4.1 Prendere posto
Vi ricordate le domande con cui abbiamo aperto la nostra monografia? Ecco, tenetele in serbo e prendetevi tutto il tempo necessario per prestare ascolto anche a queste: dov’è il teatro? A che ora inizia lo spettacolo? Quanto dura? Chi mi viene a prendere? Chi mi porta a casa? Senti tu mia madre? Io vorrei venire ma non so se ce la faccio con gli orari… Quanto costa? Il biglietto lo prendi tu, vero? Ma è difficile? E se devo andare in bagno? A chi chiedo? Faccio in tempo prima a mangiare? Ci mettono davanti o dietro? Ci saranno bei ragazzi e belle ragazze tra gli attori? Le uscite di sicurezza sono ben segnalate? Metti caso che poi abbia bisogno di uscire… Potremmo continuare in eterno… Sono infatti questi dubbi, ansie, richieste e perplessità che spesso le persone con disabilità motoria e/o cognitiva si pongono prima di ogni uscita e, soprattutto se non sono abituate, prima di entrare in un luogo che non conoscono.
La gestione del corpo e dei suoi spostamenti resta ovviamente per molti la preoccupazione maggiore, un’ansia che spesso nasconde la frustrazione del dover sempre dipendere dalle decisioni altrui. Qualora poi i desideri della persona con disabilità e dell’accompagnatore non coincidano, il che è legittimo, entrare in conflitto, in famiglia come sul lavoro, è quasi sempre un passaggio obbligato. Lo sperimentiamo anche noi, ogni giorno, all’interno del Calamaio, alle volte con un po’ di alti e bassi e qualche sana litigata, partendo sempre dal presupposto che ognuno di noi porta con sé il proprio bagaglio di gusti, passioni, nodi irrisolti e abilità personali.
Questo, senza falsi buonismi, lo scenario di backstage su cui gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio hanno cominciato a sperimentare l’incontro con lo spettacolo dal vivo nel laboratorio di educazione alla visione “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta”.
Protagoniste diciassette persone in tutto, dai 20 ai 48 anni, senza contare il prezioso contributo di volontari e tirocinanti, che si sono lasciate condurre per poi auto- condursi in un percorso a tappe dedicato alla visione di alcuni spettacoli teatrali proposti sul territorio, un percorso depositato nel blog http://laquintaparete.accaparlante.it che ne ha documentato le fasi, a partire dall’entrata nello spazio dell’edificio teatrale.
L’entrata a teatro è stata infatti il primo passo per acquisire alcune consapevolezze che se da un lato ci hanno fatto scontrare con dei limiti di partenza, dall’altro ci hanno permesso di andare subito a fondo e di rendere la persona partecipe di un percorso in cui la disabilità in sé e per sé non è mai stata centrale, all’interno piuttosto di un’esperienza e di un’occasione festiva ugualmente condivisa da tutti.
Può sembrare banale ma questa presa di consapevolezza ha permesso ad alcune persone di prendersi delle piccole responsabilità, come per esempio quella di calendarizzare gli appuntamenti, di coinvolgere più serenamente i propri contesti di accompagnamento, di rivendicare il valore e l’importanza dell’esperienza culturale come un proprio diritto.
Un processo lungo ma condiviso, che è stato alla base della successiva libertà che ci siamo concessi nella visione e nella restituzione delle opere in sinergia con i teatri che ci hanno ospitato sul territorio bolognese, quattro in tutto, dal centro alla periferia.
Cominciamo allora dalla periferia, dai margini, come si suol dire. Bologna, rispetto ad altre città italiane, vanta infatti due territori di confine che sono due veri fiori all’occhiello per il territorio in termini di spazi, di qualità della proposta e di formazione del pubblico. Si tratta dei comuni di San Lazzaro di Savena e di Casalecchio di Reno, i poli opposti della città su cui campeggiano rispettivamente le sale del Teatro ITC di San Lazzaro e dell’oggi Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno.
L’accoglienza che abbiamo ricevuto in questi contesti, già abituati a interfacciarsi con pubblici molto differenti di bambini, migranti e anziani, ci ha subito permesso di sentirci a nostro agio e anche quando ci siamo trovati di fronte a delle barriere (foyer troppo piccoli, scalini, bagni non a norma) abbiamo avuto la possibilità chiedere la compartecipazione di tecnici di sala, maschere, direttori artistici, attori e registi che si sono spesi, molte volte con le loro braccia, per aiutarci a risolvere eventuali difficoltà.
Il passaggio dall’azione alla relazione è stato istantaneo, gli animatori con disabilità del Calamaio, già abituati a interfacciarsi in pubblico come formatori, si sono subito proposti con il consueto approccio schietto e allegro, a favore della conoscenza reciproca e di un’entrata negli spazi calda e familiare per tutti.
È successo anche con i teatri del centro città, come Arena del Sole e Teatro Testoni Ragazzi, il primo con un particolare slancio e cura da parte delle maschere, il secondo con il desiderio di agire, grazie alla nostra presenza, anche sugli spettatori disabili più piccoli.
La sorpresa di trovare un cospicuo numero di persone con disabilità, spettatori talvolta di spettacoli di teatro contemporaneo di ricerca, ha in realtà destabilizzato di più il resto del pubblico che il personale dei teatri. Enigmatici sorrisi alle porte d’entrata si sono spesso istintivamente rivolti al nostro gruppetto, che sarà forse apparso curioso, poco catalogabile e un po’ bizzarro.
L’entrata di una persona con disabilità in uno spazio di forte prossimità corporea infatti, anche se sempre più frequente, non sarà mai del tutto neutra: c’è un corpo con caratteristiche peculiari che si muove a suo modo, c’è la carrozzina, si producono suoni, mugolii e rumori “molesti”, componenti che condizionano inevitabilmente l’esperienza della visione degli altri.
Il papà del Progetto Calamaio, il già citato giornalista con disabilità Claudio Imprudente, racconta sempre quanto la disabilità ti costringa a muoverti, a cambiare la tua posizione di partenza, perché “se non c’è movimento – afferma Claudio – non c’è integrazione” .
Un bello spunto da cui partire ma, ci siamo chiesti, è davvero così? Gli altri sono disposti a lasciarsi andare così come lo siamo noi a fidarci di loro? Come possiamo verificarlo con i nostri mezzi di spettatori partecipanti?
Gli educatori e gli animatori con disabilità del Calamaio non si sono dati per vinti e hanno provato a rispondere stilando una lista di istruzioni, degli esercizi di accessibilità seguiti alla nostra prima esperienza di entrata nello spazio teatrale, un ironico vademecum che desideriamo rivolgere al pubblico disabile e non.
