5. La formazione del pubblico. Esperienze di audience development
- Autore: Lucia Cominoli
- Anno e numero: 2017/9 (monografia sul teatro)
5.1 Cosa fanno i teatri. Conversazione con Micaela Casalboni, attrice di ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO)
Il percorso che abbiamo intrapreso insieme con La Quinta Parete ci ha portati a focalizzare lo sguardo dall’accessibilità alla cultura in senso lato sul ruolo e l’esperienza a teatro dello spettatore con disabilità. Un ruolo e un’esperienza che abitano prima di tutto una presenza. Partirei proprio da qui. Presente è “qualcuno che è nello stesso tempo nel quale si parla” e ciò coinvolge la persona in termini di fruizione ma, facendo un passo indietro, anche in termini di accesso a. Quanto è frequente oggi la presenza della persona con disabilità in platea? È cambiato qualcosa rispetto al passato?
Qui all’ITC è cambiato sicuramente, basti pensare che quando abbiamo iniziato, nel lontano 1998 nella platea appena messa a posto c’era una sedia! Da allora, quando si incrociavano spettatori con disabilità in linea di massima alla fine dei saggi, la situazione è decisamente migliorata. Oggi ci capita molto spesso di avere tra il pubblico spettatori in carrozzina o non udenti, con alcuni dei quali, come voi e Fondazione Gualandi, abbiamo attivato percorsi specifici, relativi allo scambio dei saperi e alla fruizione dello spettacolo stesso attraverso per esempio la sovratitolazione.
Sto pensando ora alla parola “presenza” che hai usato… Una parola interessante perché la presenza è anche una caratteristica specifica del teatro, in cui è tutto lì, gli attori sono nella stessa stanza del pubblico, prima di tutto nei loro corpi. La presenza è una questione molto, molto importante che quando ci fa interfacciare con nuovi pubblici alle volte ci fa sentire inadeguati, desideriamo accogliere tutti e ci chiediamo continuamente se facciamo abbastanza. Ogni volta ci mettiamo in gioco, imparando mano a mano, e lo facciamo non solo nei confronti della disabilità, lo facciamo in direzione di un’accessibilità in senso lato, inserendo per esempio una cartellonistica in più lingue per i migranti con cui lavoriamo da diversi anni, conservando l’ambizione di rendere il nostro sito bilingue, con una prima versione italiano-inglese, impegnandoci per offrire agli studenti, fin dalle prime superiori, ingressi a 1 euro per agevolarne la partecipazione autonoma.
Come attori e registi invece sperimentiamo l’accessibilità anche nella realizzazione stessa dello spettacolo, in alcuni dei quali, come nel caso di Le Parole e la città, lo spettacolo itinerante con cui abbiamo celebrato i 20 anni del Teatro ITC con il coinvolgimento di tutte le realtà cittadine che hanno collaborato con noi, abbiamo sperimentato una traduzione simultanea in più lingue, di testi registrati che il pubblico poteva ascoltare in italiano, inglese e arabo per esempio, grazie a delle cuffie con sensori che si attivavano non appena ci si avvicinava ai singoli palchetti, mentre lo spettatore assisteva alle azioni dei performer. In altri casi, come ne La magnifica illusione, abbiamo immaginato uno spettacolo senza parole, solo agito, con un forte gioco di luci, capace così di coinvolgere persone con disabilità sensoriali, adulti, adolescenti, bambini, di far convivere insomma nello stesso spazio presenze diverse.
Lo stesso metodo de Le Parole e la città lo abbiamo usato anche incontrando il mondo del volontariato di Bergamo con il progetto “Arcipelaghi” che ne raccoglie le storie all’interno dello spazio di un ex-carcere. Tutto questo per dire che la riflessione sul pubblico con disabilità porta con sé quella sugli altri pubblici, se migliori l’accessibilità per la prima, facilmente lo farai anche per gli altri, e viceversa.
Ogni persona e quindi ogni potenziale spettatore porta con sé la propria autenticità, lo fa nel rapporto con l’attore ma anche nei confronti del pubblico. Grazie al vostro spettacolo Diario di una follia di Stato ci siamo liberamente ispirati alle Istruzioni alla servitù di Jonathan Swift e agli esercizi mattutini di obbedienza e normalità eseguiti dagli attori, i ragazzi di Crossing Paths, per ricostruire le tappe della nostra entrata a teatro. Ne è nato un ironico vademecum “Sconquasso, istruzioni per l’uso”. Quanto vi siete riconosciuti in quanto casa ospitante nelle tappe di questo passaggio di accoglienza negli spazi del teatro?
