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autore: Autore: Lucia Cominoli

Missione Roosevelt. Il plotone su sedie a rotelle dei Tony

di Lucia Comignoli

Clifton Circus “Il denaro non comprerà mai la salute, ma starei volentieri su una sedia a rotelle tempestata di diamanti”. Così, citando la scrittrice statunitense Dorothy Parker, tra le più celebrate nel Novecento per l’ironia sarcastica dei suoi provocatori poemetti, i Tony Clifton Circus introducono una delle loro ultime fatiche, la performance Missione Roosevelt, vera e propria invasione di spazi urbani da parte di spettatori su sedia a rotelle (ma non disabili) con cui hanno percorso le strade di diverse città d’Italia e di Francia, seconda patria d’adozione del gruppo.
Nato nel 2001, a omaggio del personaggio anti-comico inventato da Andy Kaufman, quello dei Tony Clifton Circus, all’anagrafe Nicola Danesi de Luca e Jacopo Fulgi, è un esempio di quel Nuovo Teatro che oggi rifiuta di farsi ingabbiare in etichette di genere ma che ama piuttosto ribaltare nei fatti i rapporti di sguardo tra attore e spettatore di pari passo con l’idea di spettacolo, riconducendo così l’opera ad azioni performative extra-quotidiane e inaspettate che riportano al centro l’essere umano in sé e per sé, tra i luoghi che abita (o crede di abitare) e nelle sue relazioni abituali, giocando sull’effetto a sorpresa e sul capovolgimento delle aspettative.
In questo senso il “circo dell’anomalia”, così come loro stessi lo hanno chiamato, è appellativo che non si riferisce alla diversità in senso stretto ma all’etimo della parola, dove anomalo non è ciò che è estraneo ma ciò che è “privo di regola”.
A testimoniarcelo è stata lo scorso settembre l’invasione operata per le strade di Parma di Missione Roosevelt, performance ospite di Insolito Festival, il primo festival estivo della città in collaborazione con Teatro delle Briciole/Fondazione Solares delle Arti.
Il titolo ammicca alla figura di Roosevelt, presidente degli Stati Uniti tra il 1932 e il 1945, il padre del New Deal, il pacchetto di riforme socioeconomiche, cioè, tra cui il Social Security Act, che permise al paese di uscire dalla Depressione degli anni Trenta e di introdurre per la prima volta l’assistenza sanitaria, l’indennità di disoccupazione e di vecchiaia a servizio dei cittadini. Una figura immagine di progresso e cambiamento sociale che tuttavia è anche legata alla disabilità, a causa della poliomielite che lo colpì nella seconda parte della vita e che non amò affatto mettere in mostra. Pochissime infatti sono, ancora oggi, le foto che ritraggono la figura del presidente americano in carrozzina, nonostante l’impegno concreto nella cre-
scita e nel finanziamento che egli dedicò fino alla morte alla creazione di nuove strutture di cura. Acuto stratega e promotore della “Grande Alleanza” con il Regno Unito di Winston Churchill e l’Unione Sovietica di Stalin durante la Seconda Guerra Mondiale, la sua è naturalmente una figura legata anche all’iniziativa militare, conduttore simbolo di equilibrio e di forza,
uno migliori secondo la storia politica made in USA.
Nulla di tutto questo è sfuggito ai Tony Clifton Circus che hanno immaginato e realizzato una vera e propria invasione per i parchi e le strade di Parma, chiedendo agli spettatori più o meno ignari di sedersi su una sedia a rotelle e di condurre insieme un percorso a forza di braccia giocando ai limiti di un’ipotetica esplorazione militare. Una provocazione che nasce
dall’umorismo cinico del gruppo, che tuttavia poco spazio ha lasciato alle pulsioni “guerresche” per addentrarsi piuttosto su quello che il movimento in carrozzina comporta nel semplice attraversamento dello spazio urbano, senza per questo mai nominare lei, la carrozzina per l’appunto, oggetto tabù e qui ridotto a semplice mezzo di trasporto.
Si comincia la marcia suonando il citofono di una casa da cui usciranno tutti e si parte dallo stesso punto; all’inizio ci si confronta con il nuovo ausilio, dai più mai usato, ci si prova a spostare, a spingersi con le ruote, a frenarsi, a regolare la velocità. Poi si parte guidati da Mr e Mrs Roosevelt, in questo caso Jacopo Fulgi e Diane Bonnot, e in fila per uno si seguono le loro indicazioni. Ne segue un percorso urbano tradizionale che tuttavia si rivelerà a prove e a ostacoli nel suo essere tale quale, così come lo ha portato cioè a essere la planimetria della città, con qualche aggiunta qua e là, tra cui salite, percorsi a slalom, obiettivi da raggiungere, il tutto, come si suol dire, in mezzo alla gente che passa.
Potrà capitare allora che qualcuno rimanga indietro o si blocchi ed è lì che il cortocircuito si fa interessante. Perché è quando sopraggiunge la difficoltà che l’azione contatta la reazione dell’altro, come ad esempio un passante che si trova improvvisamente a rispondere a una richiesta d’aiuto da parte di una persona disabile che realmente nemmeno lo è.
Un gioco di ruolo, si potrebbe dire, portato all’estremo, che porta con sé tutto quello che in noi si instaura nella relazione con ciò che percepiamo improvviso, inaspettato e fuori strada, ciò che ci fa inciampare sul tragitto e non ce n’eravamo accorti.
Benché manchi il deficit in senso stretto, l’handicap si presenta comunque in tutta la sua concretezza e lo fa con un pizzico di ferocia in più, sia di fronte allo spettatore su carrozzina che è diventato attore, sia di fronte allo spettatore-passante che si ritrova suo malgrado coinvolto. Ansia, senso d’inadeguatezza e impotenza da un lato, senso di colpa per la coscienza della menzogna in atto dall’altro e, nello stesso tempo, il desiderio furioso di uscire da quella difficoltà.
Nel frattempo Mr e Mrs Roosevelt cantano motivetti e incitano a superare le prove e a raggiungere gli obiettivi; tra i passanti alcuni si godono la scena, altri se ne vanno sdegnati, altri ancora restano attoniti. Il plotone nell’insieme ride e si diverte, di fatto è il protagonista di un gioco, vuole vincere e arrivare alla fine.
Una volta conclusa la gincana e raggiunta la meta si tira il fiato, si esulta e ci si rialza, con un po’ di fatica, dal mezzo ormai divenuto tutt’uno con il corpo tanto ne ha condizionato i movimenti e il raggio d’azione.
Le braccia fanno malissimo e nello stesso tempo è forte la gioia di rimettersi in piedi, di riprendere confidenza con i propri polpacci, piedi e ginocchia.
Sembra che tutto finisca qui, con un bel “ce l’abbiamo fatta”, niente di più. Quel che resta sono solo delle sedie a rotelle immobili e sparse. Ed è qui che fa capolino il “per fortuna”. Perché se prendere le distanze è rassicurante nello stesso tempo all’interno del plotone c’è un senso di fastidio che permane. Lo specchio, il senso di colpa, benché smorzati (o forse alimentati) dall’ironia dei Tony Clifton Circus, li hanno portati molto vicino a qualcosa che hanno sempre ignorato e c’è sempre stato, nei confronti del rapporto con la disabilità su cui non si sono mai soffermati ma soprattutto nei confronti dell’altro da noi che potremmo benissimo essere.
Per capirlo non è servito un convegno o incontro in presenza. È bastata un’azione molto semplice, così come il gruppo l’aveva immaginata: “Vogliamo attraversare uno spazio urbano, fare un percorso e lasciare un segno, una traccia colorata al suolo. Vogliamo condividere con voi il piacere del proibito, il piacere di utilizzare un oggetto tabù. Utilizzare un oggetto per la prima volta, forse solo questo basta, forse solo questo giustifica tutto. La sedia a rotelle è lo strumento e l’oggetto di Missione Roosevelt, il simbolo di tutto ciò che non ci riguarda oggi si fa nostro, la metafora dello svantaggio attraverso la quale conquistare la città. Un’esperienza urbanistica, una performance partecipata in cui il pubblico, accomodato su una sedia a rotelle, si trasforma in un piccolo plotone, una gioiosa macchina da guerra”.
Verso che cosa a noi deciderlo. Loro intanto lo hanno fatto. Con Amore e anche un po’ di Odio. Firmato Tony Clifton Circus.

Per saperne di più:
www.tonycliftoncircus.com
www.solaresdellearti.it

C’era una volta un pezzo di legno. Gli Amici di Luca incontrano Babilonia Teatri

di Lucia Cominoli

Dopo il debutto nel dicembre 2012 al Teatro Storchi di Modena, la tournée di Pinocchio, lo spettacolo realizzato dalla compagnia veronese Babilonia Teatri con gli attori usciti dal coma dell’Associazione Gli Amici di Luca e della Casa dei Risvegli di Bologna, non si è più fermata. Sarà per il riconoscimento ricevuto nel 2013 con il Premio ANCT, rilasciato dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, o forse perché, attingendo con immediatezza ai riferimenti più comuni della favola di Collodi, il gruppo ha saputo così sondare tra le pieghe e le contraddizioni tutte umane del burattino di legno, insieme alla voce di ben tre “pinocchi” (Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli) che, reduci da quel lungo risveglio che segue la stasi, desiderano ora vivere, essere e amare al centro di un mondo che sembra non riconoscerli più ma che al contempo ancora li scruta, desidera e insegue. Ne abbiamo discusso con Fulvio De Nigris, direttore del Centro Studi per la Ricerca sul Coma e fondatore de Gli Amici di Luca e il regista di Babilonia Teatri Enrico Castellari.

“Babilonia Teatri incontra Gli Amici di Luca. Gli Amici di Luca incontrano Babilonia Teatri. Un incontro. Uno scontro. Un crocevia. Un matrimonio di necessità”. Così avete definito l’inizio del vostro percorso… Cosa c’era prima?
Fulvio De Nigris: Un laboratorio teatrale, attivo alla Casa dei Risvegli dal 2003, che nel corso di questi
anni ha dato vita a sei spettacoli, coinvolgendo come attori gli ospiti dell’unità ospedaliera, con la partecipazione di volontari e professionisti che avevano già prodotto delle innovazioni nell’ambito del teatro legato alla disabilità, come Vincenzo Toma e Antonio Viganò, e che oggi è affidato agli operatori teatrali Stefano Masotti e Alessandra Cortesi con il coordinamento pedagogico di Laura Trevisani. Inoltre, fin dalle origini, è sempre stata stretta la collaborazione con il Dams di Bologna in particolare con Cristina Valenti, docente di Storia del Nuovo Teatro, che ci ha messo in contatto con i Babilonia Teatri, una compagnia oggi molto nota nel circuito teatrale che ha permesso alla nostra di raggiungere un’ulteriore crescita, una risonanza e un’eco mai raggiunte prima, importantissime per noi in un’ottica di contatto con l’esterno, come portare fuori lo spettacolo dalla struttura in tournée, un’occasione sempre straordinaria per gli attori dal punto di vista sia relazionale che professionale.
Enrico Castellani: Noi non avevamo mai lavorato con la disabilità in senso proprio; quando Cristina Valenti ci ha contattato non conoscevamo Gli amici di Luca, sono stati completamente una novità, così come non sapevamo nulla di coma. Allo stesso tempo ci siamo presentati loro senza alcuna perplessità, semplicemente con la volontà di andare incontro a delle persone che eravamo curiosi di conoscere, persone la cui vita si è trasformata a causa di quest’esperienza, un’esperienza, quella del coma, che ha portato loro dei danni a livello fisico, psicologico o comportamentale, a un handicap acquisito, una mentalità diversa rispetto alle persone che ho conosciuto con handicap dalla nascita. Noi ci siamo presentati provando a chiedere loro perché facevano teatro e ci hanno risposto che, a causa dell’handicap, la società li aveva messi da una parte, il teatro era il solo modo per rientrarci. La loro onestà e il valore assolutamente primario che attribuivano al teatro è stata per noi un’illuminazione e una folgorazione insieme, da lì è partita la riflessione per poter costruire uno spettscolo che potesse circuitare nei teatri, ossia nei luoghi che abitualmente frequentiamo, senza porla nell’ambito del cosiddetto “teatro sociale”, proprio perché tutto questo aveva un valore per loro assolutamente vitale.

Pinocchio è una delle figure per tradizione più associate alla disabilità… Perché riproporla ancora?
Fulvio De Nigris: È stata una scelta di Enrico e Valeria Raimondi, i registi, che noi abbiamo subito condiviso nei modi e negli intenti…
Enrico Castellani: In realtà Pinocchio doveva essere una dedica all’infanzia, il primo di una serie di spettacoli sulle età della vita. Quando abbiamo incontrato Gli Amici di Luca però quello che era ancora un contenitore vuoto si è improvvisamente riempito di senso. Pinocchio è infatti un corpo che come il loro da burattino si trasforma in corpo in carne e ossa. C’è poi un’altra ragione: Pinocchio è un romanzo di formazione e una fiaba che appartiene all’immaginario collettivo di noi tutti, tutti cioè capiamo subito di cosa sta parlando Pinocchio, a quali personaggi, luoghi e fatti si riferisce. Qui abbiamo innestato i loro vissuti spostandoli su un terreno di metafora, e così la Fata Turchina è diventata il desiderio di una fidanzata (l’affettività e la sessualità è infatti assolutamente centrale nelle loro vite) e il bisogno di evasione, che da una parte ricercano e da una parte li riporta ai bisogni della vita precedente, ci ha condotti nel Paese dei Balocchi. Pinocchio diventa una spalla che può permettere loro di procedere, di raccontarsi.

Lo spettacolo è stato preceduto da una lunga fase laboratoriale. Come siete arrivati a scegliere Paolo, Luigi e Riccardo e a sviluppare con loro la drammaturgia e la regia?
Fulvio De Nigris: Inizialmente hanno seguito il percorso tutti gli attori e i volontari del gruppo, io compreso
Enrico Castellani: Sì, la prima fase si è sviluppato nell’arco di sei-otto mesi con l’intera compagnia. Abbiamo poi chiesto loro, al di là delle personalità, chi fosse disponibile ad affrontare un periodo di prove costante per cinque residenze di sette giorni e un’intera tournée. Ovviamente tutto questo è stato dettato anche dal proprio tipo di vita, dal lavoro e dalle famiglie, di certo non abbiamo fatto provini, come del resto non facciamo mai, è stata una scelta, insomma, legata a fattori contingenti. Sicuramente non abbiamo fatto provini, cosa che per altro non facciamo mai. Per quanto riguarda la drammaturgia direi che un testo vero e proprio non esiste, esistono degli appuntamenti fissi ma è un testo a braccio in cui ci sono dei temi che vengono svolti direttamente sulla scena, la maggior parte dello spettacolo è infatti un’improvvisazione vera e propria. Ogni sera la mia voce fuori campo guida gli attori, gli argomenti trattati cambiano ogni volta e io continuo a spostare le domande, cerchiamo di essere spontanei sul palco, perché è questa la loro ricchezza, non avrebbe avuto senso costringerli o ingabbiarli in qualcosa di precostituito. Tutti gli argomenti che portiamo sono nati comunque dal lavoro di improvvisazione che abbiamo sviluppato nelle prove noi e loro assieme. Come regista ho cercato di mettermi in ascolto per metterli a loro volta a proprio agio.

Pensate di aver dato vita a un lavoro molto diverso dai precedenti?
Il tentativo è stato quello di mantenere cifre nostre come un particolare uso della musica e un procedimento a quadri che alla fine una storia vera e propria non la racconta… Cerchiamo di volta in volta di trovare la formula che più riesce a veicolare i contenuti che desideriamo condividere e questa che ho descritto ci sembrava la più consona.

Cosa hanno provato Gli Amici di Luca alla prima dello spettacolo?
Fulvio De Nigris: Al di là della prima a Modena è stato emozionante vedere entrare il pubblico dall’esterno per assistere allo spettacolo dentro la struttura. È la prova di come un luogo di cura può sviluppare percorsi artistici, così come è accaduto con l’incontro con il nostro testimonial Bergonzoni. Teatro e musica sono per noi strumenti di sensibilizzazione. Tutto ciò ha certo a che fare con il teatro impropriamente definito “sociale”, solo che ci sono attori che nel loro complesso non hanno nulla da invidiare agli altri.

Quanto peso sta avendo il supporto di un pubblico così esteso nella crescita personale e riabilitativa dei protagonisti?
Enrico Castellari: Questa è una domanda che continuiamo a porci anche noi. Di sicuro emerge da parte del pubblico una grande necessità di confrontarsi con questi temi e queste persone. Noi per primi non le frequentiamo generalmente nella nostra vita; quasi sempre sono persone che hanno una vita a parte rispetto alla società, nel momento in cui il pubblico le incontra è come se anche lui soddisfasse un bisogno. Per questo il nostro tentativo è stato volto a permettere agli attori che sono sul palco di raccontarsi e di essere se stessi, di poter dire in qualche modo che “ci sono” e di farlo a tutto tondo. Al di là delle implicazioni delle loro esperienze di coma, sono persone che normalmente non avrei mai incontrato da nessuna parte, la loro condizione e il teatro ci hanno permesso di farlo su un terreno sospeso dove è possibile incontrarsi prima di tutto come esseri umani.
Per quanto riguarda gli attori, invece, direi che l’esperienza di tournée li sta rendendo entusiasti. Un giorno a una replica dello spettacolo ci hanno chiesto se sarebbe stato possibile fare una doppia, date le moltissime richieste, e loro hanno risposto che erano pronti a farne dieci! L’incontro con il pubblico li carica di un’energia enorme che vorrebbero non finisse mai. Quando poi hanno ricevuto il Premio ANCT, volavano letteralmente tra le nuvole…
Fulvio De Nigris: Insieme a loro c’è sempre anche Stefano Masotti, teatrante e psicologo che fa un po’
da paracadute all’esperienza.
Enrico Castellani: Sì, Stefano è una persona di grandissima sensibilità con cui anche noi abbiamo instaurato una forte complicità.

Ora che Pinocchio è diventato grande, che intenzioni ha?
Fulvio De Nigris: Ci interessa proseguire nella direzione di una crescita teatrale di apertura all’esterno; lo abbiamo fatto anche con l’ITC Teatro di San Lazzaro, con “Il Paese delle Meraviglie e altre storie” in scena lo scorso 7 ottobre 2013 all’Arena del Sole di Bologna per la giornata nazionale dei risvegli.
Enrico Castellani: Sicuramente siamo felici di proseguire quest’esperienza…
Fulvio De Nigris: Il coma, dice sempre uno dei nostri attori, è come la macchina dei Flintstones, un veicolo senza motore, devi mettere fuori gambe e piedi per farla camminare…

Per saperne di più:
www.babiloniateatri.it
www.amicidiluca.it
www.casadeirisvegli.it

2. “Da dove vengo io. Giocare all’incontro delle culture”.

Diario di un laboratorio a cura di Progetto Calamaio
di Lucia Cominoli

Un giorno, dei cavalieri attraversano un villaggio.
Montano cavalli nervosi.
Indossano begli abiti
e parlano con voce sonora.
Chiedono foraggio,
acqua, carne e pane…
(F. Place, Il Re dei Tre Orienti)

2.1. A ciascuno la sua tribù
Avete mai sentito parlare degli Aymara? Abitano vicino al Lago Titicaca, tra la Bolivia e il Perù. Sapevate che gli Evenchi sono una popolazione nomade della Siberia e che i Mãori della Nuova Zelanda sono famosi per i loro bellissimi tatuaggi? Gli uomini Wodaabe invece vengono scelti dalle donne sulla base del sorriso, in autunno partecipano a una festa, chiamata Guérewol, dove i ragazzi si esibiscono davanti alle ragazze con canti e balli, durante i quali le giovani scelgono il loro fidanzato. Per attirare l’attenzione dell’amata i Wodaabe prestano molta cura ai loro denti. Più i denti sono grandi e bianchi, così come gli occhi, più il successo è assicurato!
Ci sono popoli nel mondo dagli usi e i costumi che non hanno nulla a che fare con i modelli cui siamo abituati e che molto spesso sono portatori di credenze e tradizioni affascinanti che possono aggiungere qualcosa al nostro modo di guardare agli altri e alla terra tutta.
Il libro di Liuna Virardi ABC dei popoli (Terre di mezzo Editore, 2016) ci ha offerto subito lo spunto per approcciarci al tema in modo leggero e profondo insieme, buttandoci verso l’esplorazione e la conoscenza di comunità completamente diverse dalle nostre fino ad arrivare a immaginare di ricrearne delle nuove. Che cosa succederebbe se potessimo dare vita a un nuovo popolo? In quali territori abiterebbe? Sarebbe nomade? Stanziale? Uomini e donne avrebbero tutti gli stessi diritti? Quali i cibi preferiti? E i disabili? Ci sarebbe spazio anche per loro?
Lasciandoci andare alla fantasia abbiamo iniziato così a percorrere strade nuove, sbizzarrendoci sui nostri desideri e senza mai voltarci indietro. D’altronde l’esploratore svedese Sven Hedin (1865-1952) diceva sempre: “Non cammino mai sulle mie orme. È contro la mia religione”.

 Scheda tecnica
Partecipanti
15 animatori con disabilità 2 educatori
6 volontari

Durata
2 h, 1h e 30’ di attività e 30’ di restituzione.

Luogo
Un’ampia stanza

Obiettivo generale
Acquisire consapevolezza della presenza nel mondo di società culturalmente diverse dalla propria, imparare a osservare e mettere in crisi i modelli di appartenenza.

Obiettivi specifici
Scoprire nel confronto con gli altri partecipanti usi e costumi di paesi e luoghi lontani in cui riconoscere altre forme di diversità socialmente accettate, guardare alla diversità come a un valore e a una ricchezza e non come a una mancanza, scoprire che anche popolazioni che possono farci paura anche dal punto di vista dell’aspetto fisico, racchiudono sempre, nei loro modi di agire e di apparire, storie e significati complessi, proprio come noi.

Attività
I partecipanti vengono divisi in quattro gruppi e a ciascuno viene consegnato un rotolo di stoffa grezza, legato da una cordicella. Si tratta un taccuino improvvisato, ispirato a quelli degli esploratori di fine Ottocento, il nostro nuovo diario di bordo, in cui, di volta in volta, raccoglieremo il lavoro dei singoli incontri.
I gruppi vengono divisi per popoli: Aymara, Evenchi, Mãori e Wodaabe.
Ogni gruppo scopre chi è il popolo che gli è stato assegnato e insieme agli altri partecipanti comincia a discuterne, scoprendone abitudini, costumi e tradizioni. La discussione viene condivisa con il gruppo esteso e guardiamo insieme quattro brevi video legati ai popoli scelti.

Il decalogo
Ogni gruppo, a partire dalla visione dei video e dai racconti appresi sulla propria nuova tribù, cerca di capire di che cosa si compone l’identità di un popolo.
Proviamo a stilare insieme un decalogo: clima, cibo, casa, struttura familiare, lavoro, religione, feste e ritualità, arte, religione, istruzione.

Materiali
4 tavoli
Proiettore
Libro ABC dei popoli di Liuna Virardi, Terre di mezzo Editore Rotoli di stoffa bianchi e spago
Stampa a colori delle figure di quattro popoli a scelta su cartoncino. Sul fronte l’immagine, sul retro la descrizione.
Lente di ingrandimento. Le osservazioni dei partecipanti

DANAE: Io non ho mai conosciuto tutti questi popoli perché non mi ricordo quasi mai di guardare il mio mappamondo che ho a casa. Il mio popolo era Wodaabe. Ho scoperto una lingua nuova, come si vestono, dove abitano, i cibi che mangiano diversi dai nostri.

SIMONA: Tra i cibi mi ha colpito il matoke, una sorta di banana verde che viene preparata con un misto di verdure e carne, c’è anche in Uganda… Sembra buona!

MARIO: Cerco di vivere ogni esperienza della vita come se fosse sempre e comunque la prima volta, cercando di tenere, al contempo, alta la mia apertura mentale verso tali “novità”. Tutto è da scoprire e riscoprire nelle sue infinite sfaccettature, arricchendo l’animo anche di quelle conoscenze e usanze altrui. Infatti, l’essere umano è lo stesso in ogni parte del mondo, cambia il tipo e il grado di evoluzione sociale che, a sua volta, plasma il comportamento umano. Le danze e il tipo di corteggiamento dei popoli esaminati e conosciuti somigliano tanto ai luoghi “discotecari” o alle feste di piazza che si vivono altrove. Ci si avvicina, si sorride, si sceglie la “preda” con la quale interloquire. Le ragazze sfoggiano gli abiti più variopinti e provocanti, di modo da attirare le attenzioni degli uomini che, a loro volta, scimmiottano sguardi e comportamenti da latin lover. Ci si incontra e si conosce l’altra persona fino a decretare e manifestare le proprie preferenze e scelte. Tutto è da sempre e dappertutto uguale nella “ars amatoria” messa in scena dagli attori coinvolti. Cambiano solo le usanze e mode, ma in definitiva il gioco è sempre lo stesso.

 2.2. L’identikit dei popoli
Scoprire che gli elementi di cui si compone l’identità di un popolo sono gli stessi per tutti ci ha fatto rivedere alcuni punti di vista. Abbiamo capito che tutti, nessuno escluso, abbiamo bisogno di alcune necessità fondamentali: mangiare, dormire, amare e sognare.
Intorno a queste necessità primarie e al clima, prima ancora che le contaminazioni storiche, si sviluppano le identità umane e delle popolazioni. Le stesse a cui tentano di rispondere i migranti al momento della fuga. Eddie Vedder, il frontman dello storico gruppo grunge dei Pearl Jam, usò proprio queste parole in riferimento all’esodo siriano e ad alcuni atti terroristici ad esso legati durante un suo concerto. “Vogliamo tutti le stesse cose”, disse. Un bel modo che il rocker utilizzò per alimentare nel suo pubblico una cultura di pace, esortandolo così a non cedere alla paura e contemporaneamente rivolgendosi ai ragazzi che potrebbero essere sedotti da forme di ribellione violenta.
Complice la musica, che come sempre insieme al cibo si dimostra lo strumento più rapido all’avvicinamento tra le culture, prendiamo spunto da Eddie e andiamo avanti con il nostro decalogo. Una volta che avremo destrutturato e reso più accessibili alcune tradizioni e specificità riusciremo infatti a distinguere quelle che sono le radici comuni dalle interpretazioni indotte, per riconoscerci a nostra volta un elemento possibile tra i tanti, non certo l’unico.
Che cosa faremmo se, per una volta, avessimo totale carta bianca? Quali usi e costumi metteremmo in campo? E soprattutto, quali sono gli elementi che compongono l’identità nel nostro popolo, sia esso italiano o non?

Scheda tecnica
Partecipanti
15 animatori con disabilità 2 educatori
6 volontari

Durata
2 h, 1h e 30’ di attività e 30’ di restituzione

Luogo
Un’ampia stanza

Obiettivo generale
Riconoscere in tutti i popoli e le culture comuni valori di fondo.

Obiettivi specifici
Acquisire consapevolezza sulle caratteristiche della popolazione di appartenenza e individuare quelle dell’altro, sviluppo delle proprie competenze critiche e creative.

Attività
A ciascun partecipante viene consegnato un identikit da compilare, dal titolo “Come è fatto il tuo popolo? Prova a comporre il tuo identikit!”. Ognuno dovrà inserirvi: clima e natura, cibo, casa, struttura familiare, scuola e educazione, lavoro, tradizioni, lingua, religione, forma di governo.
Inventa il tuo popolo
Con i materiali esposti sui tavoli, viene chiesto a ogni gruppo di creare e disegnare una maschera su un cartoncino, inventando un popolo di fantasia, dopodiché comporre l’identikit del proprio nuovo popolo a partire dal decalogo di riferimento. Le maschere verranno esposte con una piccola targa.

Materiali
4 tavoli
4 cartoncini
Colori a cera, timbri, pennarelli, gli elementi cartacei proposti sul libro ABC dei popoli, scaricabili al link indicato nell’ultima pagina, matite, piume e tutto quello che l’estro vi suggerisce!
Lente di ingrandimento. Le osservazioni dei partecipanti

SARA: Fare l’identikit è stato molto difficile.

FRANCESCA: Mi sono resa conto di sapere proprio poche cose del mio paese, alcune domande non me le sono proprio mai fatte, non ci ho mai pensato.

DANAE: Per me l’identikit è stata l’occasione per scoprire qualcosa in più del paese dove sono nata, il Brasile. Me lo sono portata a casa e ho provato a verificare con mia madre e mio fratello se alcune cose che avevo immaginato sono vere oppure no.

LORELLA: Il mio popolo? Balla tutto il giorno!

ERMANNO: Il mio va a pescare!

DIEGO: Il mio non fa la guerra.

MIMMI: Il mio abita al caldo.

SIMONA: Nel mio comandano le donne.

TATIANA: Il mio vive al mare ed è custode della Luna.

