso di arricchire di vari colori il mosaico della mia vita.
Facendo il Servizio Civile al Centro Documentazione Handicap, ho avuto modo di incontrare un altro tipo di diversità. Nonostante la mia esperienza personale, l’approccio alla disabilità mi ha colto impreparato e solo condividendo la quotidianità, giorno dopo giorno, il mio ritmo si è armonizzato con quello di chi mi circondava. Durante una delle attività formative, il laboratorio “Intercultura”, abbiamo avuto modo di affrontare il tema della discriminazione e del rispetto reciproco ed è stato affascinante vedere come il pregiudizio fosse presente anche in quelle persone così sensibili al tema delle differenze.
La conoscenza è l’arma più forte per abbattere i muri dell’odio e creare una convivenza armoniosa e innovativa. Vinciamo la paura dentro di noi e permettiamo ai tanti stimoli esterni di arricchirci costantemente!

2.4. L’Atlante dei pregiudizi e il paese dove non andresti mai
Stereotipi e pregiudizi non sono solo una questione personale. Esiste un vocabolario condiviso di luoghi comuni che varia di paese in paese in cui è praticamente impossibile non identificarsi. Ad accorgersene è stato il disegnatore bulgaro Yanko Tsvetkov, che ha dedicato un libro ai pregiudizi della vecchia Europa, raccogliendoli in cartine geografiche in cui compaiono gli stereotipi che i singoli paesi tendono ancora ad associare agli altri. In Italia se diciamo Germania pensiamo ai würstel, o a dei “maniaci della precisione”, se diciamo Svezia ci viene in mente l’Ikea, a nominare l’Irlanda scatta l’associazione con il rugby e così via, fino agli accostamenti più scomodi e dissacranti, su cui l’artista ha scatenato tutta la sua ironia. Difficile però dargli torto, sono cose che si sentono dire, e ciò vale anche per noi, che spesso siamo definiti come “pasta, pizza e mandolino”, “Berlusconi”, “terzo mondo”, “plagiari”, a seconda del paese che ci giudica.
Tsvetkov ha raccolto le sue mappe satiriche ne L’Atlante dei pregiudizi (Rizzoli 2016), che, guarda caso, è subito andato a ruba.
A noi del Progetto Calamaio l’ironia di per sé piace moltissimo e nei nostri laboratori è una costante, ma in questo caso il rischio era quello di avvallare un sentimento di passività diffusa nei confronti degli stereotipi, non potevamo fermarci alla risata, la riflessione sarebbe rimasta innocua. Bisognava dunque entrare nel merito e costruire il proprio atlante, prima di venire condizionati da quello altrui.
Abbiamo così provato a disegnare una nostra, grande, cartina geografica in cui i partecipanti, oltre ad abbinare delle parole e dei pensieri ai singoli paesi, hanno cercato di individuare dove esattamente si trovavano sulla mappa che avevano a disposizione. Molti non ne avevano consapevolezza, disabili e non, italiani o stranieri che fossero. Quante volte parliamo di cose che non sappiamo dove siano collocate?
Condividere insieme i pregiudizi dei gruppi è stato fondamentale. Ma non ci siamo fermati, siamo andati più in là. Abbiamo chiesto a ciascuno di dirci in quale paese non avrebbe mai voluto recarsi e perché. Pensate che tutti abbiano evitato l’Africa? Vi sbagliate. Stati Uniti e estremo Nord sono stati tra i più criticati…

Scheda tecnica
Partecipanti
15 animatori con disabilità 2 educatori
6 volontari

Durata
2 h, 1h e 30’ di attività e 30’ di restituzione

Luogo
Un’ampia stanza

Obiettivo generale
Verificare la conoscenza effettiva che abbiamo dei paesi che giudichiamo positivamente o negativamente e la rispondenza al vero degli stereotipi ad essi legati.