L’esperienza di avervi qui ci ha fatto vedere a noi stessi noi stessi. Uso questo gioco di parole per dire che spesso abbiamo sentito di aver ricevuto molto di più di quello che avevamo dato, ci avete fatto notare, attraverso le vostre visioni, cose a cui non avevamo pensato ma in cui ci siamo fortemente riconosciuti. Lo sconquasso per esempio, che da noi è sempre benvenuto, non ci sembrava un problema, ci sentivamo predisposti ad accogliervi, sapevamo di avere la rampa, che superato il numero di 3 e 4 carrozzine sarebbe stato necessario fare un punto organizzativo e magari dotarsi di una maschera in più, insomma niente di che. Le dinamiche però su cui voi avete giocato e ironizzato hanno messo in discussione l’entrata di tutti gli altri spettatori, inevitabilmente contagiati da una prossimità forse non del tutto attesa, una cosa che non avevamo considerato. Quando ho letto quel vademecum, oltre a riportarmi con affetto a un percorso educativo molto caro, quello con gli adolescenti di Crossing Paths, ho riso moltissimo, avrei voluto appenderlo all’entrata, nel foyer e, ti dico, forse prima o poi lo farò! La stessa sorpresa l’ho avuta leggendo la restituzione sul nostro Teatrobus… Le immagini che gli avete costruito intorno erano le stes- se da cui noi siamo partiti quando abbiamo deciso di sperimentare questa nuova avventura, quella cioè di costruire un teatro su un autobus. Uno spazio, lo sappiamo, molto poco accessibile ma che non vi ha fermati, vi è bastato chiedere aiuto per salirci su. Un bello schiaffo a certe preoccupazioni che a volte gli artisti si fanno perché in quel caso di fare piani organizzativi non c’è stato proprio il tempo! Io, devo ammettere, sono una specialista nelle preoccupazioni ma lo sono di più in veste di attrice. Quando ho interpretato Ofelia in Tiergartenstrasse 4 per dirne una, in cui raccontavo la storia una disabile con un ritardo mentale che stava per essere coinvolta nel programma di sterminio previsto durante il regime nazista, ero piena di dubbi. Per interpretare Ofelia in passato avevo studiato modi di parlare, gestualità e corporeità di un certo tipo di disabilità. La sera in cui sapevo che voi sareste stati tra il pubblico, mi ripetevo continuamente “con che faccia mi trovo ora a rappresentare io tutto questo?”. L’ansia, la paura, sono trappole in cui si rischia di cadere, succede anche con il pubblico che applaude e basta, ti chiedi se avrà davvero capito, se avrà davvero apprezzato. Il teatro però ti insegna a vivere l’incontro in maniera empirica e ciò che ti dà forza è prima di tutto l’incontro umano. Questo è fare teatro, e io me lo porto sempre dietro. Quando mi chiedono che cosa faccio, non rispondo mai “faccio l’attrice”, rispondo sempre “faccio teatro” ed è accaduto anche a voi: non vi abbiamo semplicemente proposto uno spettacolo, abbiamo “fatto insieme teatro”.
Come attrice e regista sei stata più volte coinvolta nell’incontro con gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, nella fase di preparazione alla visione dello spettacolo come in Diario di una follia di Stato ma anche leggendo il riscontro seguito alla visione di Tiergartenstrasse 4. Un giardino per Ofelia. Cosa ti ha lasciato questo scambio? C’è qualcosa in particolare che porti ancora con te?