Ecco che cosa abbiamo combinato tra il foyer e la sala del Teatro IT
Sconquasso, istruzioni per l’uso. Esercizi di accessibilità a teatro
di Progetto Calamaio
Liberamente ispirato a Istruzioni alla servitù di Jonathan Swift e agli esercizi mattutini di obbedienza e normalità, eseguiti dagli ospiti del Castello di Diario di una follia di stato per la regia di Micaela Casalboni con i ragazzi del progetto europeo “Crossing Paths – Sentieri che si incrociano”.
Esercizio n.1 Non appena raggiunta la destinazione d’arrivo assumete la posizione di un cerchio aperto al centro del foyer, cercando di occuparlo trasversalmente da destra a sinistra.
Esercizio n.2 Infognate il biglietto nella zip del portamonete del vostro portafoglio nuovo che non avete ancora imparato ad aprire. Nel farlo, ponete la massima attenzione affinché quest’ultimo sia posizionato sul fondo della borsa, coperto da fazzoletti e altre cose imbarazzanti che sicuramente vi cadranno di fronte a un’illustre personalità quando le maschere vi chiederanno di estrarlo.
Esercizio n.3 Prima di tutto assicuratevi che dietro di voi ci sia una lunga fila. A questo punto cominciate ad attaccare bottone con le maschere, raccontate loro ogni dettaglio sul vostro viaggio d’arrivo, fategli dei complimenti e soffermatevi sulle più significative vicende della vostra vita personale. Cercate di farvi dare, sempre e comunque, il loro numero di telefono.
Esercizio n.4 Non ascoltate mai nessuno quando dovete prendere posto. Vagate in autonomia per la sala e posizionatevi dove desiderate, possibilmente vicino al palco, così che anche gli attori vi possano vedere (non si sa mai cosa può succedere), lontano dalle uscite di sicurezza e accanto a persone ben vestite e pettinate dall’aria di chi la sa lunga ma è lì per puro caso.
Esercizio n.5 Sorridete a chi vi è seduto accanto, dietro o davanti. Se il sorriso non viene ricambiato presentatevi, scambiando due parole su quello che vi aspettate dallo spettacolo.
Esercizio n.6 Quando la luce cala, siate sicuri che il vostro accompagnatore sia nel bel mezzo di una fila centrale e mandatelo a controllare se avete dimenticato qualcosa fuori dalla sala non appena l’attore muove il suo primo passo sulla scena e l’attenzione del pubblico è totale.
Assicuratevi che l’accompagnatore debba far alzare per lo meno quattro o cinque persone durante l’intera operazione.
Esercizio n.7 Abbandonatevi allo spettacolo. Ridete, gridate, saltate sulla sedia, piangete, così come vi viene. Vedrete come il ben vestito che vi è seduto accanto vi seguirà a ruota.
Esercizio n.8 Se lo spettacolo vi è piaciuto applaudite a piene mani con tutta la forza che avete in corpo, ora in piedi ora seduti, al grido di “bravi, bravi!”. Viceversa, se lo spettacolo non vi ha convinto, parlatene nel viaggio di ritorno a casa e continuate nei giorni a seguire, ancora e ancora, spiegando perché.
4.2 Il prima, il durante e il dopo lo spettacolo
Gli spettacoli cui abbiamo assistito sono stati scelti dall’équipe del Progetto Calamaio in stretta relazione con i teatri e sulla base di una mia conoscenza pregressa come critica teatrale presso alcune redazioni del settore, grazie alle quali ho maturato la conoscenza del lavoro di alcuni artisti ormai periodicamente ospitati nelle stagioni del territorio.
A supportare le scelte sono stati di volta in volta i codici, i contenuti e i linguaggi utilizzati nei singoli spettacoli, che, pur inconsapevolmente, si sono dimostrati un veicolo all’accessibilità in senso lato, motivo per cui abbiamo privilegiato lavori che, anche nel caso della ricerca più contemporanea e performativa, mantenessero alto il tasso di coinvolgimento sensoriale e relazionale e proponessero tematiche di interesse collettivo anche qualora legate al dato biografico dell’artista.
Prima di ogni spettacolo perciò gli animatori e gli educatori, coadiuvati da volontari e tirocinanti, sono stati condotti, talvolta con l’intervento di artisti e critici teatrali, a “prepararsi” allo spettacolo prima della visione.
Momenti di scoperta e di discussione, in cui abbiamo incontrato le storie e le poetiche di artisti come Giuliana Musso, Punta Corsara, Teatro delle Albe, Marta Cuscunà, Marcello Chiarenza, Teatro Gioco Vita, Teatro Sotterraneo e Teatro delle Briciole, Compagnia dell’Argine, César Brie, Le Belle Bandiere, Mimmo Cuticchio, Teatro delle Ariette, Cantieri Meticci e Ascanio Celestini.
Se ragioniamo in termini di accessibilità metaforica, intendendo con questa la possibilità di farsi interpreti di un’opera e di farla vivere dentro di sé anche dopo l’incontro in presenza, il lavoro di questi artisti è stato per noi paragonabile a quello dei grandi pittori della Storia dell’Arte, artisti cioè che sanno parlare su più livelli e in cui ciascuno di noi può trovare quell’immagine o “quella frase che” – come direbbe la scrittrice Annie Ernaux – “pronunciata in silenzio ti aiuta a vivere”.
Ci sono poi le percezioni a pelle, quelle che nascono al momento dell’incontro e che lasciano il segno, anche quando non comprese alla lettera.
Non dimenticherò mai la reazione della mia collega con disabilità Lorella di fronte a César Brie che ci raccontava il suo modo di intendere il teatro: “Non so se ho capito bene – mi disse – ma quest’uomo è diverso dagli altri, quest’uomo è un poeta!”. Allo stesso modo Mattias, che di fronte alle luci di Maurizio Viani, proprio quella volta che aveva dimenticato a casa gli occhiali durante l’Antigone de Le Belle Bandiere, ha esclamato: “l’atmosfera era scura ma era perfetta, quelle luci rimbombavano dappertutto e il rosso sul fondale… sembrava venuto da chissà dove, una cosa sola con le voci, i gesti e gli spazi di questa tragedia electro-rock!”. Oppure Tatiana, che ha parlato per giorni di quanto Daniel Romila, clown di Parada e protagonista dello spettacolo di Marcello Chiarenza Casa dolce casa, fosse un giocoliere così bravo e simpatico nonostante gli mancassero delle dita nelle mani.