Obiettivi specifici
Acquisire maggiore consapevolezza di dove sono collocati i paesi e le loro caratteristiche fondamentali, condividere con gli altri le proprie supposizioni accettando opinioni diverse dalla propria, sfatare alcuni pregiudizi, scoprire da dove provengono le motivazioni che li sostengono.

Attività
Disegnare una grande mappa del mondo vuota.
Divisi in quattro gruppi, consegniamo due fogli a ogni gruppo, uno con una mappa del mondo, e un altro con un elenco dei paesi che la compongono.
Dopo aver collocato sulla mappa i singoli paesi, partiamo con un’associazione di idee da assegnare ad ognuno.
Il lavoro viene condiviso.
A partire dalle mappe de L’Atlante dei pregiudizi ci confrontiamo su quelli dei vari gruppi e vediamo se combaciano, se si riconoscono o no.
Consegniamo un foglio sul quale ognuno dovrà scrivere un paese dove non andrebbe mai e perché.

Materiali
Mappamondo Mappe
Il libro L’Atlante dei pregiudizi
Lente d’ingrandimento. Le riflessioni dei partecipanti

STEFANIA M.: Ho scoperto che in Finlandia l’inverno è molto freddo, così come il Nord in generale. Proprio perché non mi piace il freddo non mi piacerebbe andarci, il Marocco, che è caldo e dove sono già stata, credo sia più vicino ai miei gusti.

ERMANNO: Anche io non andrei al Nord. Fa freddo, con il ghiaccio e la carrozzina…

Swish! Si scivola e poi ahi, ahi, ahi!

STEFANIA B.: Io non andrei mai in America. Non mi piace il fatto che si mangino solo hamburger, coca-cola e patatine, non mi piace il presidente Trump e soprattutto non mi piace che le persone si possano tenere in casa le armi.

DIEGO: Io non andrei mai in Africa, in Siria e nel mondo arabo in generale, perché lì c’è la guerra.

DANAE: Io invece non andrei in Iran e in Afghanistan, secondo me anche lì c’è la guerra, lo avevo sentito dire in televisione.

2.5. L’ospite inatteso
Le risposte e le motivazioni che ci hanno dato i nostri colleghi con disabilità sono state molto interessanti e non del tutto scontate. Quello che abbiamo notato è che le scelte sono state piuttosto uniformi, motivo per cui non è stato difficile ridividerci in gruppi per metterle a soqquadro e regalarci una bella sorpresa.
Iran-Iraq e Afghanistan, Africa, Marocco e Siria, Stati Uniti, Alaska-Finlandia e Russia sono stati indicati come i paesi da evitare. La fortuna ha voluto che in quei giorni al Cdh avessimo con noi qualcuno che in quei paesi c’era stato o che addirittura vi era nato.
Detto fatto e abbiamo costruito una grande tenda, con tappeti, cuscini, un tavolino da tè e una sedia in cui i partecipanti sono stati invitati a entrare, immaginandosi ospiti di un cittadino proprio di quei paesi in cui non avrebbero voluto recarsi e, in parte, è successo veramente.
Inutile dire la ricchezza delle domande e delle risposte scambiate, anche le domande più banali hanno arricchito e accresciuto la conoscenza tra tutti noi, insegnandoci moltissime cose nuove e affrontando di petto i dubbi di ciascuno. Nella tenda siamo stati ospitati da Azadeh, tirocinante iraniana, da Simon, volontario ugandese del Servizio Civile Regionale, da Tommaso, italo-giapponese che ci ha condotti a New York, da Valeria, giornalista con disabilità che, con la sua mitica macchina, è arrivata fino a Capo Nord.
Alcuni pregiudizi sono stati confermati, altri addirittura ribaltati, tanto che c’è chi aveva paura di recarsi in Iran ed ora è curiosissima di esplorare le bellezze di Teheran.
A conclusione l’incontro con un ospite inatteso, Abdullah Mohamed Yousef, per tutti noi Yousef, autista per la Cooperativa Società Dolce, che dalla Somalia è arrivato a Siena, per poi raggiungere Marzabotto e infine arrivare a Bologna.
Dentro la tenda lo ha intervistato Mario Fulgaro, un nostro collega con disabilità. Ora Yousef si racconta nuovamente, svelandoci qualcosa anche del suo lavoro di autista.
Racconta a tale proposito la nostra collega con disabilità Stefania M.: “L’incontro con Yousef mi ha sorpresa perché per la prima volta è venuto qua al Cdh a incontrarci, a raccontarci del suo paese e di come è cambiata la sua vita. Questa è una cosa che non fa mai, perché di solito mi accompagna e mi viene a prendere. Io però non gli avevo mai chiesto niente su di lui. Scherziamo sempre, questo sì”.