Quello che mi ha colpito è stata senza dubbio la capacità spontanea di andare alla radice, ogni volta in maniera diversa. In certi casi le restituzioni riassumono lo spettacolo in tre parole con grande semplicità, in altri il tutto è reso più complesso e ti fa notare aspetti del tuo modo di recitare o di dirigere a cui non avevi pensato. Ciò che resta è senza dubbio la dimensione poetica, il dono di un incontro. Nella restituzione di Ofelia, di cui conservo ancora il disegno di Attilio Palumbo sul mio dekstop, ho sentito fortissima la percezione di questa dimensione, che anch’io, che avevo lavorato con grande umiltà, avevo ricercato nella rappresentazione con l’idea cioè di lavorare su un doppio binario, di oltrepassare la mimesi dell’attore e di arrivare più all’interno per disegnare un personaggio poetico. Ofelia, quando guardo il disegno ci penso ancora, mi ha costretta a un esercizio di verità, non di realismo ma di verità, che è un’altra cosa. Ofelia che inizia da me, finirà con qualcosa di diverso da me. La disabilità, forse, ti porta a confrontarti con un meccanismo piuttosto simile. Dei nostri incontri di preparazione agli spettacoli poi ricordo senza dubbio Lorella, ne ha sempre una per ogni argomento e, un po’ come Ofelia, deve sempre dire quello che pensa, anche se inopportuno. In quell’occasione io e i ragazzi ci siamo divertiti moltissimo e, sarò onesta, non pensavo che sarebbe accaduto, immaginavo di dover- mi concentrare molto nel capire e nel dover farmi capire. Invece siamo stati accolti benissimo, Stefania Baiesi, Mario e tutti gli altri presenti si sono aperti con un atteggiamento di grande protettività nei confronti dei ragazzi, ci si parlava tra fratelli umani e l’insieme, tra tutte quelle risate, affrontando temi seri, è stato un po’ toccante.
Un’altra cosa che mi ha colpito è stata la vostra partecipazione all’incontro organizzato in Università dalla professoressa Zanetti, insieme al Teatro Testoni Ragazzi e all’oggi Teatro Laura Betti nell’ambito del convegno “I diritti dei bambini e delle bambine a una piena cittadinanza culturale”, c’eravate tu, Sandra e Tatiana. Ricordo l’ironia con cui dialogavate con Tatiana, il gioco del “avete capito?” quando Tatiana, che ha difficoltà nel linguaggio, parlava, una sorta di rimbalzo di battute alla Totò e Peppino, delicate ma decisamente comiche, perfette per rompere il ghiaccio. A partire dalla disabilità, ci avete riportati a una dimensione di quotidianità, a una dimensione di allegria e spronato a capire che non si può sempre parlare solo di “sfiga”!
L’accessibilità, così come il tema della sessualità, sottolinea provocatoriamente il giornalista con disabilità Claudio Imprudente, sta sempre di più diventando una moda. Claudio ne sottolinea questo aspetto, soprattutto relativamente al fatto che spesso a chi oggi affronta queste tematiche mancano dei passaggi di conoscenza sulla disabilità in senso stretto. Una riflessione un po’ scomoda che però ci offre l’opportunità per ampliare una domanda di fondo. Che cosa rende accessibile un teatro? Come porsi dunque di fronte alle specificità di un pubblico sempre più variegato?
È necessario, come anche voi sottolineate, che i pubblici comincino a guardarsi tra di loro. L’audience development sta lavorando in ambito europeo proprio su questo: come far sentire le persone accolte in un processo dinamico che non cambia di luogo in luogo ma da individuo a individuo, indipendentemente dalle categorie di appartenenza. Bisogna ragionare in termini di mescolanza e di spazi terzi che possano favorire i tempi dello scambio, della conoscenza e della socializzazione in apertura alle specificità.
In Danimarca, Svezia, Francia, Germania e Inghilterra si ragiona da tempo su questi aspetti e anche nei teatri tradizionali sono previsti altri spazi deputati a questi momenti, i foyer sono concepiti come le zone del salotto di una casa, ci sono angoli per leggere, per mangiare e bere per chiacchierare e rilassarsi, darsi un tempo prima e dopo la visione.
Che ci sia una moda, come ci stuzzica Claudio, è possibile, ma mi dico anche che se poi la moda ci porta a rendere accessibili degli spazi ben venga! Penso che dipenda dai casi, che non si possa fare di tutta l’erba un fascio, distinguere per esempio il concetto di accessibilità da quello di teatro sociale è un primo passo per non cadere in certi tranelli.
