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autore: Autore: Mauro Sarti

In Africa è povera anche l’informazione

NAIROBI – Un incontro, a settembre 2007, tra giornalisti africani e giornalisti italiani. Uno scambio di materiali e informazioni sulle guerre dimenticate (centinaia) dell’Africa al di sotto dell’equatore. Finisce così, all’ambasciata italiana di Nairobi, il primo confronto tra la stampa estera presente in Kenya nei giorni del World Social Forum. A proporlo è padre Renato “Kizito” Sesana, giornalista e grande conoscitore del continente “nero” che incassa subito l’adesione della Federazione della stampa (Roberto Natale), dell’agenzia Redattore Sociale e di tutti quelli che la sera del 24 gennaio sono riusciti a raggiungere il centro di Nairobi per partecipare all’appuntamento promosso dalla Tavola della Pace di Flavio Lotti. Chi parla dell’Africa? E quando? Con quali immagini? Dove nascono le notizie nel continente più dimenticato di tutti? La guerra alla povertà in Africa si combatte anche dando più voce all’informazione, alzando quel volume che per troppo tempo è rimasto sottotono, ripetono in tanti. Poche radio commerciali, pochissime “comunitarie”, giornali un po’ troppo “governativi” e molti free-lance, tra fotografi e reporter, che cercano di far pubblicare in occidente – tante volte senza riuscirci – i racconti di quel poco che si riesce a sapere dell’Africa.

Il World Social Forum di Nairobi è stata così un’occasione anche per il fare il punto sulla situazione dell’informazione dall’Africa sul versante italiano. Giulietto Chiesa (oggi parlamentare europeo), Roberto Natale (Fnsi), Massimo Alberizzi (corrispondente del “Corriere della Sera”), padre Giuseppe Caramazza (direttore della rivista “New People”) e padre Renato “Kizito” Sesana della comunità “Koinonia”, Enzo Nucci (fresco di nomina come responsabile della sede di corrispondenza della Rai da Nairobi), la presidente dell’associazione stampa estera a Nairobi, Ulrike Kolea e la responsabile di “The Big Issue Kenya”, Diane Sengor (giornalista senegalese che ha realizzato anche il giornale quotidiano del Wsf, “African Flame”). Tante domande, poche risposte. E sempre le stesse. “Dall’Africa si riportano sempre storie negative – apre la discussione Ulrike Kolea – ma non è solo un problema dell’Africa. Qui è difficile seguire tutto perché l’Africa è grande. L’Europa è grande come solo il Sahara. E spesso mancano le immagini che accompagnano le notizie, così le storie sono meno vendibili. E non interessano ai giornali”. Per Dian Sengor serve invece “un’informazione sull’Africa fatta dagli africani e una maggiore formazione che porti a una più alta sensibilità pubblica”. “Mi capita di dovere ascoltare spesso i media internazionali – continua – per sapere quello che succede qui. Manca una coscienza nazionale e “The African flame” è una delle poche esperienze d’informazione fatta dagli africani per l’Africa. L’Italia ha e può avere un ruolo importante: non per niente la prima radio locale di Nairobi è nata grazie a una Ong italiana”.