Tenda n 4. A casa di Abdullah Mohamed Yousef – Etiopia e Somalia
Conversazione con Abdullah Mohamed Yousef, autista Cooperativa Società Dolce
Io sono dell’Etiopia, cittadino etiope, vengo da una città che si chiama Gursum, sono cresciuto in Somalia a Arghesa, mi sono sposato, ho avuto dei figli lì, poi dopo la guerra sono tornato in Etiopia, poi sono uscito dall’Africa, ho fatto il passaporto e sono venuto in Italia nel 1990.
Sono venuto in Italia come turista, con il visto perché era un modo per uscire, una soluzione per espatriare e non avere delle difficoltà. Poi a quel tempo c’erano i mondiali di calcio, anni ’90, e allora era più facile avere il visto turistico per il calcio.
Come adesso ognuno aveva le proprie idee per uscire dal paese, ma la maggior parte volevano uscire con la scusa di andare a seguire i mondiali e poi da lì ognuno seguiva i suoi programmi, c’è chi è rimasto qua, chi è andato via verso altri paesi dell’Europa o in America. Era una specie di scalo l’Italia e lo è ancora.
Io sono venuto qui da solo, non conoscevo nessuno.
Quando sono arrivato, ho conosciuto altri miei compaesani somali che mi hanno dato una mano, non conoscevo neanche il sistema e le regole del paese, non sapevo come comportarmi. Loro mi hanno dato un aiuto e mi hanno consigliato la strada da percorrere, mi hanno aiutato a orientarmi.
Mi sono presentato in Questura come rifugiato e mi hanno rifiutato e poi mi sono sposato con una ragazza somala, tramite lei ho avuto il permesso di soggiorno e poi piano piano mi si sono aperti gli occhi.
Prima di arrivare a Bologna sono stato un anno a Roma, lì ho cominciato a individuare la strada da seguire e poi tramite la ragazza somala che ho sposato ho trovato un lavoro a Siena, sono stato un anno lì e poi sono venuto a Bologna e sono qua dal 1992. In questi due anni ho fatto lavori saltuari di giardinaggio, contadino… A Bologna sono stato quattro, cinque mesi senza lavoro, poi da quando ho cominciato ho sempre lavorato. Ora mi trovo molto bene qui.
Sono venuto qua tramite un amico che era a Marzabotto. All’inizio ero in appoggio da lui, poi mi sono rivolto all’Acli e alcune agenzie di collocamento e ho conosciuto due persone, Gianni Selleri e Carla Battaglia. Voi conoscete molto bene il centro residenziale per persone con disabilità che è intestato a loro, dove abita anche la vostra collega Stefania M. La signora Carla Battaglia si occupava degli inserimenti lavorativi in Acli e tramite loro ho iniziato a lavorare in uno stagionale nell’ambito alberghiero, sia io che mia moglie.
I signori Selleri e Battaglia avevano una residenza estiva per soggiorni di persone con disabilità a Igea Marina. Ci lavoravano cuochi, giardinieri, donne delle pulizie… C’erano persone di diverse nazionalità, argentini, pachistani, domenicani.
La sera mi ricordo che ci ritrovavamo nel giardino tutti insieme con gli ospiti della residenza e si facevano delle feste, oppure uscivamo in centro a prenderci un gelato.
Ho iniziato a lavorare con loro, mi hanno messo in regola e piano piano sono riuscito ad avere tutti i documenti necessari per lavorare. Tramite i signori Selleri e Battaglia ho conosciuto anche Carla Ferrero (responsabile dei trasporti e dei soggiorni delle persone con disabilità prima in AIAS, e poi quando l’appalto è passato alla Società Dolce ha continuato a occuparsi dell’organizzazione dei soggiorni).