Il lavoro degli ultimi tre anni del Teatro ITC si sta soffermando moltissimo proprio sull’audicence developement, in direzione anche di modifiche strutturali, di una revisione degli spazi e di un ripensamento complessivo del luogo teatro, qualcosa che va oltre alla definizione di “luogo dello sguardo” per spostarsi sempre di più sul piano della relazione e dell’educazione con e per il pubblico. Cosa nascerà? Quali sono le utopie del prossimo futuro?
Sì, come teatro ci piacerebbe molto aderire agli spazi europei sopracitati e a sviluppa- re in questa direzione i suggerimenti dell’audience development, la Compagnia dell’Argine sta bene all’ITC ma indubbiamente è ormai uno spazio stretto. A questo proposito, grazie a un aiuto esterno, presto avremo la possibilità di acquistare un tendone da Circo, una vera e propria nuova sala che sarà posta nella piazza esterna accanto al teatro, che, oltre a essere totalmente accessibile in termini architettonici, ci permetterà di condurre in uno spazio teatrale i nostri laboratori come quello, per re- stare in tema, ormai diventato consuetudine con “Gli amici di Luca”, che coinvolge le persone reduci da esperienze di coma de La Casa dei Risvegli, uno spazio che può essere aperto anche ad aperitivi, eventi itineranti, incontri o ulteriori spettacoli.
A ciò si aggiunge il progetto Futuri Maestri, una riflessione che coinvolgerà oltre tremila bambini e ragazzi, di cui mille sulla scena, su ciò che è il mondo contemporaneo, a partire dalle parole-chiave lavoro, amore, crisi e immigrazione. Nel 2008 l’ITC ha mutato forma giuridica, da teatro è passato a cooperativa sociale, mi piace che a un certo punto abbia il coraggio di dire quello che oggi è.
Il teatro non è uno spazio vecchio dove va gente vecchia, bisogna togliere polvere prima di tutto alle idee, mischiare gli sguardi, aprire le porte, metaforiche e non.
5.2. Educare alla visione a scuola con “Crescere spettatori”. Conversazione con Agnese Doria di redazione Altre Velocità
Che cos’è “Crescere spettatori”?
È un progetto che è nato in maniera ancora più strutturata nel 2015 quando Altre Velocità ha ricevuto il finanziamento ministeriale del MiBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo), accreditandoci tra gli enti che si occupano in Italia della formazione del pubblico. Il nostro lavoro ha radici più antiche ma questo riconoscimento, oltre a permetterci una maggiore strutturazione, ci ha concesso di ottenere a livello nazionale una riconoscibilità forte.
“Crescere spettatori” sono i laboratori che noi teniamo in orario curriculare all’interno delle scuole ormai di quasi ogni ordine e grado, a partire dalle elementari attraverso le secondarie di primo e secondo grado, nelle ore quindi che alcuni insegnanti di diverse materie, come per esempio italiano e storia dell’arte, offrono al laboratorio. Il fatto che non si tratti di laboratori opzionali extrascolastici ma che gli incontri rientrino nel monte ore obbligatorio è per noi molto importante perché pone i ragazzi di fronte all’inaspettato. Molte volte infatti quando entriamo in classe i ragazzi non sanno bene chi siamo e che cosa siamo venuti a fare, a volte non lo sanno neanche le insegnanti, la cosa bella però è che quando si rompe il ghiaccio ed entriamo e raccontiamo quello che facciamo, spesso quei ragazzi o ragazze che mai avrebbero scelto un laboratorio di educazione allo sguardo si ritrovano a essere in qualche modo incuriositi e affascinati da questa nuova prospettiva, che non li convoca a “fare” ma semplicemente a “osservare”. I più piccoli ci hanno molto stimolato in questa direzione, abituati cioè alla dimensione fattiva che fa parte della vita scolastica, in cui c’è molto “esterno” che entra quotidianamente nelle classi richiamandoli per l’appunto alla dimensione laboratoriale della concreta attività e del teatro recitato.
In questo caso noi agiamo in maniera differente, li richiamiamo allo sguardo e all’ascolto con un posizionamento che loro percepiscono come nuovo, complice una tradizione pedagogica che da Ciari, Munari e Freinet ha sempre spinto verso l’artigianato. Noi non abbiamo pedagogicamente nulla contro questi approcci ma pensiamo semplicemente che un posizionamento sullo sguardo e su “il non fare” sia oggi altrettanto indispensabile.