Tenda n.2 A casa di Stella – Brasile e Argentina
Conversazione con Stella Dante Morales – impiegata e mamma di una ragazza con disabilità
Ho lasciato l’Argentina con mio marito e mio figlio Alexis, nel ’99, quando mia figlia Danae, che è disabile, aveva 13 anni. In Argentina c’erano le scuole speciali e Danae a 10 anni ha cominciato ad avere delle crisi epilettiche difficili da gestire. Ci siamo messi in moto per cercare un contesto che fosse il possibile adatto a lei, che potesse offrirci maggiori libertà e tutele. Prima di partire abbiamo fatto un po’ di ricerca ma l’Italia ci è sembrato uno dei paesi più aperti in questo senso, inoltre, io che sono di origine italiana, avevo già il passaporto italiano, quindi la scelta è stata poi quella più naturale.
Quando siamo arrivati, benché l’accoglienza rivolta a Danae sia stata buona, dal punto di vista medico come da quello scolastico, non è stato facile per noi trovare una casa e un lavoro. I primi tempi abbiamo vissuto in un hotel. Quando poi dovevamo finalmente lavorare non avevamo modo di stare con Danae né di pagare qualcuno che potesse stare con lei, non potevamo lasciarla a casa da sola e al contempo c’era l’affitto. Ho cercato in tutti i modi degli aiuti extrascolastici, anche rivolgendomi ai servizi sociali ma non è stato possibile trovarli. Per anni siamo stati costretti a lavorare in nero, nel precariato più totale. Le cose sono migliorate lentamente. Oggi mio marito Anton lavora come impiegato pubblico, io in passato ho lavorato in Regione e per la scuola, come mediatrice culturale. Mi occupavo dei bambini e dei ragazzi provenienti dal Sud America che parlavano lo spagnolo e vivevano in contesti familiari problematici. Penso che il ruolo del mediatore sia molto importante e prezioso e che non venga abbastanza riconosciuto. Avere una persona di riferimento con cui potersi confrontare e di cui fidarsi è importante per gli studenti ma lo è anche per i genitori e gli insegnanti che aiuti da un lato a orientarsi nelle burocrazie di un altro paese e dall’altro con forme di pensiero diverse dalle tue. Con Danae le difficoltà sono iniziate alle superiori, alla Scuola d’Arte che ha frequentato, dove, rispetto alle medie, l’inclusione è stata carente. La difficoltà maggiore era che le figure educative e di sostegno che la affiancavano cambiavano continuamente e ogni volta si doveva ripartire da zero. Non volevano neanche portarla in gita di classe, ma l’ultimo anno mi sono impuntata.
Sono problemi questi che affrontano tanti ragazzi con disabilità, anche italiani, non c’entra da dove vieni. Le leggi ci sono ma molto dipende da chi ti capita.
Fortunatamente in Italia esiste la legge di diritto allo studio e questo rispetto ad altri paesi cambia di molto le cose. Se c’è qualcosa che non va puoi farlo presente, il diritto è sancito dalla legge e come tale puoi impugnarla.
La Costituzione dice anche che siamo tutti uguali, un altro principio importante che può sempre essere ribadito. In questo senso l’Italia rappresenta un’eccellenza rispetto ad altri paesi, come la Francia per esempio, dove i disabili sono molto poco tutelati. Dal punto di vista degli stili di vita non ho molto da dire… Mi piacciono, sono molto vicini a quelli dell’Argentina e del Brasile. Vivevo in Brasile quando Danae è nata. Posso dire che, forse, lì fa molto la differenza, ancora più che in Italia, la tua disponibilità economica. Se hai soldi ti vogliono tutti, nei migliori centri e nelle migliori scuole, altrimenti no.
Né io né la mia famiglia abbiamo mai affrontato problemi legati al razzismo. Di base ci siamo sempre sentiti accolti. Bologna poi, è davvero bellissima.
Penso che ci siano razzisti e persone accoglienti in Sud America come in Italia e così dalle altre parti del mondo. Sei tu che scegli da che parte stare. Quando facevo la mediatrice, insegnavo ai ragazzi di essere orgogliosi della propria storia e delle proprie origini, lo dico anche oggi e lo dico anche a mia figlia.

 2.3. Indovina chi viene a cena
Vi ricordate Indovina chi viene a cena? La commedia di Stanley Kramer del 1967 con protagonisti Sidney Poitier, Katharine Hepburn e Spencer Tracey?
Si raccontava la storia di una ragazza statunitense che, innamoratasi di un medico afroamericano, lo invitava a casa dei genitori per presentarlo loro in vista dell’imminente matrimonio. A portare avanti numerose perplessità non furono in quel caso solo i genitori della ragazza, furono anche quelli del giovane, preoccupati per le rispettive differenze culturali. Al di là dell’happy end annunciato, quello che di questo film fece storia fu innanzitutto la rappresentazione non stereotipata di Poitier, un attore nero, qui non caratterista ma a tutti gli effetti protagonista, qualificato, per giunta, con un mestiere e uno status di tutto rispetto. Tutto il film insomma si basa sull’effetto sorpresa, sul colpo di scena che, in un baleno, destruttura i pregiudizi della vecchia generazione.
Ognuno di noi, anche chi porta con sé una disabilità, conserva stereotipi e
pregiudizi, a volte appresi in famiglia, altre volte condizionati dalla paura di ciò che non si conosce.
Ecco allora che abbiamo provato a farci anche noi interpreti di una cena improvvisata immaginando di ospitare alla nostra tavola alcune figure generiche, prive di nome e cognome, identificabili solo come categoria: uno zingaro, uno sportivo, un musicista, un attore, uno scrittore e via dicendo.
La convivialità, in particolar modo il cibo e la musica, come già ci dicevamo, sembra essere la forma più spontanea di incontro dal basso, gestita cioè nel quotidiano dalle persone, capace di favorire il miglior coinvolgimento. La convivialità, per fortuna è resistente, resistente al ventriloquismo della politica e ai modelli imposti.
Una volta che il tuo ospite immaginario avrà accettato l’invito, che cosa gli chiederesti? Inutile fingere e trattenere le domande, gli stereotipi, per dirla con Beppe Severgnini, esistono. Meglio giocarci a cena che nasconderli sotto il letto! Segnaliamo che la presente attività, da noi rielaborata e personalizzata, viene spesso utilizzata anche nei percorsi scolastici sui diritti umani a cura di Amnesty International.

Scheda tecnica
Partecipanti
15 animatori con disabilità 2 educatori
6 volontari

Durata
2 h, 1h e 30’ di attività e 30’ di restituzione

Luogo
Un’ampia stanza

Obiettivo generale
Confrontarsi con i propri stereotipi a partire dalla conoscenza e dall’informazione, dalla dimensione della convivialità e dell’incontro.

Obiettivi specifici
Sviluppare nel dialogo con l’altro la capacità di elaborare domande coerenti con il proprio pensiero iniziale, verificare la veridicità delle proprie credenze, farsi sorprendere da se stessi: spesso ci comportiamo in maniera più tollerante di quello che professiamo e viceversa.

Attività
Su ogni tavolo sono presenti un piatto di carta e una lista di persone che i partecipanti potranno invitare alla loro tavola: uno sportivo, uno zingaro, un cinese, un disabile, uno scrittore, un attore, un omosessuale, un esploratore e un missionario.
Si chiede ai partecipanti seduti a ogni tavolo di sceglierne uno e di immaginare cinque domande da porgli o porle.
Alla fine viene svelata l’identità dell’ospite e dalle biografie proviamo a rispondere insieme alle domande. Le risposte ci sorprenderanno! Perché?
Ecco qui i nostri ospiti:
Lo sportivo – Bebe Vio
Lo zingaro – Bireli Lagrène (musicista)
Il cinese – Ho Wu Yin Chingv (poetessa)
Il disabile – Stephen Hawking (scienziato)
Lo scrittore – Zadie Smith (scrittrice anglo giamaicana)
L’attore – Rami Malek (il pluripremiato attore arabo) L’omosessuale – Ricky Martin
L’esploratore – Marianne North (esploratrice dell’800)
Il missionario – Alex Zanotelli
Segue discussione sugli stereotipi e le esperienze personali di incontri con persone di diversa nazionalità.

Materiali
4 tavoli
piatti, posate, bicchieri, bevande e tovaglioli biro/pennarelli
scheda degli ospiti (sul fronte il nome, sul retro una breve biografia)
Lente di ingrandimento. Le osservazioni dei partecipanti

TATIANA: Non so perché ma gli zingari mi attirano e respingono insieme. Aver incontrato un musicista mi ha tranquillizzato. Mi piacerebbe sapere perché il loro popolo è così legato ai cavalli, il mio animale preferito.

MARIO: Speravo di incontrare una bella ragazza cinese e mi sono ritrovato con una professoressa dell’Università di Pechino… Una poetessa però… Qualche argomento di conversazione lo troverò di sicuro!

DANAE: Ho scoperto che Ricky Martin ha un secondo cognome, Morales, proprio come il mio!

ANDREA: Non pensavo che Ricky Martin fosse omosessuale, non me lo aspettavo. A me gli omosessuali non piacciono. Non so se davvero non puoi sceglierlo se esserlo o no. Ne ho invitato uno alla mia tavola proprio per questo, per fargli alcune domande. Molte persone gay però sono artisti, e gli artisti mi piacciono.

Tenda n. 3 A casa di Tommaso – Italia e Giappone
di Tommaso Mitsuhiro Suzude, fotografo e volontario del Servizio Civile Nazionale 2016/2017
Nuvole. Un ingombrante strato incornicia la cima del monte Fuji e la nasconde alla vista. Questa montagna è l’essenza della cultura giapponese, il suo simbolo per eccellenza – o almeno così me l’hanno sempre descritta. Io, infatti, sono nato sotto le mura del Colosseo, nella periferia della capitale. Quello giapponese è mio padre, che negli anni ’70 si è trasferito per frequentare l’Accademia delle Belle Arti. Mia madre, viterbese d’origine, conobbe mio padre grazie al Buddismo di Nichiren Daishonin e da questa unione siamo nati io e mia sorella.
Crescere in una famiglia mista ha avuto i suoi pro e contro e solo con il passare degli anni ho imparato ad apprezzare quelle differenze che prima mi facevano soffrire. Spesso, infatti, la diversità porta ad avere dei conflitti non solo verso gli altri ma anche con se stessi. A capire che non ero come i miei coetanei non c’ho messo molto: a scuola compresi subito che la mia era una famiglia speciale e che gli altri bimbi il venerdì sera non mangiavano sushi. L’incontro di queste due culture ha generato in me una certa confusione, che fortunatamente col tempo si è evoluta in una forte consapevolezza: ogni individuo è unico e ha il diritto di esprimere quello che ha dentro di sé in piena libertà. Accettare a pieno le mie origini mi ha permesso di arricchire di vari colori il mosaico della mia vita.
Facendo il Servizio Civile al Centro Documentazione Handicap, ho avuto modo di incontrare un altro tipo di diversità. Nonostante la mia esperienza personale, l’approccio alla disabilità mi ha colto impreparato e solo condividendo la quotidianità, giorno dopo giorno, il mio ritmo si è armonizzato con quello di chi mi circondava. Durante una delle attività formative, il laboratorio “Intercultura”, abbiamo avuto modo di affrontare il tema della discriminazione e del rispetto reciproco ed è stato affascinante vedere come il pregiudizio fosse presente anche in quelle persone così sensibili al tema delle differenze.
La conoscenza è l’arma più forte per abbattere i muri dell’odio e creare una convivenza armoniosa e innovativa. Vinciamo la paura dentro di noi e permettiamo ai tanti stimoli esterni di arricchirci costantemente!

2.4. L’Atlante dei pregiudizi e il paese dove non andresti mai
Stereotipi e pregiudizi non sono solo una questione personale. Esiste un vocabolario condiviso di luoghi comuni che varia di paese in paese in cui è praticamente impossibile non identificarsi. Ad accorgersene è stato il disegnatore bulgaro Yanko Tsvetkov, che ha dedicato un libro ai pregiudizi della vecchia Europa, raccogliendoli in cartine geografiche in cui compaiono gli stereotipi che i singoli paesi tendono ancora ad associare agli altri. In Italia se diciamo Germania pensiamo ai würstel, o a dei “maniaci della precisione”, se diciamo Svezia ci viene in mente l’Ikea, a nominare l’Irlanda scatta l’associazione con il rugby e così via, fino agli accostamenti più scomodi e dissacranti, su cui l’artista ha scatenato tutta la sua ironia. Difficile però dargli torto, sono cose che si sentono dire, e ciò vale anche per noi, che spesso siamo definiti come “pasta, pizza e mandolino”, “Berlusconi”, “terzo mondo”, “plagiari”, a seconda del paese che ci giudica.
Tsvetkov ha raccolto le sue mappe satiriche ne L’Atlante dei pregiudizi (Rizzoli 2016), che, guarda caso, è subito andato a ruba.
A noi del Progetto Calamaio l’ironia di per sé piace moltissimo e nei nostri laboratori è una costante, ma in questo caso il rischio era quello di avvallare un sentimento di passività diffusa nei confronti degli stereotipi, non potevamo fermarci alla risata, la riflessione sarebbe rimasta innocua. Bisognava dunque entrare nel merito e costruire il proprio atlante, prima di venire condizionati da quello altrui.
Abbiamo così provato a disegnare una nostra, grande, cartina geografica in cui i partecipanti, oltre ad abbinare delle parole e dei pensieri ai singoli paesi, hanno cercato di individuare dove esattamente si trovavano sulla mappa che avevano a disposizione. Molti non ne avevano consapevolezza, disabili e non, italiani o stranieri che fossero. Quante volte parliamo di cose che non sappiamo dove siano collocate?
Condividere insieme i pregiudizi dei gruppi è stato fondamentale. Ma non ci siamo fermati, siamo andati più in là. Abbiamo chiesto a ciascuno di dirci in quale paese non avrebbe mai voluto recarsi e perché. Pensate che tutti abbiano evitato l’Africa? Vi sbagliate. Stati Uniti e estremo Nord sono stati tra i più criticati…

Scheda tecnica
Partecipanti
15 animatori con disabilità 2 educatori
6 volontari

Durata
2 h, 1h e 30’ di attività e 30’ di restituzione

Luogo
Un’ampia stanza

Obiettivo generale
Verificare la conoscenza effettiva che abbiamo dei paesi che giudichiamo positivamente o negativamente e la rispondenza al vero degli stereotipi ad essi legati.

Obiettivi specifici
Acquisire maggiore consapevolezza di dove sono collocati i paesi e le loro caratteristiche fondamentali, condividere con gli altri le proprie supposizioni accettando opinioni diverse dalla propria, sfatare alcuni pregiudizi, scoprire da dove provengono le motivazioni che li sostengono.

Attività
Disegnare una grande mappa del mondo vuota.
Divisi in quattro gruppi, consegniamo due fogli a ogni gruppo, uno con una mappa del mondo, e un altro con un elenco dei paesi che la compongono.
Dopo aver collocato sulla mappa i singoli paesi, partiamo con un’associazione di idee da assegnare ad ognuno.
Il lavoro viene condiviso.
A partire dalle mappe de L’Atlante dei pregiudizi ci confrontiamo su quelli dei vari gruppi e vediamo se combaciano, se si riconoscono o no.
Consegniamo un foglio sul quale ognuno dovrà scrivere un paese dove non andrebbe mai e perché.

Materiali
Mappamondo Mappe
Il libro L’Atlante dei pregiudizi
Lente d’ingrandimento. Le riflessioni dei partecipanti

STEFANIA M.: Ho scoperto che in Finlandia l’inverno è molto freddo, così come il Nord in generale. Proprio perché non mi piace il freddo non mi piacerebbe andarci, il Marocco, che è caldo e dove sono già stata, credo sia più vicino ai miei gusti.

ERMANNO: Anche io non andrei al Nord. Fa freddo, con il ghiaccio e la carrozzina…

Swish! Si scivola e poi ahi, ahi, ahi!

STEFANIA B.: Io non andrei mai in America. Non mi piace il fatto che si mangino solo hamburger, coca-cola e patatine, non mi piace il presidente Trump e soprattutto non mi piace che le persone si possano tenere in casa le armi.

DIEGO: Io non andrei mai in Africa, in Siria e nel mondo arabo in generale, perché lì c’è la guerra.

DANAE: Io invece non andrei in Iran e in Afghanistan, secondo me anche lì c’è la guerra, lo avevo sentito dire in televisione.

2.5. L’ospite inatteso
Le risposte e le motivazioni che ci hanno dato i nostri colleghi con disabilità sono state molto interessanti e non del tutto scontate. Quello che abbiamo notato è che le scelte sono state piuttosto uniformi, motivo per cui non è stato difficile ridividerci in gruppi per metterle a soqquadro e regalarci una bella sorpresa.
Iran-Iraq e Afghanistan, Africa, Marocco e Siria, Stati Uniti, Alaska-Finlandia e Russia sono stati indicati come i paesi da evitare. La fortuna ha voluto che in quei giorni al Cdh avessimo con noi qualcuno che in quei paesi c’era stato o che addirittura vi era nato.
Detto fatto e abbiamo costruito una grande tenda, con tappeti, cuscini, un tavolino da tè e una sedia in cui i partecipanti sono stati invitati a entrare, immaginandosi ospiti di un cittadino proprio di quei paesi in cui non avrebbero voluto recarsi e, in parte, è successo veramente.
Inutile dire la ricchezza delle domande e delle risposte scambiate, anche le domande più banali hanno arricchito e accresciuto la conoscenza tra tutti noi, insegnandoci moltissime cose nuove e affrontando di petto i dubbi di ciascuno. Nella tenda siamo stati ospitati da Azadeh, tirocinante iraniana, da Simon, volontario ugandese del Servizio Civile Regionale, da Tommaso, italo-giapponese che ci ha condotti a New York, da Valeria, giornalista con disabilità che, con la sua mitica macchina, è arrivata fino a Capo Nord.
Alcuni pregiudizi sono stati confermati, altri addirittura ribaltati, tanto che c’è chi aveva paura di recarsi in Iran ed ora è curiosissima di esplorare le bellezze di Teheran.
A conclusione l’incontro con un ospite inatteso, Abdullah Mohamed Yousef, per tutti noi Yousef, autista per la Cooperativa Società Dolce, che dalla Somalia è arrivato a Siena, per poi raggiungere Marzabotto e infine arrivare a Bologna.
Dentro la tenda lo ha intervistato Mario Fulgaro, un nostro collega con disabilità. Ora Yousef si racconta nuovamente, svelandoci qualcosa anche del suo lavoro di autista.
Racconta a tale proposito la nostra collega con disabilità Stefania M.: “L’incontro con Yousef mi ha sorpresa perché per la prima volta è venuto qua al Cdh a incontrarci, a raccontarci del suo paese e di come è cambiata la sua vita. Questa è una cosa che non fa mai, perché di solito mi accompagna e mi viene a prendere. Io però non gli avevo mai chiesto niente su di lui. Scherziamo sempre, questo sì”.

Tenda n 4. A casa di Abdullah Mohamed Yousef – Etiopia e Somalia
Conversazione con Abdullah Mohamed Yousef, autista Cooperativa Società Dolce
Io sono dell’Etiopia, cittadino etiope, vengo da una città che si chiama Gursum, sono cresciuto in Somalia a Arghesa, mi sono sposato, ho avuto dei figli lì, poi dopo la guerra sono tornato in Etiopia, poi sono uscito dall’Africa, ho fatto il passaporto e sono venuto in Italia nel 1990.
Sono venuto in Italia come turista, con il visto perché era un modo per uscire, una soluzione per espatriare e non avere delle difficoltà. Poi a quel tempo c’erano i mondiali di calcio, anni ’90, e allora era più facile avere il visto turistico per il calcio.
Come adesso ognuno aveva le proprie idee per uscire dal paese, ma la maggior parte volevano uscire con la scusa di andare a seguire i mondiali e poi da lì ognuno seguiva i suoi programmi, c’è chi è rimasto qua, chi è andato via verso altri paesi dell’Europa o in America. Era una specie di scalo l’Italia e lo è ancora.
Io sono venuto qui da solo, non conoscevo nessuno.
Quando sono arrivato, ho conosciuto altri miei compaesani somali che mi hanno dato una mano, non conoscevo neanche il sistema e le regole del paese, non sapevo come comportarmi. Loro mi hanno dato un aiuto e mi hanno consigliato la strada da percorrere, mi hanno aiutato a orientarmi.
Mi sono presentato in Questura come rifugiato e mi hanno rifiutato e poi mi sono sposato con una ragazza somala, tramite lei ho avuto il permesso di soggiorno e poi piano piano mi si sono aperti gli occhi.
Prima di arrivare a Bologna sono stato un anno a Roma, lì ho cominciato a individuare la strada da seguire e poi tramite la ragazza somala che ho sposato ho trovato un lavoro a Siena, sono stato un anno lì e poi sono venuto a Bologna e sono qua dal 1992. In questi due anni ho fatto lavori saltuari di giardinaggio, contadino… A Bologna sono stato quattro, cinque mesi senza lavoro, poi da quando ho cominciato ho sempre lavorato. Ora mi trovo molto bene qui.
Sono venuto qua tramite un amico che era a Marzabotto. All’inizio ero in appoggio da lui, poi mi sono rivolto all’Acli e alcune agenzie di collocamento e ho conosciuto due persone, Gianni Selleri e Carla Battaglia. Voi conoscete molto bene il centro residenziale per persone con disabilità che è intestato a loro, dove abita anche la vostra collega Stefania M. La signora Carla Battaglia si occupava degli inserimenti lavorativi in Acli e tramite loro ho iniziato a lavorare in uno stagionale nell’ambito alberghiero, sia io che mia moglie.
I signori Selleri e Battaglia avevano una residenza estiva per soggiorni di persone con disabilità a Igea Marina. Ci lavoravano cuochi, giardinieri, donne delle pulizie… C’erano persone di diverse nazionalità, argentini, pachistani, domenicani.
La sera mi ricordo che ci ritrovavamo nel giardino tutti insieme con gli ospiti della residenza e si facevano delle feste, oppure uscivamo in centro a prenderci un gelato.
Ho iniziato a lavorare con loro, mi hanno messo in regola e piano piano sono riuscito ad avere tutti i documenti necessari per lavorare. Tramite i signori Selleri e Battaglia ho conosciuto anche Carla Ferrero (responsabile dei trasporti e dei soggiorni delle persone con disabilità prima in AIAS, e poi quando l’appalto è passato alla Società Dolce ha continuato a occuparsi dell’organizzazione dei soggiorni).
Dopo l’esperienza di Igea Marina, Carla Ferrero mi ha proposto il lavoro di autista nei trasporti delle persone con disabilità.
Quando sono arrivato in Italia non sapevo parlare la lingua italiana, “masticavo”. Per imparare mi sono iscritto a un corso di italiano che facevano alla Caritas, ci andavo due volte alla settimana, abitando inizialmente a Marzabotto era un po’ difficoltoso. Per fortuna poi ho trovato lavoro a Igea Marina. Quando si è tra compaesani somali è difficile che si parli un’altra lingua, invece quando ho iniziato a frequentare persone italiane mi è diventato più facile parlare, era necessario parlare in italiano altrimenti non ci capivamo.
Ora sono circa vent’anni che lavoro come autista per persone con disabilità ed è molto diverso. I primi anni non mi relazionavo tanto con loro perché innanzitutto non parlavo bene la lingua e poi perché non conoscevo bene le situazioni. Dopo che ho imparato bene la lingua, ho incominciato a comunicare con loro.
A volte quando non conosco la persona mi trovo ancora un po’ in difficoltà, e forse anche loro quando mi vedono nero si spaventano un po’. A volte mi è capitato di sentire un anziano che frequenta un centro diurno che quando mi ha visto ha detto “Oddio, anche questo…”. Invece con chi conosco bene ci scherzo molto, così anche gli altri si rendono conto che non sono quello che pensano.
I primi disabili che ho conosciuto erano gli utenti dell’AIAS che erano al centro Selleri-Battaglia, poi ho conosciuto Stefania M., Ermanno, Stefania B., Mario, quando li accompagnavo al CDH che prima era in via Legnano. All’inizio non avevo confidenza con loro, li accompagnavo e basta, poi piano piano le cose sono cambiate e ho cominciato a conoscerli bene a parlare con loro e a scherzare.
Devo dire che questo lavoro mi piace.
Avevo la voglia di guidare fin da bambino, ero quasi ossessionato e alla fine ho trovato il lavoro giusto per me. Mi piace anche perché si conoscono nuove persone. Tutti i giorni sono dei bei ricordi, si scherza, io mi diverto con le persone che stanno ai miei scherzi, mi trovo bene a lavorare in questo ambiente.
Nel mio paese ci sono persone con disabilità ma non ci sono queste organizzazioni che si occupano di loro, se ne occupa sempre la famiglia. È difficile vedere una persona disabile che va in giro in carrozzina, quello di cui ha bisogno glielo fanno recapitare a casa, anche se sono tranquilli, non è una vergogna.
Entrare nella tenda del vostro laboratorio con Mario è stata una cosa bellissima! Quando uno vede una persona diversa, si fa una idea, ma quando la conosci, la ascolti, scopri tante cose e non è più come la pensavi. Se non ci si confronta non ci si capisce e ognuno va con le sue idee per la sua strada. La cosa più bella è stata quando ognuno mi ha fatto la sua domanda.
Per fare integrazione, per me, basterebbe poco. L’unica cosa secondo me è comportarsi bene e rispettare qualsiasi persona da entrambe le parti, avere rispetto per tutti è la cosa che ti porta sulla buona strada.

1. Prime terre

di Lucia Cominoli

Certo, i migranti li vediamo di tanto in tanto sui media, ne discutiamo, ma anche qui: tutto significa niente. Al massimo cataloghiamo i migranti nella categoria di vittime, con la conseguente ovvia retorica. Questa preoccupazione (narrativa) è la base di partenza del libro di Alessandro Leogrande, “La frontiera” (Feltrinelli). Leogrande è molto bravo perché interviene sulle questioni a freddo. Non sta nel tumulto a sentire il polso della piazza, nemmeno avvia inchieste jukebox, metti i soldi e ascolta la canzone che ti piace sentire. No, comincia dove gli altri finiscono. E invece di alzare il tono (non vuole preoccuparci per eccesso di pessimismo, nemmeno tranquillizzarci per smodato uso di ottimismo) ascolta gli altri se vuoi aiutare qualcuno ascoltalo.
(Antonio Pascale, Frontiere e migranti. Come si racconta il trauma di un mondo che cambia, “Il Foglio”, 2 marzo 2016)