E la grande stampa? Massimo Alberizzi, del Corriere, parla dell’ignoranza che c’è tra i giornalisti. Il vero problema – dice – è che non c’è specializzazione: “Esiste il giornalista sportivo, quello economico, quello esperto di borsa e finanza… Ma dov’è il giornalista esperto di Africa? Cosa vogliono leggere gli italiani dell’Africa?”. Enzo Nucci (Rai) racconta la sua “splendida anomalia”: “Solitamente quando un’azienda decide di aprire una sede all’estero ci sono ragioni di carattere economico e politico, e ad esempio questo può essere successo certamente per la Cina. Ma l’Africa non è mai rientrata in un progetto organico dell’azienda Rai, l’unica fonte d’informazione costante da questo continente è la rivista “Nigrizia”, l’agenzia Misna, oppure bisogna parlare con padre Kizito per sapere, dal di dentro, quello che sta succedendo. C’è poi un problema di non conoscenza: l’Africa è un continente composto da 54 stati, dove si parlano 2.100 lingue diverse (dal fondo della sala replica Kizito: “Io ci ho messo tre anni per capire qualcosa del Sudan…”). Ma la Rai che arriva in Africa è comunque un evento. C’è però un’altra faccia della medaglia: “Non basta mettere la bandiera su Nairobi – continua Nucci – serve continuità. Anche in questi giorni sul Wsf c’è un deficit d’informazione: la notizia è sottotono, i pezzi vengono messi nelle edizioni meno importanti dei Tg e non ci sono tanti giornalisti italiani. Ma l’Africa è la culla dell’umanità e merita di più. Diceva un pensatore africano: “Se Adamo ed Eva fossero nati nel Texas, la Cnn ce lo ricorderebbe tutti i giorni… ”.

Per Giulietto Chiesa “milioni di persone non sanno nulla di ciò che succede in Africa. È il segno che non interessa quello che accade qui? Falso. Quello che passa sull’Africa è solo quello che decidono coloro che hanno il potere di costruire l’agenda dell’informazione. Il sistema della comunicazione oggi fabbrica soltanto sogni e menzogne. Bisogna fare dell’informazione una battaglia politica”. “La paura dell’altro” è un altro dei difetti cui fa invece cenno padre “Kizito”: “Abbiamo parlato di provincialismo, ma anche noi giornalisti missionari molto spesso ci portiamo dietro non solo il provincialismo, ma anche il razzismo. Dobbiamo lavorare per tirarlo via: se siamo coscienti di questo dobbiamo fare un’informazione più seria”. Saluta citando l’esperienza di “The big issue Kenya”, il primo giornale di strada africano battezzato proprio durante i giorni del Forum e che nasce da un progetto che vede insieme l’editore del magazine on line www.newsfromafrica.org, Koinonia e il Kenya Young Congress Foundation di Kibera (Nairobi).
Chiude Roberto Natale, giunta Fnsi: “Questo è un lavoro che continua. Ci siamo incontrati, giornalisti e movimenti, con l’impegno di aiutarci a vicenda. Ne è nata un’alleanza singolare: Tavola della pace, enti locali, sindacato, riviste missionarie, agenzie del sociale. E il fatto che ora esista una sede di corrispondenza della Rai a Nairobi è un primo grande passo. Ma non basta: ora bisogna continuare a impegnarsi per la riforma del sistema dell’emittenza e per la riforma della Rai. Una riforma che coinvolge necessariamente sia i giornalisti che una buona parte della società civile”.
 

A tutto campo

Questa ad Andrea Canevaro, è la prima di una serie di interviste fatte a persone note che operano nel campo del sociale. Una serie di domande che non riguardano un argomento in particolare ma che danno una visione a tutto campo del tema. Una chiacchierata non specialistica per guardare l’orizzonteAndrea Canevaro è uno dei tre professori di “pedagogia speciale” che esistono in Italia: Canevaro a Bologna, Montuschi a Roma, Smeriglio a Messina.. Solo tre, perché “di più sarebbe uno spreco di risorse” sembrano avere pensato i potenti organizzatori delle università italiane. Per questo deve girare l’Italia in lungo e in largo, correre a convegni, seminari. Valutare progetti, trovare il tempo per fare ricerca. E stare con gli studenti che frequentano il dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna di cui è il direttore. Con lui volevo fare una chiacchierata a tutto campo poi, sfogliando gli appunti che mi sono rimasti sul blocco, ho visto che a tante questioni non siamo riusciti a dare risposta. Con Canevaro ho così parlato di scuola, di formazione, d’integrazione. Di tecnologie e di ricerca.