Gli spettacoli cui abbiamo assistito, almeno 30, ci hanno così portati di volta in volta a conoscere le biografie degli autori e, parallelamente il loro modo di intendere il teatro. Abbiamo fatto delle ricerche e cercato all’occasione di capire insieme che cosa sono il teatro di narrazione, i pupi siciliani, il teatro d’ombre, il circo ma anche la Commedia dell’Arte, i classici di Molière e di Dostoevskij, la tragedia greca, il contemporaneo, tutti quei generi, sfumature e consuetudini che rendono la scena molto più ricca di quanto avremmo mai immaginato.
Per farlo abbiamo usato strumenti diversi, video, musica, libri, elementi materici, impostato giochi di ruolo e attività che potessero farci entrare al meglio nell’atmosfera dello spettacolo.
Ogni anno poi, prima di cominciare il laboratorio, accoglievamo i nuovi arrivati con un’entrata di benvenuto che abbiamo chiamato “Il teatro come ti pare e dove ti pare di Ariane Mnouchkine”.
Di volta in volta così il gruppo sceglieva un luogo dove avrebbe voluto erigere il suo teatro immaginario. L’ultimo è stato un teatro viaggiante per mare, una nave-teatro insomma, che abbiamo disegnato e su cui abbiamo creato delle caselle con delle piccole tasche. Ad ogni futuro spettatore chiedevo di scegliere dove prendere posto, infilandosi in una delle tasche, complice un’immagine scelta tra alcune carte senza parole prese a prestito dal gioco di società Dixit, un’immagine che doveva rappresentare che cosa per loro significasse entrare in un teatro e l’esperienza della visione in se stessa.
Un gioco che, idealmente, ha richiamato il cartellone posto all’entrata del Théâtre du Soleil, fondato dalla Mnouchkine nel 1964 e dal 1970 situato alla Cartoucherie de Vincennes, uno spazio privo di numeri, in cui gli spettatori possono ancora oggi scegliere dove posizionarsi prima dell’inizio dello spettacolo. Un esperimento che, nella restituzione condivisa, ci ha fatto capire la differenza tra il cinema e il teatro, spingendoci a riflettere sulle peculiarità di un’esperienza fruitiva diversa dalle altre, la stessa per la quale ci vestiamo meglio, percepiamo fatica e noia durante la rappresentazione ma anche gioia esplosiva, calore, fino a ricondurre le radici di tutto questo nel corpo.
Il corpo infatti, compreso il nostro, non certo perfetto, è stato lo strumento privilegiato con cui durante gli spettacoli ci siamo confrontati con la visione, a volte spaventandoci, a causa di rumori, di effetti speciali o di entrate in scena improvvise, altre volte esaltandoci e sobbalzando sulle poltrone per le risate, altre volte ancora, quando non riuscivamo a vedere bene quello che stava accadendo, lasciandoci andare agli altri sensi, a percepire l’atmosfera generale e la tensione palpabile, il nesso tra noi e gli attori.
Una partecipazione totale, la nostra, e, forse anche per questo, quasi mai silenziosa, colpa delle voci, del volume molto alto, degli automatismi del corpo, fatti di scatti, versi e mugolii che inevitabilmente si amplificano nel buio della sala. Pensate per esempio a un colpo di tosse. Da uno a dieci quanto è fastidioso a teatro? Siate sinceri. Non vi è mai capitato di cercare di trattenere uno starnuto per non disturbare il resto del pubblico?
“Silenzioso e concentrato… ecco il teatro del pubblico impegnato!”, esclamò una volta la nostra collega con disabilità Stefania Baiesi.
Che siano queste o meno le richieste attuali, di certo il pubblico non è sempre stato così. La disabilità con il suo carattere di imprevedibilità ed extra ordinarietà ci riporta infatti ai grandi momenti di fioritura della scena, alla Commedia dell’Arte, al Teatro Elisabettiano, dove il pubblico parlava con i personaggi, urlava, commentava, lanciava ortaggi e chi più ne ha più ne metta se lo spettacolo non si rivelava di suo gradimento.
Gli artisti però lo sanno che dietro a tutte le pareti, portanti, divisorie e scorrevoli anche oggi c’è sempre il NOI di Piergiorgio Giacché. Ed ecco allora che quando lo spettacolo desidera davvero dialogare con te, te lo fa sentire con tutti i mezzi che ha, a partire da quello che vediamo sulla scena.
Luci, scenografia, costumi, e più in generale tutti gli elementi che caratterizzano l’impianto dello spettacolo sono stati così i primi termini di paragone per provare a orientarci nella visione in vista di una restituzione successiva. Cercare di ricordare, saper dire che cosa è accaduto, essere consapevoli di che cosa effettivamente siamo stati testimoni è qualcosa di molto difficile per alcuni di noi anche nella quotidianità. C’è chi si ricorda sempre tutto minuziosamente, chi solo gli oggetti o un fatto tra tanti, chi magari si fa distrarre da un suono, ma da lì, da quel particolare, è sempre possibile avviare insieme nuove creazioni.
Abbiamo imparato per esempio che a teatro esistono tre tempi: il prima, il durante e il dopo lo spettacolo, la cui qualità condizionerà il vissuto dell’intera esperienza visiva e la sua durata nella memoria.
Tuttavia è lì, nell’incontro con l’attore, che accade davvero qualcosa di imprevisto, qualcosa che, come in un viaggio verso un paese lontano, può portarti “dove non sei stato mai”.
Potrebbe allora capitarvi, come a Tatiana, di trovarvi spettatori sul palco, a cercare di capire da che parte state, di dimenticare a casa gli occhiali, come a Mattias, oppure di ritornare con il corpo alle emozioni che i colori vi davano da bambini come invece è successo a Lorella.
È accaduto allo spettacolo Report dalla città fragile di Gigi Gherzi, durante Antigone de Le Belle Bandiere e sulle orme-ombre di Cane Blu di Teatro Gioco Vita.
Tocca a te, spettatore! Pensieri in libertà su Report dalla città fragile, uno spettacolo di Gigi Gherzi – ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
di Tatiana Vitali
Fin dall’inizio, quando ci si appresta a entrare nella sala del Teatro ITC per assistere a Report dalla città fragile si comprende che quella che stiamo per vivere non sarà un’esperienza dai contorni regolari.
Si entra a piccoli gruppi e un’atmosfera di curiosa attesa, non appena il primo scaglione scompare nel buio, invade rapidamente il foyer. Finché non è il nostro momento e arriva Gigi Gherzi, il regista con Pietro Floridia dello spettacolo, ad accoglierci personalmente nel corridoio per condurci piano piano nei meandri del teatro. Gigi ci parla come se ci avesse incontrato per la strada e volesse svelarci un segreto. Un atteggiamento anomalo, mi son detta, che a teatro non avevo mai visto…
Di solito c’è sempre una certa distanza tra chi è sul palco e chi è in platea, mentre ora, che per di più non siamo in nessuno di questi luoghi ma in un corridoio, lo spettacolo è già iniziato e io, che non so bene il perché, mi sento spaventata e coinvolta.
