3. Oltre la scatola. Il terzo spazio e le nuove forme del partecipare
- Autore: Lucia Cominoli
- Anno e numero: 2017/9 (monografia sul teatro)
3.1 Portanti, divisorie, scorrevoli… A che cosa servono le pareti?
Dal teatro en plein air all’edificio così come lo conosciamo. Diciamocelo, se pensiamo allo spazio teatrale italiano la prima immagine che ci viene in mente non è il theatron ma è un palco con un bel sipario di velluto rosso. Sarà forse un caso? Non proprio. Non potendo mai prescindere dal rappresentare la società in cui abita, il teatro ha infatti nel corso del tempo cambiato molte volte forma e funzione, il che, come ha sottolineato lo studioso Fabrizio Cruciani, è stato un percorso graduale e controverso.
“Il passaggio dal ‘luogo’ al ‘teatro’ è il punto di arrivo di tensioni complesse e non univoche che danno esito, in Europa, alla sala barocca o all’italiana, sia nella definizione della scenografia che della sala e del palcoscenico; e da cui nascono i ‘mestieri’ dell’architetto teatrale e dello scenografo. Questa realtà delimitata è stata ipostatizzata e resta, nella cultura, lo spazio del teatro, nonostante le inquietudini e le fratture del teatro del Novecento”
Il nostro palco con sipario rosso insomma e i suoi dorati decori di stucco.
Un dato di realtà, quello che riassume Cruciani, che tuttavia non è stato del tutto impermeabile alle rivoluzioni del XX secolo.
Ad essere per lo più messi in crisi infatti non furono tanto gli elementi strutturali del teatro in sé e per sé ma tutti quegli elementi di convenzione che per anni hanno condizionato, ostacolato o limitato la visione del pubblico, sottolineandone una presa di distanza da quanto accadeva sulla scena. Tra questi la più nota è la cosiddetta quarta parte, quella parete immaginaria che nel teatro all’italiana del tardo Seicento cominciò a frapporsi costantemente tra l’attore e lo spettatore, figurine ora di una scatola ideale, in cui lo spazio della scena, delimitato dal palcoscenico, restava poggiato sulle tre pareti principali del fondale e delle quinte laterali.
Una divisione costretta dunque, che, benché immaginaria, si è fatta rappresentazione di una scissione tra le responsabilità di chi guarda e quelle di chi agisce sulla scena che non è sfuggita ai grandi registi delle Avanguardie e del dopoguerra.
Dagli anni Cinquanta in poi Brecht, Strehler, il Living Theatre, Grotowski e i loro successori si impegnarono con forza per abbattere la quarta parete, utilizzando gli strumenti della scena quali occasioni per modificare in termini fisici, percettivi e relazionali l’atto della visione, coinvolgendo lo spettatore nell’opera stessa, arrivando persino a toccarlo ma più in generale richiamandolo al suo ruolo di testimone, capace, proprio come nel teatro greco, di trovare nell’arte il momento privilegiato per partecipare emotivamente e politicamente della propria epoca.
Un Nuovo Teatro fu ciò che ne derivò, la cui nascita viene ufficialmente sancita dal Convegno di Ivrea nel 1967, spostando ulteriormente l’attenzione sulla dimensione politica e al contempo rituale dell’atto teatrale, per poi sovvertire ulteriormente gli schemi negli anni Ottanta e Novanta con i Teatri Novanta e il Postmoderno che hanno messo al centro l’atto performativo dell’attore, in un dialogo fortemente corporeo con lo spettatore e l’utilizzo delle nuove tecnologie quali partiture drammaturgiche di spettacoli che non necessariamente debbono avvalersi di un testo scritto per definirsi tali.
Tutti questi cambiamenti hanno ovviamente trovato risposta nel pubblico, che si è modificato parallelamente agli spazi, alle forme e alle funzioni che il teatro ha portato nella Storia con sé.