Sono dunque laboratori sullo sguardo in cui noi, a seconda delle età dei ragazzini, usufruiamo di una cassetta degli attrezzi diversa che è uno strumentario per saper iniziare a guardare uno spettacolo ma soprattutto per cominciare a saper fare domande all’opera d’arte. Spesso domandiamo che cosa ci sta chiedendo l’opera, quali domande fa al pubblico e viceversa quali sono quelle che il pubblico fa all’opera, spronandoli a chiedersi quindi che cosa loro cercano nell’opera e ad argomentare motivazioni che vadano a fondo, in direzione di una complessità.
Avendo ricevuto il riconoscimento del Ministero, della Regione Emilia Romagna e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna ovviamente si è creata una rete di partnership regionali ed extraregionali che ci permette oggi di entrare in diversi contesti scolastici. Con il Teatro Arena del Sole entriamo in tutte le scuole di Bologna e provincia, con il Teatro delle Briciole entriamo nelle scuole medie del parmense, insomma iniziamo ad avere una mappatura piuttosto vasta che vorrebbe poi costituire una ricerca sul campo a livello sociologico, affinché in futuro diventi una pubblicazione che possa dare voce a quella che per noi che sta diventando una metodologia di intervento e naturalmente ai suoi protagonisti.
D’altronde noi ci siamo inseriti in un periodo storico che proviene dall’eredità della grande animazione teatrale in cui finalmente il teatro è stato portato nelle scuole e che ha avuto una grande stagione, una stagione però che sembra essersi un po’ dissolta nell’aria.
Noi raccogliamo quell’eredità trasformandola dal punto di vista della spettatorialità anche perché storicamente siamo spettatori tutti i giorni, dal secondo che viviamo alle pagine Facebook e ai siti che andremo a visualizzare, in tutto questo mare magnum bisogna restare vigili, capire come orientarsi, quali sono le domande da porre, quali le fonti attendibili. Cerchiamo di dare degli strumenti che sono dedicati alla visione di uno spettacolo ma allargando lo sguardo ci piacerebbe che fossero strumenti per saper guardare l’arte in generale e, per allargarlo ancora di più, in maniera utopica ma presente, per saper guardare il mondo.
Tornando per un attimo all’interno della dimensione di inaspettato da cui, dicevi, prende avvio il vostro dialogo con le classi, c’è stato qualcosa che ha colto di sorpresa anche voi, che ha rovesciato cioè il vostro modo di guardare all’universo dei bambini e dei ragazzi di oggi?
È una domanda bella e a cui è difficile rispondere perché ogni classe è un microcosmo a sé e ha talmente tante peculiarità che è impossibile generalizzare. Ci capita spesso tuttavia che i ragazzi siano entusiasti di andare a teatro e anche qualora non siano dei grandi frequentatori trovano comunque che la possibilità che la scuola gli offre di accedere allo spettacolo, anche usufruendo di eventuali scontistiche, sia pur sempre un’esperienza positiva.
Parlando di scuole superiori, poi, bisogna considerare che quando si raggiunge un’età biografica in cui il ragazzo inizia a operare delle scelte se non sulla vita almeno sui suoi hobby, tendenzialmente non sceglie di andare a teatro, un po’ perché ha dei costi elevati un po’ perché gli spettacoli sono di sera. Il cinema resta più accessibile, spesso ci scontriamo con loro infatti su un lessico e delle aspettative più legate al grande schermo che alla visione dello spettacolo dal vivo. Quando però poi lo incontrano, raramente ne escono scontenti. Inoltre sono termometri sempre in azione e ce lo dimostrano non appena ci mettiamo a dialogare.
La prima cosa che chiedo loro all’entrata in classe è se sono spettatori, se vanno a teatro e in quali teatri, quali sono cioè i contesti che frequentano e in cui si riconoscono nel panorama territoriale. Mi è capitato una volta che fossero loro a farmi conoscere una realtà che non conoscevo, dichiarandosi spettatori del “Festival 20-30” e grazie a loro ho scoperto un mondo. I ragazzi sono sempre dei grandi motori, hanno le antenne, hanno un fiuto da cui è giusto farsi trasportare.