Gigi ci prepara così, dandoci del tu, avvicinandosi ai nostri sguardi e indicandoci una teca di immagini, costruzioni e parole, preludio, scopriremo, al racconto del suo viaggio alla ricerca delle storie e delle voci di quelle che lui chiama le “persone fragili”.
Facciamo il giro della sala e saliamo sul palco, dove tutto quello che vediamo lo possiamo osservare, toccare… C’è un museo di tante, tantissime teche in mezzo a cui perdersi… sembra un bosco. Ci chiedono poi di toccare ed esplorare questa misteriosa scenografia, il protagonista chiacchiera con noi… Quello, lo si capisce già, sarà proprio il nostro spettacolo! Ci sediamo sulle panche in semicerchio, come nel teatro greco, e Gigi ci invita a dire la nostra sul suo racconto e, prendendo spunto di volta in volta dai frammenti delle sue interviste alle persone fragili della città e dell’ex ospedale psichiatrico milanese Paolo Pini, scriviamo dentro alle teche, lasciamo messaggi, i nostri messaggi, ogni sera diversi come diverso sarà anche lo spettacolo che Gigi ci racconterà. Le vite dei personaggi e quella di Gigi scorrono e così le nostre matite sulla carta, reperti di un passaggio graduale, del prima e del dopo e del nostro essere lì, sul palco, pronti a riconoscere, insieme, anche quello che nella nostra città vediamo e viviamo ogni giorno. A un certo punto ci viene chiesto di scegliere una teca e di posarla a terra. Sarà il pezzo di una nuova mappa, quella del pubblico presente sulla scena, nuovo microcosmo, nuova piccola città fatta di fragilità
Report dalla città fragile è davvero uno spettacolo dello spettatore, ogni sera coautore insieme a Gigi della storia che verrà. Non immaginavo che questo fosse possibile, né tanto meno di poter salire su un palco per vivere uno spettacolo senza recitarlo. Eppure, ho scoperto che anche noi, spettatori, possiamo essere e fare moltis- simo, anche per cambiare le cose, a partire anche solo da lì, dal teatro. Per esempio condividere le nostre fragilità e partecipare in questo modo più attivamente alla vita, proprio come abbiamo fatto sul palco del Teatro ITC.
Signore e signori, si raccomanda di togliere gli occhiali… Una visione sensibile di Antigone de Le Belle Bandiere – Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno (BO)
di Mattias Fregni
Nonostante questa sera abbia dimenticato a casa gli occhiali, la vivace danza di globi luminosi e suoni su sfondo nero che hanno accompagnato la tragedia di Antigone della compagnia Le Belle Bandiere, mi ha completamente incantato. Anzi, vi dirò di più: proprio grazie a questa mia sbadataggine, mentre mi abbandonavo al flusso dello spettacolo, sono stato raggiunto da tante piccole scariche elettriche luminose e posso dire d’aver assistito a uno scenario unico, irripetibile, che non ho paura di chiamare “fantastico”. Quelle scariche non erano altro che le mie emozioni che passavano attraverso la voce e il corpo di un certo genere di fantasmi, gli attori, e che improvvisamente mi sono arrivate dritte dritte allo stomaco senza chiedermi tanti perché.
La storia di Antigone è una storia difficile, anche se partita in fondo da un desiderio semplice, quello cioè di una sorella di seppellire il proprio fratello, di cui se non ho afferrato tutti i dettagli conservo però ancora l’odore e soprattutto la musica… che, beh, a tratti era proprio rock! Non avrei immaginato che in una tragedia ambientata nell’antica Grecia avrei potuto scovare i Dream Theatre e della musica elettronica e invece è andata finire che, nonostante la serietà del dramma, mi sono persino divertito…
Il giorno dopo una mia collega mi ha raccontato che al Teatro Arena del Sole di Bologna c’è un uomo che da anni va a vedere quasi tutti gli spettacoli in stagione e che quest’uomo è completamente cieco… beh, non stento a crederlo!
Ho apprezzato tantissimo l’ambivalenza, già insita nel dramma, di momenti sonori dolci e delicati alternati a momenti quasi frenetici, evidenziandola nei recitativi e là dove il ritmo narrativo faceva prender velocità a tutta la performance. Si adattava perfettamente al mio pensiero del momento e alla mia partecipazione nei confronti dei personaggi… Sembrava che tutto fosse fatto appositamente per me, Mattias, e sentivo che anche per gli altri spettatori che mi erano seduti accanto era lo stesso… Come ho fatto a capirlo non lo so, lo sentivo e basta. Sarà perché non portavo gli occhiali che sono diventato così sensibile e attento? Chissà… Una cosa però è certa: io a teatro gli occhiali non li metto più.
Un Cane Blunerosso. Tra colori di Cane Blu di Teatro Gioco Vita –Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno (BO)
di Lorella Picconi e Lucia Cominoli
Sono molte le persone, gli studiosi, scienziati e artisti che si sono interrogati, hanno scritto, disegnato e discusso sulle proprietà dei colori. In Cane Blu la compagnia Teatro Gioco e Vita non ci parla direttamente dei colori ma li usa quasi come se fossero dei personaggi, delle entità vive che mano a mano accompagnano le azioni, le voci e i segreti dei protagonisti e ne fanno parte, circondandoci con tutta la loro luce, di emozioni sempre diverse, proprio come nei sogni, che il più delle volte sono in bianco e nero ma qualche volta possono anche essere colorati.
E così c’era il BLU.
Colore calmo e tranquillo, colore saggio di cane, blu tutto, piccolo, grande, sul pavi- mento, sul soffitto, voce che non chiede spiegazioni, voce paziente.
E così c’era il ROSSO.
Colore passione, colore imprevisto di amicizia e d’ira, di contesa e passaggio, spaesamento, azione, abbraccio non richiesto che ingloba, infuoca, mi infuoca.
E così c’era il NERO.
Colore terrore, colore cupo, ombra, vuoto, paura che non mi lascia in pace, sconfitta, lotta che non si arrende, bosco, scoperta, riposo.
Sono ancora qui e mentre osservo Cane Blu non ho più paura di mischiare i colori, perché mi guardo intorno e quando le luci invadono il soffitto del teatro un sussulto di stupore mi scappa fuori dalla bocca. Forse è sempre un sogno ma, questa volta, mi piace di più. Mi ricordo di quando ero bambina… e lassù, sul soffitto, ci sono altri come me.
4.3 Il deficit come risorsa creativa per la rielaborazione
Vederci poco, sentire male, non deambulare, far fatica a prestare attenzione, spaventarsi con facilità, sono tutte mancanze che possono condizionare la visione dello spettacolo, limitandone in certi casi la comprensione.