L’ultima volta che ci siamo incontrati vi abbiamo lasciato in mano un diario di viaggio. Una raccolta di esperienze, suggerimenti, punti di vista e buone pratiche nate a partire dal laboratorio “Dove non sono stato mai. Il viaggio tra immaginario, attese e possibilità”, che nell’anno scolastico 2014/15 abbiamo realizzato con gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio della Cooperativa Accaparlante di Bologna.
Insieme a loro abbiamo esplorato i desideri, le paure e le fantasie che precedono il momento della partenza, per poi scoprire, più nel concreto, che cosa vuol dire per una persona con disabilità motoria e/o cognitiva predisporsi al trasferimento in un luogo “altro”. Un trasferimento dentro e oltre i confini dell’identità, che si può preparare e personalizzare, anche quando il sogno ci sembra molto, troppo, lontano. Basta, lo abbiamo visto, un piccolo sforzo di consapevolezza in direzione di semplici autonomie (come scegliere il bagaglio più adatto alla propria destinazione per esempio), valorizzare il dialogo con le famiglie e le figure educative di riferimento, documentarsi e tenersi informati, grazie all’offerta sempre più ampia di associazioni, agenzie, strutture turistiche e alberghiere oggi dedicate al turismo accessibile.
A fare la differenza tuttavia, a farci venire voglia di partire, di trovare il coraggio per chiedere ai propri genitori di andare in vacanza da soli o di ipotizzare nuove mete, sono state le facce e i racconti. Le avventure vissute dai viaggiatori con e senza disabilità che abbiamo incrociato lungo il cammino ci hanno infatti consegnato ricordi intensi e presenti: immagini, odori, sapori, venti.
Quasi tutti hanno riportato con sé il volto di qualcuno, con una lingua diversa magari, con un colore della pelle diverso magari, con un abito luccicante magari, così bello da lasciarti ancora il colore sulle mani.
Viaggiare è incontrare altri mondi, paesi, è farsi ospiti nella casa di chi ti è straniero. Non sempre, la cronaca ce lo ricorda purtroppo ogni giorno, il passaggio è indolore. Molto spesso il viaggio si trasforma in fuga e chi si sposta lo fa migrando in cerca di un futuro migliore o per sopravvivere alla fame, alla guerra o ad altre situazioni di conflitto e, si sa, non è detto che raggiunga la meta né tanto meno che sia ben accolto.
Quando a settembre 2016 ci siamo recati alla Società Geografica Italiana a presentare il nostro lavoro al Festival della Letteratura di Viaggio di Roma, abbiamo subito percepito le ambiguità che questo tema, di base spensierato, si trascina ormai dietro.
Parlare di viaggi e di viaggiatori non può che oggi implicare tutti i dati, compreso il retro del quadro, come le migrazioni di massa e le vite dei suoi protagonisti.
Il “grande esodo” della nostra epoca, così come qualcuno lo ha definito1 , sta già profondamente cambiando il tracciato dei confini, i rapporti tra i popoli, modificando gli assetti e le culture nel quotidiano.
Quel settembre, a Roma, tra i relatori del festival c’era anche lo scrittore Alessandro Leogrande, presentava il suo ultimo libro, La frontiera, edito da Feltrinelli. Come noto Leogrande è improvvisamente scomparso, lasciando un grande vuoto tra gli intellettuali italiani.
Il suo sguardo, che per lungo tempo ha indagato da vicino la crisi migrante con sensibilità e pragmatismo, è stato commentato da un altro scrittore a noi caro, il campano Antonio Pascale, che nella nostra precedente monografia ha firmato il racconto inedito Dialogo nel buio, dedicato a una personale esperienza di percorso sensoriale sulla spiaggia con un gruppo di persone non vedenti.
Citarlo in apertura ci è parso un filo rosso essenziale, una linea di continuità ideale al nostro percorso che ora vuole spostarsi sull’incontro diretto con l’altro, sull’incrocio dei saperi e soprattutto, come sottolinea Pascale, sull’atto dell’ascolto quale primo strumento a favore di una società curiosa, aperta, inclusiva.
Il 2008 è stato proclamato Anno europeo del dialogo interculturale, una sanzione ufficiale, si potrebbe dire, di un dato di realtà che ha preso forma ben prima: la presenza sempre più rilevante di cittadini con patrimoni culturali “altri” nel nostro paese.
I contesti in cui lavoriamo con i percorsi sulla diversità a cura del Progetto Calamaio sono tra quelli che per identità e tradizione più di tutti finiscono per coinvolgere i nuovi cittadini e i loro patrimoni. La scuola, i luoghi della cultura, gli spazi dedicati all’assistenza della persona con disabilità sono sicuramente ambiti per natura aperti all’incontro.
A scuola incontriamo quotidianamente bambini e ragazzi di seconda e terza generazione, provenienti in particolar modo dal Nord Africa, dal Pakistan, dal Bangladesh, dall’Europa dell’Est, dal Sud America, dalla Cina e dalle Filippine, che si sentono italiani a tutti gli effetti e che a volte, soprattutto i più piccoli, esitano sul momento a dichiarare le proprie origini.
Nei musei, a teatro, nei luoghi del divertimento e dello svago le narrazioni e il lavoro dei migranti stanno trovando voce e cominciando a farsi strada non solo nella denuncia o in una maggiore ricezione dell’offerta ma in alcuni casi anche nella direzione e nella progettazione di iniziative capaci di favorire processi di integrazione attraverso i linguaggi dell’arte. Accade anche a casa, sul lavoro, in vacanza, nel privato del tempo libero, sfere in cui i nostri colleghi con disabilità sono spesso circondati da figure che svolgono lavori cosiddetti “socialmente utili”: autisti, badanti, Oss, accompagnatori.
L’intercultura insomma è parte integrante della nostra vita.
Eppure, ci siamo accorti, i media, i pregiudizi storicizzati e in alcuni casi le paure indotte dai vissuti familiari, pongono ancora censure e distanze tra ciò che viviamo e ciò che pensiamo.
I difficili e complessi avvenimenti della storia recente, dagli attentati alle chiusure nazionaliste dell’Occidente, ci hanno costretto a prenderci del tempo per pensare. Educare alla diversità oggi non è più per noi solo una sfida è diventato un atto di responsabilità. Fare esperienza dell’incontro con chi è diverso da noi è alimentare la cultura di pace. Ecco allora che la disabilità diventerà ancora una volta l’occasione per farsi lente di ingrandimento sul reale, per modificare e ampliare il punto di vista, per valorizzare le differenze e riconoscere nelle specificità dell’altro un arricchimento delle proprie.
Fare formazione in quest’ottica implica ovviamente qualche consapevolezza in più da parte nostra e soprattutto da parte dei nostri colleghi con disabilità.
Come fare, ci siamo chieste, ad affrontare un tema tanto delicato con persone che, pur vivendo delle difficoltà su di sé, o forse proprio per questo, non sono immuni da paure e pregiudizi? E noi, educatori, ne siamo completamente privi? Quanto noi e i nostri colleghi conosciamo della storia dei loro autisti, dei volontari e delle badanti, con cui da tanti anni ci interfacciamo?
Così, da queste semplici domande, nell’anno scolastico 2016/2017, è nato “Da dove vengo io. Giocare all’incontro delle culture”. Un laboratorio che ha messo insieme gioco e approfondimento, rivolto agli animatori con disabilità del Progetto Calamaio e ai volontari del Servizio Civile Nazionale 2016/17. Tra quest’ultimi erano presenti alcuni stranieri, che in prima persona si sono spesi con entusiasmo nella realizzazione dei materiali preparatori alle attività, alla documentazione e soprattutto al racconto del loro vissuto, dandoci modo di fare esperienza diretta della dimensione del racconto, fino a condurci là, in quei territori di confine dove le culture si toccano.
“A ciascuno la sua tribù”, “L’identikit dei popoli”, “Indovina chi viene a cena”, “L’Atlante dei pregiudizi”, “Il paese dove non andresti mai”, “L’ospite inatteso”, sono state le tappe del nostro percorso di conoscenza di cui qui, ancora una volta, vi lasciamo in custodia il diario di bordo, corredato da alcune proposte di attività, materiali didattici e dalla voce di chi lo ha sperimentato.
A offrire riparo al cammino, alcuni bivacchi d’eccezione, tre tende, dei cui abitanti siamo stati ospiti e che qui ci hanno offerto il loro sguardo, soffermandosi sulle proprie storie di migrazione ma anche sugli usi e i costumi dei propri paesi, rendendoci parte di un vero e proprio samar, parola araba che indica “la veglia prolungata fino a tardi, molto dopo il calar del sole, nell’incanto del racconto, in una danza ininterrotta di parole” .
Esperienze, giochi, riflessioni e laboratori intermedi, sperimentati a scuola e nella sede del Centro Documentazione Handicap di Bologna, completano la mappa di questo piccolo, multiforme itinerario interculturale.
“Porta con te solo quello che conta” è la tipica frase che ci si sente dire quando si compie un salto nel vuoto. Noi abbiamo pensato di portare nello zaino alcuni libri, e una lettera, quella che Gabriele Del Grande, il giornalista e artista trattenuto in Turchia e poi rilasciato lo scorso anno a causa del suo lavoro, ha indirizzato ai bambini nello spettacolo Futuri Maestri della Compagnia Teatro dell’Argine, e alla cui lettura pubblica abbiamo assistito con il Progetto Calamaio.Lanterne e fuoco, a illuminare le imprese dei nostri mediatori, le foto di Tommaso Mitsuhiro Suzude. 

Tenda n.1 A casa di Simon Peter – Uganda
Dalla conversazione con Simon Peter Kabari, volontario del Servizio Civile Regionale 2016/2017
Io mi chiamo Simon Peter Kabari. Sono di origine ugandese e sono qua da otto anni con la famiglia, sono venuto per gli studi. Adesso sto facendo un corso di Oss (Operatore, Socio, Sanitario). Sono venuto qua con la famiglia perché mia mamma si è sposata con un italiano.
Avevo 15 anni, ero abbastanza giovane… E qui era tutto un mondo nuovo per me! La prima cosa che mi ha colpito in Italia è stato il clima, il tempo, perché da noi non fa così freddo come qua! Noi siamo abituati a stare al sole con i 30/ 40 gradi. Invece qua quando fa freddo… Uno shock vedere la neve!
Quando sono arrivato in Italia mia mamma era già sposata con il suo compagno e viveva già qui ma da poco. Anche mia mamma non era abituata al clima, alla lingua… La lingua è abbastanza difficile. Diciamo che, rispetto a molti miei coetanei africani, sono stato molto fortunato! Venire qua è stato molto facile, il fatto che mia mamma si fosse sposata qui ha reso le cose più semplici per me. Sono venuto come studente, ho fatto le scuole, ho fatto l’alfabetizzazione prima per un annetto alle medie, anche se in realtà le avevo già fatte nel mio paese, ma ho dovuto rifarle qui con i ragazzi più piccoli di me. Andavo a scuola la mattina e di pomeriggio facevo un corso di italiano.
All’inizio è stata dura, nelle lezioni non capivo proprio niente, gli insegnanti non parlavano né l’inglese, né il francese e anche farsi delle amicizie era difficile.
Per fortuna a un certo punto ho incontrato un ragazzo filippino che, siccome da loro hanno come seconda lingua l’inglese come da noi, mi ha aperto la strada. Mi spiegava cosa veniva detto in classe, dopo la scuola mi portava in giro, mi faceva conoscere la città, mi insegnava un po’ la lingua pian pianino. È stato il mio primo amico! Si chiama Peter anche lui, me lo ricordo bene.
Dopo aver finito le scuole medie mi sono iscritto alle scuole superiori, ho fatto cinque anni alle scuole Fioravanti, un istituto tecnico, mi sono diplomato come manutentore. Il diploma mi è servito a farmi entrare nel mondo del lavoro, ho fatto gli stages, che sono anche andati bene, sono stato richiamato un po’ di volte. Tuttavia quello non era il mio mondo!
Mi è piaciuto di più quello dell’educazione, che ho incontrato facendo il Servizio Civile da voi, perché ha a che fare con la nostra vita quotidiana in qualche modo. Una delle cose che mi ha spinto a scegliere il Servizio Civile con delle persone con disabilità è che quando ero più piccolo nel villaggio dove abitavo avevo un parente disabile, un mio cugino di nome Nelson. Non si sapeva cosa avesse ma era talmente disabile che non riusciva a fare niente, l’unica cosa che poteva fare era guardare, era proprio immobilizzato.
I nostri parenti lo lasciavano a casa e andavano a lavorare nei campi e io rimanevo a casa con lui perché mi sentivo in colpa… Come fai a lasciare lì una persona che non si può muovere, non può parlare, non può fare niente… e io mi ero preso questa responsabilità fin da piccolissimo e ho iniziato a prendermi cura di lui. Gli davo da mangiare, lo aiutavo nei suoi bisogni e cercavo di tenerlo un po’ più attivo, provavo di tutto… Quando sono stato preso al Servizio Civile ho messo insieme tutte le mie vecchie esperienze e mi sono spinto avanti. Diciamo che grazie a lui, mi è venuta voglia di fare questa esperienza.
Al CDH all’inizio non sapevo a cosa andavo incontro, cosa avrei trovato… poi ho iniziato a conoscere i ragazzi, uno a uno, e non era come me l’aspettavo. Mi aspettavo di trovare persone come mio cugino bisognose di assistenza in tutto. Qui invece mi sono accorto che la disabilità non è solo assistenza, la disabilità si manifesta in tanti modi e il CDH mi ha dimostrato questo, perché ho conosciuto dei ragazzi tutti con disabilità diverse, sono state esperienze che mi hanno fatto crescere mentalmente e anche divertire.
Ho anche imparato da loro e spero che anche loro abbiano imparato qualcosa da me per quel poco che ho dato. Per me è stata una esperienza veramente bella… Mi ricordo che mi svegliavo tutte le mattine e dicevo: “devo andare… c’è Ermanno… c’è la Titti… tutti che mi aspettano…”. Quindi ti svegli di mattina già carico!
Anche voi educatori siete stati veramente simpaticissimi. Svegliarsi sapendo che tutti ti aspettano, questo è stato veramente una cosa positiva. Non ho mai avuto un’esperienza così!
Quando invece ho lavorato nelle fabbriche, lì ti svegliavi di mattina e ogni scusa era buona per non andare, non avevo proprio voglia. Grazie a questa esperienza che ho avuto con i ragazzi del CDH, un’amica di mia madre che lavora in una comunità di minori mi ha proposto un lavoretto a Funo, dove andavo tutte le sere e nei weekend, c’era anche qualcuno con disabilità. Lì dovevo badare a ragazzi piccoli che vivevano in comunità, ragazzi che avevano problemi familiari. Anche lì mi sono trovato bene, a seguito dell’esperienza al CDH mi è sembrato tutto naturale. Il laboratorio interculturale a cui ho partecipato è stato una bella esperienza, non me l’aspettavo. È stato bello nel senso che ho dovuto conoscere altri paesi, perché io avevo una mentalità talmente diversa di come sono gli altri paesi… Ho avuto la possibilità di conoscere culture diverse dalle mie. Già che sono in Italia, questo è già qualcosa in più per me che sono nato in Uganda e ho vissuto tutta un’altra vita, lì è tutto diverso da qui e quindi facendo questo laboratorio ho aggiunto altre conoscenze che non sapevo. Ad esempio l’Etiopia che si trova in Africa è un paese che io non conoscevo proprio, anche se si trova in Africa. La maggior parte della gente pensa che l’Africa sia un paese unico. Lo dico ancora che non lo è, è un continente. Grazie all’incontro con Yousef ho imparato qualcosa in più rispetto al mio continente, l’Africa. Mi è piaciuto perché ho dovuto spiegare ai ragazzi come viviamo in Uganda, i nostri comportamenti, le differenze con l’Italia.
Tante, poi, le domande che mi hanno fatto i ragazzi che mi hanno colpito come “perché in Uganda c’è sempre la guerra?” e anche un’altra “perché siete neri?”. Hanno fatto bene a farmi queste domande, così sono riuscito a spiegare un po’ di più rispetto al mio paese. Ci sono state le guerre fino agli anni Ottanta, ma ora l’Uganda diciamo che è un paese libero, non ci sono più guerre, è un paese tranquillo. A proposito invece del colore della pelle invece non ci avevo mai pensato… Essendo però che siamo sempre esposti al sole… Cambia la cosa. Come dite? Ahahah! Sì, forse è vero, siete voi che vi siete sbiancati!
Penso sarebbe bello sperimentare questa attività a scuola, perché i ragazzi più piccoli hanno sempre questa curiosità di sapere, di conoscere, è meglio che imparino già da piccoli a sapere qualcosa sui diversi paesi, poi più crescono e più imparano. Io la consiglio!
Consiglierei anche ai ragazzi stranieri della mia età di fare amicizia con le persone del posto, perché la maggior parte dei miei amici africani, quando arrivano qua rimangono in gruppo fra di loro, si chiudono e questa è una cosa sbagliatissima.
Per conoscere bene la cultura del paese, il modo in cui si vive e per imparare bene la lingua bisogna stare con le persone del luogo e raccontare qualcosa di sé. Basterebbe “sfruttare” i contesti, la scuola, le associazioni, le opportunità come il Servizio Civile che ho fatto io… ti aprono un mondo. Tutti i servizi che coinvolgono le persone, le attività che propongono, sono cose molto utili.
Io vi voglio ancora ringraziare per avermi dato la possibilità di partecipare al laboratorio sull’intercultura, mi è veramente piaciuto, siete stati molto bravi. È stata una esperienza che me la ricorderò sempre.

7. Le utopie di Dioniso. Sitografia e consigli di lettura

Link utili
Accaparlante http://laquintaparete.accaparlante.it www.accaparlante.it>

I teatri
www.itcteatro.it www.teatrocasalecchio.it www.arenadelsole.it www.testoniragazzi.it www.teatrodelleariette.it
Esperienze http://inclusiveartsnetwork.com http://3emerideau.blogspot.it www.altrevelocita.it
Audience development www.beniculturali.it http://ec.europa.eu ww.mhminsight.com www.theaudienceagency.org www.fitzcarraldo.it

Letture
Altre velocità (a cura di), Un colpo, Angelo Longo Editore
R. Barthes, Sul Teatro, Meltemi
B. Brecht, Scritti teatrali, Einaudi
P. Brook, La porta aperta, Einaudi
A.M. Cascetta, Elementi di drammaturgia, Pubblicazioni I.S.U. Università Cattolica di Milano
F. Cruciani, Lo spazio del teatro, Laterza
F. De Biase (a cura di), Audience development, audience engagement, FrancoAngeli
M. Gualtieri, Senza polvere, senza peso, Einaudi
M. Marino, Lo sguardo che racconta, Carocci
M. Marino, Teatro da mangiare?, Teatro delle Ariette
B. Munari, Verbale scritto Corraini
B. Munari, Il cerchio, Corraini
K. Smith, Risveglia la città, Terre di Mezzo

 

6. A luci accese

Quando uno spettacolo finisce di solito si accendono le luci, gli attori escono sulla ribalta e scattano gli applausi… Benché alcuni studiosi di oggi non lo ritengano strettamente necessario, per noi l’applauso si è rivelato sempre un grande momento liberatorio, oltre che, ci piace ancora pensare, una forma di gratitudine e di rispetto nei confronti del lavoro degli artisti.
Il tempo dell’applauso, se goduto, è infatti un momento speciale per tutti, è l’attimo in cui l’attore e lo spettatore scaricano le tensioni, in cui si vedono in faccia, è l’attimo della complicità, dello sguardo d’intesa che si scambia con un amico con cui ci si capisce senza parlare.
Non sempre tuttavia, la società ci lascia il tempo per alimentare queste belle sensazioni.
Al giorno d’oggi quando per esempio andiamo a vedere una mostra, un film o a teatro, siamo spesso costretti a scappare via, a inserire l’appuntamento con la cultura in mezzo a flussi di azioni e di eventi molto diversi tra loro che, quasi sempre, finiscono per impegnarci sullo stesso livello. La stanchezza che ne deriva, lo sappiamo, è grande.
Sarà per queste elucubrazioni, ma spesso nel fuggi-fuggi verso automobili e mezzi che di solito segue agli spettacoli mi è capitato di pensare alla Seggiola delle visite brevi di Bruno Munari (sì, ancora lui), una seggiola pensata per l’appunto per stare “in prestito”, né dentro la casa di qualcuno né fuori. La seduta che è a metà tra il sedersi e lo stare in piedi, ideale da poggiare al muro, l’ha resa infatti nel tempo una perfetta sedia da pianerottolo dove ci si saluta e si conversa compatibilmente al buon senso, pena le lamentele dei vicini.
Le pubbliche relazioni che coltiviamo negli spazi della cultura, ci siamo accorti, si poggiano spesso su seggioline così.
Con il Progetto Calamaio tuttavia, complice la necessità di non dimenticare giacche, cappelli e borse, ci vuole sempre un po’ più di tempo. Nel mezzo di quelle attese si scherza, ci si guarda intorno, gli attori si fermano per rispondere a eventuali domande anche dopo le interviste ufficiali… Il tempo dell’uscita insomma risulta sempre più dilatato.
Questo fermarsi a parlare, che abbiamo speso con direttori artistici, critici e artisti alla fine di ogni spettacolo, è stato tuttavia quello che ci ha permesso di fermarci a riflettere sulle reciproche peculiarità, di immaginare dei percorsi insieme e soprattutto di godere di un tempo calmo e dilatato che nasceva prima di tutto dal bisogno delle persone con disabilità.
Ne sono successivamente nati convegni, partecipazioni a spettacoli, ulteriori incontri, relazioni e scambi che qualcuno ha poi deciso di coltivare in autonomia, soprattutto c’è chi, come Diego, quando il teatro lo ha visto ha chiesto anche di farlo. È successo con l’incontro con la compagnia di rifugiati Cantieri Meticci, incrociati ormai tre anni fa durante la preparazione dello spettacolo Il violino del Titanic di Pietro Floridia. Quel miscuglio di ragazzi stranieri della sua età, tra i 20 e i 30 anni, che parlavano male come lui ma che sembrava non fosse un problema, lo ha spinto a provare a seguirne i laboratori. L’accoglienza calorosa che ha ricevuto, pur necessitando di qualche mediazione e portando in luce delle difficoltà, ha dimostrato un ulteriore scarto di accessibilità, confermando che a teatro non è necessario parlare la stessa lingua se ci si mette in reciproco ascolto. Il corpo ci ricorda che si può anche stare zitti, basta usare i vocaboli dell’immaginazione, colmare una distanza. Perché il teatro – ci ha insegnato il laboratorio di educazione alla visione “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” – è sempre essere attori e spettatori insieme.
Ed ecco allora che il nostro cerchio si chiude, riportandoci a Barthes, al coro, al theatron en plein air con cui abbiamo aperto il nostro racconto.
Sia che vi sentiate più spettatori inattesi o più habitué, speriamo di avervi appassionato o quanto meno spinto a esplorare questo mondo con maggiore fiducia.
Per concludere, un piccolo regalo, un dialogo corale, annusando il vento e interrogando le stelle, ai confini del cerchio, nel nostro teatro scoperchiato:
Buio. Cicale
TIZIANA: Che poi il teatro…
FRANCESCA: Che sia proprio questa cosa qui?
STEFANIA MIMMI: Va beh, è difficile spiegare…
DIEGO: Un pochino
CLAUDIO: Cioè?
MARIO: In fondo è un desiderio primigenio
LORELLA: Non sentirci soli ci ha fatto stare bene
TATIANA: È inebriante anche quella sensazione di inconcluso
STEFANIA BAIESI: Un solo sguardo ed è un poter dire
TRISTANO: Essere continuamente
PATRIZIA: Vita e morte
LUCA: Morte e vita
ROBERTO: Senza polvere
SANDRA: Senza peso
LUCIA: Come parole lisce…
MANUELA: … Ritmate sul respiro
ERMANNO: Oh! Che gioia!

Il Progetto Calamaio vi aspetta a teatro ma vi esortiamo a scriverci su http://laquintaparete.accaparlante.it o a rivolgervi a lucia.cominoli@accaparlante.it per ulteriori informazioni.

Nel frattempo… Buone future visioni a tutti!

5. La formazione del pubblico. Esperienze di audience development

5.1 Cosa fanno i teatri. Conversazione con Micaela Casalboni, attrice di ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
Il percorso che abbiamo intrapreso insieme con La Quinta Parete ci ha portati a focalizzare lo sguardo dall’accessibilità alla cultura in senso lato sul ruolo e l’esperienza a teatro dello spettatore con disabilità. Un ruolo e un’esperienza che abitano prima di tutto una presenza. Partirei proprio da qui. Presente è “qualcuno che è nello stesso tempo nel quale si parla” e ciò coinvolge la persona in termini di fruizione ma, facendo un passo indietro, anche in termini di accesso a. Quanto è frequente oggi la presenza della persona con disabilità in platea? È cambiato qualcosa rispetto al passato?
Qui all’ITC è cambiato sicuramente, basti pensare che quando abbiamo iniziato, nel lontano 1998 nella platea appena messa a posto c’era una sedia! Da allora, quando si incrociavano spettatori con disabilità in linea di massima alla fine dei saggi, la situazione è decisamente migliorata. Oggi ci capita molto spesso di avere tra il pubblico spettatori in carrozzina o non udenti, con alcuni dei quali, come voi e Fondazione Gualandi, abbiamo attivato percorsi specifici, relativi allo scambio dei saperi e alla fruizione dello spettacolo stesso attraverso per esempio la sovratitolazione.
Sto pensando ora alla parola “presenza” che hai usato… Una parola interessante perché la presenza è anche una caratteristica specifica del teatro, in cui è tutto lì, gli attori sono nella stessa stanza del pubblico, prima di tutto nei loro corpi. La presenza è una questione molto, molto importante che quando ci fa interfacciare con nuovi pubblici alle volte ci fa sentire inadeguati, desideriamo accogliere tutti e ci chiediamo continuamente se facciamo abbastanza. Ogni volta ci mettiamo in gioco, imparando mano a mano, e lo facciamo non solo nei confronti della disabilità, lo facciamo in direzione di un’accessibilità in senso lato, inserendo per esempio una cartellonistica in più lingue per i migranti con cui lavoriamo da diversi anni, conservando l’ambizione di rendere il nostro sito bilingue, con una prima versione italiano-inglese, impegnandoci per offrire agli studenti, fin dalle prime superiori, ingressi a 1 euro per agevolarne la partecipazione autonoma.
Come attori e registi invece sperimentiamo l’accessibilità anche nella realizzazione stessa dello spettacolo, in alcuni dei quali, come nel caso di Le Parole e la città, lo spettacolo itinerante con cui abbiamo celebrato i 20 anni del Teatro ITC con il coinvolgimento di tutte le realtà cittadine che hanno collaborato con noi, abbiamo sperimentato una traduzione simultanea in più lingue, di testi registrati che il pubblico poteva ascoltare in italiano, inglese e arabo per esempio, grazie a delle cuffie con sensori che si attivavano non appena ci si avvicinava ai singoli palchetti, mentre lo spettatore assisteva alle azioni dei performer. In altri casi, come ne La magnifica illusione, abbiamo immaginato uno spettacolo senza parole, solo agito, con un forte gioco di luci, capace così di coinvolgere persone con disabilità sensoriali, adulti, adolescenti, bambini, di far convivere insomma nello stesso spazio presenze diverse.
Lo stesso metodo de Le Parole e la città lo abbiamo usato anche incontrando il mondo del volontariato di Bergamo con il progetto “Arcipelaghi” che ne raccoglie le storie all’interno dello spazio di un ex-carcere. Tutto questo per dire che la riflessione sul pubblico con disabilità porta con sé quella sugli altri pubblici, se migliori l’accessibilità per la prima, facilmente lo farai anche per gli altri, e viceversa.

Ogni persona e quindi ogni potenziale spettatore porta con la propria autenticità, lo fa nel rapporto con l’attore ma anche nei confronti del pubblico. Grazie al vostro spettacolo Diario di una follia di Stato ci siamo liberamente ispirati alle Istruzioni alla servitù di Jonathan Swift e agli esercizi mattutini di obbedienza e normalità eseguiti dagli attori, i ragazzi di Crossing Paths, per ricostruire le tappe della nostra entrata a teatro. Ne è nato un ironico vademecum “Sconquasso, istruzioni per l’uso”. Quanto vi siete riconosciuti in quanto casa ospitante nelle tappe di questo passaggio di accoglienza negli spazi del teatro?
L’esperienza di avervi qui ci ha fatto vedere a noi stessi noi stessi. Uso questo gioco di parole per dire che spesso abbiamo sentito di aver ricevuto molto di più di quello che avevamo dato, ci avete fatto notare, attraverso le vostre visioni, cose a cui non avevamo pensato ma in cui ci siamo fortemente riconosciuti. Lo sconquasso per esempio, che da noi è sempre benvenuto, non ci sembrava un problema, ci sentivamo predisposti ad accogliervi, sapevamo di avere la rampa, che superato il numero di 3 e 4 carrozzine sarebbe stato necessario fare un punto organizzativo e magari dotarsi di una maschera in più, insomma niente di che. Le dinamiche però su cui voi avete giocato e ironizzato hanno messo in discussione l’entrata di tutti gli altri spettatori, inevitabilmente contagiati da una prossimità forse non del tutto attesa, una cosa che non avevamo considerato. Quando ho letto quel vademecum, oltre a riportarmi con affetto a un percorso educativo molto caro, quello con gli adolescenti di Crossing Paths, ho riso moltissimo, avrei voluto appenderlo all’entrata, nel foyer e, ti dico, forse prima o poi lo farò! La stessa sorpresa l’ho avuta leggendo la restituzione sul nostro Teatrobus… Le immagini che gli avete costruito intorno erano le stes- se da cui noi siamo partiti quando abbiamo deciso di sperimentare questa nuova avventura, quella cioè di costruire un teatro su un autobus. Uno spazio, lo sappiamo, molto poco accessibile ma che non vi ha fermati, vi è bastato chiedere aiuto per salirci su. Un bello schiaffo a certe preoccupazioni che a volte gli artisti si fanno perché in quel caso di fare piani organizzativi non c’è stato proprio il tempo! Io, devo ammettere, sono una specialista nelle preoccupazioni ma lo sono di più in veste di attrice. Quando ho interpretato Ofelia in Tiergartenstrasse 4 per dirne una, in cui raccontavo la storia una disabile con un ritardo mentale che stava per essere coinvolta nel programma di sterminio previsto durante il regime nazista, ero piena di dubbi. Per interpretare Ofelia in passato avevo studiato modi di parlare, gestualità e corporeità di un certo tipo di disabilità. La sera in cui sapevo che voi sareste stati tra il pubblico, mi ripetevo continuamente “con che faccia mi trovo ora a rappresentare io tutto questo?”. L’ansia, la paura, sono trappole in cui si rischia di cadere, succede anche con il pubblico che applaude e basta, ti chiedi se avrà davvero capito, se avrà davvero apprezzato. Il teatro però ti insegna a vivere l’incontro in maniera empirica e ciò che ti dà forza è prima di tutto l’incontro umano. Questo è fare teatro, e io me lo porto sempre dietro. Quando mi chiedono che cosa faccio, non rispondo mai “faccio l’attrice”, rispondo sempre “faccio teatro” ed è accaduto anche a voi: non vi abbiamo semplicemente proposto uno spettacolo, abbiamo “fatto insieme teatro”.

Come attrice e regista sei stata più volte coinvolta nell’incontro con gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, nella fase di preparazione alla visione dello spettacolo come in Diario di una follia di Stato ma anche leggendo il riscontro seguito alla visione di Tiergartenstrasse 4. Un giardino per Ofelia. Cosa ti ha lasciato questo scambio? C’è qualcosa in particolare che porti ancora con te?
Quello che mi ha colpito è stata senza dubbio la capacità spontanea di andare alla radice, ogni volta in maniera diversa. In certi casi le restituzioni riassumono lo spettacolo in tre parole con grande semplicità, in altri il tutto è reso più complesso e ti fa notare aspetti del tuo modo di recitare o di dirigere a cui non avevi pensato. Ciò che resta è senza dubbio la dimensione poetica, il dono di un incontro. Nella restituzione di Ofelia, di cui conservo ancora il disegno di Attilio Palumbo sul mio dekstop, ho sentito fortissima la percezione di questa dimensione, che anch’io, che avevo lavorato con grande umiltà, avevo ricercato nella rappresentazione con l’idea cioè di lavorare su un doppio binario, di oltrepassare la mimesi dell’attore e di arrivare più all’interno per disegnare un personaggio poetico. Ofelia, quando guardo il disegno ci penso ancora, mi ha costretta a un esercizio di verità, non di realismo ma di verità, che è un’altra cosa. Ofelia che inizia da me, finirà con qualcosa di diverso da me. La disabilità, forse, ti porta a confrontarti con un meccanismo piuttosto simile. Dei nostri incontri di preparazione agli spettacoli poi ricordo senza dubbio Lorella, ne ha sempre una per ogni argomento e, un po’ come Ofelia, deve sempre dire quello che pensa, anche se inopportuno. In quell’occasione io e i ragazzi ci siamo divertiti moltissimo e, sarò onesta, non pensavo che sarebbe accaduto, immaginavo di dover- mi concentrare molto nel capire e nel dover farmi capire. Invece siamo stati accolti benissimo, Stefania Baiesi, Mario e tutti gli altri presenti si sono aperti con un atteggiamento di grande protettività nei confronti dei ragazzi, ci si parlava tra fratelli umani e l’insieme, tra tutte quelle risate, affrontando temi seri, è stato un po’ toccante.
Un’altra cosa che mi ha colpito è stata la vostra partecipazione all’incontro organizzato in Università dalla professoressa Zanetti, insieme al Teatro Testoni Ragazzi e all’oggi Teatro Laura Betti nell’ambito del convegno “I diritti dei bambini e delle bambine a una piena cittadinanza culturale”, c’eravate tu, Sandra e Tatiana. Ricordo l’ironia con cui dialogavate con Tatiana, il gioco del “avete capito?” quando Tatiana, che ha difficoltà nel linguaggio, parlava, una sorta di rimbalzo di battute alla Totò e Peppino, delicate ma decisamente comiche, perfette per rompere il ghiaccio. A partire dalla disabilità, ci avete riportati a una dimensione di quotidianità, a una dimensione di allegria e spronato a capire che non si può sempre parlare solo di “sfiga”!