In diversi paesi europei il teatro è portato e vissuto all’interno della scuola come disciplina di pari dignità insieme alle altre materie scolastiche. Avviene lo stesso anche in Italia?
No perché non c’è la struttura, e nonostante oggi ci sia una proposta di legge per far entrare il teatro come materia curriculare siamo ancora lontani da una definizione. Questo apre sicuramente delle riflessioni. In un momento dove tutto si sta smaterializzando, il teatro rappresenta una grande forza, è tutto, rappresenta il corpo, le temperature della voce, hai un tuo simile in un contatto visivo attore-spettatore insostituibile… Vero è che rispetto a questo noi ci interroghiamo ancora sul che cosa significhi entrare in classe. Noi siamo delle meteore nelle vite dei ragazzi, il nostro progetto può durare da due a un massimo di sei ore. Come relazionarci all’habitat e alle dinamiche che regnano nella classe? È giusto disarcionarle o no? È giusto en- trare in dialogo o no? In tutto questo in cui ci sentiamo ancora in un percorso in fieri, mi sembra che il fatto che qualcosa rimanga esterno non è del tutto negativo. È un motore comunque pazzesco che un ragazzo decida di andare a fiutare fuori e che questo accada al di là della famiglia e della scuola, in quanto lui si sente finalmente autore di decidere quello che vuole andare a fare, perché sempre minore è per i ragazzi anche la scelta di spazi di ozio, che si rivelano sempre più assottigliati. In quel luogo, vivaddio, non si sa bene che cosa si faccia ma qualcosa si muove, che sia teatro, musica o incontri, lì finalmente qualcosa accade.
È chiaro che la domanda si sposta su un piano politico. Quali sono quei luoghi vivi dove qualcosa accade e dove i ragazzi possono trovare qualcosa che sia di qualità e in cui siano liberi di andare? Questo era ai miei tempi un ruolo assolutamente rivestito dai centri sociali. Ci deve essere un territorio di libertà. Portarlo dentro così come è, soprattutto in una scuola che oggi va sempre di più verso i tecnicismi, è sicuramente importante; detto ciò credo anche che a un certo punto si possa dare ai ragazzi una scintilla che, se vogliono, possono portare avanti da soli, con forme che si devono inventare e che noi adulti non possiamo prevedere.
Dai licei alle elementari. Che strumenti avete usato per avvicinare i bambini all’ascolto?
La sperimentazione con le elementari la stiamo ancora affinando ma abbiamo trovato degli escamotage. Abbiamo per esempio una griglia di riferimento, che usiamo anche alle superiori, che racconta la scena a partire dagli elementi tecnico-formali, dal visibile cioè, come la scena, le luci, gli attori, i video, eccetera, con cui andiamo ad analizzare anche l’invisibile, quello che invece sulla scena non si vede. Con i bambini facciamo esattamente questo, rendendolo però materico, mostriamo loro la visibilità, entrando in classe con un performer, poi mano a mano la astraiamo. Dopo di che ci sono degli esercizi fisici di sguardo, diverse modalità per guardare una cosa, un piccolo training in cui li costringiamo a mettersi in movimento.
Hai mai incontrato alunni con disabilità nelle classi che hai incrociato?
Se ti riferisci a un handicap conclamato non mi è mai successo, anche se alle superiori ho incrociato dei ragazzi seguiti da un sostegno. Per quanto riguarda medie e elementari abbiamo incontrato classi con una percentuale molto alta di BES ma francamente se non me lo dicono personalmente non me ne accorgo… Per come sono organizzate le nostre attività anche i bambini più “lenti” trovano spazio per dare il proprio contributo, anzi spesso le insegnanti notano con piacere come emergano personalità che in genere fanno fatica a esprimersi, essendo le nostre lezioni molto partecipative e soprattutto collaborative.
Il modulo che va per la maggiore è quello di quattro ore, due ore prima dello spettacolo e le due ore successive, accade sempre che quando iniziamo a teorizzarlo, chi si dimostra molto vivace nella prima parte stia poi zitto nella seconda e viceversa, questo perché mentre prima occorrevano degli strumenti di razionalizzazione, a seguito dello spettacolo, grazie agli strumenti concreti e visibili che il teatro offre, anche chi ha delle difficoltà riesce più facilmente ad accendersi e a infervorarsi.