Il teatro tuttavia, lo abbiamo visto, è provvisto di segni, come gli elementi scenici, che possono aiutare a orientarsi in maniera piuttosto immediata su quella che è l’atmosfera generale dello spettacolo, segni che, messi in relazione al corpo dell’attore, al suo modo di utilizzarlo, alle parole e alla temperatura della voce si fanno per lo spettatore importanti indicatori di senso. Eppure c’è di più.
Al di là della comprensione generale che, potremmo dire, mette in campo il nostro cervello, c’è ne è una ancora più interna, irrazionale ed emotivamente instabile che appartiene alla sfera dello stomaco, detto non a caso “il secondo cervello”, che, nell’esperienza teatrale, tende a spingere in fuori le nostre pulsioni animali, i ricordi e l’inconscio.
Inutile dire che il “sentire di pancia” si sia dimostrato per noi un altro inconsapevole veicolo di accessibilità all’esperienza teatrale.
Detto ciò è capitato spesso tuttavia che alcuni colleghi con disabilità del Progetto Calamaio abbiano vissuto durante lo spettacolo momenti di forte empatia ed emozione che non sono più stati in grado di restituire a parole al termine della visione. Ciò non significa che l’emozione provata non fosse mai esistita ma che semplicemente il racconto tradizionale non era il mezzo adatto ad esprimerla.
Il Calamaio, va specificato, benché a un certo punto si sia giocosamente definito “redazione”, non ha infatti mai inteso riproporre al pubblico dei teatri delle recensioni, ha invece cercato, sul blog http://laquintaparete.accaparlante.it, di restituire degli sguardi che potessero dare allo spettacolo il valore aggiunto di un’ulteriore esperienza. Lo ha fatto attraverso disegni, associazioni di idee, canzoni, costruzioni con materiali di riciclo, che di volta in volta ci sembrava si avvicinassero “di pancia” alle suggestioni offerte dalla visione degli spettacoli.
E così, come potrete vedere nel dossier al centro del volume, abbiamo sperimentato con Diego e Lorella delle impressioni cucite, nate dalla visione dello spettacolo Come una Perla, protagonisti i lavoratori cassintegrati dell’azienda emiliana; insieme a loro Samuele, Filippo e Nicolò, i figli dell’educatore Tristano, ci hanno aiutati a costruire un pupo siciliano dopo O a Palermo o all’Inferno di Mimmo Cuticchio; l’illustratore Attilio Palumbo invece ci ha permesso con i suoi disegni di descrivere l’essenza degli spettacoli Tiergartenstrasse 4 e La fabbrica dei preti mentre con Francesco e Sara tentavamo di costruire una macchina piena di chiavi e lucchetti con cui cambiare il mondo, proprio come nell’ultimo spettacolo di Andrea Paolucci che abbiamo visto a ITC Teatro, La magnifica illusione.
Qualcuno si è cimentato anche nella scrittura, creativa però, come Emanuela e Patrizia, che in rima ci hanno condotto per la discarica di Casa dolce casa, o come Diego che nel bisogno di gridare i propri diritti dei lavoratori de La Perla ha riconosciuto anche i suoi, o ancora come Ermanno, che dopo la visione de La fabbrica dei preti ha pensato di inventarsi una storia nuova di zecca, dove un bambino, seminarista e futuro prete, riceve una lettera nientepopodimenoche dal Papa per esortarlo a una grande missione… E poi c’è lui, il Dizionario dello spettatore, che potete consultare sul blog e che con i suoi strampalati lemmi ci ha permesso di orientarci nella parte più nascosta della scena, la nostra.
Finalmente a Casa Dolce Casa! Dentro lo spettacolo di Marcello Chiarenza con una canzone – Teatro Arena del Sole di Bologna
di Emanuela Marasca e Patrizia Passini
Eccoci arrivati a Casa dolce casa! Siete stanchi della dura giornata e non vedete l’ora di mettervi in pantofole? Di mangiare un piatto caldo e stendervi soli soletti sul divano?
Allora, sembrano dirci il regista Marcello Chiarenza e il suo gruppo di coinquilini bislacchi, ci dispiace, ma siete finiti nel posto sbagliato. All’Arena del Sole questa volta si entra a piedi nudi, si mangiano topi in salmì e ci si arrampica sui rifiuti dei sogni. Perché….
Casa dolce casa fa sì
che anche tu in un battibaleno stai col naso in su.
Se ti lasci trasportare dalle melodie
potresti poi scoprirti in un mondo di follie.
Là in una discarica della città,
trovi, ahimè, gli scarti di una società.
Ma chi può sopravvivere a siffatta realtà?
E sono proprio loro: un gruppo di clochard.
In un angolo di mondo ben poco ordinato,
accadono eventi che mai hai immaginato.
Succede là di tutto, ma con creatività
gli oggetti prendon vita con genialità.
Clown, equilibristi, saltatori e giocolieri,
riescono a scombinare persino i tuoi pensieri.
Non puoi meravigliarti se all’improvviso,
sei chiamato in scena a tendere il tuo viso.
Ecco poi arrivare dall’Est un forte vento,
che solleva ombrelli in un portentoso evento.
Piovono le stelle, rimani a bocca aperta:
che magico mondo! È tutto una scoperta.
Tutto è raccontato con delicata ironia
e pure la Morte diventa poesia!
Questo che ti ho detto è solo un assaggio
di quel che puoi vedere, dai: forza e coraggio!
Cercasi sostituto. Una parabola semiseria da La fabbrica dei preti di Giuliana Musso – ITC Teatro
di Ermanno Morico
Tommy era un bambino di 8 anni che viveva in un seminario nel nord dell’Italia. Studiava, leggeva e pregava “Amen Amen Amen” moltissimo per diventare prete, musulmano, ortodosso o chi lo sa… Insomma, un bel miscuglio! La sua vita in collegio trascorreva in modo movimentato e vivace, aveva molti amici e si dedicava a tante attività. Un bel giorno Tommy ricevette una lettera papale. Tommy non stava più nella pelle, il Papa in persona scriveva a un bambino! Chissà che voleva? Boh? Quando aprì la lettera esclamò “Uau!” Il Papa gli stava confidando di essere ormai diventato un po’ vecchio e acciacatello e di non farcela più a lavorare da solo, tanto che stava pensando di lasciare il suo mandato per andare in pensione. C’era bisogno di un aiutante o meglio di un vero e proprio sostituto, di un giovane e bravo prete nuovo. “Per cominciare dovresti riempire un bello zaino grande” – scriveva il Papa – “e andare in Sud America o in India a curare i lebbrosi, gli storpi, la peste, i bambini poveri o in difficoltà e chi più ne ha più ne metta”.