L’accessibilità, così come il tema della sessualità, sottolinea provocatoriamente il giornalista con disabilità Claudio Imprudente, sta sempre di più diventando una moda. Claudio ne sottolinea questo aspetto, soprattutto relativamente al fatto che spesso a chi oggi affronta queste tematiche mancano dei passaggi di conoscenza sulla disabilità in senso stretto. Una riflessione un po’ scomoda che però ci offre l’opportunità per ampliare una domanda di fondo. Che cosa rende accessibile un teatro? Come porsi dunque di fronte alle specificità di un pubblico sempre più variegato?
È necessario, come anche voi sottolineate, che i pubblici comincino a guardarsi tra di loro. L’audience development sta lavorando in ambito europeo proprio su questo: come far sentire le persone accolte in un processo dinamico che non cambia di luogo in luogo ma da individuo a individuo, indipendentemente dalle categorie di appartenenza. Bisogna ragionare in termini di mescolanza e di spazi terzi che possano favorire i tempi dello scambio, della conoscenza e della socializzazione in apertura alle specificità.
In Danimarca, Svezia, Francia, Germania e Inghilterra si ragiona da tempo su questi aspetti e anche nei teatri tradizionali sono previsti altri spazi deputati a questi momenti, i foyer sono concepiti come le zone del salotto di una casa, ci sono angoli per leggere, per mangiare e bere per chiacchierare e rilassarsi, darsi un tempo prima e dopo la visione.
Che ci sia una moda, come ci stuzzica Claudio, è possibile, ma mi dico anche che se poi la moda ci porta a rendere accessibili degli spazi ben venga! Penso che dipenda dai casi, che non si possa fare di tutta l’erba un fascio, distinguere per esempio il concetto di accessibilità da quello di teatro sociale è un primo passo per non cadere in certi tranelli.

Il lavoro degli ultimi tre anni del Teatro ITC si sta soffermando moltissimo proprio sull’audicence developement, in direzione anche di modifiche strutturali, di una revisione degli spazi e di un ripensamento complessivo del luogo teatro, qualcosa che va oltre alla definizione di “luogo dello sguardo” per spostarsi sempre di più sul piano della relazione e dell’educazione con e per il pubblico. Cosa nascerà? Quali sono le utopie del prossimo futuro?
Sì, come teatro ci piacerebbe molto aderire agli spazi europei sopracitati e a sviluppa- re in questa direzione i suggerimenti dell’audience development, la Compagnia dell’Argine sta bene all’ITC ma indubbiamente è ormai uno spazio stretto. A questo proposito, grazie a un aiuto esterno, presto avremo la possibilità di acquistare un tendone da Circo, una vera e propria nuova sala che sarà posta nella piazza esterna accanto al teatro, che, oltre a essere totalmente accessibile in termini architettonici, ci permetterà di condurre in uno spazio teatrale i nostri laboratori come quello, per re- stare in tema, ormai diventato consuetudine con “Gli amici di Luca”, che coinvolge le persone reduci da esperienze di coma de La Casa dei Risvegli, uno spazio che può essere aperto anche ad aperitivi, eventi itineranti, incontri o ulteriori spettacoli.
A ciò si aggiunge il progetto Futuri Maestri, una riflessione che coinvolgerà oltre tremila bambini e ragazzi, di cui mille sulla scena, su ciò che è il mondo contemporaneo, a partire dalle parole-chiave lavoro, amore, crisi e immigrazione. Nel 2008 l’ITC ha mutato forma giuridica, da teatro è passato a cooperativa sociale, mi piace che a un certo punto abbia il coraggio di dire quello che oggi è.
Il teatro non è uno spazio vecchio dove va gente vecchia, bisogna togliere polvere prima di tutto alle idee, mischiare gli sguardi, aprire le porte, metaforiche e non.

5.2. Educare alla visione a scuola con “Crescere spettatori”. Conversazione con Agnese Doria di redazione Altre Velocità

Che cos’è “Crescere spettatori”?
È un progetto che è nato in maniera ancora più strutturata nel 2015 quando Altre Velocità ha ricevuto il finanziamento ministeriale del MiBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo), accreditandoci tra gli enti che si occupano in Italia della formazione del pubblico. Il nostro lavoro ha radici più antiche ma questo riconoscimento, oltre a permetterci una maggiore strutturazione, ci ha concesso di ottenere a livello nazionale una riconoscibilità forte.
“Crescere spettatori” sono i laboratori che noi teniamo in orario curriculare all’interno delle scuole ormai di quasi ogni ordine e grado, a partire dalle elementari attraverso le secondarie di primo e secondo grado, nelle ore quindi che alcuni insegnanti di diverse materie, come per esempio italiano e storia dell’arte, offrono al laboratorio. Il fatto che non si tratti di laboratori opzionali extrascolastici ma che gli incontri rientrino nel monte ore obbligatorio è per noi molto importante perché pone i ragazzi di fronte all’inaspettato. Molte volte infatti quando entriamo in classe i ragazzi non sanno bene chi siamo e che cosa siamo venuti a fare, a volte non lo sanno neanche le insegnanti, la cosa bella però è che quando si rompe il ghiaccio ed entriamo e raccontiamo quello che facciamo, spesso quei ragazzi o ragazze che mai avrebbero scelto un laboratorio di educazione allo sguardo si ritrovano a essere in qualche modo incuriositi e affascinati da questa nuova prospettiva, che non li convoca a “fare” ma semplicemente a “osservare”. I più piccoli ci hanno molto stimolato in questa direzione, abituati cioè alla dimensione fattiva che fa parte della vita scolastica, in cui c’è molto “esterno” che entra quotidianamente nelle classi richiamandoli per l’appunto alla dimensione laboratoriale della concreta attività e del teatro recitato.
In questo caso noi agiamo in maniera differente, li richiamiamo allo sguardo e all’ascolto con un posizionamento che loro percepiscono come nuovo, complice una tradizione pedagogica che da Ciari, Munari e Freinet ha sempre spinto verso l’artigianato. Noi non abbiamo pedagogicamente nulla contro questi approcci ma pensiamo semplicemente che un posizionamento sullo sguardo e su “il non fare” sia oggi altrettanto indispensabile.
Sono dunque laboratori sullo sguardo in cui noi, a seconda delle età dei ragazzini, usufruiamo di una cassetta degli attrezzi diversa che è uno strumentario per saper iniziare a guardare uno spettacolo ma soprattutto per cominciare a saper fare domande all’opera d’arte. Spesso domandiamo che cosa ci sta chiedendo l’opera, quali domande fa al pubblico e viceversa quali sono quelle che il pubblico fa all’opera, spronandoli a chiedersi quindi che cosa loro cercano nell’opera e ad argomentare motivazioni che vadano a fondo, in direzione di una complessità.
Avendo ricevuto il riconoscimento del Ministero, della Regione Emilia Romagna e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna ovviamente si è creata una rete di partnership regionali ed extraregionali che ci permette oggi di entrare in diversi contesti scolastici. Con il Teatro Arena del Sole entriamo in tutte le scuole di Bologna e provincia, con il Teatro delle Briciole entriamo nelle scuole medie del parmense, insomma iniziamo ad avere una mappatura piuttosto vasta che vorrebbe poi costituire una ricerca sul campo a livello sociologico, affinché in futuro diventi una pubblicazione che possa dare voce a quella che per noi che sta diventando una metodologia di intervento e naturalmente ai suoi protagonisti.
D’altronde noi ci siamo inseriti in un periodo storico che proviene dall’eredità della grande animazione teatrale in cui finalmente il teatro è stato portato nelle scuole e che ha avuto una grande stagione, una stagione però che sembra essersi un po’ dissolta nell’aria.
Noi raccogliamo quell’eredità trasformandola dal punto di vista della spettatorialità anche perché storicamente siamo spettatori tutti i giorni, dal secondo che viviamo alle pagine Facebook e ai siti che andremo a visualizzare, in tutto questo mare magnum bisogna restare vigili, capire come orientarsi, quali sono le domande da porre, quali le fonti attendibili. Cerchiamo di dare degli strumenti che sono dedicati alla visione di uno spettacolo ma allargando lo sguardo ci piacerebbe che fossero strumenti per saper guardare l’arte in generale e, per allargarlo ancora di più, in maniera utopica ma presente, per saper guardare il mondo.

Tornando per un attimo all’interno della dimensione di inaspettato da cui, dicevi, prende avvio il vostro dialogo con le classi, c’è stato qualcosa che ha colto di sorpresa anche voi, che ha rovesciato cioè il vostro modo di guardare all’universo dei bambini e dei ragazzi di oggi?
È una domanda bella e a cui è difficile rispondere perché ogni classe è un microcosmo a sé e ha talmente tante peculiarità che è impossibile generalizzare. Ci capita spesso tuttavia che i ragazzi siano entusiasti di andare a teatro e anche qualora non siano dei grandi frequentatori trovano comunque che la possibilità che la scuola gli offre di accedere allo spettacolo, anche usufruendo di eventuali scontistiche, sia pur sempre un’esperienza positiva.
Parlando di scuole superiori, poi, bisogna considerare che quando si raggiunge un’età biografica in cui il ragazzo inizia a operare delle scelte se non sulla vita almeno sui suoi hobby, tendenzialmente non sceglie di andare a teatro, un po’ perché ha dei costi elevati un po’ perché gli spettacoli sono di sera. Il cinema resta più accessibile, spesso ci scontriamo con loro infatti su un lessico e delle aspettative più legate al grande schermo che alla visione dello spettacolo dal vivo. Quando però poi lo incontrano, raramente ne escono scontenti. Inoltre sono termometri sempre in azione e ce lo dimostrano non appena ci mettiamo a dialogare.
La prima cosa che chiedo loro all’entrata in classe è se sono spettatori, se vanno a teatro e in quali teatri, quali sono cioè i contesti che frequentano e in cui si riconoscono nel panorama territoriale. Mi è capitato una volta che fossero loro a farmi conoscere una realtà che non conoscevo, dichiarandosi spettatori del “Festival 20-30” e grazie a loro ho scoperto un mondo. I ragazzi sono sempre dei grandi motori, hanno le antenne, hanno un fiuto da cui è giusto farsi trasportare.

In diversi paesi europei il teatro è portato e vissuto all’interno della scuola come disciplina di pari dignità insieme alle altre materie scolastiche. Avviene lo stesso anche in Italia?
No perché non c’è la struttura, e nonostante oggi ci sia una proposta di legge per far entrare il teatro come materia curriculare siamo ancora lontani da una definizione. Questo apre sicuramente delle riflessioni. In un momento dove tutto si sta smaterializzando, il teatro rappresenta una grande forza, è tutto, rappresenta il corpo, le temperature della voce, hai un tuo simile in un contatto visivo attore-spettatore insostituibile… Vero è che rispetto a questo noi ci interroghiamo ancora sul che cosa significhi entrare in classe. Noi siamo delle meteore nelle vite dei ragazzi, il nostro progetto può durare da due a un massimo di sei ore. Come relazionarci all’habitat e alle dinamiche che regnano nella classe? È giusto disarcionarle o no? È giusto en- trare in dialogo o no? In tutto questo in cui ci sentiamo ancora in un percorso in fieri, mi sembra che il fatto che qualcosa rimanga esterno non è del tutto negativo. È un motore comunque pazzesco che un ragazzo decida di andare a fiutare fuori e che questo accada al di là della famiglia e della scuola, in quanto lui si sente finalmente autore di decidere quello che vuole andare a fare, perché sempre minore è per i ragazzi anche la scelta di spazi di ozio, che si rivelano sempre più assottigliati. In quel luogo, vivaddio, non si sa bene che cosa si faccia ma qualcosa si muove, che sia teatro, musica o incontri, lì finalmente qualcosa accade.
È chiaro che la domanda si sposta su un piano politico. Quali sono quei luoghi vivi dove qualcosa accade e dove i ragazzi possono trovare qualcosa che sia di qualità e in cui siano liberi di andare? Questo era ai miei tempi un ruolo assolutamente rivestito dai centri sociali. Ci deve essere un territorio di libertà. Portarlo dentro così come è, soprattutto in una scuola che oggi va sempre di più verso i tecnicismi, è sicuramente importante; detto ciò credo anche che a un certo punto si possa dare ai ragazzi una scintilla che, se vogliono, possono portare avanti da soli, con forme che si devono inventare e che noi adulti non possiamo prevedere.

Dai licei alle elementari. Che strumenti avete usato per avvicinare i bambini all’ascolto?
La sperimentazione con le elementari la stiamo ancora affinando ma abbiamo trovato degli escamotage. Abbiamo per esempio una griglia di riferimento, che usiamo anche alle superiori, che racconta la scena a partire dagli elementi tecnico-formali, dal visibile cioè, come la scena, le luci, gli attori, i video, eccetera, con cui andiamo ad analizzare anche l’invisibile, quello che invece sulla scena non si vede. Con i bambini facciamo esattamente questo, rendendolo però materico, mostriamo loro la visibilità, entrando in classe con un performer, poi mano a mano la astraiamo. Dopo di che ci sono degli esercizi fisici di sguardo, diverse modalità per guardare una cosa, un piccolo training in cui li costringiamo a mettersi in movimento.

Hai mai incontrato alunni con disabilità nelle classi che hai incrociato?
Se ti riferisci a un handicap conclamato non mi è mai successo, anche se alle superiori ho incrociato dei ragazzi seguiti da un sostegno. Per quanto riguarda medie e elementari abbiamo incontrato classi con una percentuale molto alta di BES ma francamente se non me lo dicono personalmente non me ne accorgo… Per come sono organizzate le nostre attività anche i bambini più “lenti” trovano spazio per dare il proprio contributo, anzi spesso le insegnanti notano con piacere come emergano personalità che in genere fanno fatica a esprimersi, essendo le nostre lezioni molto partecipative e soprattutto collaborative.
Il modulo che va per la maggiore è quello di quattro ore, due ore prima dello spettacolo e le due ore successive, accade sempre che quando iniziamo a teorizzarlo, chi si dimostra molto vivace nella prima parte stia poi zitto nella seconda e viceversa, questo perché mentre prima occorrevano degli strumenti di razionalizzazione, a seguito dello spettacolo, grazie agli strumenti concreti e visibili che il teatro offre, anche chi ha delle difficoltà riesce più facilmente ad accendersi e a infervorarsi.
A volte, chi ha voglia, prende degli appunti e li deposita su carta ma lo fa liberamente, senza obblighi e costrizioni. Proviamo così a ribaltare etichette, posizioni e ruoli prestabiliti in cui hai la massima libertà d’azione quando l’insegnante non c’è, perché si crea un territorio in cui puoi muoverti su regole nuove; questo sarà probabilmente il passaggio a cui tenderemo in futuro.

Insieme al Progetto Calamaio ci hai introdotto al bellissimo spettacolo di Giuliana Musso, La fabbrica dei preti. Che cosa ricordi di quell’incontro? Ti capita spesso di incontrare persone con disabilità in platea?
Ammetto di essere piuttosto abituata a vedere persone con disabilità tra gli spettatori. Mi capita all’Arena del Sole ma anche in occasione di festival che si stanno aprendo in questa direzione, come per esempio con Gender Bender. Rispetto al nostro incontro ricordo invece di essere stata un po’ frontale, proponendo una lezione piuttosto classica in cui forse avrei potuto lasciare più spazio agli interlocutori, mi piacerebbe poter tornare oggi con il bagaglio d’esperienza che ho conquistato nelle classi con “Crescere spettatori”. Ricordo tuttavia un grande entusiasmo, soprattutto al momento dello spettacolo, all’arrivo a teatro, una comunità in movimento, capace di spostare energia, una cosa che si percepiva sia nei ragazzi sia in chi li accoglieva.

5.3 Dall’estero. L’esperienza inglese di IIAN e quella francese di Troisième Rideau
“La cultura è un elemento positivo che può facilitare l’inclusione sociale rompendo l’isolamento, favorendo l’espressione di sé, supportando la condivisione di emozioni e portando un’‘anima’ nelle misure messe in campo nell’affrontare le privazioni ma- teriali. Come mostra l’evidenza, la partecipazione culturale può avere grande impatto sul benessere psicologico delle persone.
Così citano le prime pagine del Report dell’OMC (Open Method of Coordination) dell’Unione Europea nell’ambito del Piano di Lavoro per la Cultura 2011-2014, a proposito delle politiche e delle buone pratiche di recente proposte sul piano euro- peo dalle arti pubbliche e dalle istituzioni culturali a favore di un migliore accesso e di una più estesa partecipazione alla cultura.
Il Report è del 2012 e l’Inghilterra, insieme a Francia, Italia, Germania, Spagna, Svezia e Danimarca, era ancora annoverata tra le esperienze degne di nota.
Cambiamenti sullo scenario politico a parte, l’Inghilterra, che porta con sé una favolosa tradizione teatrale, è sicuramente oggi con la Francia uno dei paesi più attenti al coinvolgimento e alla formazione dei pubblici. Tra questi anche quello con disabilità.
Lo scorso 7 marzo 2015 ci è capitato di presentare come Accaparlante il lavoro svolto con “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” al Festival Visioni di Futuro de La Baracca Teatro Testoni Ragazzi. Insieme a noi, sul palco, c’era un giovane ragazzo con disabilità, Daryl Beeton, uno dei fondatori di IIAN (International Inclusive Arts Network). Daryl è un attore e un regista che da anni si occupa a Londra e in giro per il mondo di circo teatro e teatro ragazzi prima di tutto in quanto artista e acrobata, dedicando particolare attenzione, anche in base alla sua esperienza, al tema della diversità e dell’accessibilità.
Oltre ad aver realizzato bellissimi spettacoli per i più piccoli come il recente A Square World in cui ha affrontato il tema delle barriere architettoniche utilizzando con ironia, poesia e profondità alcune forme geometriche, Daryl si è impegnato moltissimo nella realizzazione di un network internazionale rivolto senza distinzioni ad artisti e spettatori, lo IIAN per l’appunto, a favore dell’accessibilità dei pubblici, in particolar modo quello con disabilità.
 Altra esperienza che merita una menzione è senza dubbio quella francese di Troi sième Rideau a Mulhouse in Alsazia, di cui ci parla in maniera approfondita Massimiliano Rubbi nella sua rubrica di «Hp-Accaparlante» Europa Europa: un gruppo di attori con disabilità che non solo sono autori e protagonisti dei propri spettacoli ma che cercano con varie azioni di restituire al pubblico il processo delle prove, attraverso un diario di bordo in fieri che li porta a mettersi in gioco, a porsi domande che mirano alla realizzazione dello spettacolo ma che si interrogano anche sul senso che questo potrà avere o non avere per il pubblico e i modi in cui, qualora ci sia una disabilità, possa esserne fruito, uno scambio alla pari molto vicino all’approccio del Progetto Calamaio, che potete visionare sul loro blog: http://3emerideau.blogspot.it.
Per chi desiderasse documentarsi ulteriormente a fine volume troverà alcuni link utili e una breve bibliografia. I siti e i portali che oggi raccolgono le azioni a favore della partecipazione culturale sono molti e si evince come, perlomeno in Europa, la comunità internazionale stia prendendo direzioni condivise nella ridefinizione di norme, progettazioni e prassi.
Al di là di questi passaggi fondamentali, l’approccio più interessante tuttavia resta per noi ancora quello indicato da Simona Bodo, lo sguardo cioè sui terzi spazi in cui si sviluppa quel “patrimonio culturale immateriale” fatto di strumenti, oggetti e know-how tramandati da generazioni, che consentono di ricreare costantemente le culture nelle relazioni che passano attraverso il confronto tra i gruppi e le comunità.
Si potrebbe dire che, anche se si sa che il teatro fatto e visto fa bene sul piano pratico, non basta. Le comunità di appartenenza, le occasioni, restano infatti quello che più di tutto ancora condiziona l’apertura o la chiusura dei processi, e spesso una normativa illuminata non è fondamentale.
Resta il fatto che, come sottolineava Agnese Doria, chi trasmette la cultura ha un compito limitato: possiamo accendere una scintilla ma la scelta, di coltivarla o meno, spetterà pur sempre al singolo e questa libertà non può e non deve essere un comportamento prevedibile.
Ce ne parla a suo modo, nel prossimo intervallo, Alessio Plona, volontario del Servizio Civile Nazionale 2015-2016, qui alla sua prima esperienza di spettatore all’ITC Teatro con l’Hamlet travestie di Punta Corsara

Intervallo n 4. La mia prima volta a teatro. Un racconto di Alessio Plona, volontario del Servizio Civile Nazionale 2015-2016
Arrivare a Bologna, la dotta o la rossa a seconda delle preferenze, senza essere mai andato a teatro potrebbe suscitare un po’ di vergogna, e in effetti… Se da un lato le condizioni contestuali (venire da un piccolo paese, scuole superiori a indirizzo commerciale, amicizie “non troppo appassionate” al tema) non mi hanno aiutato molto, c’è da dire che la mia pigrizia e il mio poco spirito decisionale non mi hanno mai fatto incrociare questa strada, seppur avessi sempre voluto. Quindi quale occasione migliore di poterci andare se non all’interno del Servizio Civile? Ambiente formativo, protetto e in cui poter crescere… Ammetto, ero leggermente teso ed emozionato come credo che capiti quando per la prima volta si affronta qualcosa. Dico “affronta” col senno di poi, perché se dovessi pensare a una parola con cui definire questa mia esperienza direi “vulcano” di energia. Non ho sicuramente le competenze adatte per fare una valutazione artistica/tecnica sullo spettacolo, ma poco importa. Quegli attori di Punta Corsara per me sono stati eccezionali, un fiume in piena che ti travolge. Posso dire che sono uscito dall’ITC scosso, in senso positivo ovviamente, perché non mi aspettavo così tanta energia, così tanta vigoria sproporzionata, usando un termine calcistico. Non è facile descrivere le sensazioni provate: felicità, stupore, anche un pizzico di disorientamento…Emozioni contrastanti? Forse, chissà….Non sono mai stato bravo in effetti, ma penso sia “semplicemente” un qualcosa che ti muove, che non ti permette di staccare dalla realtà per un lasso di tempo sufficiente a dire “Ops, ma è già finito?”. Sarà stato lo spettacolo in napoletano, quindi vivo, caloroso, divertente e accogliente, che mi facilita in questa descrizione di quanto provato? Non so, però di una cosa sono certo: a teatro ci voglio tronare anche se non so ancora quando ne avrò il tempo!

 

 Intervallo n.3. Descrivere l’essenza. Due chiacchiere nel foyer con Attilio Palumbo, illustratore

Il teatro è un’arte antica che ha la peculiarità di svolgersi in presenza, che vive cioè nell’atto performativo, nella relazione attore-spettatore. Un’esperienza dunque, unica e irripetibile, difficile da documentare essendo la dimensione dell’incontro per sua natura sempre diversa. Come restituire questa caratteristica attraverso il disegno?
Per rappresentare un’esperienza teatrale prendo in considerazione gli elementi estetici e astratti come l’atmosfera, le luci e le ombre, i gesti, le musiche e le espressioni del corpo degli attori. Tutto questo si fonde e diventa l’input iniziale per realizzare le immagini. Seppur astratti diventano segno e colore. L’illustrazione non deve, a mio parere, raccontare o riassumere uno spettacolo bensì descriverne l’essenza, quella perlomeno che lo spettatore ha percepito come tale.

Tiergartenstrasse 4. Un giardino per Ofelia e La Fabbrica dei Preti sono gli spettacoli cui hai assistito in veste di spettatore oltre che di illustratore. Quanto ha inciso il tuo sguardo personale su quello artistico?
Ha inciso molto. Soprattutto in Tiergartenstrasse 4. Un giardino per Ofelia i temi trattati da sempre mi emozionano e coinvolgono particolarmente, lo sguardo personale ha prevalso condizionando il lavoro dell’illustratore.

Cosa ti ha colpito di più negli spettacoli che hai visto?
Ho un ricordo molto chiaro delle scenografie molto essenziali e delle luci non invadenti che mettevano in risalto l’azione delle attrici di Un giardino per Ofelia. Nel momento in cui ho realizzato le illustrazioni ho voluto riempire questa atmosfera, a tratti cupa, con fondi floreali e tinte pastello.

Che rapporto avevi con il teatro prima di partecipare al percorso? Eri abituato a frequentarlo come luogo di svago e divertimento o privilegiavi altri contesti?
Non ho avuto molte occasioni per andare a teatro in passato. Ho preferito sempre il cinema. Partecipare a questi spettacoli mi è piaciuto molto perché mi ha permesso di scoprire un tipo di teatro interessante, meno classico. Sarebbe stato bello se avessi potuto scoprirlo prima e avessi avuto la possibilità di imparare ad amarlo.

Pensi che il disegno e più in generale l’illustrazione possa agevolare l’incontro con altre esperienze artistiche per chi ha delle difficoltà cognitive e/o sensoriali?
Certamente. Le illustrazioni, partendo dalle emozioni vissute, raccontano in modo sintetico un’esperienza. Questa sintesi permette anche a chi ha difficoltà di comprensione di non perdersi in troppi elementi. Il messaggio, anche se a volte può essere metaforico, è maggiormente accessibile.