Dopo l’esperienza di Igea Marina, Carla Ferrero mi ha proposto il lavoro di autista nei trasporti delle persone con disabilità.
Quando sono arrivato in Italia non sapevo parlare la lingua italiana, “masticavo”. Per imparare mi sono iscritto a un corso di italiano che facevano alla Caritas, ci andavo due volte alla settimana, abitando inizialmente a Marzabotto era un po’ difficoltoso. Per fortuna poi ho trovato lavoro a Igea Marina. Quando si è tra compaesani somali è difficile che si parli un’altra lingua, invece quando ho iniziato a frequentare persone italiane mi è diventato più facile parlare, era necessario parlare in italiano altrimenti non ci capivamo.
Ora sono circa vent’anni che lavoro come autista per persone con disabilità ed è molto diverso. I primi anni non mi relazionavo tanto con loro perché innanzitutto non parlavo bene la lingua e poi perché non conoscevo bene le situazioni. Dopo che ho imparato bene la lingua, ho incominciato a comunicare con loro.
A volte quando non conosco la persona mi trovo ancora un po’ in difficoltà, e forse anche loro quando mi vedono nero si spaventano un po’. A volte mi è capitato di sentire un anziano che frequenta un centro diurno che quando mi ha visto ha detto “Oddio, anche questo…”. Invece con chi conosco bene ci scherzo molto, così anche gli altri si rendono conto che non sono quello che pensano.
I primi disabili che ho conosciuto erano gli utenti dell’AIAS che erano al centro Selleri-Battaglia, poi ho conosciuto Stefania M., Ermanno, Stefania B., Mario, quando li accompagnavo al CDH che prima era in via Legnano. All’inizio non avevo confidenza con loro, li accompagnavo e basta, poi piano piano le cose sono cambiate e ho cominciato a conoscerli bene a parlare con loro e a scherzare.
Devo dire che questo lavoro mi piace.
Avevo la voglia di guidare fin da bambino, ero quasi ossessionato e alla fine ho trovato il lavoro giusto per me. Mi piace anche perché si conoscono nuove persone. Tutti i giorni sono dei bei ricordi, si scherza, io mi diverto con le persone che stanno ai miei scherzi, mi trovo bene a lavorare in questo ambiente.
Nel mio paese ci sono persone con disabilità ma non ci sono queste organizzazioni che si occupano di loro, se ne occupa sempre la famiglia. È difficile vedere una persona disabile che va in giro in carrozzina, quello di cui ha bisogno glielo fanno recapitare a casa, anche se sono tranquilli, non è una vergogna.
Entrare nella tenda del vostro laboratorio con Mario è stata una cosa bellissima! Quando uno vede una persona diversa, si fa una idea, ma quando la conosci, la ascolti, scopri tante cose e non è più come la pensavi. Se non ci si confronta non ci si capisce e ognuno va con le sue idee per la sua strada. La cosa più bella è stata quando ognuno mi ha fatto la sua domanda.
Per fare integrazione, per me, basterebbe poco. L’unica cosa secondo me è comportarsi bene e rispettare qualsiasi persona da entrambe le parti, avere rispetto per tutti è la cosa che ti porta sulla buona strada.



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