A volte, chi ha voglia, prende degli appunti e li deposita su carta ma lo fa liberamente, senza obblighi e costrizioni. Proviamo così a ribaltare etichette, posizioni e ruoli prestabiliti in cui hai la massima libertà d’azione quando l’insegnante non c’è, perché si crea un territorio in cui puoi muoverti su regole nuove; questo sarà probabilmente il passaggio a cui tenderemo in futuro.
Insieme al Progetto Calamaio ci hai introdotto al bellissimo spettacolo di Giuliana Musso, La fabbrica dei preti. Che cosa ricordi di quell’incontro? Ti capita spesso di incontrare persone con disabilità in platea?
Ammetto di essere piuttosto abituata a vedere persone con disabilità tra gli spettatori. Mi capita all’Arena del Sole ma anche in occasione di festival che si stanno aprendo in questa direzione, come per esempio con Gender Bender. Rispetto al nostro incontro ricordo invece di essere stata un po’ frontale, proponendo una lezione piuttosto classica in cui forse avrei potuto lasciare più spazio agli interlocutori, mi piacerebbe poter tornare oggi con il bagaglio d’esperienza che ho conquistato nelle classi con “Crescere spettatori”. Ricordo tuttavia un grande entusiasmo, soprattutto al momento dello spettacolo, all’arrivo a teatro, una comunità in movimento, capace di spostare energia, una cosa che si percepiva sia nei ragazzi sia in chi li accoglieva.
5.3 Dall’estero. L’esperienza inglese di IIAN e quella francese di Troisième Rideau
“La cultura è un elemento positivo che può facilitare l’inclusione sociale rompendo l’isolamento, favorendo l’espressione di sé, supportando la condivisione di emozioni e portando un’‘anima’ nelle misure messe in campo nell’affrontare le privazioni ma- teriali. Come mostra l’evidenza, la partecipazione culturale può avere grande impatto sul benessere psicologico delle persone.
Così citano le prime pagine del Report dell’OMC (Open Method of Coordination) dell’Unione Europea nell’ambito del Piano di Lavoro per la Cultura 2011-2014, a proposito delle politiche e delle buone pratiche di recente proposte sul piano euro- peo dalle arti pubbliche e dalle istituzioni culturali a favore di un migliore accesso e di una più estesa partecipazione alla cultura.
Il Report è del 2012 e l’Inghilterra, insieme a Francia, Italia, Germania, Spagna, Svezia e Danimarca, era ancora annoverata tra le esperienze degne di nota.
Cambiamenti sullo scenario politico a parte, l’Inghilterra, che porta con sé una favolosa tradizione teatrale, è sicuramente oggi con la Francia uno dei paesi più attenti al coinvolgimento e alla formazione dei pubblici. Tra questi anche quello con disabilità.
Lo scorso 7 marzo 2015 ci è capitato di presentare come Accaparlante il lavoro svolto con “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” al Festival Visioni di Futuro de La Baracca Teatro Testoni Ragazzi. Insieme a noi, sul palco, c’era un giovane ragazzo con disabilità, Daryl Beeton, uno dei fondatori di IIAN (International Inclusive Arts Network). Daryl è un attore e un regista che da anni si occupa a Londra e in giro per il mondo di circo teatro e teatro ragazzi prima di tutto in quanto artista e acrobata, dedicando particolare attenzione, anche in base alla sua esperienza, al tema della diversità e dell’accessibilità.
Oltre ad aver realizzato bellissimi spettacoli per i più piccoli come il recente A Square World in cui ha affrontato il tema delle barriere architettoniche utilizzando con ironia, poesia e profondità alcune forme geometriche, Daryl si è impegnato moltissimo nella realizzazione di un network internazionale rivolto senza distinzioni ad artisti e spettatori, lo IIAN per l’appunto, a favore dell’accessibilità dei pubblici, in particolar modo quello con disabilità.