4. La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta”. Il Progetto Calamaio a tu per tu con lo spettacolo dal vivo

4.1 Prendere posto
Vi ricordate le domande con cui abbiamo aperto la nostra monografia? Ecco, tenetele in serbo e prendetevi tutto il tempo necessario per prestare ascolto anche a queste: dov’è il teatro? A che ora inizia lo spettacolo? Quanto dura? Chi mi viene a prendere? Chi mi porta a casa? Senti tu mia madre? Io vorrei venire ma non so se ce la faccio con gli orari… Quanto costa? Il biglietto lo prendi tu, vero? Ma è difficile? E se devo andare in bagno? A chi chiedo? Faccio in tempo prima a mangiare? Ci mettono davanti o dietro? Ci saranno bei ragazzi e belle ragazze tra gli attori? Le uscite di sicurezza sono ben segnalate? Metti caso che poi abbia bisogno di uscire… Potremmo continuare in eterno… Sono infatti questi dubbi, ansie, richieste e perplessità che spesso le persone con disabilità motoria e/o cognitiva si pongono prima di ogni uscita e, soprattutto se non sono abituate, prima di entrare in un luogo che non conoscono.
La gestione del corpo e dei suoi spostamenti resta ovviamente per molti la preoccupazione maggiore, un’ansia che spesso nasconde la frustrazione del dover sempre dipendere dalle decisioni altrui. Qualora poi i desideri della persona con disabilità e dell’accompagnatore non coincidano, il che è legittimo, entrare in conflitto, in famiglia come sul lavoro, è quasi sempre un passaggio obbligato. Lo sperimentiamo anche noi, ogni giorno, all’interno del Calamaio, alle volte con un po’ di alti e bassi e qualche sana litigata, partendo sempre dal presupposto che ognuno di noi porta con sé il proprio bagaglio di gusti, passioni, nodi irrisolti e abilità personali.
Questo, senza falsi buonismi, lo scenario di backstage su cui gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio hanno cominciato a sperimentare l’incontro con lo spettacolo dal vivo nel laboratorio di educazione alla visione “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta”.
Protagoniste diciassette persone in tutto, dai 20 ai 48 anni, senza contare il prezioso contributo di volontari e tirocinanti, che si sono lasciate condurre per poi auto- condursi in un percorso a tappe dedicato alla visione di alcuni spettacoli teatrali proposti sul territorio, un percorso depositato nel blog http://laquintaparete.accaparlante.it che ne ha documentato le fasi, a partire dall’entrata nello spazio dell’edificio teatrale.
L’entrata a teatro è stata infatti il primo passo per acquisire alcune consapevolezze che se da un lato ci hanno fatto scontrare con dei limiti di partenza, dall’altro ci hanno permesso di andare subito a fondo e di rendere la persona partecipe di un percorso in cui la disabilità in sé e per sé non è mai stata centrale, all’interno piuttosto di un’esperienza e di un’occasione festiva ugualmente condivisa da tutti.
Può sembrare banale ma questa presa di consapevolezza ha permesso ad alcune persone di prendersi delle piccole responsabilità, come per esempio quella di calendarizzare gli appuntamenti, di coinvolgere più serenamente i propri contesti di accompagnamento, di rivendicare il valore e l’importanza dell’esperienza culturale come un proprio diritto.
Un processo lungo ma condiviso, che è stato alla base della successiva libertà che ci siamo concessi nella visione e nella restituzione delle opere in sinergia con i teatri che ci hanno ospitato sul territorio bolognese, quattro in tutto, dal centro alla periferia.
Cominciamo allora dalla periferia, dai margini, come si suol dire. Bologna, rispetto ad altre città italiane, vanta infatti due territori di confine che sono due veri fiori all’occhiello per il territorio in termini di spazi, di qualità della proposta e di formazione del pubblico. Si tratta dei comuni di San Lazzaro di Savena e di Casalecchio di Reno, i poli opposti della città su cui campeggiano rispettivamente le sale del Teatro ITC di San Lazzaro e dell’oggi Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno.
L’accoglienza che abbiamo ricevuto in questi contesti, già abituati a interfacciarsi con pubblici molto differenti di bambini, migranti e anziani, ci ha subito permesso di sentirci a nostro agio e anche quando ci siamo trovati di fronte a delle barriere (foyer troppo piccoli, scalini, bagni non a norma) abbiamo avuto la possibilità chiedere la compartecipazione di tecnici di sala, maschere, direttori artistici, attori e registi che si sono spesi, molte volte con le loro braccia, per aiutarci a risolvere eventuali difficoltà.
Il passaggio dall’azione alla relazione è stato istantaneo, gli animatori con disabilità del Calamaio, già abituati a interfacciarsi in pubblico come formatori, si sono subito proposti con il consueto approccio schietto e allegro, a favore della conoscenza reciproca e di un’entrata negli spazi calda e familiare per tutti.
È successo anche con i teatri del centro città, come Arena del Sole e Teatro Testoni Ragazzi, il primo con un particolare slancio e cura da parte delle maschere, il secondo con il desiderio di agire, grazie alla nostra presenza, anche sugli spettatori disabili più piccoli.
La sorpresa di trovare un cospicuo numero di persone con disabilità, spettatori talvolta di spettacoli di teatro contemporaneo di ricerca, ha in realtà destabilizzato di più il resto del pubblico che il personale dei teatri. Enigmatici sorrisi alle porte d’entrata si sono spesso istintivamente rivolti al nostro gruppetto, che sarà forse apparso curioso, poco catalogabile e un po’ bizzarro.
L’entrata di una persona con disabilità in uno spazio di forte prossimità corporea infatti, anche se sempre più frequente, non sarà mai del tutto neutra: c’è un corpo con caratteristiche peculiari che si muove a suo modo, c’è la carrozzina, si producono suoni, mugolii e rumori “molesti”, componenti che condizionano inevitabilmente l’esperienza della visione degli altri.
Il papà del Progetto Calamaio, il già citato giornalista con disabilità Claudio Imprudente, racconta sempre quanto la disabilità ti costringa a muoverti, a cambiare la tua posizione di partenza, perché “se non c’è movimento – afferma Claudio – non c’è integrazione” .
Un bello spunto da cui partire ma, ci siamo chiesti, è davvero così? Gli altri sono disposti a lasciarsi andare così come lo siamo noi a fidarci di loro? Come possiamo verificarlo con i nostri mezzi di spettatori partecipanti?
Gli educatori e gli animatori con disabilità del Calamaio non si sono dati per vinti e hanno provato a rispondere stilando una lista di istruzioni, degli esercizi di accessibilità seguiti alla nostra prima esperienza di entrata nello spazio teatrale, un ironico vademecum che desideriamo rivolgere al pubblico disabile e non.

Ecco che cosa abbiamo combinato tra il foyer e la sala del Teatro IT

Sconquasso, istruzioni per l’uso. Esercizi di accessibilità a teatro
di Progetto Calamaio
Liberamente ispirato a Istruzioni alla servitù di Jonathan Swift e agli esercizi mattutini di obbedienza e normalità, eseguiti dagli ospiti del Castello di Diario di una follia di stato per la regia di Micaela Casalboni con i ragazzi del progetto europeo “Crossing Paths Sentieri che si incrociano”.
Esercizio n.1  Non appena raggiunta la destinazione d’arrivo assumete la posizione di un cerchio aperto al centro del foyer, cercando di occuparlo trasversalmente da destra a sinistra.
Esercizio n.2  Infognate il biglietto nella zip del portamonete del vostro portafoglio nuovo che non avete ancora imparato ad aprire. Nel farlo, ponete la massima attenzione affinché quest’ultimo sia posizionato sul fondo della borsa, coperto da fazzoletti e altre cose imbarazzanti che sicuramente vi cadranno di fronte a un’illustre personalità quando le maschere vi chiederanno di estrarlo.
Esercizio n.3  Prima di tutto assicuratevi che dietro di voi ci sia una lunga fila. A questo punto cominciate ad attaccare bottone con le maschere, raccontate loro ogni dettaglio sul vostro viaggio d’arrivo, fategli dei complimenti e soffermatevi sulle più significative vicende della vostra vita personale. Cercate di farvi dare, sempre e comunque, il loro numero di telefono.
Esercizio n.4  Non ascoltate mai nessuno quando dovete prendere posto. Vagate in autonomia per la sala e posizionatevi dove desiderate, possibilmente vicino al palco, così che anche gli attori vi possano vedere (non si sa mai cosa può succedere), lontano dalle uscite di sicurezza e accanto a persone ben vestite e pettinate dall’aria di chi la sa lunga ma è lì per puro caso.
Esercizio n.5  Sorridete a chi vi è seduto accanto, dietro o davanti. Se il sorriso non viene ricambiato presentatevi, scambiando due parole su quello che vi aspettate dallo spettacolo.
Esercizio n.6  Quando la luce cala, siate sicuri che il vostro accompagnatore sia nel bel mezzo di una fila centrale e mandatelo a controllare se avete dimenticato qualcosa fuori dalla sala non appena l’attore muove il suo primo passo sulla scena e l’attenzione del pubblico è totale.
Assicuratevi che l’accompagnatore debba far alzare per lo meno quattro o cinque persone durante l’intera operazione.
Esercizio n.7  Abbandonatevi allo spettacolo. Ridete, gridate, saltate sulla sedia, piangete, così come vi viene. Vedrete come il ben vestito che vi è seduto accanto vi seguirà a ruota.
Esercizio n.8 Se lo spettacolo vi è piaciuto applaudite a piene mani con tutta la forza che avete in corpo, ora in piedi ora seduti, al grido di “bravi, bravi!”. Viceversa, se lo spettacolo non vi ha convinto, parlatene nel viaggio di ritorno a casa e continuate nei giorni a seguire, ancora e ancora, spiegando perché.

4.2 Il prima, il durante e il dopo lo spettacolo
Gli spettacoli cui abbiamo assistito sono stati scelti dall’équipe del Progetto Calamaio in stretta relazione con i teatri e sulla base di una mia conoscenza pregressa come critica teatrale presso alcune redazioni del settore, grazie alle quali ho maturato la conoscenza del lavoro di alcuni artisti ormai periodicamente ospitati nelle stagioni del territorio.
A supportare le scelte sono stati di volta in volta i codici, i contenuti e i linguaggi utilizzati nei singoli spettacoli, che, pur inconsapevolmente, si sono dimostrati un veicolo all’accessibilità in senso lato, motivo per cui abbiamo privilegiato lavori che, anche nel caso della ricerca più contemporanea e performativa, mantenessero alto il tasso di coinvolgimento sensoriale e relazionale e proponessero tematiche di interesse collettivo anche qualora legate al dato biografico dell’artista.
Prima di ogni spettacolo perciò gli animatori e gli educatori, coadiuvati da volontari e tirocinanti, sono stati condotti, talvolta con l’intervento di artisti e critici teatrali, a “prepararsi” allo spettacolo prima della visione.
Momenti di scoperta e di discussione, in cui abbiamo incontrato le storie e le poetiche di artisti come Giuliana Musso, Punta Corsara, Teatro delle Albe, Marta Cuscunà, Marcello Chiarenza, Teatro Gioco Vita, Teatro Sotterraneo e Teatro delle Briciole, Compagnia dell’Argine, César Brie, Le Belle Bandiere, Mimmo Cuticchio, Teatro delle Ariette, Cantieri Meticci e Ascanio Celestini.
Se ragioniamo in termini di accessibilità metaforica, intendendo con questa la possibilità di farsi interpreti di un’opera e di farla vivere dentro di sé anche dopo l’incontro in presenza, il lavoro di questi artisti è stato per noi paragonabile a quello dei grandi pittori della Storia dell’Arte, artisti cioè che sanno parlare su più livelli e in cui ciascuno di noi può trovare quell’immagine o “quella frase che” – come direbbe la scrittrice Annie Ernaux – “pronunciata in silenzio ti aiuta a vivere”.
Ci sono poi le percezioni a pelle, quelle che nascono al momento dell’incontro e che lasciano il segno, anche quando non comprese alla lettera.
Non dimenticherò mai la reazione della mia collega con disabilità Lorella di fronte a César Brie che ci raccontava il suo modo di intendere il teatro: “Non so se ho capito bene – mi disse – ma quest’uomo è diverso dagli altri, quest’uomo è un poeta!”. Allo stesso modo Mattias, che di fronte alle luci di Maurizio Viani, proprio quella volta che aveva dimenticato a casa gli occhiali durante l’Antigone de Le Belle Bandiere, ha esclamato: “l’atmosfera era scura ma era perfetta, quelle luci rimbombavano dappertutto e il rosso sul fondale… sembrava venuto da chissà dove, una cosa sola con le voci, i gesti e gli spazi di questa tragedia electro-rock!”. Oppure Tatiana, che ha parlato per giorni di quanto Daniel Romila, clown di Parada e protagonista dello spettacolo di Marcello Chiarenza Casa dolce casa, fosse un giocoliere così bravo e simpatico nonostante gli mancassero delle dita nelle mani.
Gli spettacoli cui abbiamo assistito, almeno 30, ci hanno così portati di volta in volta a conoscere le biografie degli autori e, parallelamente il loro modo di intendere il teatro. Abbiamo fatto delle ricerche e cercato all’occasione di capire insieme che cosa sono il teatro di narrazione, i pupi siciliani, il teatro d’ombre, il circo ma anche la Commedia dell’Arte, i classici di Molière e di Dostoevskij, la tragedia greca, il contemporaneo, tutti quei generi, sfumature e consuetudini che rendono la scena molto più ricca di quanto avremmo mai immaginato.
Per farlo abbiamo usato strumenti diversi, video, musica, libri, elementi materici, impostato giochi di ruolo e attività che potessero farci entrare al meglio nell’atmosfera dello spettacolo.
Ogni anno poi, prima di cominciare il laboratorio, accoglievamo i nuovi arrivati con un’entrata di benvenuto che abbiamo chiamato “Il teatro come ti pare e dove ti pare di Ariane Mnouchkine”.
Di volta in volta così il gruppo sceglieva un luogo dove avrebbe voluto erigere il suo teatro immaginario. L’ultimo è stato un teatro viaggiante per mare, una nave-teatro insomma, che abbiamo disegnato e su cui abbiamo creato delle caselle con delle piccole tasche. Ad ogni futuro spettatore chiedevo di scegliere dove prendere posto, infilandosi in una delle tasche, complice un’immagine scelta tra alcune carte senza parole prese a prestito dal gioco di società Dixit, un’immagine che doveva rappresentare che cosa per loro significasse entrare in un teatro e l’esperienza della visione in se stessa.
Un gioco che, idealmente, ha richiamato il cartellone posto all’entrata del Théâtre du Soleil, fondato dalla Mnouchkine nel 1964 e dal 1970 situato alla Cartoucherie de Vincennes, uno spazio privo di numeri, in cui gli spettatori possono ancora oggi scegliere dove posizionarsi prima dell’inizio dello spettacolo. Un esperimento che, nella restituzione condivisa, ci ha fatto capire la differenza tra il cinema e il teatro, spingendoci a riflettere sulle peculiarità di un’esperienza fruitiva diversa dalle altre, la stessa per la quale ci vestiamo meglio, percepiamo fatica e noia durante la rappresentazione ma anche gioia esplosiva, calore, fino a ricondurre le radici di tutto questo nel corpo.
Il corpo infatti, compreso il nostro, non certo perfetto, è stato lo strumento privilegiato con cui durante gli spettacoli ci siamo confrontati con la visione, a volte spaventandoci, a causa di rumori, di effetti speciali o di entrate in scena improvvise, altre volte esaltandoci e sobbalzando sulle poltrone per le risate, altre volte ancora, quando non riuscivamo a vedere bene quello che stava accadendo, lasciandoci andare agli altri sensi, a percepire l’atmosfera generale e la tensione palpabile, il nesso tra noi e gli attori.
Una partecipazione totale, la nostra, e, forse anche per questo, quasi mai silenziosa, colpa delle voci, del volume molto alto, degli automatismi del corpo, fatti di scatti, versi e mugolii che inevitabilmente si amplificano nel buio della sala. Pensate per esempio a un colpo di tosse. Da uno a dieci quanto è fastidioso a teatro? Siate sinceri. Non vi è mai capitato di cercare di trattenere uno starnuto per non disturbare il resto del pubblico?
“Silenzioso e concentrato… ecco il teatro del pubblico impegnato!”, esclamò una volta la nostra collega con disabilità Stefania Baiesi.
Che siano queste o meno le richieste attuali, di certo il pubblico non è sempre stato così. La disabilità con il suo carattere di imprevedibilità ed extra ordinarietà ci riporta infatti ai grandi momenti di fioritura della scena, alla Commedia dell’Arte, al Teatro Elisabettiano, dove il pubblico parlava con i personaggi, urlava, commentava, lanciava ortaggi e chi più ne ha più ne metta se lo spettacolo non si rivelava di suo gradimento.
Gli artisti però lo sanno che dietro a tutte le pareti, portanti, divisorie e scorrevoli anche oggi c’è sempre il NOI di Piergiorgio Giacché. Ed ecco allora che quando lo spettacolo desidera davvero dialogare con te, te lo fa sentire con tutti i mezzi che ha, a partire da quello che vediamo sulla scena.
Luci, scenografia, costumi, e più in generale tutti gli elementi che caratterizzano l’impianto dello spettacolo sono stati così i primi termini di paragone per provare a orientarci nella visione in vista di una restituzione successiva. Cercare di ricordare, saper dire che cosa è accaduto, essere consapevoli di che cosa effettivamente siamo stati testimoni è qualcosa di molto difficile per alcuni di noi anche nella quotidianità. C’è chi si ricorda sempre tutto minuziosamente, chi solo gli oggetti o un fatto tra tanti, chi magari si fa distrarre da un suono, ma da lì, da quel particolare, è sempre possibile avviare insieme nuove creazioni.
Abbiamo imparato per esempio che a teatro esistono tre tempi: il prima, il durante e il dopo lo spettacolo, la cui qualità condizionerà il vissuto dell’intera esperienza visiva e la sua durata nella memoria.
Tuttavia è lì, nell’incontro con l’attore, che accade davvero qualcosa di imprevisto, qualcosa che, come in un viaggio verso un paese lontano, può portarti “dove non sei stato mai”.
Potrebbe allora capitarvi, come a Tatiana, di trovarvi spettatori sul palco, a cercare di capire da che parte state, di dimenticare a casa gli occhiali, come a Mattias, oppure di ritornare con il corpo alle emozioni che i colori vi davano da bambini come invece è successo a Lorella.
È accaduto allo spettacolo Report dalla città fragile di Gigi Gherzi, durante Antigone de Le Belle Bandiere e sulle orme-ombre di Cane Blu di Teatro Gioco Vita.

Tocca a te, spettatore! Pensieri in libertà su Report dalla città fragile, uno spettacolo di Gigi Gherzi – ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
di Tatiana Vitali
Fin dall’inizio, quando ci si appresta a entrare nella sala del Teatro ITC per assistere a Report dalla città fragile si comprende che quella che stiamo per vivere non sarà un’esperienza dai contorni regolari.
Si entra a piccoli gruppi e un’atmosfera di curiosa attesa, non appena il primo scaglione scompare nel buio, invade rapidamente il foyer. Finché non è il nostro momento e arriva Gigi Gherzi, il regista con Pietro Floridia dello spettacolo, ad accoglierci personalmente nel corridoio per condurci piano piano nei meandri del teatro. Gigi ci parla come se ci avesse incontrato per la strada e volesse svelarci un segreto. Un atteggiamento anomalo, mi son detta, che a teatro non avevo mai visto…
Di solito c’è sempre una certa distanza tra chi è sul palco e chi è in platea, mentre ora, che per di più non siamo in nessuno di questi luoghi ma in un corridoio, lo spettacolo è già iniziato e io, che non so bene il perché, mi sento spaventata e coinvolta.
Gigi ci prepara così, dandoci del tu, avvicinandosi ai nostri sguardi e indicandoci una teca di immagini, costruzioni e parole, preludio, scopriremo, al racconto del suo viaggio alla ricerca delle storie e delle voci di quelle che lui chiama le “persone fragili”.
Facciamo il giro della sala e saliamo sul palco, dove tutto quello che vediamo lo possiamo osservare, toccare… C’è un museo di tante, tantissime teche in mezzo a cui perdersi… sembra un bosco. Ci chiedono poi di toccare ed esplorare questa misteriosa scenografia, il protagonista chiacchiera con noi… Quello, lo si capisce già, sarà proprio il nostro spettacolo! Ci sediamo sulle panche in semicerchio, come nel teatro greco, e Gigi ci invita a dire la nostra sul suo racconto e, prendendo spunto di volta in volta dai frammenti delle sue interviste alle persone fragili della città e dell’ex ospedale psichiatrico milanese Paolo Pini, scriviamo dentro alle teche, lasciamo messaggi, i nostri messaggi, ogni sera diversi come diverso sarà anche lo spettacolo che Gigi ci racconterà. Le vite dei personaggi e quella di Gigi scorrono e così le nostre matite sulla carta, reperti di un passaggio graduale, del prima e del dopo e del nostro essere lì, sul palco, pronti a riconoscere, insieme, anche quello che nella nostra città vediamo e viviamo ogni giorno. A un certo punto ci viene chiesto di scegliere una teca e di posarla a terra. Sarà il pezzo di una nuova mappa, quella del pubblico presente sulla scena, nuovo microcosmo, nuova piccola città fatta di fragilità
Report dalla città fragile è davvero uno spettacolo dello spettatore, ogni sera coautore insieme a Gigi della storia che verrà. Non immaginavo che questo fosse possibile, né tanto meno di poter salire su un palco per vivere uno spettacolo senza recitarlo. Eppure, ho scoperto che anche noi, spettatori, possiamo essere e fare moltis- simo, anche per cambiare le cose, a partire anche solo da lì, dal teatro. Per esempio condividere le nostre fragilità e partecipare in questo modo più attivamente alla vita, proprio come abbiamo fatto sul palco del Teatro ITC.

Signore e signori, si raccomanda di togliere gli occhiali… Una visione sensibile di Antigone de Le Belle Bandiere – Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno (BO)
di Mattias Fregni
Nonostante questa sera abbia dimenticato a casa gli occhiali, la vivace danza di globi luminosi e suoni su sfondo nero che hanno accompagnato la tragedia di Antigone della compagnia Le Belle Bandiere, mi ha completamente incantato. Anzi, vi dirò di più: proprio grazie a questa mia sbadataggine, mentre mi abbandonavo al flusso dello spettacolo, sono stato raggiunto da tante piccole scariche elettriche luminose e posso dire d’aver assistito a uno scenario unico, irripetibile, che non ho paura di chiamare “fantastico”. Quelle scariche non erano altro che le mie emozioni che passavano attraverso la voce e il corpo di un certo genere di fantasmi, gli attori, e che improvvisamente mi sono arrivate dritte dritte allo stomaco senza chiedermi tanti perché.
La storia di Antigone è una storia difficile, anche se partita in fondo da un desiderio semplice, quello cioè di una sorella di seppellire il proprio fratello, di cui se non ho afferrato tutti i dettagli conservo però ancora l’odore e soprattutto la musica… che, beh, a tratti era proprio rock! Non avrei immaginato che in una tragedia ambientata nell’antica Grecia avrei potuto scovare i Dream Theatre e della musica elettronica e invece è andata finire che, nonostante la serietà del dramma, mi sono persino divertito…
Il giorno dopo una mia collega mi ha raccontato che al Teatro Arena del Sole di Bologna c’è un uomo che da anni va a vedere quasi tutti gli spettacoli in stagione e che quest’uomo è completamente cieco… beh, non stento a crederlo!
Ho apprezzato tantissimo l’ambivalenza, già insita nel dramma, di momenti sonori dolci e delicati alternati a momenti quasi frenetici, evidenziandola nei recitativi e là dove il ritmo narrativo faceva prender velocità a tutta la performance. Si adattava perfettamente al mio pensiero del momento e alla mia partecipazione nei confronti dei personaggi… Sembrava che tutto fosse fatto appositamente per me, Mattias, e sentivo che anche per gli altri spettatori che mi erano seduti accanto era lo stesso… Come ho fatto a capirlo non lo so, lo sentivo e basta. Sarà perché non portavo gli occhiali che sono diventato così sensibile e attento? Chissà… Una cosa però è certa: io a teatro gli occhiali non li metto più.

Un Cane Blunerosso. Tra colori di Cane Blu di Teatro Gioco Vita –Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno (BO)
di Lorella Picconi e Lucia Cominoli
Sono molte le persone, gli studiosi, scienziati e artisti che si sono interrogati, hanno scritto, disegnato e discusso sulle proprietà dei colori. In Cane Blu la compagnia Teatro Gioco e Vita non ci parla direttamente dei colori ma li usa quasi come se fossero dei personaggi, delle entità vive che mano a mano accompagnano le azioni, le voci e i segreti dei protagonisti e ne fanno parte, circondandoci con tutta la loro luce, di emozioni sempre diverse, proprio come nei sogni, che il più delle volte sono in bianco e nero ma qualche volta possono anche essere colorati.
E così c’era il BLU.
Colore calmo e tranquillo, colore saggio di cane, blu tutto, piccolo, grande, sul pavi- mento, sul soffitto, voce che non chiede spiegazioni, voce paziente.
E così c’era il ROSSO.
Colore passione, colore imprevisto di amicizia e d’ira, di contesa e passaggio, spaesamento, azione, abbraccio non richiesto che ingloba, infuoca, mi infuoca.
E così c’era il NERO.
Colore terrore, colore cupo, ombra, vuoto, paura che non mi lascia in pace, sconfitta, lotta che non si arrende, bosco, scoperta, riposo.
Sono ancora qui e mentre osservo Cane Blu non ho più paura di mischiare i colori, perché mi guardo intorno e quando le luci invadono il soffitto del teatro un sussulto di stupore mi scappa fuori dalla bocca. Forse è sempre un sogno ma, questa volta, mi piace di più. Mi ricordo di quando ero bambina… e lassù, sul soffitto, ci sono altri come me.

4.3 Il deficit come risorsa creativa per la rielaborazione
Vederci poco, sentire male, non deambulare, far fatica a prestare attenzione, spaventarsi con facilità, sono tutte mancanze che possono condizionare la visione dello spettacolo, limitandone in certi casi la comprensione.
Il teatro tuttavia, lo abbiamo visto, è provvisto di segni, come gli elementi scenici, che possono aiutare a orientarsi in maniera piuttosto immediata su quella che è l’atmosfera generale dello spettacolo, segni che, messi in relazione al corpo dell’attore, al suo modo di utilizzarlo, alle parole e alla temperatura della voce si fanno per lo spettatore importanti indicatori di senso. Eppure c’è di più.
Al di là della comprensione generale che, potremmo dire, mette in campo il nostro cervello, c’è ne è una ancora più interna, irrazionale ed emotivamente instabile che appartiene alla sfera dello stomaco, detto non a caso “il secondo cervello”, che, nell’esperienza teatrale, tende a spingere in fuori le nostre pulsioni animali, i ricordi e l’inconscio.
Inutile dire che il “sentire di pancia” si sia dimostrato per noi un altro inconsapevole veicolo di accessibilità all’esperienza teatrale.
Detto ciò è capitato spesso tuttavia che alcuni colleghi con disabilità del Progetto Calamaio abbiano vissuto durante lo spettacolo momenti di forte empatia ed emozione che non sono più stati in grado di restituire a parole al termine della visione. Ciò non significa che l’emozione provata non fosse mai esistita ma che semplicemente il racconto tradizionale non era il mezzo adatto ad esprimerla.
Il Calamaio, va specificato, benché a un certo punto si sia giocosamente definito “redazione”, non ha infatti mai inteso riproporre al pubblico dei teatri delle recensioni, ha invece cercato, sul blog http://laquintaparete.accaparlante.it, di restituire degli sguardi che potessero dare allo spettacolo il valore aggiunto di un’ulteriore esperienza. Lo ha fatto attraverso disegni, associazioni di idee, canzoni, costruzioni con materiali di riciclo, che di volta in volta ci sembrava si avvicinassero “di pancia” alle suggestioni offerte dalla visione degli spettacoli.
E così, come potrete vedere nel dossier al centro del volume, abbiamo sperimentato con Diego e Lorella delle impressioni cucite, nate dalla visione dello spettacolo Come una Perla, protagonisti i lavoratori cassintegrati dell’azienda emiliana; insieme a loro Samuele, Filippo e Nicolò, i figli dell’educatore Tristano, ci hanno aiutati a costruire un pupo siciliano dopo O a Palermo o all’Inferno di Mimmo Cuticchio; l’illustratore Attilio Palumbo invece ci ha permesso con i suoi disegni di descrivere l’essenza degli spettacoli Tiergartenstrasse 4 e La fabbrica dei preti mentre con Francesco e Sara tentavamo di costruire una macchina piena di chiavi e lucchetti con cui cambiare il mondo, proprio come nell’ultimo spettacolo di Andrea Paolucci che abbiamo visto a ITC Teatro, La magnifica illusione.
Qualcuno si è cimentato anche nella scrittura, creativa però, come Emanuela e Patrizia, che in rima ci hanno condotto per la discarica di Casa dolce casa, o come Diego che nel bisogno di gridare i propri diritti dei lavoratori de La Perla ha riconosciuto anche i suoi, o ancora come Ermanno, che dopo la visione de La fabbrica dei preti ha pensato di inventarsi una storia nuova di zecca, dove un bambino, seminarista e futuro prete, riceve una lettera nientepopodimenoche dal Papa per esortarlo a una grande missione… E poi c’è lui, il Dizionario dello spettatore, che potete consultare sul blog e che con i suoi strampalati lemmi ci ha permesso di orientarci nella parte più nascosta della scena, la nostra.

Finalmente a Casa Dolce Casa! Dentro lo spettacolo di Marcello Chiarenza con una  canzone – Teatro Arena del Sole di Bologna
di Emanuela Marasca e Patrizia Passini
Eccoci arrivati a Casa dolce casa! Siete stanchi della dura giornata e non vedete l’ora di mettervi in pantofole? Di mangiare un piatto caldo e stendervi soli soletti sul divano?
Allora, sembrano dirci il regista Marcello Chiarenza e il suo gruppo di coinquilini bislacchi, ci dispiace, ma siete finiti nel posto sbagliato. All’Arena del Sole questa volta si entra a piedi nudi, si mangiano topi in salmì e ci si arrampica sui rifiuti dei sogni. Perché….

Casa dolce casa fa sì
che anche tu in
un battibaleno stai col naso in su.
Se ti lasci trasportare dalle melodie
potresti
poi scoprirti in un mondo di follie.
Là in una discarica della città,
trovi, ahimè, gli scarti di una società.
Ma chi può sopravvivere a siffatta realtà?
E
sono proprio loro: un gruppo di clochard.
In
un angolo di mondo ben poco ordinato,
accadono eventi che mai hai immaginato.
Succede là di tutto, ma con creatività
gli oggetti prendon vita con genialità.
Clown,
equilibristi, saltatori e giocolieri,
riescono a scombinare persino i tuoi pensieri.
Non puoi meravigliarti se all’improvviso,
sei chiamato in scena a tendere il tuo viso.
Ecco poi arrivare dall’Est un forte vento,
che solleva ombrelli in un portentoso evento.
Piovono
le stelle, rimani a bocca aperta:
che magico mondo! È tutto una scoperta.
Tutto è raccontato con delicata ironia
e pure la Morte diventa poesia!
Questo che ti ho detto è solo un assaggio
di quel che puoi vedere, dai: forza e coraggio!