Da arte popolare per eccellenza a manifestazione statale della cultura aristocratica e borghese, il pubblico del teatro italiano aveva di fatto finito per cercare in quel luogo la conferma di uno status quo, più che una messa in crisi di sé. L’atto stesso di andare a teatro ha cominciato a diventare un lusso per pochi, portando in auge la diffusione di certi generi piuttosto che altri, primo tra tutti l’opera lirica. Ciò non toglie per fortuna che il teatro non abbia mai perso la sua natura rivoluzionaria. I registi, gli attori e i drammaturghi (compresi quelli dell’opera) non si sono mai risparmiati dall’indagare le proprie epoche, denunciandone con i mezzi a loro disposizione ambiguità, ingiustizie e mancanze, spesso riprese con forza anche dagli autori del Novecento e del Nuovo Teatro che di tutto questo hanno reso protagonista a pari merito il pubblico, la cui conformazione ha perciò cominciato a rifarsi più variegata. Il teatro sociale, così come le attuali riflessioni e aperture sui temi dell’accessibilità e della specificità dei pubblici, sono quindi eredi diretti delle esperienze del Nuovo Teatro che nel theatron e nell’esperienza rituale hanno ripescato i loro fondamenti teorici principali.
Se parliamo di disabilità tuttavia, parlare genericamente di ritorno alle origini non basta: la cultura che di volta in volta ne ha accompagnato e condizionato l’immagine, e di riflesso la partecipazione delle persone che la vivono all’interno della società, ne ha segnato prepotentemente nel tempo la presenza o meno in determinati contesti, con uno scarto decisamente maggiore rispetto ad altri tipi di pubblico. Le rappresentazioni che la Storia ci ha lasciato della disabilità sono infatti complesse e contraddittorie e lo stesso teatro non ha mancato di restituircele. Lo ha fatto con le opere che ha portato sulla scena, alle volte in termini tragici, facendo coincidere l’handicap con le colpe dei protagonisti, altre in termini comici, dalle battute alle acrobazie dei giullari; lo ha fatto persino in termini magici e morali, riservando così al personaggio con disabilità il potere di interpretare il destino e i comportamenti umani.
La disabilità sul palco dunque c’è sempre stata ma per lungo tempo è apparsa come portatrice di un’eccezionalità. L’arrivo del Nuovo Teatro invece ha sancito una presa di posizione diversa, soprattutto dalla fine degli anni Settanta in poi. L’attore disabile è ora il protagonista, sia fruitore di percorsi rivolti all’espressività e al benessere personale o artista tout court, egli è ora creatore dotato di un’autorialità sua propria, un passaggio fondamentale che dalla scena ha finito per contagiare anche il pubblico.
Aumentando le autonomie politiche di pari passo con il cambiamento nella percezione collettiva della parola “diversità”, anche i luoghi della cultura hanno cominciato a popolarsi di nuove presenze e così anche la dicotomia palco-platea ha finito per assottigliarsi.
Ciononostante il desiderio sincero di molte strutture di aprire oggi i propri spazi all’entrata di un pubblico con difficoltà motorie e/o cognitive si trova spesso ancora a fare i conti con le architetture del teatro all’italiana, che come ci faceva notare Cruciani, connota ancora la maggior parte degli spazi scenici del nostro paese, il che, soprattutto nei piccoli centri, rende l’accesso allo spettacolo piuttosto complicato. A mettersi in mezzo ci sono infatti difficoltà legate all’accessibilità e alla fruizione, a causa per esempio di gradinate sprovviste di rampa all’entrata o alla struttura ad alveare dell’edificio, sviluppata su platea, palchi e palchetti secondo un principio di separazione gerarchico che non rende unanime la visione. Reali problemi di sicurezza poi, fungono da barriere altrettanto imponenti, a causa di pendenze, spazi di passaggio ridotti e bagni non a norma.
Questa carenza tuttavia, benché storicamente legittimata, non è irrimediabile e potrebbe condurre a un ripensamento degli spazi che, pur restando in un’ottica di ristrutturazione conservativa e condivisa, sarebbero capaci di rispondere alla domanda degli spettatori su scala nazionale e non solo locale.
Paesi come Danimarca, Svezia, Inghilterra, Germania e Francia hanno da tempo inserito la relazione con il pubblico come parte integrante della propria quotidianità progettuale e anche lo spettatore con disabilità vi trova un ruolo specifico. Rispetto all’Italia, complessivamente ai primi esperimenti in tal direzione, c’è da chiedersi quanto i teatri siano effettivamente non solo accessibili per, ma realmente frequentati da persone con disabilità.
