2. Prologo. Attore e spettatore. Un incontro en plein air
- Autore: Lucia Cominoli
- Anno e numero: 2017/9 (monografia sul teatro)
Non è indifferente, è addirittura essenziale che lo spettatore sia un uomo fatto di carne, la cui sensibilità, più fisica che cerebrale, possa accogliere in ogni momento del dramma il mistero e l’interrogativo diffuso che nascono dal vento e dalle stelle
Proverò ora a cominciare da ciò che accadde prima, come ogni prologo che si rispetti. Tutto quello che gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio di Accaparlante di Bologna hanno realizzato intorno al fare e all’osservare il teatro ha preso infatti vita dalla tensione verso un luogo, un luogo ambito, sognato, immaginato e infine ripensato collettivamente da zero.
Uno spazio vuoto insomma, quello del nostro teatro esteriore e interiore, in cui entrare e sperimentare alla luce del sole, senza prestare attenzione ai limiti e alle difficoltà di ognuno di noi, ma piuttosto un teatro en plein air, per usare più precisamente le parole del linguista e semiologo Roland Barthes, che negli anni Cinquanta si innamorò dello spettacolo, delle sue origini e soprattutto della visione “epica” che ne ebbe il regista tedesco Bertolt Brecht.
Il teatro en plein air per eccellenza che ci propone Barthes, cui anche noi abbiamo idealmente attinto, è il teatro della tragedia antica, il theatron, il luogo dello sguardo che nella Grecia del V secolo a.C. raggiunse l’apice della fioritura divenendo rappresentante di una società che in quel luogo riconosceva l’occasione per rispecchiarsi e porsi domande fondamentali: chi siamo? Chi sono gli dei? Come si fa politica?
Quanto le passioni dell’inconscio e il rapporto con la tradizione condizionano il nostro modo di percepire le relazioni tra gli uomini, la giustizia, il sesso, i costumi e il potere?
Ciò che ci è sembrato subito interessante tuttavia è che le domande su cui il teatro greco si è interrogato, pur attingendo a piene mani dalla sfera del sacro, non sono mai stati quesiti puramente esistenziali. Peculiarità straordinaria di quel mondo fu infatti la capacità di esercitare i linguaggi della poesia e della filosofia attraverso la techné, l’artigianato cioè del fare artistico, una peculiarità che permise ai cittadini di allora di avvalersi naturalmente della cultura come di una modalità pratica e immediata per dialogare più consapevolmente sul presente.
Ad aggiungere a questo dialogo un’energia senza precedenti, ce ne siamo accorti sulla nostra pelle, fu l’elemento che tutt’oggi ne rende possibile l’esistenza: il corpo. Il teatro greco ci insegna che, così come non c’è intimità maggiore del guardarsi negli occhi, allo stesso modo non c’è teatro senza corpo, il corpo vivo dell’attore, colui che agisce, e il corpo vivo dello spettatore, colui che osserva, che di quell’intimità fisica di sguardo saranno chiamati a farsi protagonisti e custodi o per meglio dire “testimoni”.
Responsabile per eccellenza della testimonianza e punto di vista critico sulle conseguenze derivate dai fatti è il coro, in genere la voce del popolo, che all’unisono riflette sulle implicazioni morali e politiche dei singoli avvenimenti, conducendo così lo spettatore alla catarsi, la purificazione-liberazione cioè dalle passioni o dalle paure contingenti, resa possibile dal fatto di vederle rappresentate di fronte a sé, al centro della scena.
Il luogo dove questo scambio si esplicita ne amplifica decisamente la spinta e il senso, complice la circonferenza dello spazio-cerchio, un grande occhio simbolico dove tutti non solo possono democraticamente assistere allo stesso modo all’azione ma vedersi e percepirsi gli uni con gli altri come parti di un’unica comunità.
Sopra di noi nient’altro che il cielo, intorno a noi la natura così com’è. Quello del theatron dunque è un luogo aperto, scoperchiato, privo di limiti strutturali se non quelli funzionali all’entrata e all’uscita di pubblico e artisti. In quel luogo però ci si ferma, si compie la scelta di essere lì, insieme a qualcuno di uguale e diverso da noi, che in quel momento decide di compartecipare della nostra esperienza. Per capire meglio la profondità di questo meccanismo apparentemente labile, usiamo ancora le splendide parole di Barthes:
“La natura offre alla scena l’alibi di un altro mondo, la sottomette a un cosmo che la sfiora con i suoi riflessi imprevisti. L’immersione dello spettatore nella polifonia complessa del teatro en plein air (sole che si nasconde, vento che si alza, uccelli che volano via, rumori della città, fresche correnti) restituisce al dramma la singolarità miracolosa di un evento che ha luogo una sola volta. La potenza del teatro en plein air dipende dalla sua fragilità: lo spettacolo non è più un’abitudine o un’essenza, è vulnerabile come un corpo che vive hic et nunc, insostituibile, che può tuttavia morire in un istante. Da qui deriva il suo potere di lacerazione, ma anche il dono della sua freschezza, che purifica le scene dalla polvere, l’attore dal suo mestiere, i costumi dal loro artificio, e fa di tutto ciò l’insieme aleatorio di una bellezza che crediamo di non poter più vedere così ordinata”
Lo spettacolo quindi come organismo vivo, atto generativo, fragile e vulnerabile perché imprevedibile nello scambio dell’incontro tra attore e spettatore, in cui chiunque in qualsiasi momento può interrompere, modificare, condizionare, direbbero i critici più contemporanei, la temperatura dell’azione.
Attore e spettatore sono il centro di quest’esperienza viva, senza la loro compresenza il teatro non esisterebbe. Lo riassume con chiarezza l’antropologo Piergiorgio Giacché:
“Non è possibile a teatro sentirsi solo – come può avvenire o si può avvertire al cinema, anche quando si è in tanti. Il ‘pubblico’ a teatro è un NOI che non si riesce a eliminare nemmeno quando ciascun spettatore celebra e crede alla sua singolarità.
La sua sensazione e opinione è singolare, ma la sua partecipazione è corale anche quando come nella nostra epoca – non c’è più una collettività sociale sostanziosa e sostenuta dai singoli.
Il teatro – sia pure per anacronismo ma ancora di più per immanenza e fisicità – riproduce il corpo del pubblico e lo impone ad ogni singolo spettatore, che lui lo voglia o no; e questa sensazione di appartenenza fa parte della fruizione e la influenza ed a volte diventa determinante”
Accedere agli interrogativi del vento e delle stelle, sostituire la materia cerebrale con la corporeità, diventare noi. Il teatro è un cerchio che si può disegnare dappertutto. Cominciamo.
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