Cercasi sostituto. Una parabola semiseria da La fabbrica dei preti di Giuliana Musso – ITC Teatro
di Ermanno Morico
Tommy era un bambino di 8 anni che viveva in un seminario nel nord dell’Italia. Studiava, leggeva e pregava “Amen Amen Amen” moltissimo per diventare prete, musulmano, ortodosso o chi lo sa… Insomma, un bel miscuglio! La sua vita in collegio trascorreva in modo movimentato e vivace, aveva molti amici e si dedicava a tante attività. Un bel giorno Tommy ricevette una lettera papale. Tommy non stava più nella pelle, il Papa in persona scriveva a un bambino! Chissà che voleva? Boh? Quando aprì la lettera esclamò “Uau!” Il Papa gli stava confidando di essere ormai diventato un po’ vecchio e acciacatello e di non farcela più a lavorare da solo, tanto che stava pensando di lasciare il suo mandato per andare in pensione. C’era bisogno di un aiutante o meglio di un vero e proprio sostituto, di un giovane e bravo prete nuovo. “Per cominciare dovresti riempire un bello zaino grande” – scriveva il Papa – “e andare in Sud America o in India a curare i lebbrosi, gli storpi, la peste, i bambini poveri o in difficoltà e chi più ne ha più ne metta”.
Così, messi via i vestiti e la sua roba con il beautycase e lo spazzolino elettronico nella valigia grande, Tommy prese il treno per andare a Rio de Janeiro, in Brasile. Dormi e sveglia, dopo dieci giorni di viaggio in cuccetta Tommy scelse di cambiare mezzo di trasposto e decise di scendere dal treno per prendere il traghetto.
All’aereo il bambino non aveva neanche pensato perché era un avventuriero e sceglieva sempre la via più difficile anche per raggiungere cose semplici. Così, sul traghetto, in cabina, un giorno Tommy sentì improvvisamente il suono di un campanello “Din-Don”, che sembrava una delle campane che il futuro pretino era abituato a sentire in chiesa. Il suono risuonò forte. Subito arrivò un signore grande e grosso, un vero e proprio marcantonio d’uomo che chiese a Tommy: “Hai chiamato?”. Già, proprio come il Lurch della famiglia Addams!
Tommy a quel punto ne approfittò e gli disse. “Mi faresti un piacere? Mi puoi aiutare a mettere sopra sul portabagagli la mia valigia che è molto pesante?”.
Lurch, che era un vero e proprio armadio, mise subito a posto la valigia sul portapacchi e si fermò a riposare insieme a Tommy.
Ci misero giorni e giorni ad arrivare a destinazione, giorni che i due trascorsero chiacchierando, giocando a carte, a briscola e a tressette per non annoiarsi. Tommy era molto bravo perché al seminario ci giocava spesso e, se si può dire, era un vero e proprio asso di carte!
Passava il tempo, finché un mattino il traghetto non si attraccò in un porto. A quel punto Tommy si accorse di non essere in Brasile ma a Mumbai, in India! A quel punto, con grande gioia, Tommy e Lurch, uscirono dal porto e presero un altro treno, più piccolo, per andare tutte e due a Calcutta, in collina, dove abitava Madre Teresa. I due amici salirono per tortuosi cunicoli e saliscendi, per di qua e per di là, dopo un lungo viaggio e una lunga camminata arrivarono alla città di Calcutta in India.
Tommy e Lurch raggiunsero a piedi la collina e si trovarono improvvisamente di fronte a un convento con un portone enorme e di legno massiccio così fatto contro le intemperie, la pioggia e il vento.
Timidi e un po’ curiosi i due tirarono una corda all’ingiù per suonare il campanello che fece un rumore così forte che persino un sordo avrebbe potuto sentirlo.
A quel punto il portone si aprì, “Chi sei?” – disse una voce di uomo. Quando lo vide Tommy pensò di essere di fronte a Luciano Pavarotti in persona, pronto pronto per l’opera… Era invece un prete indiano, che indossava una giacca grigia scura ricamata d’oro che faceva risaltare una lunga e bellissima barba nera.
Tommy rispose: “Sono il sostituto che stavate aspettando e sono arrivato fino a qui perché ho con me una busta papale. Non c’è più Madre Teresa?”.
Il prete indiano scosse la testa e provò a sbirciare e poi aprì la lettera per vedere che cosa c’era scritto. Tommy non diceva bugie era in missione per conto del Papa, caspiterina!
L’indiano che somigliava a Pavarotti gli disse: “Miserere!” – esclamò – “Io sono un amico di vecchia data di Madre Teresa che ormai è andata in giro per altri mondi… Anche per me, caro Tommy, è giunto il momento di ritirarmi, me ne torno dal mio gruppo, a Roma. Adesso tocca a te!”.
Tommy non capiva più se era lì per fare il prete o Indiana Jones con tanto di cappello e di frusta… Lurch a quel punto fece un gran sorriso, disse: “Beh, caro Tommy, credo il mio compito sia finito. Ora sei tu che ti devi dar da fare, grazie di tutto e del bel viaggio, spero che tu possa diventare un bravo prete! Io ora me ne torno a casa…”.
Tommy sapeva che Lerch era un po’ povero… Per questo mise la mano a terra e prese dalla giacca abbandonata dell’indiano, che se l’era data a gambe levate, un po’ d’oro e glielo regalò in cambio del tempo trascorso insieme.
Lurch, commosso, gli lasciò in dono una bella scatola con trenta mazzi di carte! Poi gli indicò alcuni bambini come lui tutti sporchi e molto magri che lì vicino guardavano fisso nel vuoto.
Tommy fece di sì con la testa e non ci pensò due volte.
E così, a Calcutta, sul nuovo bar della collina, con la sua scatola di carte, Tommy trascorse la sua missione con gli amici e le altre persone che era venuto a curare, giocando a rubamazzo, tre sette e a briscola, soprattutto la sera dopo il lavoro.
Perché è viaggiando, facendo fatica, giocando e prendendosi cura degli amici che uno diventa un bravo prete e, secondo me, pure una brava persona.

La canzone del NOI – I lavoratori dello spettacolo Come una Perla ci insegnano a difendere i diritti – ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
di Diego Centinaro
NOI… Vogliamo essere autonomi e indipendenti NOI… Abbiamo diritto di divertirci anche fuori casa
NOI… Siamo giovani e abbiamo diritto di lavorare e di farci una vita come tutti
NOI… Abbiamo voglia e bisogno di andare in vacanza
NOI… Non stiamo zitti
NOI… Facciamo cultura
NOI… Esistiamo per comunicare
NOI… Non vogliamo teste chiuse
NOI… Siamo simpatici…
Ma anche no NOI… Parliamo di diversità
NOI Non ci saremmo se non fossimo mille più uno… O forse anche di più.

S come “specchio”
di Francesca Aggio, Diego Centinaro, Mario Fulgaro, Lorella Picconi, Tatiana Vitali
Lo specchio è l’anello che congiunge profondità e cambiamento, l’accettare con il modificare. Rintracciabile facilmente in natura, lo specchio può prendere la forma di un bicchiere o di una pozzanghera a seconda di chi qui va cercando la propria immagine. Vanitoso, seducente e confuso, lo specchio è riflesso o meglio ancora riflessivo, permette di comunicare con il labiale e di rendere uno spazio piccolo grande e arioso. A volte si finisce per litigare con lo specchio e allora non sei più in due ma sei uno solo. Lì davanti non c’è scampo quando ti rendi conto che ci sei anche tu.

4.4 Mediare ma non filtrare. L’incontro con critici e artisti
Abbiamo visto come il nostro “sentire di pancia” ci abbia aiutati nella creazione di un’eco duratura a fine spettacolo. È successa la stessa cosa anche nell’incontro con i critici e gli artisti, che, inevitabilmente, sono stati contagiati dalla spinta del gruppo.
I critici, come Massimo Marino di «Corriere della Sera» di Bologna e Agnese Doria de «L’Unità» di Bologna e redazione «Altre Velocità», hanno avuto il pregio di renderci partecipi dei temi degli spettacoli con contestualizzazioni storiche precise e poetiche al tempo stesso.
Le nostre domande, dal canto loro, li hanno costretti a semplificare i propri concetti per arrivare a riviverne loro stessi i presupposti.
“Mi è piaciuto il progetto – racconta Marino – la costanza nel guardare, nel cercare e approfondire quello che c’è prima dello spettacolo, la ricerca di espressione nonostante quelli che possono essere i limiti fisici delle persone. Ho sentito una grande intelligenza che bisognava ascoltare, con pazienza, perché spesso celata sotto parole articolate con fatica, in certi casi difficili da capire per chi le ascolta senza una consuetudine con le persone con disabilità fisica. Mi ha colpito il tono generale degli interventi, leggero ma profondo, capace di porsi domande essenziali senza soggezioni, desideroso di capire”.
Poter esprimere la propria opinione, interrogarsi, mettere in crisi, farsi interpreti del proprio presente, partire dai temi offerti dallo spettacolo senza pensare necessariamente alla disabilità è stata per molti una grande occasione di crescita e per altri l’occasione per esprimere competenze pregresse che non sempre, a causa del deficit o di situazioni familiari complesse, è possibile coltivare in autonomia e piena libertà.
È stato il caso di Mario Fulgaro, autore del bellissimo excursus tra Pasolini e l’Orlando per raccontarci i pupi siciliani di Mimmo Cuticchio, seguito allo spettacolo O a Palermo o all’Inferno.
Dell’incontro con gli artisti vi proponiamo invece la lettera che Lorella ha dedicato al clown Daniel Romila di Associazione Parada, protagonista di Casa Dolce Casa, la cui storia non poteva certo essere dimenticata, e un’altra lettera a cura invece dell’educatore e scrittore per l’infanzia Roberto Parmeggiani dedicata a Ofelia, l’eroina di Tiergartenstrasse 4.
Prima di lasciarvi alla lettura però, condividiamo con voi della posta ricevuta, il riscontro cioè che ci hanno mandato alcuni artisti dopo aver preso in visione le nostre restituzioni sul blog.

Così Fabrizio Montecchi della compagnia Teatro Gioco e Vita di Piacenza:
“Sono Fabrizio Montecchi, regista di Cane Blu.
Devo confessarvi che la vostra sorpresa e meraviglia di fronte a Cane Blu è niente rispetto a quello che ho provato io leggendo le recensioni sul vostro sito. Sono come una boccata d’aria fresca, sono la ragione per la quale uno fa (o cerca di fare) questo mestiere. Non c’è pregiudizio critico, non c’è prima e dopo storico, c’è solo lo stare lì, in teatro, e vivere quello che sta succedendo. È una critica senza “critico” ma solo con spettatore.
Non posso dunque che complimentarmi con voi, per questo progetto che oltre alla sua utilità terapeutica sa anche offrire a noi teatranti uno sguardo diverso su quello che facciamo.
Il mio augurio è dunque che continuiate a seguirci con lo stesso amore, e passione, dimostrato in questa occasione.
Grazie ancora”.

E il gruppo di Teatro Sotterraneo di Firenze-Pistoia:
“Tutto il teatro che facciamo ruota intorno a un pensiero sulla civitas, sull’esercizio di cittadinanza che uno spettatore compie nel venire a teatro e sul senso della sua esperienza di visione all’interno di una comunità, per cui la vostra attività si sposa in pieno con quelle che sono le nostre tensioni nella ricerca artistica. E l’apertura ai pubblici più disparati, il confronto con uno sguardo altro che non sia quello di un habitué è sempre per noi un enorme regalo: sì, assolutamente il teatro dovrebbe essere luogo di aggregazione e condivisione, apertura mentale, e il lavoro che fate crediamo che centri in pieno questa prospettiva. È meraviglioso che esistano progetti del genere! Grazie ancora e un saluto collettivo”.

Le riscoperte – Tra Ariosto e Pasolini con O a Palermo o all’Inferno di Mimmo Cuticchio – Teatro Arena del Sole di Bologna
di Mario Fulgaro
La visione in TV del film di Pasolini Che cosa sono le nuvole aveva già suscitato in me bambino grande curiosità circa l’universo, a volte onirico, altre volte nostalgico, dei pupi siciliani. Poco tempo dopo ho avuto la grande opportunità, in vacanza con i miei genitori, di recarmi in Sicilia. Come souvenir di quel viaggio, mi si offriva davanti agli occhi l’acquisto di un pupo siciliano tra svariati pupi. I vari venditori pub- blicizzavano ciascuno i propri prodotti, conferendo loro nomi leggendari, quali Orlando o Angelica o Ruggero e tanti altri nomi, per me, fiabeschi. Non ho però assistito a nessuno spettacolo teatrale in quella circostanza di villeggiatura, né pensavo potessero esisterne in grande o piccolo stile. Anche se bambino, mi rendevo conto di come quel mondo potesse appartenere solo a un ambito ristretto di cultori, come tutto potesse essere stato incasellato in un passato remoto per farlo riemergere e darne testimonianza storica ai turisti curiosi, anche in forma di semplice cimelio ancestrale da conservare. Invece tutto quel mondo, al contempo incantato e disincantato, esiste tuttora e rivive di fulgida potenza grazie all’opera di chi, come Mimmo Cuticchio, inscena periodicamente in tutta Italia, e in particolare in Sicilia, rappresentazioni teatrali che hanno per l’appunto come protagoniste queste simpatiche “marionette”. O a Palermo o all’Inferno è il titolo dello spettacolo portato in tour per il “bel Paese” e che tratta dello sbarco dei Mille in Sicilia. Già il tema, in modo più che naturale e istantaneo, finisce, volente o nolente, col rimuovere vecchie e recenti conoscenze storiche, apprese a scuola o alla TV o, ancor più radicate in ognuno, dettate dai giudizi preconcetti. Sul palco si alternavano in modo simultaneo l’attore Cuticchio con i vari personaggi della vicenda, interpretati dai pupi siciliani, la cui voce veniva loro prestata dallo stesso Cuticchio in presa diretta. È stato bello scoprire, man mano che tutta la storia trovava una sua forma compiuta, le diverse tecniche di recitazione utilizzate. Il dialetto siciliano stretto, parlato per quasi tutta l’opera e in contrasto con quello torinese, aveva un valore ambivalente molto efficace. Infatti da un lato riusciva a catapultare il pubblico in un contesto più reale e genuino, attualizzando quasi tutto ciò che di nostro è stato un tempo, dall’altro evidenziava tutte le differenze culturali e sociali di un’Italia ancora embrionale, ma già presente solamente negli ideali di Patria Unita. A intervallare le diverse scene teatrali degli eventi è il cuntu, narrazione, questa volta in versi riassuntivi, di gesta e vicende delle battaglie susseguite nel corso di un decennio e oltre. L’errore di citazione commesso per un attimo di distrazione, forse studiato quindi voluto o forse casuale chissà, conferendo il nome di Francesco re Delle Due Sicilie a quello di Vittorio Emanuele re del nuovo Regno d’Italia, finiva col dare una forte connotazione di improvvisazione allo spettacolo. Non se ne poteva che rimanere stupiti e meravigliati. I confini ristretti del teatro, con i suoi canoni classici di recitazione e movenze, si allargavano al più ampio ambito di una agorà, intesa come luogo di incontro casuale per ascoltare cose inaspettate ma non per questo prive di interesse e conoscenza preziosa da trasmettere. Il cuntu, infatti, ha le sue radici più profonde e salde nella tradizione culturale dei cantastorie, cuntastorie, di piazza. Sorprendenti sono state le movenze del braccio, con spada impugnata bene in mano, e il ritmo di scansione delle parole pronunciate come in un canto sincopato. Ad accompagnare tale scansione della voce era il battere sincrono del piede sul pavimento del palco, a voler conferire maggiore forza ed enfasi a quanto già di importante veniva espresso. La spada, poi, indirizzata con la punta verso il pubblico, sembrava idealmente creare un largo solco dove andavano a incunearsi le frasi, le parole, i gesti del cantastorie. Ciascuno nel pubblico poteva così partecipare da spettatore attivo, sentendosi tirato direttamente in causa a darsi delle risposte su quanto accaduto un tempo, in relazione a quello che viviamo oggi e rispetto a tutto ciò che l’opera teatrale offriva, in termini di conoscenza storica e sociale di due Paesi (Regno di Sardegna e Regno delle due Sicilie, Nord e Sud Italia) che tentavano di unificarsi ma che, per la loro discrepanza culturale, hanno finito anche col differenziarsi e prevaricarsi. Infatti oggi questo stesso spettacolo teatrale, con tutti i suoi medesimi personaggi, parlerebbe forse della incompiutezza di una unità economico-sociale (gli storici parlerebbero di “modernizzazione”) di un paese che con forza e coraggio, quindi con sofferenza e, a volte, con intolleranza, sta ricercando le proprie radici comuni per superare i naturali ostacoli che una “avventura” di tale portata comporta.

Un naso rosso per uscire dall’oscurità. Dopo l’incontro con il clown Daniel Romila
di Lorella Picconi
Non dimenticherò l’incontro con questa persona speciale.
Sto parlando di Daniel Romila, in arte Dan, clown dell’Associazione Parada e uno dei protagonisti di Casa dolce casa.
Dan è un ragazzo (un bel ragazzo mi permetto di specificare), nato e vissuto in Romania in un periodo storico per il suo paese molto difficile, quando ,dopo la caduta del dittatore Ceauşescu negli anni ’90, molti bambini rimasti senza genitori sono scappati dagli orfanotrofi, riversandosi per le strade di Bucarest e trovando rifugio nelle fogne.
Dan ci ha parlato della sua condizione in Romania e di come è diventato un artista, grazie all’incontro con il clown Miloud Oukili e cominciando a inventarsi dei giochi… Lavorando cioè con gli strumenti del circo di strada per far divertire la gente. In questo modo, dimostrando agli altri che sapeva fare delle cose, Dan è riuscito a riscattarsi, ha cominciato il suo viaggio ed è arrivato fin qui.
Con lui ci siamo divertiti moltissimo, ha fatto dei giochi di prestigio con le carte, il numero della sigaretta (se l’è fatta passare da un orecchio all’altro!) e ha trasformato un’arancia in una bella candela. Così con questa lucina in mezzo alla tavola da pranzo abbiamo bussato alle porte di Casa dolce casa. Là dove tutto si può riciclare, esseri umani, lo avete letto, compresi.
Dan, ho poi scoperto durante lo spettacolo, è anche un bravissimo giocoliere. Che differenza c’è – gli ho chiesto – tra un giocoliere e un clown?
C’è che il primo lavora con gli oggetti mentre il secondo con le persone.
Non male come risposta. Dan è un tipo che arriva dritto al punto, proprio come me. Ma poi, perché un clown ci fa tanto ridere?
Perché lavora, ha aggiunto, sui propri fallimenti.
Beh, a questo punto, mi sono detta, è proprio vero… Tutto può succedere! Quando cominciamo?
Grazie Dan, conoscerti è stato un vero piacere. Un abbraccio da tutti noi!

Ofelia, dove sei? Una lettera in cerca dell’eroina di Tiergartenstrasse 4. Un giardino per Ofelia di Pietro Floridia – ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
di Roberto Parmeggiani
Ciao Ofelia.
Di te mi rimane un’immagine.
Protesa verso l’alto, forse verso il cielo. Il tuo corpo, il tuo sguardo, i tuoi ricordi. In avanti, catturata da quel che verrà.
Dirai che i ricordi sono del passato. Indubbiamente, ma ci sono anche i ricordi del futuro, quelli che speriamo, che vorremmo vivere. Il desiderio di incontrare chi non possiamo più toccare o vedere.
Sei partita, all’improvviso, con un sacchetto di semi di girasole nascosto in tasca.
Un piccolo tesoro di cui ti starai prendendo cura come fai di solito con le persone, come hai fatto con Gertrud.
Sai, mi sono chiesto tante volte: chi ha salvato chi? Gertrud ha salvato Ofelia o viceversa?
Comunque sia qualcosa è cambiato, nella vita di entrambe. Non siete più le stesse, pur restando sempre Gertrud e Ofelia.
Come quando un seme diventa un fiore, è sempre lo stesso pur essendo diverso. Starai guardando i tuoi girasoli, adesso. Ma anche i tulipani, i gelsomini e le rose. Un grande prato pieno di fiori. E tante persone a bocca aperta, con le braccia alzate, che saltano. Felici, solo felici. Perché davanti a qualcosa di bello si può essere solo felici.
E tu? Tu sul ramo di un grande albero, protesa verso l’alto, forse verso il cielo. Il tuo corpo, il tuo sguardo, i tuoi ricordi. In avanti, catturata da quel che verrà.
P.S. Stamattina hanno suonato alla porta. Quando ho aperto non c’era nessuno, solo un girasole e un biglietto: “Salvare lei era salvare me”.

3. Oltre la scatola. Il terzo spazio e le nuove forme del partecipare

3.1 Portanti, divisorie, scorrevoli… A che cosa servono le pareti?
Dal teatro en plein air all’edificio così come lo conosciamo. Diciamocelo, se pensiamo allo spazio teatrale italiano la prima immagine che ci viene in mente non è il theatron ma è un palco con un bel sipario di velluto rosso. Sarà forse un caso? Non proprio. Non potendo mai prescindere dal rappresentare la società in cui abita, il teatro ha infatti nel corso del tempo cambiato molte volte forma e funzione, il che, come ha sottolineato lo studioso Fabrizio Cruciani, è stato un percorso graduale e controverso.

“Il passaggio dal ‘luogo’ al ‘teatro’ è il punto di arrivo di tensioni complesse e non univoche che danno esito, in Europa, alla sala barocca o all’italiana, sia nella definizione della scenografia che della sala e del palcoscenico; e da cui nascono i ‘mestieri’ dell’architetto teatrale e dello scenografo. Questa realtà delimitata è stata ipostatizzata e resta, nella cultura, lo spazio del teatro, nonostante le inquietudini e le fratture del teatro del Novecento”

Il nostro palco con sipario rosso insomma e i suoi dorati decori di stucco.
Un dato di realtà, quello che riassume Cruciani, che tuttavia non è stato del tutto impermeabile alle rivoluzioni del XX secolo.
Ad essere per lo più messi in crisi infatti non furono tanto gli elementi strutturali del teatro in sé e per sé ma tutti quegli elementi di convenzione che per anni hanno condizionato, ostacolato o limitato la visione del pubblico, sottolineandone una presa di distanza da quanto accadeva sulla scena. Tra questi la più nota è la cosiddetta quarta parte, quella parete immaginaria che nel teatro all’italiana del tardo Seicento cominciò a frapporsi costantemente tra l’attore e lo spettatore, figurine ora di una scatola ideale, in cui lo spazio della scena, delimitato dal palcoscenico, restava poggiato sulle tre pareti principali del fondale e delle quinte laterali.
Una divisione costretta dunque, che, benché immaginaria, si è fatta rappresentazione di una scissione tra le responsabilità di chi guarda e quelle di chi agisce sulla scena che non è sfuggita ai grandi registi delle Avanguardie e del dopoguerra.
Dagli anni Cinquanta in poi Brecht, Strehler, il Living Theatre, Grotowski e i loro successori si impegnarono con forza per abbattere la quarta parete, utilizzando gli strumenti della scena quali occasioni per modificare in termini fisici, percettivi e relazionali l’atto della visione, coinvolgendo lo spettatore nell’opera stessa, arrivando persino a toccarlo ma più in generale richiamandolo al suo ruolo di testimone, capace, proprio come nel teatro greco, di trovare nell’arte il momento privilegiato per partecipare emotivamente e politicamente della propria epoca.
Un Nuovo Teatro fu ciò che ne derivò, la cui nascita viene ufficialmente sancita dal Convegno di Ivrea nel 1967, spostando ulteriormente l’attenzione sulla dimensione politica e al contempo rituale dell’atto teatrale, per poi sovvertire ulteriormente gli schemi negli anni Ottanta e Novanta con i Teatri Novanta e il Postmoderno che hanno messo al centro l’atto performativo dell’attore, in un dialogo fortemente corporeo con lo spettatore e l’utilizzo delle nuove tecnologie quali partiture drammaturgiche di spettacoli che non necessariamente debbono avvalersi di un testo scritto per definirsi tali.
Tutti questi cambiamenti hanno ovviamente trovato risposta nel pubblico, che si è modificato parallelamente agli spazi, alle forme e alle funzioni che il teatro ha portato nella Storia con sé.
Da arte popolare per eccellenza a manifestazione statale della cultura aristocratica e borghese, il pubblico del teatro italiano aveva di fatto finito per cercare in quel luogo la conferma di uno status quo, più che una messa in crisi di sé. L’atto stesso di andare a teatro ha cominciato a diventare un lusso per pochi, portando in auge la diffusione di certi generi piuttosto che altri, primo tra tutti l’opera lirica. Ciò non toglie per fortuna che il teatro non abbia mai perso la sua natura rivoluzionaria. I registi, gli attori e i drammaturghi (compresi quelli dell’opera) non si sono mai risparmiati dall’indagare le proprie epoche, denunciandone con i mezzi a loro disposizione ambiguità, ingiustizie e mancanze, spesso riprese con forza anche dagli autori del Novecento e del Nuovo Teatro che di tutto questo hanno reso protagonista a pari merito il pubblico, la cui conformazione ha perciò cominciato a rifarsi più variegata. Il teatro sociale, così come le attuali riflessioni e aperture sui temi dell’accessibilità e della specificità dei pubblici, sono quindi eredi diretti delle esperienze del Nuovo Teatro che nel theatron e nell’esperienza rituale hanno ripescato i loro fondamenti teorici principali.
Se parliamo di disabilità tuttavia, parlare genericamente di ritorno alle origini non basta: la cultura che di volta in volta ne ha accompagnato e condizionato l’immagine, e di riflesso la partecipazione delle persone che la vivono all’interno della società, ne ha segnato prepotentemente nel tempo la presenza o meno in determinati contesti, con uno scarto decisamente maggiore rispetto ad altri tipi di pubblico. Le rappresentazioni che la Storia ci ha lasciato della disabilità sono infatti complesse e contraddittorie e lo stesso teatro non ha mancato di restituircele. Lo ha fatto con le opere che ha portato sulla scena, alle volte in termini tragici, facendo coincidere l’handicap con le colpe dei protagonisti, altre in termini comici, dalle battute alle acrobazie dei giullari; lo ha fatto persino in termini magici e morali, riservando così al personaggio con disabilità il potere di interpretare il destino e i comportamenti umani.
La disabilità sul palco dunque c’è sempre stata ma per lungo tempo è apparsa come portatrice di un’eccezionalità. L’arrivo del Nuovo Teatro invece ha sancito una presa di posizione diversa, soprattutto dalla fine degli anni Settanta in poi. L’attore disabile è ora il protagonista, sia fruitore di percorsi rivolti all’espressività e al benessere personale o artista tout court, egli è ora creatore dotato di un’autorialità sua propria, un passaggio fondamentale che dalla scena ha finito per contagiare anche il pubblico.
Aumentando le autonomie politiche di pari passo con il cambiamento nella percezione collettiva della parola “diversità”, anche i luoghi della cultura hanno cominciato a popolarsi di nuove presenze e così anche la dicotomia palco-platea ha finito per assottigliarsi.
Ciononostante il desiderio sincero di molte strutture di aprire oggi i propri spazi all’entrata di un pubblico con difficoltà motorie e/o cognitive si trova spesso ancora a fare i conti con le architetture del teatro all’italiana, che come ci faceva notare Cruciani, connota ancora la maggior parte degli spazi scenici del nostro paese, il che, soprattutto nei piccoli centri, rende l’accesso allo spettacolo piuttosto complicato. A mettersi in mezzo ci sono infatti difficoltà legate all’accessibilità e alla fruizione, a causa per esempio di gradinate sprovviste di rampa all’entrata o alla struttura ad alveare dell’edificio, sviluppata su platea, palchi e palchetti secondo un principio di separazione gerarchico che non rende unanime la visione. Reali problemi di sicurezza poi, fungono da barriere altrettanto imponenti, a causa di pendenze, spazi di passaggio ridotti e bagni non a norma.
Questa carenza tuttavia, benché storicamente legittimata, non è irrimediabile e potrebbe condurre a un ripensamento degli spazi che, pur restando in un’ottica di ristrutturazione conservativa e condivisa, sarebbero capaci di rispondere alla domanda degli spettatori su scala nazionale e non solo locale.
Paesi come Danimarca, Svezia, Inghilterra, Germania e Francia hanno da tempo inserito la relazione con il pubblico come parte integrante della propria quotidianità progettuale e anche lo spettatore con disabilità vi trova un ruolo specifico. Rispetto all’Italia, complessivamente ai primi esperimenti in tal direzione, c’è da chiedersi quanto i teatri siano effettivamente non solo accessibili per, ma realmente frequentati da persone con disabilità.
C’è chi non vede il problema, dichiarandosi abituato a condividere lo spettacolo con pubblici di tutti i tipi, c’è chi sottolinea un’assenza e infine chi pone il problema della modalità con cui viene scelto e poi fruito uno spettacolo dalla persona a seconda del tipo di disabilità, sensoriale, motoria e/o cognitiva che questa porterà.
Gli ultimi dati dell’Istat sottolineano nel quadro di statistica ufficiale La disabilità in Italia, che fino ai 24 anni la percentuale di persone disabili che ad oggi si sono recate a teatro è praticamente la stessa di quella del resto della popolazione normodotata. Dai 25 anni in su invece il divario aumenta sensibilmente, e in particolare si sottolinea come nella fascia 25-44, solo l’11,3% delle persone con elevata disabilità vada abitualmente a teatro, contro il 21% della popolazione non disabile con caratteristiche simili.
È la metà.
Un dato interessante, quello dell’Istat, che svela non solo le inclinazioni delle persone con disabilità ma come le loro autonomie e le possibilità di scelta cambino spesso in relazione ai contesti di accompagnamento che le circondano di pari passo con l’età.
Fino ai 24 anni infatti la maggior parte dei ragazzi che frequenta il contesto scolastico, compresa l’Università, si muove tendenzialmente con il supporto della sfera educativa e familiare.
Successivamente, in particolar modo se la persona possiede un deficit cognitivo, diventa sempre più difficile trovare occasioni non mediate per muoversi in una prospettiva di adultità, soprattutto quando non si tratta di inserimento lavorativo, percepito dalla collettività come legittimo, ma di svago, piacere, cultura e tempo libero. In quest’ambito, anche qualora la persona dimostri un interesse specifico verso qualcosa, a meno che la famiglia non si attivi per lei, la grande domanda sottesa resta infatti: con chi posso andare? O ancora, se la persona dimostra una sensibilità spiccata verso un ambito artistico ma non è in grado di reperire informazioni e scegliere da sola, chi la indirizza?
A provare a rispondere a queste domande ci sono le cosiddette uscite del tempo libero, in cui gli accompagnatori, prevalentemente volontari, propongono all’utente una rosa di possibilità, dalla pizza, al cinema, al bowling, dove al teatro viene dedicato spesso uno spazio marginale e purtroppo non sempre di qualità, privilegiando i nomi del piccolo schermo o sale parrocchiali che hanno il pregio dell’accessibilità ma che si rivolgono più specificatamente a bambini e ragazzi.
Portanti, divisorie, scorrevoli… Sembra che, ovunque ci si giri, le pareti da sfondare non siano mai finite.
I teatranti lo sanno bene e sarà forse per questo che “la quinta parete” è un titolo che è stato scelto da molti per declinare sotto varie sfumature progetti, convegni, messe in scena, qualcuno nella cerchia dei critici ci ha anche scherzato su, proprio a indicarne l’improvviso proliferare.
Coincidenze a parte è certo che l’esigenza di ampliare i consueti spazi dello spettacolo a nuovi pubblici e a nuovi modi di fruirne la proposta artistica risponde a una mancanza comunitaria sentita da tutti, complice il bombardamento e la schiavitù dei social, della politica detta e non agita, della distanza crescente nelle relazioni tra i singoli, della schizofrenia reale-virtuale.
Disabilità e teatro viaggiano però su un terreno diverso e con molte similitudini, come il fatto che quando li incontri non puoi fare a meno di confrontarti con la dimensione presente di un’esperienza condivisa.
Sulla base di tutti questi presupposti in parte ancora irrisolti, il laboratorio “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” ha provato a inserirsi nei processi in atto mettendo alla prova nel gioco partecipato della visione le attuali definizioni, target e complicanze senza allarmismi ma poco buonismo, lasciandoci andare al divertimento e ai suoi rovesciamenti.
Che ci sia forse un terzo spazio al di là delle pareti