C’è chi non vede il problema, dichiarandosi abituato a condividere lo spettacolo con pubblici di tutti i tipi, c’è chi sottolinea un’assenza e infine chi pone il problema della modalità con cui viene scelto e poi fruito uno spettacolo dalla persona a seconda del tipo di disabilità, sensoriale, motoria e/o cognitiva che questa porterà.
Gli ultimi dati dell’Istat sottolineano nel quadro di statistica ufficiale La disabilità in Italia, che fino ai 24 anni la percentuale di persone disabili che ad oggi si sono recate a teatro è praticamente la stessa di quella del resto della popolazione normodotata. Dai 25 anni in su invece il divario aumenta sensibilmente, e in particolare si sottolinea come nella fascia 25-44, solo l’11,3% delle persone con elevata disabilità vada abitualmente a teatro, contro il 21% della popolazione non disabile con caratteristiche simili.
È la metà.
Un dato interessante, quello dell’Istat, che svela non solo le inclinazioni delle persone con disabilità ma come le loro autonomie e le possibilità di scelta cambino spesso in relazione ai contesti di accompagnamento che le circondano di pari passo con l’età.
Fino ai 24 anni infatti la maggior parte dei ragazzi che frequenta il contesto scolastico, compresa l’Università, si muove tendenzialmente con il supporto della sfera educativa e familiare.
Successivamente, in particolar modo se la persona possiede un deficit cognitivo, diventa sempre più difficile trovare occasioni non mediate per muoversi in una prospettiva di adultità, soprattutto quando non si tratta di inserimento lavorativo, percepito dalla collettività come legittimo, ma di svago, piacere, cultura e tempo libero. In quest’ambito, anche qualora la persona dimostri un interesse specifico verso qualcosa, a meno che la famiglia non si attivi per lei, la grande domanda sottesa resta infatti: con chi posso andare? O ancora, se la persona dimostra una sensibilità spiccata verso un ambito artistico ma non è in grado di reperire informazioni e scegliere da sola, chi la indirizza?
A provare a rispondere a queste domande ci sono le cosiddette uscite del tempo libero, in cui gli accompagnatori, prevalentemente volontari, propongono all’utente una rosa di possibilità, dalla pizza, al cinema, al bowling, dove al teatro viene dedicato spesso uno spazio marginale e purtroppo non sempre di qualità, privilegiando i nomi del piccolo schermo o sale parrocchiali che hanno il pregio dell’accessibilità ma che si rivolgono più specificatamente a bambini e ragazzi.
Portanti, divisorie, scorrevoli… Sembra che, ovunque ci si giri, le pareti da sfondare non siano mai finite.
I teatranti lo sanno bene e sarà forse per questo che “la quinta parete” è un titolo che è stato scelto da molti per declinare sotto varie sfumature progetti, convegni, messe in scena, qualcuno nella cerchia dei critici ci ha anche scherzato su, proprio a indicarne l’improvviso proliferare.
Coincidenze a parte è certo che l’esigenza di ampliare i consueti spazi dello spettacolo a nuovi pubblici e a nuovi modi di fruirne la proposta artistica risponde a una mancanza comunitaria sentita da tutti, complice il bombardamento e la schiavitù dei social, della politica detta e non agita, della distanza crescente nelle relazioni tra i singoli, della schizofrenia reale-virtuale.
Disabilità e teatro viaggiano però su un terreno diverso e con molte similitudini, come il fatto che quando li incontri non puoi fare a meno di confrontarti con la dimensione presente di un’esperienza condivisa.
Sulla base di tutti questi presupposti in parte ancora irrisolti, il laboratorio “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” ha provato a inserirsi nei processi in atto mettendo alla prova nel gioco partecipato della visione le attuali definizioni, target e complicanze senza allarmismi ma poco buonismo, lasciandoci andare al divertimento e ai suoi rovesciamenti.