Altra esperienza che merita una menzione è senza dubbio quella francese di Troi sième Rideau a Mulhouse in Alsazia, di cui ci parla in maniera approfondita Massimiliano Rubbi nella sua rubrica di «Hp-Accaparlante» Europa Europa: un gruppo di attori con disabilità che non solo sono autori e protagonisti dei propri spettacoli ma che cercano con varie azioni di restituire al pubblico il processo delle prove, attraverso un diario di bordo in fieri che li porta a mettersi in gioco, a porsi domande che mirano alla realizzazione dello spettacolo ma che si interrogano anche sul senso che questo potrà avere o non avere per il pubblico e i modi in cui, qualora ci sia una disabilità, possa esserne fruito, uno scambio alla pari molto vicino all’approccio del Progetto Calamaio, che potete visionare sul loro blog: http://3emerideau.blogspot.it.
Per chi desiderasse documentarsi ulteriormente a fine volume troverà alcuni link utili e una breve bibliografia. I siti e i portali che oggi raccolgono le azioni a favore della partecipazione culturale sono molti e si evince come, perlomeno in Europa, la comunità internazionale stia prendendo direzioni condivise nella ridefinizione di norme, progettazioni e prassi.
Al di là di questi passaggi fondamentali, l’approccio più interessante tuttavia resta per noi ancora quello indicato da Simona Bodo, lo sguardo cioè sui terzi spazi in cui si sviluppa quel “patrimonio culturale immateriale” fatto di strumenti, oggetti e know-how tramandati da generazioni, che consentono di ricreare costantemente le culture nelle relazioni che passano attraverso il confronto tra i gruppi e le comunità.
Si potrebbe dire che, anche se si sa che il teatro fatto e visto fa bene sul piano pratico, non basta. Le comunità di appartenenza, le occasioni, restano infatti quello che più di tutto ancora condiziona l’apertura o la chiusura dei processi, e spesso una normativa illuminata non è fondamentale.
Resta il fatto che, come sottolineava Agnese Doria, chi trasmette la cultura ha un compito limitato: possiamo accendere una scintilla ma la scelta, di coltivarla o meno, spetterà pur sempre al singolo e questa libertà non può e non deve essere un comportamento prevedibile.
Ce ne parla a suo modo, nel prossimo intervallo, Alessio Plona, volontario del Servizio Civile Nazionale 2015-2016, qui alla sua prima esperienza di spettatore all’ITC Teatro con l’Hamlet travestie di Punta Corsara
Intervallo n 4. La mia prima volta a teatro. Un racconto di Alessio Plona, volontario del Servizio Civile Nazionale 2015-2016
Arrivare a Bologna, la dotta o la rossa a seconda delle preferenze, senza essere mai andato a teatro potrebbe suscitare un po’ di vergogna, e in effetti… Se da un lato le condizioni contestuali (venire da un piccolo paese, scuole superiori a indirizzo commerciale, amicizie “non troppo appassionate” al tema) non mi hanno aiutato molto, c’è da dire che la mia pigrizia e il mio poco spirito decisionale non mi hanno mai fatto incrociare questa strada, seppur avessi sempre voluto. Quindi quale occasione migliore di poterci andare se non all’interno del Servizio Civile? Ambiente formativo, protetto e in cui poter crescere… Ammetto, ero leggermente teso ed emozionato come credo che capiti quando per la prima volta si affronta qualcosa. Dico “affronta” col senno di poi, perché se dovessi pensare a una parola con cui definire questa mia esperienza direi “vulcano” di energia. Non ho sicuramente le competenze adatte per fare una valutazione artistica/tecnica sullo spettacolo, ma poco importa. Quegli attori di Punta Corsara per me sono stati eccezionali, un fiume in piena che ti travolge. Posso dire che sono uscito dall’ITC scosso, in senso positivo ovviamente, perché non mi aspettavo così tanta energia, così tanta vigoria sproporzionata, usando un termine calcistico. Non è facile descrivere le sensazioni provate: felicità, stupore, anche un pizzico di disorientamento…Emozioni contrastanti? Forse, chissà….Non sono mai stato bravo in effetti, ma penso sia “semplicemente” un qualcosa che ti muove, che non ti permette di staccare dalla realtà per un lasso di tempo sufficiente a dire “Ops, ma è già finito?”. Sarà stato lo spettacolo in napoletano, quindi vivo, caloroso, divertente e accogliente, che mi facilita in questa descrizione di quanto provato? Non so, però di una cosa sono certo: a teatro ci voglio tronare anche se non so ancora quando ne avrò il tempo!
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- 1. Chi è di scena?
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