3.2 Quel vuoto in mezzo a noi
Quando individui che provengono da gruppi di appartenenza diversa (etnica, religiosa, sociale…) provano a mettersi in dialogo all’interno di un contesto culturale rappresentativo del patrimonio storico-artistico di uno dei due, si cerca oggi di condurre i propri ospiti in percorsi che mirano a un’inclusione il più possibile partecipata, serena e accogliente.
Musei, teatri, biblioteche e qualunque altra istituzione culturale apra le porte del proprio spazio, lo fa infatti ormai quasi sempre con attività e visite guidate pensate per consegnare all’altro una narrazione di sé completamente comprensibile e fruibile, previa un’analisi delle competenze, delle credenze e dei codici degli interlocutori profonda e meditata.
Simona Bodo, ricercatrice e consulente in problematiche di diversità culturale e inclusione sociale nei musei, ha tuttavia sottolineato come questo meccanismo, benché nasca in buona fede, evidenzi in realtà una disparità di opportunità nel dialogo fra i soggetti. Chi accoglie tende infatti a rivolgersi all’altro con strumenti e identità sue proprie che spesso ci portano a far coincidere le strategie messe in atto a favore dell’integrazione con quelle dell’educazione.
Un’analisi pungente che rimette in discussione le dichiarazioni d’intenti di chi fa e trasmette cultura.
La ricercatrice, che prende in analisi in particolare il dialogo interculturale, osserva prendendo a prestito le parole di Richard Sandell, come le istituzioni culturali “siano inequivocabilmente coinvolte nelle dinamiche della (dis)uguaglianza e nei rapporti di potere tra gruppi diversi grazie al ruolo che essi giocano nella costruzione e nella diffusione di narrative sociali dominanti. Le istituzioni culturali non sono affatto neutre. Quello che decidono di rappresentare diventa fatto: si rafforzano stereotipo, si segmentano pubblici etc. Quindi la responsabilità è enorme. Promuovono certi valori a scapito di altri e quindi fanno trend. Essi hanno una precisa responsabilità di misurarsi con questioni di diversità e uguaglianza”
Il modo con cui ci approcciamo alla diversità dunque, ne condiziona la rappresentazione, il che, quando si parla di strutture custodi di patrimoni condivisi, può finire per spostare tendenze in una direzione piuttosto che in un’altra, contribuendo a ridisegnare o a cristallizzare la cultura con ricadute tangibili sulle scelte politiche, la vita sociale e il diritto.
Come fare allora a istituire un dialogo paritario tra i soggetti che compongono la nostra “multi-società”?
La risposta, secondo Simona Bodo, risiede nel terzo spazio, quello spazio vuoto cioè che intercorre tra due individui che si incontrano, uno spazio che non è ancora stato attraversato e che per questo può essere immaginato e ricreato insieme da zero. Saranno allora “spazi terzi” tutti quegli spazi in cui “gli individui siano in grado di oltrepassare i confini di appartenenza e diventare creatori della propria identità, invece di vedersela automaticamente attribuire in base a criteri univoci. […] Spazi in cui, riprendendo la definizione Unesco di patrimonio del 2003, i musei sono chiamati a riconoscere e accettare che il patrimonio possa essere costantemente ricreato da comunità e gruppi (inclusi quelli tradizionalmente emarginati dai circuiti consolidati della cultura) e non esclusivamente da una ristretta comunità professionale”
Quel vuoto in mezzo a noi, quello spazio che sta tra due individui che si incontrano è quindi la chiave per cominciare a ricreare e ad agire insieme la cultura. Un approccio che vale per i musei ma che vale anche per il teatro, quando per esempio propone a migranti, persone con disabilità o terza età, laboratori dagli esiti spettacolari obbligati che spesso rivelano autori e attori straordinari ma che tendono a circoscrivere la nascita di nuove e importanti relazioni all’urgenza del momento.
Un pensiero su cui i registi e gli attori del Teatro ITC di San Lazzaro si stanno interrogando da tempo, come ci ha raccontato l’attrice Micaela Casalboni nella conversazione che trovate più avanti nella monografia.
E da parte del pubblico? Cambia qualcosa? Per noi del Progetto Calamaio no, o almeno questa è la conclusione a cui siamo arrivati a seguito del nostro laboratorio di educazione alla visione. L’entrata a teatro e la successiva rielaborazione degli spettacoli da parte degli educatori e degli animatori con disabilità del gruppo ha infatti permesso di ripensare le visioni in chiave interpretativa a livello personale ma anche di farci conduttori nella formazione di critici e artisti sul tema dell’accessibilità, nelle sue tre componenti principali: ingresso, accoglienza, fruizione.
Fare per e fare con, una differenza che da trent’anni è il marchio di fabbrica del Progetto Calamaio e che ora, finalmente, comincia a trovare spazi istituzionali di confronto.
Un presupposto semplice ma a suo modo rivoluzionario, una spinta per contribuire a ricomporre lo scarto tra la comunità, non più incalzata a consumare passivamente prodotti culturali e gli spazi stessi, concepiti non più per essere visitati ma come luoghi di relazione, protagonisti di incontri e processi in continua evoluzione

3.3 Accessibilità. Pubblicità o progresso?
“L’accessibilità ormai è diventata una moda, quasi tutti i contesti, dalle palestre, agli spazi culturali, ai bar, agli alberghi, la usano per farsi pubblicità”.
Un’affermazione senza peli sulla lingua, come è nello stile di chi l’ha pronunciata. Sono parole, qualcuno di voi forse le avrà riconosciute, del giornalista con disabilità Claudio Imprudente, uno dei fondatori del Centro Documentazione Handicap di Bologna e del Progetto Calamaio, che settimanalmente affianco nella stesura dei suoi articoli.
Da un certo punto di vista, ho pensato, difficile caro Claudio darti torto… L’accessibilità è un valore aggiunto e apre senza dubbio l’ingresso a nuovi pubblici potenziali, confrontarsi con la disabilità è politicamente corretto e si potrebbe addirittura arrivare a trarre la conclusione che chi la mette in atto è qualcuno che “si comporta bene”. Adeguamento ai nuovi target ma nobili intenti. Un’ottima combinazione, certamente, per le strutture ospitanti che sembrerebbe mettere tutti d’accordo.
L’affermazione di Claudio tuttavia insinua un dubbio non tanto sugli intenti ufficiali ma su quanto tali strutture abbiano conoscenza e consapevolezza reali di quelle che sono le esigenze e i bisogni della persona con disabilità, che non sempre si limitano a un’entrata agevole, a un sorriso o a biglietti ridotti al cinema e a teatro.
Allo stesso modo si potrebbe rispondere che se la moda esiste è perché c’è stata negli ultimi anni una richiesta, che le persone con disabilità, soprattutto quelle giovani, come i dati Istat ci hanno dimostrato, fruiscono più di prima degli spazi cittadini e dei luoghi deputati al divertimento e allo svago, il che, va detto, è un grande progresso.
E poi, si sa, non esisterà mai uno spazio accessibile per tutti, parlare di disabilità è in fondo parlare di umanità, tante e sottili sono le diversità all’interno della stessa, e ciò che potrà andare bene per qualcuno sicuramente non lo sarà per qualcun altro. La differenza, per tornare al discorso di Simona Bodo, si misura a nostro parere nei luoghi della cultura soprattutto sul piano della restituzione, sul come cioè in termini di comunicazione, pratiche e approcci l’immagine della disabilità verrà poi esternalizzata.
Un aspetto che tocca nel profondo la questione formativa riguarda poi, per dirla con Silvia Mascheroni: “il salto di ruolo compiuto dai protagonisti dei progetti: da testimoni della loro comunità e dunque destinatari del progetto, a interpreti dei bisogni e delle istanze dei loro pari, con la consapevolezza e la responsabilità di poter diventare i risolutori di quel disagio, di quelle difficoltà vissute nell’esperienza dell’incontro con il patrimonio, poiché con la professionalità acquisita si promuove una comunicazione non più incompleta e incomprensibile all’interno degli spazi. La mediazione è forte di conoscenze esperte, ma attenta alla storia di ognuno, si arricchisce di altri percorsi e di altre narrazioni, costruendo una mappa sensibile condivisa, sollecitando uno sguardo critico e attivo”
Con quest’approccio il Progetto Calamaio ha fatto il suo ingresso a teatro, ricavandone l’occasione per creare un terzo spazio.

2. Prologo. Attore e spettatore. Un incontro en plein air

Non è indifferente, è addirittura essenziale che lo spettatore sia un uomo fatto di carne, la cui sensibilità, più fisica che cerebrale, possa accogliere in ogni momento del dramma il mistero e l’interrogativo diffuso che nascono dal vento e dalle stelle
Proverò ora a cominciare da ciò che accadde prima, come ogni prologo che si rispetti. Tutto quello che gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio di Accaparlante di Bologna hanno realizzato intorno al fare e all’osservare il teatro ha preso infatti vita dalla tensione verso un luogo, un luogo ambito, sognato, immaginato e infine ripensato collettivamente da zero.
Uno spazio vuoto insomma, quello del nostro teatro esteriore e interiore, in cui entrare e sperimentare alla luce del sole, senza prestare attenzione ai limiti e alle difficoltà di ognuno di noi, ma piuttosto un teatro en plein air, per usare più precisamente le parole del linguista e semiologo Roland Barthes, che negli anni Cinquanta si innamorò dello spettacolo, delle sue origini e soprattutto della visione “epica” che ne ebbe il regista tedesco Bertolt Brecht.
Il teatro en plein air per eccellenza che ci propone Barthes, cui anche noi abbiamo idealmente attinto, è il teatro della tragedia antica, il theatron, il luogo dello sguardo che nella Grecia del V secolo a.C. raggiunse l’apice della fioritura divenendo rappresentante di una società che in quel luogo riconosceva l’occasione per rispecchiarsi e porsi domande fondamentali: chi siamo? Chi sono gli dei? Come si fa politica?
Quanto le passioni dell’inconscio e il rapporto con la tradizione condizionano il nostro modo di percepire le relazioni tra gli uomini, la giustizia, il sesso, i costumi e il potere?
Ciò che ci è sembrato subito interessante tuttavia è che le domande su cui il teatro greco si è interrogato, pur attingendo a piene mani dalla sfera del sacro, non sono mai stati quesiti puramente esistenziali. Peculiarità straordinaria di quel mondo fu infatti la capacità di esercitare i linguaggi della poesia e della filosofia attraverso la techné, l’artigianato cioè del fare artistico, una peculiarità che permise ai cittadini di allora di avvalersi naturalmente della cultura come di una modalità pratica e immediata per dialogare più consapevolmente sul presente.
Ad aggiungere a questo dialogo un’energia senza precedenti, ce ne siamo accorti sulla nostra pelle, fu l’elemento che tutt’oggi ne rende possibile l’esistenza: il corpo. Il teatro greco ci insegna che, così come non c’è intimità maggiore del guardarsi negli occhi, allo stesso modo non c’è teatro senza corpo, il corpo vivo dell’attore, colui che agisce, e il corpo vivo dello spettatore, colui che osserva, che di quell’intimità fisica di sguardo saranno chiamati a farsi protagonisti e custodi o per meglio dire “testimoni”.
Responsabile per eccellenza della testimonianza e punto di vista critico sulle conseguenze derivate dai fatti è il coro, in genere la voce del popolo, che all’unisono riflette sulle implicazioni morali e politiche dei singoli avvenimenti, conducendo così lo spettatore alla catarsi, la purificazione-liberazione cioè dalle passioni o dalle paure contingenti, resa possibile dal fatto di vederle rappresentate di fronte a sé, al centro della scena.
Il luogo dove questo scambio si esplicita ne amplifica decisamente la spinta e il senso, complice la circonferenza dello spazio-cerchio, un grande occhio simbolico dove tutti non solo possono democraticamente assistere allo stesso modo all’azione ma vedersi e percepirsi gli uni con gli altri come parti di un’unica comunità.
Sopra di noi nient’altro che il cielo, intorno a noi la natura così com’è. Quello del theatron dunque è un luogo aperto, scoperchiato, privo di limiti strutturali se non quelli funzionali all’entrata e all’uscita di pubblico e artisti. In quel luogo però ci si ferma, si compie la scelta di essere lì, insieme a qualcuno di uguale e diverso da noi, che in quel momento decide di compartecipare della nostra esperienza. Per capire meglio la profondità di questo meccanismo apparentemente labile, usiamo ancora le splendide parole di Barthes:
“La natura offre alla scena l’alibi di un altro mondo, la sottomette a un cosmo che la sfiora con i suoi riflessi imprevisti. L’immersione dello spettatore nella polifonia complessa del teatro en plein air (sole che si nasconde, vento che si alza, uccelli che volano via, rumori della città, fresche correnti) restituisce al dramma la singolarità miracolosa di un evento che ha luogo una sola volta. La potenza del teatro en plein air dipende dalla sua fragilità: lo spettacolo non è più un’abitudine o un’essenza, è vulnerabile come un corpo che vive hic et nunc, insostituibile, che può tuttavia morire in un istante. Da qui deriva il suo potere di lacerazione, ma anche il dono della sua freschezza, che purifica le scene dalla polvere, l’attore dal suo mestiere, i costumi dal loro artificio, e fa di tutto ciò l’insieme aleatorio di una bellezza che crediamo di non poter più vedere così ordinata”

Lo spettacolo quindi come organismo vivo, atto generativo, fragile e vulnerabile perché imprevedibile nello scambio dell’incontro tra attore e spettatore, in cui chiunque in qualsiasi momento può interrompere, modificare, condizionare, direbbero i critici più contemporanei, la temperatura dell’azione.
Attore e spettatore sono il centro di quest’esperienza viva, senza la loro compresenza il teatro non esisterebbe. Lo riassume con chiarezza l’antropologo Piergiorgio Giacché:
“Non è possibile a teatro sentirsi solo – come può avvenire o si può avvertire al cinema, anche quando si è in tanti. Il ‘pubblico’ a teatro è un NOI che non si riesce a eliminare nemmeno quando ciascun spettatore celebra e crede alla sua singolarità.
La sua sensazione e opinione è singolare, ma la sua partecipazione è corale anche quando come nella nostra epoca – non c’è più una collettività sociale sostanziosa e sostenuta dai singoli.
Il teatro – sia pure per anacronismo ma ancora di più per immanenza e fisicità – riproduce il corpo del pubblico e lo impone ad ogni singolo spettatore, che lui lo voglia o no; e questa sensazione di appartenenza fa parte della fruizione e la influenza ed a volte diventa determinante”

Accedere agli interrogativi del vento e delle stelle, sostituire la materia cerebrale con la corporeità, diventare noi. Il teatro è un cerchio che si può disegnare dappertutto. Cominciamo.

1. Chi è di scena?

ATTENZIONE ATTENZIONE

È vietato l’ingresso ai non addetti al lavoro
È vietato il lavoro ai non addetti all’ingresso
È ingrassato l’addetto ai non vietati al lavoro
È lavato il gessetto ai non addetti all’ingrosso
È addetto all’ingresso il non vietato al lavoro
È avvallato il lavoro all’ingresso del foro
È levato di dosso il divieto del tetto
È addossato il divieto ai non venati di rosso
È
arrossato il viadotto ai derivati del cloro
È venduto il cruscotto con paletti di gesso
È ingessato il bompresso ai maledetti del fosso
È mozzato il permesso ai garetti del toro
È maledetto il congresso dei cavilli del moro
È forato il moretto nei contratti del coro
È contrito il foretto ai lavori del messo
È
cessato il forzetto al divieto dell’oro
È venduto il merluzzo non senza decoro
È dettato il permesso ai verdetti del foro
È vietato l’ingresso agli addetti al lavoro.

(B. Munari, Verbale scritto)

Che cosa ci spinge ad andare a teatro? Come mai vedere uno spettacolo dal vivo è un’esperienza diversa da tutte le altre? Perché fa così bene a chi lo fa e a chi lo guarda? Ci possiamo entrare proprio tutti? E io che non sento e che non ci vedo bene, come faccio? Finito lo spettacolo che cosa mi resta? Gli attori e gli spettatori possono parlare tra di loro?
Tutte le volte che nel gruppo di educatori e animatori con disabilità del Progetto Calamaio della Cooperativa Accaparlante di Bologna si comincia qualcosa di nuovo le domande si scatenano a raffica, un passaggio essenziale per poi iniziare a discutere, imparare e progettare su ciò che ci sembra appassionante e importante.
In questo caso a smuoverci è stato il teatro, una delle arti più antiche, da qualcuno di noi già conosciuta e praticata, da qualcun altro invece quasi del tutto ignorata oppure percepita come noiosa, anzi, diciamocelo pure, noiosissima!
Lo spunto che ha acceso la scintilla è arrivato nel 2011 da uno spettacolo in scena all’allora Teatro Testoni di Casalecchio di Reno (BO), oggi Laura Betti, si trattava de La Repubblica dei bambini, uno spettacolo di Teatro Sotteraneo e Teatro delle Briciole, due compagnie che ammiro e che avevo avuto modo di conoscere come critica recensendone alcuni lavori per delle riviste di settore. A spingermi a portare tre componenti del gruppo allo spettacolo fu soprattutto in quel caso il tipo di partecipazione con cui gli artisti avevano previsto di coinvolgere i bambini, una partecipazione attiva che li avrebbe condotti a costruire sul palco una micronazione, a eleggere i propri rappresentanti e a svelare nelle loro risposte-azioni alcuni “comportamenti di massa”.
Inutile dire che lo scambio che ne derivò andò ben oltre alla riflessione pedagogica su cui inizialmente avevo fatto leva per convincere il Calamaio a provare questo nuovo tipo di esperienza. L’entusiasmo e la voglia di restituire agli artisti il dono che ci avevano fatto si dimostrò grande, così come capita quando uno spettacolo funziona: avevamo voglia di parlarne ancora.
Così, con un pizzico di fiducia donatami in primis dai colleghi, in particolare dall’educatore e scrittore Roberto Parmeggiani e successivamente dalla coordinatrice del Calamaio Sandra Negri, il gruppo ha iniziato il percorso di educazione alla visione “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” che, grazie alla collaborazione con il Teatro ITC di San Lazzaro di Savena (BO) e più sporadicamente con il Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno (BO) e ai teatri Arena del Sole e La Baracca-Teatro Testoni Ragazzi di Bologna, continua ancora oggi.
Un percorso in principio tutto nuovo, che ha coinvolto gli educatori e gli animatori del Progetto Calamaio sullo stesso livello, incominciando a interrogarsi sull’esperienza teatrale e i suoi aspetti, dallo spazio alla struttura scenica, dai temi offerti dagli spettacoli fino alla riflessione sull’accessibilità degli spazi, complici giochi, attività di scrittura creativa e incontri, che si sono avvalsi ogni volta di strumenti diversi, non ultimo il contributo di critici e artisti.
Ne sono venute fuori delle belle, che sono state depositate in un blog, http://laquintaparete.accaparlante.it, una testimonianza divertente e tangibile del nostro passaggio, una restituzione e una traccia che per noi è stata anche indicazione di quello che si è più o meno modificato nel panorama culturale bolognese di questi in anni, in termini di proposta, di apertura e di accoglienza in sinergia con le attività di documentazione del Centro Documentazione Handicap e della Cooperativa Accaparlante.
Cuore della monografia dunque sarà proprio il racconto delle tappe che hanno scandito l’entrata del Progetto Calamaio a teatro, un “manuale per spettatori inattesi”, così come lo abbiamo intitolato, che vuole sovvertire le etichette e sfatare il pregiudizio di un’arte goduta solo da cerchie ristrette o, peggio, dagli addetti al lavoro, gli stessi a cui Bruno Munari ci propone con ironia di vietare qualche volta l’ingresso. Più che regole prestabilite o cartelli di divieto tuttavia a mischiare le carte ci ha pensato da sé la nostra presenza, caotica e confusionaria ma anche allegra e vivace, inaspettata nel suo carattere di imprevedibilità, perlomeno all’inizio, nei luoghi che ci hanno ospitato.
In tal senso se dovessimo dare un suggerimento a un potenziale spettatore inatteso… beh, gli diremmo di farsi un po’ incosciente, di non aver paura di relazionarsi con il personale di sala e di buttarsi. Un po’ di incoscienza, per esempio, ci ha permesso di salire senza troppe remore sul Teatrobus dell’ITC di San Lazzaro (BO), ufficialmente inaccessibile, o di farci portare a braccia sulle scale dell’odierno Laura Betti di Casalecchio di Reno (BO) pur di ascoltare le parole dell’attore e regista César Brie.
Stabilire ora se le persone con disabilità si rechino frequentemente a teatro o meno è questione ancora dibattuta, c’è chi ne rileva la presenza, soprattutto nei contesti più istituzionali o addirittura nei festival più contemporanei, chi invece identifica le inadeguatezze strutturali dei nostri edifici storici come la manifestazione lampante di una scarsa domanda e chi pone un discrimine tra lo spettatore con una disabilità motoria e quello con una disabilità cognitiva.
Monitorare la presenza degli spettatori a teatro tuttavia, così come per i musei e per gli altri luoghi della cultura, è oggi compito, tra gli altri, dell’audience development, un processo strategico definito dal Sottoprogramma Cultura della UE, cui abbiamo scelto di dedicare la prima e la seconda parte del nostro manuale dando voce ad alcune delle più recenti riflessioni operanti sul campo a partire dalle definizioni di “terzo spazio”, accessibilità culturale e formazione del pubblico in relazione, quest’ultimo in particolare, all’ambiente scolastico. Voci che ci sembra possano offrire a tutti suggestioni concrete e stimolare pratiche condivise in ulteriori contesti.
A intervallare lo sguardo sullo stato dell’arte due chiacchiere dal foyer con l’illustratore Attilio Palumbo, autore dei disegni sullo spettacolo Tiergartenstrasse
4. Un giardino per Ofelia di Pietro Floridia e gli scritti degli educatori e degli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, composti in occasione di alcune opere cui abbiamo preso parte. Parole, le loro, che ci richiamano al momento di una pausa, al buio della sala, a un tempo lento che ci conduce al centro delle atmosfere dello spettacolo, atmosfere che con forza ci riportano vicino alla voce degli artisti, ripresa e percepita con profondità nella sua essenza umana, contraddittoria e poetica. Ringrazio per questa forma di abbandono e di impegno i miei colleghi con disabilità Lorella, Mario, Tatiana, Tiziana, Stefania Mimmi, Stefania Baiesi, Ermanno, Francesca, Mattias, Sara e Diego che hanno condiviso con me il desiderio e l’importanza di essere spettatori, abbracciando la bellezza di un luogo sconosciuto che hanno macchiato e contagiato con la loro energia.
Ringrazio anche gli educatori Roberto, Sandra, Manuela, Patrizia, Luca e Tristano che si sono messi in gioco in prima persona al pari degli altri e che mi hanno dato la possibilità di condividere una passione e accrescere una professionalità in un contesto apparentemente non deputato, così come, l’ho scoperto strada facendo, è la specificità di Accaparlante.
Se c’è una cosa che l’incontro con la disabilità mi ha insegnato in questi anni è infatti che qualsiasi tematica, situazione o contesto ti ritroverai ad affrontare, il deficit, la mancanza, sarà sempre nel suo essere limite la risorsa di partenza con cui guardare creativamente alla realtà, a non darla mai per scontata, a crederla modificabile e, soprattutto, a farlo insieme.
Una menzione speciale alla creatività va con affetto a Federico Mazzoleni, in arte Brochendors Brothers, che ha corredato con i suoi bellissimi disegni le nostre scoperte e in particolare i lemmi di un semiserio Dizionario dello spettatore che potete visionare anche sul blog. La composizione del dossier di foto e immagini che insieme a La carta dei diritti e dei doveri dello spettatore trovate al centro del volume è invece a cura di Nicola Rabbi.
Ringrazio infine a nome di tutto il gruppo le maschere, i servitori civili, i volontari del Servizio Minorile, gli uffici stampa, i direttori artistici, i critici e gli artisti che ci hanno dato la possibilità di farci spettatori partecipanti e di coltivare con loro le nostre immaginazioni.