Così, messi via i vestiti e la sua roba con il beautycase e lo spazzolino elettronico nella valigia grande, Tommy prese il treno per andare a Rio de Janeiro, in Brasile. Dormi e sveglia, dopo dieci giorni di viaggio in cuccetta Tommy scelse di cambiare mezzo di trasposto e decise di scendere dal treno per prendere il traghetto.
All’aereo il bambino non aveva neanche pensato perché era un avventuriero e sceglieva sempre la via più difficile anche per raggiungere cose semplici. Così, sul traghetto, in cabina, un giorno Tommy sentì improvvisamente il suono di un campanello “Din-Don”, che sembrava una delle campane che il futuro pretino era abituato a sentire in chiesa. Il suono risuonò forte. Subito arrivò un signore grande e grosso, un vero e proprio marcantonio d’uomo che chiese a Tommy: “Hai chiamato?”. Già, proprio come il Lurch della famiglia Addams!
Tommy a quel punto ne approfittò e gli disse. “Mi faresti un piacere? Mi puoi aiutare a mettere sopra sul portabagagli la mia valigia che è molto pesante?”.
Lurch, che era un vero e proprio armadio, mise subito a posto la valigia sul portapacchi e si fermò a riposare insieme a Tommy.
Ci misero giorni e giorni ad arrivare a destinazione, giorni che i due trascorsero chiacchierando, giocando a carte, a briscola e a tressette per non annoiarsi. Tommy era molto bravo perché al seminario ci giocava spesso e, se si può dire, era un vero e proprio asso di carte!
Passava il tempo, finché un mattino il traghetto non si attraccò in un porto. A quel punto Tommy si accorse di non essere in Brasile ma a Mumbai, in India! A quel punto, con grande gioia, Tommy e Lurch, uscirono dal porto e presero un altro treno, più piccolo, per andare tutte e due a Calcutta, in collina, dove abitava Madre Teresa. I due amici salirono per tortuosi cunicoli e saliscendi, per di qua e per di là, dopo un lungo viaggio e una lunga camminata arrivarono alla città di Calcutta in India.
Tommy e Lurch raggiunsero a piedi la collina e si trovarono improvvisamente di fronte a un convento con un portone enorme e di legno massiccio così fatto contro le intemperie, la pioggia e il vento.
Timidi e un po’ curiosi i due tirarono una corda all’ingiù per suonare il campanello che fece un rumore così forte che persino un sordo avrebbe potuto sentirlo.
A quel punto il portone si aprì, “Chi sei?” – disse una voce di uomo. Quando lo vide Tommy pensò di essere di fronte a Luciano Pavarotti in persona, pronto pronto per l’opera… Era invece un prete indiano, che indossava una giacca grigia scura ricamata d’oro che faceva risaltare una lunga e bellissima barba nera.
Tommy rispose: “Sono il sostituto che stavate aspettando e sono arrivato fino a qui perché ho con me una busta papale. Non c’è più Madre Teresa?”.
Il prete indiano scosse la testa e provò a sbirciare e poi aprì la lettera per vedere che cosa c’era scritto. Tommy non diceva bugie era in missione per conto del Papa, caspiterina!
L’indiano che somigliava a Pavarotti gli disse: “Miserere!” – esclamò – “Io sono un amico di vecchia data di Madre Teresa che ormai è andata in giro per altri mondi… Anche per me, caro Tommy, è giunto il momento di ritirarmi, me ne torno dal mio gruppo, a Roma. Adesso tocca a te!”.
Tommy non capiva più se era lì per fare il prete o Indiana Jones con tanto di cappello e di frusta… Lurch a quel punto fece un gran sorriso, disse: “Beh, caro Tommy, credo il mio compito sia finito. Ora sei tu che ti devi dar da fare, grazie di tutto e del bel viaggio, spero che tu possa diventare un bravo prete! Io ora me ne torno a casa…”.
Tommy sapeva che Lerch era un po’ povero… Per questo mise la mano a terra e prese dalla giacca abbandonata dell’indiano, che se l’era data a gambe levate, un po’ d’oro e glielo regalò in cambio del tempo trascorso insieme.
Lurch, commosso, gli lasciò in dono una bella scatola con trenta mazzi di carte! Poi gli indicò alcuni bambini come lui tutti sporchi e molto magri che lì vicino guardavano fisso nel vuoto.
Tommy fece di sì con la testa e non ci pensò due volte.
E così, a Calcutta, sul nuovo bar della collina, con la sua scatola di carte, Tommy trascorse la sua missione con gli amici e le altre persone che era venuto a curare, giocando a rubamazzo, tre sette e a briscola, soprattutto la sera dopo il lavoro.
Perché è viaggiando, facendo fatica, giocando e prendendosi cura degli amici che uno diventa un bravo prete e, secondo me, pure una brava persona.
La canzone del NOI – I lavoratori dello spettacolo Come una Perla ci insegnano a difendere i diritti – ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
di Diego Centinaro
NOI… Vogliamo essere autonomi e indipendenti NOI… Abbiamo diritto di divertirci anche fuori casa
NOI… Siamo giovani e abbiamo diritto di lavorare e di farci una vita come tutti
NOI… Abbiamo voglia e bisogno di andare in vacanza
NOI… Non stiamo zitti
NOI… Facciamo cultura
NOI… Esistiamo per comunicare
NOI… Non vogliamo teste chiuse
NOI… Siamo simpatici…
Ma anche no NOI… Parliamo di diversità
NOI Non ci saremmo se non fossimo mille più uno… O forse anche di più.
S come “specchio”
di Francesca Aggio, Diego Centinaro, Mario Fulgaro, Lorella Picconi, Tatiana Vitali
Lo specchio è l’anello che congiunge profondità e cambiamento, l’accettare con il modificare. Rintracciabile facilmente in natura, lo specchio può prendere la forma di un bicchiere o di una pozzanghera a seconda di chi qui va cercando la propria immagine. Vanitoso, seducente e confuso, lo specchio è riflesso o meglio ancora riflessivo, permette di comunicare con il labiale e di rendere uno spazio piccolo grande e arioso. A volte si finisce per litigare con lo specchio e allora non sei più in due ma sei uno solo. Lì davanti non c’è scampo quando ti rendi conto che ci sei anche tu.
4.4 Mediare ma non filtrare. L’incontro con critici e artisti
Abbiamo visto come il nostro “sentire di pancia” ci abbia aiutati nella creazione di un’eco duratura a fine spettacolo. È successa la stessa cosa anche nell’incontro con i critici e gli artisti, che, inevitabilmente, sono stati contagiati dalla spinta del gruppo.