Che ci sia forse un terzo spazio al di là delle pareti
3.2 Quel vuoto in mezzo a noi
Quando individui che provengono da gruppi di appartenenza diversa (etnica, religiosa, sociale…) provano a mettersi in dialogo all’interno di un contesto culturale rappresentativo del patrimonio storico-artistico di uno dei due, si cerca oggi di condurre i propri ospiti in percorsi che mirano a un’inclusione il più possibile partecipata, serena e accogliente.
Musei, teatri, biblioteche e qualunque altra istituzione culturale apra le porte del proprio spazio, lo fa infatti ormai quasi sempre con attività e visite guidate pensate per consegnare all’altro una narrazione di sé completamente comprensibile e fruibile, previa un’analisi delle competenze, delle credenze e dei codici degli interlocutori profonda e meditata.
Simona Bodo, ricercatrice e consulente in problematiche di diversità culturale e inclusione sociale nei musei, ha tuttavia sottolineato come questo meccanismo, benché nasca in buona fede, evidenzi in realtà una disparità di opportunità nel dialogo fra i soggetti. Chi accoglie tende infatti a rivolgersi all’altro con strumenti e identità sue proprie che spesso ci portano a far coincidere le strategie messe in atto a favore dell’integrazione con quelle dell’educazione.
Un’analisi pungente che rimette in discussione le dichiarazioni d’intenti di chi fa e trasmette cultura.
La ricercatrice, che prende in analisi in particolare il dialogo interculturale, osserva prendendo a prestito le parole di Richard Sandell, come le istituzioni culturali “siano inequivocabilmente coinvolte nelle dinamiche della (dis)uguaglianza e nei rapporti di potere tra gruppi diversi grazie al ruolo che essi giocano nella costruzione e nella diffusione di narrative sociali dominanti. Le istituzioni culturali non sono affatto neutre. Quello che decidono di rappresentare diventa fatto: si rafforzano stereotipo, si segmentano pubblici etc. Quindi la responsabilità è enorme. Promuovono certi valori a scapito di altri e quindi fanno trend. Essi hanno una precisa responsabilità di misurarsi con questioni di diversità e uguaglianza”
Il modo con cui ci approcciamo alla diversità dunque, ne condiziona la rappresentazione, il che, quando si parla di strutture custodi di patrimoni condivisi, può finire per spostare tendenze in una direzione piuttosto che in un’altra, contribuendo a ridisegnare o a cristallizzare la cultura con ricadute tangibili sulle scelte politiche, la vita sociale e il diritto.
Come fare allora a istituire un dialogo paritario tra i soggetti che compongono la nostra “multi-società”?
La risposta, secondo Simona Bodo, risiede nel terzo spazio, quello spazio vuoto cioè che intercorre tra due individui che si incontrano, uno spazio che non è ancora stato attraversato e che per questo può essere immaginato e ricreato insieme da zero. Saranno allora “spazi terzi” tutti quegli spazi in cui “gli individui siano in grado di oltrepassare i confini di appartenenza e diventare creatori della propria identità, invece di vedersela automaticamente attribuire in base a criteri univoci. […] Spazi in cui, riprendendo la definizione Unesco di patrimonio del 2003, i musei sono chiamati a riconoscere e accettare che il patrimonio possa essere costantemente ricreato da comunità e gruppi (inclusi quelli tradizionalmente emarginati dai circuiti consolidati della cultura) e non esclusivamente da una ristretta comunità professionale”
Quel vuoto in mezzo a noi, quello spazio che sta tra due individui che si incontrano è quindi la chiave per cominciare a ricreare e ad agire insieme la cultura. Un approccio che vale per i musei ma che vale anche per il teatro, quando per esempio propone a migranti, persone con disabilità o terza età, laboratori dagli esiti spettacolari obbligati che spesso rivelano autori e attori straordinari ma che tendono a circoscrivere la nascita di nuove e importanti relazioni all’urgenza del momento.
Un pensiero su cui i registi e gli attori del Teatro ITC di San Lazzaro si stanno interrogando da tempo, come ci ha raccontato l’attrice Micaela Casalboni nella conversazione che trovate più avanti nella monografia.