La Casa Albero. Il teatrino dell’infanzia ne Il libro dei bambini di Antonia Byatt

Stranamente, quando il giovane principe era un bambino piccolo, con una natura solare, e una normale dose di curiosità infantile e birichineria, sembrava che l’assenza della sua ombra divertisse e incantasse, più che preoccupare, chi la notava. Ma quando, crescendo, mostrò i primi segni di chi si sta lasciando l’infanzia alle spalle, la sua famiglia e i cortigiani cominciarono a mormorare, quando pensavano di non essere sentiti, e a consultare saggi, a sua insaputa, sul significato di quella particolarità.
(A.S. Byatt, Il libro dei bambini, Torino, Einaudi, 2009)

Le parole che avete appena letto non appartengono al Peter Pan di  J.M. Barrie, benché di certo ne traggano ispirazione. Queste parole sono nate dal furore creativo di una madre imperfetta, una certa Olive Wellwood, scrittrice di libri per ragazzi nell’Inghilterra fabiana di inizio Novecento, intenta a cimentarsi nella stesura di un racconto dedicato al figlio Tom, il prediletto tra i suoi sette, che al momento della narrazione sappiamo lontano da casa, in fuga per i prati e i boschi del Kent.
Come questo sia potuto accadere non è solo affare di Olive e di Tom ma di tutti gli innumerevoli protagonisti che si intrecciano nello splendido libro che Antonia Susan Byatt dedica all’evoluzione culturale e politica del suo paese, il Regno Unito del Periodo Edoardiano, e a tutti i suoi lettori che sono stati bambini e che non lo hanno dimenticato.
Nota per i celebri Possessione e Angeli e insetti e le relative trasposizioni cinematografiche con Gwyneth Paltrow (2002) e ancora prima Kristin Scott Thomas (1996), la Bayatt ha raggiunto il successo senza dubbio grazie ai suoi personaggi, cui rivolge di volta in volta ritratti ambigui, intimi e carnali, complice uno stile erudito e raffinato che non è sfuggito alle cattedre di Cambridge.“Mi piace scrivere di persone che pensano, persone per le quali il pensiero è importante, eccitante e doloroso tanto quanto il sesso o il cibo”, ha dichiarato a più riprese la pluripremiata autrice, insignita anche, nel 1998, dell’onoreficenza di Dame Commander dell’Ordine dell’Impero Britannico.
Da tutto questo risulta facile intuire che Il libro dei bambini, a dispetto del titolo, non è affatto un libro per bambini. Quello che la Bayatt ci regala è piuttosto un viaggio nelle profondità dei sogni infantili, nelle pulsioni, nelle paure, nei non detti e nelle evoluzioni della volontà sottese al gioco fantastico, dove la fiaba e il teatro rivestono un ruolo fondamentale, principali divertissement dell’acculturata middle-class inglese che dalla fine dell’Ottocento alla Grande Guerra accompagna la crescita dei piccoli protagonisti.
Uno scenario, se vogliamo, non troppo lontano da quello dell’odierna serie televisiva Downton Abbey,  un melodramma a rischio di soap ma lodatissimo dai teatranti contemporanei per la bravura dei suoi attori e gli avvincenti dialoghi, anche se qui a compiacersi e a lottare con il nuovo mondo non è l’aristocrazia illuminata con i suoi servitori ma un gruppo di borghesi, artisti, artigiani, direttori di musei e banchieri che si fanno strada nell’era del progresso, sedotti dalle idee di William Morris, George Bernard Show e Virginia Woolf, a loro volta influenzati da Marx, Freud, Kropotkin.
“I fabiani e gli scienziati sociali – scrive la Byatt – gli scrittori e gli insegnanti videro, in modo diverso dalle generazioni precedenti, che i bambini erano persone, con identità, desideri e intelligenze. Videro che non erano né bambole, né giocattoli, né adulti in miniatura. Videro, in molti casi, che i bambini avevano bisogno di libertà, avevano bisogno non solo di imparare, e di essere buoni, ma anche di giocare e di essere selvaggi”.
Dorothy, Tom, Hedda, Phyllis, Geraint, Charles, Griselda, Florence, Julian, Pomona, Imogen, Philip e Elsie, per citare i principali, sono i giovani protagonisti delle storie intrecciate di tre famiglie allargate, i Wellwood, i Cain e i Fludd, di cui il romanzo segue le vicende a distanza ravvicinata per un arco di venticinque anni.
Il periodo più bello, non a caso denominato dall’autrice, “l’età dell’oro”, è quello che il gruppo trascorre nella tenuta di Todefright, la casa di Olive. È quello il periodo della Casa Albero, delle corse per i prati e le spiagge, delle rappresentazioni, dei rifugi fantastici dove i bambini inventano e rielaborano fiabe e avventure, cominciando a riconoscere i propri gusti e a discutere su quello che accade dentro e fuori il proprio rapporto con gli adulti. Lì, sulla Casa Albero, ci sono solo loro e l’universo della bellezza è sorprendente e nelle loro mani.
La magia, il buon cibo, la natura, i travestimenti, gli oggetti e il mistero che li incorniciano vengono descritti dalla Byatt con minuzia ossessiva e assoluto piacere. Così i cimeli d’arte, come il candelabro d’oro esposto al Kensigton Museum (il precursore del Victoria and Albert) che apre il romanzo, i crostini imburrati,  e gli abiti di scena con cui il gruppo trascorre gran parte del tempo.  Si finirà per desiderarli, vederli e toccarli, fino a immaginarli con la stessa irriducibile importanza che gli conferivi da piccolo.
Se in questo incantevole carillon verso la crescita alla fiaba è riservato un capitale, quello cioè della scoperta prima e della fuga dalla realtà dopo, il teatro invece diviene e resta il luogo dell’illusione magica, in cui palesare nel visivo le concessioni dell’inconscio.
Carrol, Mac Donald, Barrie, Tolkien e i fratelli Grimm sono l’immaginario cui i ragazzi inizialmente attingono, complice il lavoro di Olive, self made woman, ispirata da ben tre scrittori reali dell’epoca, Edith Nesbit, Kenneth Grahame e Emmeline Pankhurst.
Personaggio complesso, affascinante e irritante al tempo stesso, Olive raggiunge il successo e il salto sociale grazie al suo talento e alla sua capacità di osservare il mondo dei bambini, figli compresi, più affascinata tuttavia dai loro ruoli potenziali che dall’affetto che li lega.
Così allora la Bayatt descrive la preparazione alla celebrazione più compiuta del mondo dorato, la festa di mezza estate dei Weelwood dove la diversità non è l’eccezione ma il bello della vita stessa.
Una celebrazione condita ogni anno da uno spettacolo dove, finché i bambini sono ancora tali, anche gli adulti partecipano con la stessa convinzione che tutto è a tutti concesso:
“[…] Dopo la decorazione del giardino e il pranzo con pane e formaggio, cominciò la vestizione. […] Nell’aula c’era una grossa cassapanca dipinta, imitazione di una cassapanca da corredo del Rinascimento, con scene silvestri sui lati: radure in penombra, pallide dame, segugi e un cervo bianco. Era la cassapanca dei costumi, e conteneva un assortimento di camicioni di seta, camicie ornate di gale, scialli ricamati, nastri per veli e diademi principeschi. È un bel vantaggio – disse Violet a Philp – avere per zia una sarta capace di ricavare un vestito da ballo da una toga e viceversa o magici fiori di seta da vecchie calze. Credo che dovremmo vestire Hedda da fata, qui c’è un delizioso camicione rosa e viola. Hedda, con le braccia immerse tra le sete, rovistava. – Voglio essere una strega – disse. […] Può essere una strega, se lo desidera – disse tranquillamente Olive. –
Vogliamo che siano a loro agio in modo che possano correre e divertirsi. Hai trovato vestiti da strega, tesoro? Qui c’è il mio vecchio scialle nero con una frangia carina e un drago infuocato”.
Passata l’età dell’oro i ragazzi si troveranno a scontrarsi con una realtà ben più dura, quella della seconda generazione. Dalla violenza dei college inglesi a quella domestica, dalla difficoltà per le donne di costruirsi un futuro professionale in un mondo gestito dagli uomini, dalla guerra che incombe e li trascina al fronte loro malgrado, al movimento delle suffragette e l’incontro con l’omosessualità, fino alla lotta di classe e alla scoperta che niente è come sembra e che anche i confini familiari possono non essere poi così netti. C’è chi reagirà con disprezzo, lasciando la casa e tentando un futuro proprio e fatto di duro lavoro, chi, come Tom, preferirà rifugiarsi in ciò che ha perduto senza più riuscire a salvarsi, chi verrà sedotto e chi subirà le ingiurie dello Stato. Bambini, ragazzi, marionette in un mondo fatto e finito che credevano esplosione di sogni.
Ma chi ci dice che le marionette siano per forza legate a un destino senza scampo?
August Steyining, marionettista di Monaco, vecchio amante di Olive e, scopriremo, padre naturale della figlia Dorothy, ci propone una lettura diversa:
“Le marionette sono creature dell’aria, come gli elfi e i silfi, che toccano appena il terreno. Danzano con geometrica perfezione in un mondo più intenso, meno goffo del nostro. Heinrich Von Kleist, in un saggio suggestivo e misterioso, ha l’audacia di affermare che tali figure recitano con maggiore perfezione degli attori umani. Rivelano le leggi del movimento; le loro membra si alzano e si abbassano in archi perfetti, secondo le leggi della fisica. A differenza degli attori umani, non hanno alcun bisogno di affascinare, di suscitare simpatia”.
Ancora una volta il teatro ritorna come spazio liberatorio dove essere semplicemente ciò che si è. Se gli adulti sono un’invenzione dei bambini e l’infanzia non è che un momento di pace illusoria, che cosa dunque dire o non dire ai bambini, così diversi gli uni dagli altri e dal mondo che è stato predisposto per loro? Che cosa resta della Casa Albero? Tutto quello che non viene detto, sembra concludere la Byatt, i bambini lo sanno già o se lo scopriranno sarà sempre e comunque sulla loro pelle.
Quello che però non potrà mai essere tolto loro è l’atto della creazione, in qualsiasi campo essi decideranno di investirla.
E il teatro? Nemmeno quello potrà mai tutto ma forse non smetterà di tenerci a contatto con questa capacità, umana o sovrumana che sia.
Le cose si cambiano solo creando, lo dismostrano i fatti e la Storia, così come fa il piccolo Philip Warren scappato dall’East End e accolto alla casa dei Wellwood, uno dei pochi a trovare un senso nel reale grazie alle sue mani di disegnatore e ceramista provetto.
A ricordarlo a noi, lettori e spettatori ordinari, ancora una volta le parole di Byatt, che nella sua vita perse anche un figlio, vittima di un incidente stradale, che qui ne Il libro dei bambini così descrive gli effetti di uno spettacolo della ballerina Lo¨ie Fuller sui suoi protagonisti e forse, chissà, anche su di lei, scrittrice rigorosa dall’immaginazione incontenibile:
“I balletti di Lo¨ie Fuller si basavano su due cose: la stoffa, metri e metri che si arrotolavano e srotolavano gonfiandosi come onde, e la luce elettrica, dentro lanterne magiche chiuse con lastre sottili di vari colori. Il suo corpo faceva capolino fra spire trasparenti, traslucide, opache. Dispiegava i veli con l’aiuto di due bastoni di supporto. […] La seta in movimento diventava colate vulcaniche, le fiamme di una pira accesa, il forno di un olocausto […] Erano tutti in trance. Julian si chiese se fosse volgare, poi si smarrì tra le frange di seta; Tom era felice, di quella felicità che viene dall’essere rinchiusi nella scatola irreale del teatro […]. Quando tornarono sani e salvi a Todefright, Humphry si mise a scrivere un articolo sulle esposizioni e le arti di guerra e di pace. Olive scrisse una fiaba in cui, di notte, le seriche dame e i pavoni splendenti , i manichini, gli uomini e le fanciulle di marmo, le marionette e le farfalle, le libellule e i pesci lucenti della tappezzeria si animavano e facevano il loro mercato di magici prodotti  negli spazi ombrosi e nelle sontuose stanze disabitate del padiglione Bing”.
Per un approfondimento storico-politico del romanzo vi invitiamo a leggere la bellissima recensione di Wu Ming 4 sul blog www.wumingfoundation.com e quella di Anna Nadotti su www.einaudi.it per un più compiuto affresco sui luoghi e le opere d’arte citate dalla scrittrice inglese.

Compagni, che destino avremo? Tornano all’assalto le bluse gialle di Eresia della felicità

Di Lucia Cominoli

Milano, sabato 25 luglio 2015, Torre del Filarete al Castello Sforzesco. Un plotone di duecento adolescenti di diversa età e provenienza gioca, compone e grida per quattro ore sui versi di Vladimir Majakovskij. Indossano una maglietta gialla, dei pantaloni neri e degli anfibi dello stesso colore. Una massa compatta e meticcia, di lingue, culture e fisionomie. Tra di loro ci sono anche due ragazzi con disabilità. Si rivolgono a un pubblico misto di familiari, addetti ai lavori, passanti e turisti attoniti. Parlano di desiderio, di slancio e di rivoluzione e ci invitano a seguirli fino alla Piazza del Duomo. Lì il culmine e l’apoteosi dell’happening, l’ultima tappa lombarda di Eresia della felicità, creazione a cielo aperto per Vladimir Majakovskij diretta da Marco Martinelli.
Il regista, fondatore con Ermanna Montanari del Teatro delle Albe di Ravenna, è tra gli autori della non-scuola, una poetica laboratoriale etica ed estetica sui generis, nata in opposizione ai canoni della pedagogia teatrale tradizionale con l’idea di mettere l’energia dell’esperienza creativa al centro dell’incontro con l’altro, del cambiamento umano e della comune responsabilità politica.
Quella di Eresia della felicità è una lunga storia, o meglio una genesi, perché questo spettacolo, se così si può chiamare, non è frutto di un atto di narrazione ma di creazione, una creazione non finita e in continuo divenire, mutevole e instabile come i corpi dei suoi protagonisti e gli sguardi dei suoi spettatori.
Per questo, prima di arrivare a Milano, è meglio fare un passo indietro e tornare a quel che accadde nel 2011 a Santarcangelo di Romagna. Lì a Santarcangelo 41, la quarantunesima edizione di uno dei più noti Festival di teatro contemporaneo in Italia e in Europa, Eresia fu per la prima volta sperimentata e insieme proposta al pubblico.
Ricordo bene la nuvola di polvere, gli schiamazzi e il caos che il primo giorno si sollevarono sul terriccio dello Sferisterio all’arrivo dei ragazzi.
Duecento adolescenti provenienti da Emilia Romagna, Brasile, Senegal, senza contare le tribù, così come ancora le chiama il regista Marco Martinelli, di Napoli, Stati Uniti, Belgio, Foligno, Conegliano Veneto, Milano e Mazara del Vallo. Una disordinata babele di figurine gialle si apprestava a entrare in azione davanti a un timido gruppo di spettatori seduti sul prato in prossimità delle mura cittadine.
A guidarli, su e giù dallo Sferisterio, un uomo sempre in corsa, tutt’uno con il suo microfono, le sue mani, le sue gambe e l’ultimo soffio di fiato rimastogli. Quell’uomo era ed è Marco Martinelli, fondatore con la moglie Ermanna Montanari del Teatro delle Albe di Ravenna, dal Novanta impegnato con gli attori e i collaboratori del gruppo, le cosiddette guide, in laboratori teatrali nelle scuole elementari, medie e superiori intorno a cui si è sviluppato ed è cresciuto il metodo della non-scuola delle Albe. Il metodo, volutamente definito antipedagogico, colpì alle origini per la sua carica eversiva, lontana dai dettami della pedagogia teatrale tradizionale benché fondante le radici nel teatro greco, nella dimensione corale in particolare, a favore della relazione con l’altro e di un attento impegno politico.
Un contesto in cui anche diversità e differenza trovano spazio, trasformandosi in risorsa.
Basta lasciar parlare la prima lettera del Noboalfabeto, il manifesto teorico-pratico dei principi della non-scuola: “A. Asinità. […]Vieni, sussurra la non-scuola all’asinello, vieni da me. Lascia perdere chi non ti ama. Da me troverai acqua e biada a volontà. Che tu sia benedetto, asinello errante! Vieni da me, e apri con la chiave dell’occasione l’asinin palato, sciogli la lingua, fai uscir dalla tua bocca quell’estraordinario rimbombo che la largità divina, in questo confusissimo secolo, nell’interno tuo spirito ha seminato. Vieni da me, e con me fai valere la tua barbara natura, raccogli i frutti e i fiori che sono nel giardino dell’asinina memoria. Vieni da me, e in me trovati con tutti, discorri con tutti, affratellati, unisciti, identificati con tutti, a tutti regala verità, domina a tutti, sii tutto! Nella non-scuola l’asino è l’adolescente, nella non-scuola l’asino è la guida: entrambi ragliano forte”.
I ragazzi erano pronti a mettersi in cerchio. Ragazzi diversi per origini, lingua e cultura che si mettevano con curiosità a confronto con le proprie biografie. Tra questi non si può certo dimenticare Carletto, un ragazzo con Sindrome di Down, serissimo e assolutamente compreso nel suo ruolo.
Al centro dello Sferisterio sostava una presenza complice: appeso al muro, il ritratto-santino di Vladimir Majakovskij, il poeta del Caucaso dai versi aguzzi.
Annoverato tra principali fondatori del Cubo-Futurismo Russo l’autore diverrà presto per i ragazzi modello assoluto, esempio di slancio, azzardo, grido di ribellione e inno alla bellezza, giovane fautore di un’utopia realistica e di una rivoluzione magnifica nata a colpi di poesia.
“Mi cucirò calzoni neri/Con il velluto della mia voce/E una blusa gialla/Con tre metri di tramonto”, così canta il poeta per parlarci di sé e presto scalpiteranno allo stesso modo le voci dei ragazzi, a svelarci la divisa di scena, i pantaloni neri, gli anfibi e la già mitica maglietta gialla.
Un piccolo segreto messo nero su bianco, è così, sembrano dirci i duecento, che si comincia la propria, piccola, personale rivoluzione. Ad accompagnarli alla conoscenza del poeta e drammaturgo russo non solo i laboratori condotti dalle Albe ma l’incontro con il professor Fausto Malcovati, uno dei massimi esperti di teatro russo, docente di letteratura russa alla Statale di Milano, grande amante dei versi del giovane Majakovskij. Il professore dedica ai ragazzi una vera e proprio lectio magistralis sul poeta e sulla Russia dell’epoca. Chiede ai ragazzi che cosa facevano a dodici anni. Qualcuno risponde candidamente “le medie”. “Ecco Majakovskij – risponde il professore – a dodici anni era in galera per attività sovversiva”.
A fare la differenza in quel che accadde dopo non furono tuttavia né la suggestiva cornice, né gli splendi versi del poeta. Fu piuttosto la moltiplicazione di quei versi nell’energia creativa di un coro. Fu il crescendo di un’esperienza di massa lunga e faticosa, in cui per un’intera settimana i duecento, vissuti insieme giorno e notte nella Foresteria del paese, ci hanno portato sotto la guida di Marco Martinelli all’interno del loro percorso di prova e di scoperta, rendendoci di volta in volta partecipi per quattro ore al giorno di esercizi teatrali e improvvisazioni che finivano per diventare esse stesse spettacolo. Composte come vere proprie orchestrazioni rituali, le stesse abitualmente utilizzate da Martinelli e dalle guide nei laboratori condotti nei singoli gruppi, le improvvisazioni si trasformavano in tappe fisse, come lo scongiuro iniziale, un leggero calcio sulle chiappe del proprio vicino, l’Ottava toscana tratta dall’Orlando Innamorato del Boiardo o ancora E cape, letteralmente le teste, esercizio nato con il gruppo di Scampia. Momenti cardine che diverranno giorno dopo giorno partitura costante dello spettacolo, attesi e riconosciuti dagli spettatori in continuo aumento. Una prova aperta, per certi versi un happening, o meglio, “una creazione a cielo aperto” come la definisce il titolo. Una regia anarchica che ci porta alle origini del fare teatro, alla potenza divina del rito. Dioniso, il dio del teatro, viene chiamato in causa più volte a sostenere il nostro sguardo e la nostra presenza e di quei versi ci farà custodi e testimoni. Majakovskij dalla sua conclude ogni giorno il ciclo, quando i ragazzi arrivano a gridarne in gruppo, la ciaccona, i versi.
La discussione che quest’esperienza di non-spettacolo ha generato intorno a sé a Santarcangelo 41 è stata continua, segno di un’eco lasciata da una traccia di natura diversa.
Nel momento in cui si diventa testimoni di Eresia della felicità accade infatti qualcosa di insolito, qualcosa di legato a sentimenti di partecipazione antichi: ci sente meno soli. Nei dialoghi che ne sono seguiti tra antropologi, teatranti e pedagogisti nessuno ha potuto negare quanto, al di là dei possibili risvolti dell’operazione, Eresia metta in campo questioni personali. “Le aperture pubbliche della non-scuola – spiega la critica Cristina Ventrucci – non sono saggi scolastici o esibizioni di abilità. E al contempo non si pongono come opere teatrali da guardare attraverso una lettura critica. Pongono quindi lo spettatore di fronte a una terza via, a una partecipazione diretta e molto personale. Sono momenti di teatro che suggeriscono una sospensione del giudizio e che pongono una domanda di appartenenza a una comunità”.
Lo stato di ebbrezza diffuso che ci coinvolse in quei giorni pensai che fosse inscindibile dall’energia dei ragazzi e mi chiesi se mai un’esperienza del genere avesse potuto essere replicata altrove. Mi risposi che no, non era possibile. E invece è accaduto in parte a Venezia, a Marghera, nel 2012, e soprattutto lo scorso luglio a Milano, al Castello Sforzesco, grazie a Olinda, la Cooperativa sociale che ha preso in gestione l’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini.
Anche questa volta giovani provenienti da tutto il mondo, con molti stranieri già parte delle classi di Milano, e un bambino, Riccardino, sette anni, che ha vissuto l’esperienza del terremoto a San Felice sul Panaro, senza contare l’irriducibile Carletto e un ragazzo in carrozzina. “Tra le bluse gialle siamo tutti uguali e tutti diversi” – spiegano i ragazzi – “perché è la diversità a renderci unici e uniti”. Così il ragazzo si muove sulla carrozzina aiutato dai compagni come un compito tra i tanti. Arriviamo in Piazza del Duomo, dove il plotone ci conduce al passo dei versi di Majakovskij e sventolando la bandiera della Patafisica di Ubu Roi. Improvvisamente tutto sempre possibile, modificabile tanto è forte il riconoscimento della massa in se stessa e in chi la sostiene. Mi chiedo se quello che vedo e la gioia che provo siano anacronistiche e mi rispondo con le parole di Martinelli: “Tenere la scioccheria come passaggio per il recupero della nudità, dell’essere umano disarmato: solo in quell’essere nudo possiamo schivare la truffa e sfiorare la felicità”.  Un dovere che anche i recenti fenomeni migratori ci pongono di fronte e che questi ragazzi hanno già fatto proprio. Conoscersi, mischiarsi, parlarsi, giocare, studiare, condividere l’esperienza di essere umani. Cos’altro può voler dire educare?

Sulle orme del Magnifico Teatrino Errante

A cura di Lucia Cominoli

Si esibiscono in strada e a teatro. Sono gli attori di Magnifico Teatrino Errante, compagnia e laboratorio di teatro integrato, nato dalla Part Tòt Parata di Bologna. Di loro ci parlano la regista Valeria Nasci e Annalisa Frascari, membro del gruppo.

Come comincia il viaggio di Magnifico Teatrino Errante?
Valeria Nasci: Il viaggio di MTE (Magnifico Teatrino Errante) comincia nel 2011, con un laboratorio di teatro rivolto anche a persone con disabilità realizzato in occasione della Part Tòt Parata di Bologna, su invito dell’Associazione Oltre che ne cura l’organizzazione. Quando il laboratorio è partito è stato amore a prima vista e non ci siamo più lasciati.
Il nucleo fondamentale è attivo da diversi anni, si tratta di un gruppo formato da persone con disabilità mentale lieve e fisica, che fa teatro e contemporaneamente lavora in direzione dell’integrazione sociale da circa sette anni. Pur operando in questo senso, l’attenzione al lato artistico resta fondamentale. Io per prima, non venendo dal mondo dell’educazione e del sociale ma dal teatro, ho sempre preferito insistere di più sul lato artistico che sugli aspetti legati all’inclusione, che di fatto sono già nelle scelte che facciamo, nel lavoro e nella produzione stessa. 

Tra gli spettacoli più recenti merita sicuramente una menzione la vostra ironica Biancaneve…
Valeria Nasci: Sì, Biancaneve è stato uno dei nostri ultimi spettacoli che ha avuto più successo. In realtà abbiamo stravolto la favola, l’abbiamo riscritta come pretesto per parlare dell’essere e dell’apparire. L’aspetto fisico resta ancora discriminante in questa società e così abbiamo pensato con Annalisa Frascari, che collabora nella realizzazione dei testi con Ninfa Maria Pesce e Mariagrazia Bazzicalupo, di parlare di questo, un aspetto che ci riguarda personalmente al di là dell’intreccio o di uno specifico messaggio. A noi piacciono le sfumature. In genere lavoriamo molto sull’improvvisazione a partire proprio da queste sfumature che nascono da un tema proposto, parte o meno di una storia. Io insegno tecniche di teatro di base e chi si iscrive al nostro laboratorio lo fa di certo anche per fare teatro con persone con disabilità ma poi si appassiona a tutto il resto…
Annalisa Frascari: Alcuni si sono iscritti al laboratorio dopo essere stati spettatori dei nostri spettacoli, in generale accogliamo persone con diverse formazioni: studenti Dams e di Scienze della Formazione, fisioterapisti, persone che studiano e tutte le settimane lavorano con noi.

Quali sono i passaggi per agevolare l’inserimento all’interno del gruppo?
Valeria Nasci: Il gruppo rimane sempre aperto. Ogni anno, dopo l’estate, a ottobre, apriamo le porte a nuove leve, siano essi nuovi ragazzi con disabilità, studenti o danzatori. Il nucleo centrale fisso è costituito da me e Annalisa e alcune altre persone con disabilità. La maggior parte dei testi vengono composti da lei mentre Mariagrazia Bazzicalupo si occupa della Classe di Teatro Fisico.
Annalisa Frascari: Io ho scoperto MTE ormai più di due anni fa, ero sempre stata appassionata di teatro e volevo partecipare alla Part Tòt Parata. Se non lo faccio ora che ho finito da poco l’Università, mi sono detta, non lo faccio più! Così mi sono iscritta al laboratorio. Sapendo che era un’esperienza integrata. Pensavo che avrei trovato molti disabili in carrozzina, invece l’unica ero io! In principio sono rimasta spiazzata, poi mi sono trovata bene e ho deciso di continuare, ora il gruppo è diventato una parte della mia vita. 

Annalisa, cosa ispira i tuoi testi?
Annalisa Frascari: In genere tutto si sviluppa in sede d’improvvisazione. Dalle improvvisazioni cioè partono dei temi che valgono per se stessi, non vogliamo mai parlare o partire direttamente dalla disabilità, nonostante io per prima ci faccia i conti. Biancaneve ne è un esempio. Nello spettacolo parliamo di cose, azioni e sentimenti che posso riguardare tutti su altri livelli e che inevitabilmente ci riguardano al di là della condizione fisica, poi da lì si sviluppa l’esigenza di esprimere questi temi in maniera più razionale e fare in modo che si sposino sulla scena.

In che modo dunque rapportarsi con un certo tipo di corporeità?
Valeria Nasci: Partiamo dalla libertà di espressione e dalla scelta di non includere nel gruppo gli educatori sociali. Alcune persone infatti hanno chiesto di inserirsi con un accompagnatore ma abbiamo detto di no. Qui nessuno accompagna nessuno, nessun famigliare e nessuno psicologo, questo ha sempre caratterizzato il gruppo e lo ha reso libero, affinché tra i partecipanti non ci sia alcuna paura di fare cose che poi saranno riportate. Di questa libertà ne beneficia tutto il gruppo. Tutti danno libero sfogo alle loro emozioni, che in sede di regia io vado a sollecitare, montare e modificare per creare insieme qualcosa di artistico.
Il lavoro sul corpo, attraverso la danza contact è una componente fondamentale, questi corpi parlano infatti da soli, basta un solo passaggio di Annalisa sulla scena per creare qualcosa…
Annalisa Frascari: Durante il laboratorio il corpo viene utilizzato in maniera libera, da solo e poi in interazione con gli altri, sapere di poter fare qualcosa ci porta a superare i nostri limiti senza essere forzati a farlo, io ho fatto cose che in altri contesti non avrei mai fatto, sono scesa dalla carrozzina per esempio, e penso che la scena sia venuta meglio espressivamente. Anche quando siamo messi in difficoltà si parla e ognuno di noi trova da solo una soluzione. Vedere cosa succede agli altri grazie a questo tipo di approccio fa bene a tutti, apre strade nuove e per me è anche un grande spunto creativo.
Valeria Nasci: Il che nelle persone più avvantaggiate a livello cognitivo ha permesso cambiamenti sorprendenti in cui è davvero palese quanto il teatro abbia inciso sull’attenzione, sulla memoria, la percezione e l’autonomia della persona…
Annalisa Frascari: Penso sia umano, quando a una persona interessa qualcosa, si impegna di più. Anche chi sembra non saper fare nulla sulla scena può sorprendere.

E trasformarsi in clown per dirne una, una figura centrale nei vostri spettacoli, così come lo sono leggerezza e comicità…
Valeria Nasci: Partire da una buona dose di autoironia, cosa che i ragazzi hanno assorbito subito moltissimo, scherzando poi a loro volta sulla loro disabilità allo stesso modo che sul mio naso grande o su una erre moscia, come fanno i clown che partono spesso da un difetto per creare il loro personaggio, difetto che in questo modo viene anche esorcizzato. Tra di noi abbiamo di fatto coniato un genere… Quando vediamo davanti a noi passare una persona con disabilità o vicina al nostro modo di vedere ci diciamo: “Guarda, ecco un magnifico!”.
Il comico fa poi parte dei nostri colori, i personaggi che compongono MTE sono così come li vedete, persone peraltro con una forte carica poetica, come Annalisa o Ninfa Maria Pesce che presto vedrete in scena nel ruolo di Anna Frank. Per imparare tecniche di clownerie, la danza contact e il teatro comico abbiamo invitato al nostro laboratorio permanente formatori professionisti. In effetti penso che sia stimolante incontrare diversi artisti e non avere sempre solo me! E anzi credo che sia fondamentale per un gruppo che vuole fare seriamente teatro e non vuole essere solo un parcheggio per persone con disabilità.

Dove si incontra il Magnifico Teatrino Errante?
Valeria Nasci: Presso La Stalla delle Meraviglie, in quartiere S. Donato a Bologna, sede anche dell’Associazione AICE (Associazione Italiana per la Ricerca sull’Epilessia) che generosamente ci ospita tutte le settimane, se volete venire a vedere come lavoriamo; mentre per vedere uno dei nostri spettacoli o in strada o a teatro: la parata di strada è il genere che ci ha visti nascere e che ci piace molto. Il bello è che in mezzo alla strada non per forza si troverà uno spettatore a cui piace andare a teatro, a volte al nostro passaggio la gente si spaventa, a volte viene rapita. Non ci piace forzare, né sbattere in strada cos’è la disabilità, che diventa più che altro un pretesto per parlare d’altro e divertirsi.
Siamo stati inoltre ospiti di alcuni festival, come Anticorpi a Roma, Teatri Paralleli in Abruzzo, La società a teatro a Ferrara; a Bologna siamo parte della Rete Teatri Solidali e abbiamo partecipato alla rassegna a cura di Teatro del Pratello e Angela Malfitano Cantieri di Felicità. La grande difficoltà è sfondare la porta di festival che non sono di teatro sociale. Gli unici sono stati gli Instabili Vaganti che ci hanno invitati al loro festival TrenOff. Questo tipo di integrazione sarebbe uno dei nostri obiettivi.
Nel 2013 invece abbiamo avviato noi stessi una rassegna di teatro integrato insieme all’Associazione Oltre, chiamato “Nuovi Maestri”, completamente autofinanziato da noi, dai partecipanti e dalle famiglie. Una rassegna con convegni a cura di esperti di vari settori sociali, accompagnati da un workshop di pratica teatrale applicata all’integrazione a cura dei docenti stessi. Si è parlato di disabilità, psichiatria, teatro e carcere, rifugiati, persone non vedenti, è stato un modo per conoscersi e collaborare con altri gruppi che si conoscono tra loro più grazie ai social network e ai media che di persona.

Per ulteriori informazioni:
http://magnificoteatrino.wordpress.com
magnificoteatrino@gmail.com 

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