I critici, come Massimo Marino di «Corriere della Sera» di Bologna e Agnese Doria de «L’Unità» di Bologna e redazione «Altre Velocità», hanno avuto il pregio di renderci partecipi dei temi degli spettacoli con contestualizzazioni storiche precise e poetiche al tempo stesso.
Le nostre domande, dal canto loro, li hanno costretti a semplificare i propri concetti per arrivare a riviverne loro stessi i presupposti.
“Mi è piaciuto il progetto – racconta Marino – la costanza nel guardare, nel cercare e approfondire quello che c’è prima dello spettacolo, la ricerca di espressione nonostante quelli che possono essere i limiti fisici delle persone. Ho sentito una grande intelligenza che bisognava ascoltare, con pazienza, perché spesso celata sotto parole articolate con fatica, in certi casi difficili da capire per chi le ascolta senza una consuetudine con le persone con disabilità fisica. Mi ha colpito il tono generale degli interventi, leggero ma profondo, capace di porsi domande essenziali senza soggezioni, desideroso di capire”.
Poter esprimere la propria opinione, interrogarsi, mettere in crisi, farsi interpreti del proprio presente, partire dai temi offerti dallo spettacolo senza pensare necessariamente alla disabilità è stata per molti una grande occasione di crescita e per altri l’occasione per esprimere competenze pregresse che non sempre, a causa del deficit o di situazioni familiari complesse, è possibile coltivare in autonomia e piena libertà.
È stato il caso di Mario Fulgaro, autore del bellissimo excursus tra Pasolini e l’Orlando per raccontarci i pupi siciliani di Mimmo Cuticchio, seguito allo spettacolo O a Palermo o all’Inferno.
Dell’incontro con gli artisti vi proponiamo invece la lettera che Lorella ha dedicato al clown Daniel Romila di Associazione Parada, protagonista di Casa Dolce Casa, la cui storia non poteva certo essere dimenticata, e un’altra lettera a cura invece dell’educatore e scrittore per l’infanzia Roberto Parmeggiani dedicata a Ofelia, l’eroina di Tiergartenstrasse 4.
Prima di lasciarvi alla lettura però, condividiamo con voi della posta ricevuta, il riscontro cioè che ci hanno mandato alcuni artisti dopo aver preso in visione le nostre restituzioni sul blog.
Così Fabrizio Montecchi della compagnia Teatro Gioco e Vita di Piacenza:
“Sono Fabrizio Montecchi, regista di Cane Blu.
Devo confessarvi che la vostra sorpresa e meraviglia di fronte a Cane Blu è niente rispetto a quello che ho provato io leggendo le recensioni sul vostro sito. Sono come una boccata d’aria fresca, sono la ragione per la quale uno fa (o cerca di fare) questo mestiere. Non c’è pregiudizio critico, non c’è prima e dopo storico, c’è solo lo stare lì, in teatro, e vivere quello che sta succedendo. È una critica senza “critico” ma solo con spettatore.
Non posso dunque che complimentarmi con voi, per questo progetto che oltre alla sua utilità terapeutica sa anche offrire a noi teatranti uno sguardo diverso su quello che facciamo.
Il mio augurio è dunque che continuiate a seguirci con lo stesso amore, e passione, dimostrato in questa occasione.
Grazie ancora”.
E il gruppo di Teatro Sotterraneo di Firenze-Pistoia:
“Tutto il teatro che facciamo ruota intorno a un pensiero sulla civitas, sull’esercizio di cittadinanza che uno spettatore compie nel venire a teatro e sul senso della sua esperienza di visione all’interno di una comunità, per cui la vostra attività si sposa in pieno con quelle che sono le nostre tensioni nella ricerca artistica. E l’apertura ai pubblici più disparati, il confronto con uno sguardo altro che non sia quello di un habitué è sempre per noi un enorme regalo: sì, assolutamente il teatro dovrebbe essere luogo di aggregazione e condivisione, apertura mentale, e il lavoro che fate crediamo che centri in pieno questa prospettiva. È meraviglioso che esistano progetti del genere! Grazie ancora e un saluto collettivo”.
Le riscoperte – Tra Ariosto e Pasolini con O a Palermo o all’Inferno di Mimmo Cuticchio – Teatro Arena del Sole di Bologna
di Mario Fulgaro
La visione in TV del film di Pasolini Che cosa sono le nuvole aveva già suscitato in me bambino grande curiosità circa l’universo, a volte onirico, altre volte nostalgico, dei pupi siciliani. Poco tempo dopo ho avuto la grande opportunità, in vacanza con i miei genitori, di recarmi in Sicilia. Come souvenir di quel viaggio, mi si offriva davanti agli occhi l’acquisto di un pupo siciliano tra svariati pupi. I vari venditori pub- blicizzavano ciascuno i propri prodotti, conferendo loro nomi leggendari, quali Orlando o Angelica o Ruggero e tanti altri nomi, per me, fiabeschi. Non ho però assistito a nessuno spettacolo teatrale in quella circostanza di villeggiatura, né pensavo potessero esisterne in grande o piccolo stile. Anche se bambino, mi rendevo conto di come quel mondo potesse appartenere solo a un ambito ristretto di cultori, come tutto potesse essere stato incasellato in un passato remoto per farlo riemergere e darne testimonianza storica ai turisti curiosi, anche in forma di semplice cimelio ancestrale da conservare. Invece tutto quel mondo, al contempo incantato e disincantato, esiste tuttora e rivive di fulgida potenza grazie all’opera di chi, come Mimmo Cuticchio, inscena periodicamente in tutta Italia, e in particolare in Sicilia, rappresentazioni teatrali che hanno per l’appunto come protagoniste queste simpatiche “marionette”. O a Palermo o all’Inferno è il titolo dello spettacolo portato in tour per il “bel Paese” e che tratta dello sbarco dei Mille in Sicilia. Già il tema, in modo più che naturale e istantaneo, finisce, volente o nolente, col rimuovere vecchie e recenti conoscenze storiche, apprese a scuola o alla TV o, ancor più radicate in ognuno, dettate dai giudizi preconcetti. Sul palco si alternavano in modo simultaneo l’attore Cuticchio con i vari personaggi della vicenda, interpretati dai pupi siciliani, la cui voce veniva loro prestata dallo stesso Cuticchio in presa diretta. È stato bello scoprire, man mano che tutta la storia trovava una sua forma compiuta, le diverse tecniche di recitazione utilizzate. Il dialetto siciliano stretto, parlato per quasi tutta l’opera e in contrasto con quello torinese, aveva un valore ambivalente molto efficace. Infatti da un lato riusciva