E da parte del pubblico? Cambia qualcosa? Per noi del Progetto Calamaio no, o almeno questa è la conclusione a cui siamo arrivati a seguito del nostro laboratorio di educazione alla visione. L’entrata a teatro e la successiva rielaborazione degli spettacoli da parte degli educatori e degli animatori con disabilità del gruppo ha infatti permesso di ripensare le visioni in chiave interpretativa a livello personale ma anche di farci conduttori nella formazione di critici e artisti sul tema dell’accessibilità, nelle sue tre componenti principali: ingresso, accoglienza, fruizione.
Fare per e fare con, una differenza che da trent’anni è il marchio di fabbrica del Progetto Calamaio e che ora, finalmente, comincia a trovare spazi istituzionali di confronto.
Un presupposto semplice ma a suo modo rivoluzionario, una spinta per contribuire a ricomporre lo scarto tra la comunità, non più incalzata a consumare passivamente prodotti culturali e gli spazi stessi, concepiti non più per essere visitati ma come luoghi di relazione, protagonisti di incontri e processi in continua evoluzione
3.3 Accessibilità. Pubblicità o progresso?
“L’accessibilità ormai è diventata una moda, quasi tutti i contesti, dalle palestre, agli spazi culturali, ai bar, agli alberghi, la usano per farsi pubblicità”.
Un’affermazione senza peli sulla lingua, come è nello stile di chi l’ha pronunciata. Sono parole, qualcuno di voi forse le avrà riconosciute, del giornalista con disabilità Claudio Imprudente, uno dei fondatori del Centro Documentazione Handicap di Bologna e del Progetto Calamaio, che settimanalmente affianco nella stesura dei suoi articoli.
Da un certo punto di vista, ho pensato, difficile caro Claudio darti torto… L’accessibilità è un valore aggiunto e apre senza dubbio l’ingresso a nuovi pubblici potenziali, confrontarsi con la disabilità è politicamente corretto e si potrebbe addirittura arrivare a trarre la conclusione che chi la mette in atto è qualcuno che “si comporta bene”. Adeguamento ai nuovi target ma nobili intenti. Un’ottima combinazione, certamente, per le strutture ospitanti che sembrerebbe mettere tutti d’accordo.
L’affermazione di Claudio tuttavia insinua un dubbio non tanto sugli intenti ufficiali ma su quanto tali strutture abbiano conoscenza e consapevolezza reali di quelle che sono le esigenze e i bisogni della persona con disabilità, che non sempre si limitano a un’entrata agevole, a un sorriso o a biglietti ridotti al cinema e a teatro.
Allo stesso modo si potrebbe rispondere che se la moda esiste è perché c’è stata negli ultimi anni una richiesta, che le persone con disabilità, soprattutto quelle giovani, come i dati Istat ci hanno dimostrato, fruiscono più di prima degli spazi cittadini e dei luoghi deputati al divertimento e allo svago, il che, va detto, è un grande progresso.
E poi, si sa, non esisterà mai uno spazio accessibile per tutti, parlare di disabilità è in fondo parlare di umanità, tante e sottili sono le diversità all’interno della stessa, e ciò che potrà andare bene per qualcuno sicuramente non lo sarà per qualcun altro. La differenza, per tornare al discorso di Simona Bodo, si misura a nostro parere nei luoghi della cultura soprattutto sul piano della restituzione, sul come cioè in termini di comunicazione, pratiche e approcci l’immagine della disabilità verrà poi esternalizzata.
Un aspetto che tocca nel profondo la questione formativa riguarda poi, per dirla con Silvia Mascheroni: “il salto di ruolo compiuto dai protagonisti dei progetti: da testimoni della loro comunità e dunque destinatari del progetto, a interpreti dei bisogni e delle istanze dei loro pari, con la consapevolezza e la responsabilità di poter diventare i risolutori di quel disagio, di quelle difficoltà vissute nell’esperienza dell’incontro con il patrimonio, poiché con la professionalità acquisita si promuove una comunicazione non più incompleta e incomprensibile all’interno degli spazi. La mediazione è forte di conoscenze esperte, ma attenta alla storia di ognuno, si arricchisce di altri percorsi e di altre narrazioni, costruendo una mappa sensibile condivisa, sollecitando uno sguardo critico e attivo”
Con quest’approccio il Progetto Calamaio ha fatto il suo ingresso a teatro, ricavandone l’occasione per creare un terzo spazio.
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