a catapultare il pubblico in un contesto più reale e genuino, attualizzando quasi tutto ciò che di nostro è stato un tempo, dall’altro evidenziava tutte le differenze culturali e sociali di un’Italia ancora embrionale, ma già presente solamente negli ideali di Patria Unita. A intervallare le diverse scene teatrali degli eventi è il cuntu, narrazione, questa volta in versi riassuntivi, di gesta e vicende delle battaglie susseguite nel corso di un decennio e oltre. L’errore di citazione commesso per un attimo di distrazione, forse studiato quindi voluto o forse casuale chissà, conferendo il nome di Francesco re Delle Due Sicilie a quello di Vittorio Emanuele re del nuovo Regno d’Italia, finiva col dare una forte connotazione di improvvisazione allo spettacolo. Non se ne poteva che rimanere stupiti e meravigliati. I confini ristretti del teatro, con i suoi canoni classici di recitazione e movenze, si allargavano al più ampio ambito di una agorà, intesa come luogo di incontro casuale per ascoltare cose inaspettate ma non per questo prive di interesse e conoscenza preziosa da trasmettere. Il cuntu, infatti, ha le sue radici più profonde e salde nella tradizione culturale dei cantastorie, cuntastorie, di piazza. Sorprendenti sono state le movenze del braccio, con spada impugnata bene in mano, e il ritmo di scansione delle parole pronunciate come in un canto sincopato. Ad accompagnare tale scansione della voce era il battere sincrono del piede sul pavimento del palco, a voler conferire maggiore forza ed enfasi a quanto già di importante veniva espresso. La spada, poi, indirizzata con la punta verso il pubblico, sembrava idealmente creare un largo solco dove andavano a incunearsi le frasi, le parole, i gesti del cantastorie. Ciascuno nel pubblico poteva così partecipare da spettatore attivo, sentendosi tirato direttamente in causa a darsi delle risposte su quanto accaduto un tempo, in relazione a quello che viviamo oggi e rispetto a tutto ciò che l’opera teatrale offriva, in termini di conoscenza storica e sociale di due Paesi (Regno di Sardegna e Regno delle due Sicilie, Nord e Sud Italia) che tentavano di unificarsi ma che, per la loro discrepanza culturale, hanno finito anche col differenziarsi e prevaricarsi. Infatti oggi questo stesso spettacolo teatrale, con tutti i suoi medesimi personaggi, parlerebbe forse della incompiutezza di una unità economico-sociale (gli storici parlerebbero di “modernizzazione”) di un paese che con forza e coraggio, quindi con sofferenza e, a volte, con intolleranza, sta ricercando le proprie radici comuni per superare i naturali ostacoli che una “avventura” di tale portata comporta.
Un naso rosso per uscire dall’oscurità. Dopo l’incontro con il clown Daniel Romila
di Lorella Picconi
Non dimenticherò l’incontro con questa persona speciale.
Sto parlando di Daniel Romila, in arte Dan, clown dell’Associazione Parada e uno dei protagonisti di Casa dolce casa.
Dan è un ragazzo (un bel ragazzo mi permetto di specificare), nato e vissuto in Romania in un periodo storico per il suo paese molto difficile, quando ,dopo la caduta del dittatore Ceauşescu negli anni ’90, molti bambini rimasti senza genitori sono scappati dagli orfanotrofi, riversandosi per le strade di Bucarest e trovando rifugio nelle fogne.
Dan ci ha parlato della sua condizione in Romania e di come è diventato un artista, grazie all’incontro con il clown Miloud Oukili e cominciando a inventarsi dei giochi… Lavorando cioè con gli strumenti del circo di strada per far divertire la gente. In questo modo, dimostrando agli altri che sapeva fare delle cose, Dan è riuscito a riscattarsi, ha cominciato il suo viaggio ed è arrivato fin qui.
Con lui ci siamo divertiti moltissimo, ha fatto dei giochi di prestigio con le carte, il numero della sigaretta (se l’è fatta passare da un orecchio all’altro!) e ha trasformato un’arancia in una bella candela. Così con questa lucina in mezzo alla tavola da pranzo abbiamo bussato alle porte di Casa dolce casa. Là dove tutto si può riciclare, esseri umani, lo avete letto, compresi.
Dan, ho poi scoperto durante lo spettacolo, è anche un bravissimo giocoliere. Che differenza c’è – gli ho chiesto – tra un giocoliere e un clown?
C’è che il primo lavora con gli oggetti mentre il secondo con le persone.
Non male come risposta. Dan è un tipo che arriva dritto al punto, proprio come me. Ma poi, perché un clown ci fa tanto ridere?
Perché lavora, ha aggiunto, sui propri fallimenti.
Beh, a questo punto, mi sono detta, è proprio vero… Tutto può succedere! Quando cominciamo?
Grazie Dan, conoscerti è stato un vero piacere. Un abbraccio da tutti noi!
Ofelia, dove sei? Una lettera in cerca dell’eroina di Tiergartenstrasse 4. Un giardino per Ofelia di Pietro Floridia – ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
di Roberto Parmeggiani
Ciao Ofelia.
Di te mi rimane un’immagine.
Protesa verso l’alto, forse verso il cielo. Il tuo corpo, il tuo sguardo, i tuoi ricordi. In avanti, catturata da quel che verrà.
Dirai che i ricordi sono del passato. Indubbiamente, ma ci sono anche i ricordi del futuro, quelli che speriamo, che vorremmo vivere. Il desiderio di incontrare chi non possiamo più toccare o vedere.
Sei partita, all’improvviso, con un sacchetto di semi di girasole nascosto in tasca.
Un piccolo tesoro di cui ti starai prendendo cura come fai di solito con le persone, come hai fatto con Gertrud.
Sai, mi sono chiesto tante volte: chi ha salvato chi? Gertrud ha salvato Ofelia o viceversa?
Comunque sia qualcosa è cambiato, nella vita di entrambe. Non siete più le stesse, pur restando sempre Gertrud e Ofelia.
Come quando un seme diventa un fiore, è sempre lo stesso pur essendo diverso. Starai guardando i tuoi girasoli, adesso. Ma anche i tulipani, i gelsomini e le rose. Un grande prato pieno di fiori. E tante persone a bocca aperta, con le braccia alzate, che saltano. Felici, solo felici. Perché davanti a qualcosa di bello si può essere solo felici.
E tu? Tu sul ramo di un grande albero, protesa verso l’alto, forse verso il cielo. Il tuo corpo, il tuo sguardo, i tuoi ricordi. In avanti, catturata da quel che verrà.
P.S. Stamattina hanno suonato alla porta. Quando ho aperto non c’era nessuno, solo un girasole e un biglietto: “Salvare lei era salvare me”.