L’impressione è che l’handicap sia un tema che viene spesso vissuto come superato, o messo da parte. Questo vale sia per l’immagine esterna che hanno le persone handicappate, per l’integrazione, per la ricerca scientifica. E’ d’accordo?

In parte sì e in parte no. Ho impressione che ci sia sempre la necessità di fare diventare eclatanti le cose, di stagioni tormentate. Invece servono tempi lunghi: ad esempio non è vero che la ricerca si è fermata. Se seguiamo la stampa estera vediamo che c’è un maggiore equilibrio, c’è più scienza e meno cronaca. E non solo per parlare del campo delle biotecnologie, ma anche facendo molta attenzione a quelle che si chiamano “risorse neurali”. Lo studio di cellule matrici di altre cellule, la cui funzione è attiva per tutto l’arco della vita… E’ una ricerca che non ha ancora una applicazione pratica, ma va in tutt’altra direzione della “programmazione della specie” che ha come obiettivo la riduzione dell’handicap. Mi sembra una ricerca fruttuosa e interessante.

E le tecnologie?

Si lavora molto sugli ausili. Ad esempio mi viene in mente come si stia cercando di educare una struttura informatica a sottotitolare un film per le persone sorde. Alcuni tecnici sono al lavoro utilizzando sperimentalmente la pellicola di “Pinocchio”, e questo procedimento aiuta molto la comprensione. Ma c’è un problema: bisogna educare voce per voce fino ad arrivare alla costruzione di una “banca di voci” che permetta poi di selezionare quella più simile fino ad arrivare alla sottotitolazione vera e propria. Sono a buon punto.

Eppure le risorse messe a disposizione non sono tante.

Il lavoro sulle tecnologie aiuta la produzione per la vita standard, la vita di tutti i giorni. E rendere flessibili gli standard comporta anche la diminuzione della disabilità: la produzione speciale è più cara, quella standard costa molto meno.

Se guarda oltre il Duemila cosa vede?

Vedo un rischio soprattutto: quello che porterà alla divaricazione tra una parte del mondo e l’altra. Tra il nord e il sud: nel 2006, secondo dati Unicef, una parte del mondo vivrà una diminuzione di persone handicappate del 14%; l’altra parte del mondo avrà un aumento di handicappati del 47%.

E in Italia?

In Italia vedo invece passi avanti per quanto riguarda l’integrazione. Certo, sono più privilegiate le zone d’Italia che hanno maggiore capacità organizzativa, e per questo io credo che bisognerebbe estendere a tutto il Paese l’esperienza dei “poli handicap”. Strutture che seguono la persona handicappata lungo tutto l’arco della sua vita, e quindi anche in età adulta. Quando invece in tanti credono ancora che basti trovare un lavoro, un primo inserimento, per risolvere la questione. Non è così, basta un evento non previsto, la morte di un familiare, la perdita del posto, per tornare indietro di anni. Naturalmente molto conta anche la scuola, e quello che per gli handicappati è il sostegno.

Parliamo di scuola, allora. E partiamo proprio dal sostegno.

Credo che ci sia stata un’enfasi eccessiva verso l’integrazione scolastica. Intendendola come integrazione “tout court”. Il mio parere è che bisogna storicizzare il sostegno, e non limitarsi ad una mera affermazione del “diritto al sostegno”. Non dico che non sia stata un’esperienza importante, ma bisogna anche guardare avanti: utilizziamo le risorse che sono a disposizione del sostegno, sblocchiamo i bilanci e investiamo quei soldi per fare cose diverse, produrre anche “servizi leggeri” che utilizzano le risorse che ci sono. Perché chi porta un bisogno porta sempre anche una risorsa.

Cosa manca in classe? E fuori dalle aule?

Servono insegnanti specializzati che siano in qualche modo stabilizzati, e soprattutto legati e presenti su un determinato territorio. Poi, non dimentichiamolo, siamo ancora molto indietro con gli interventi di carattere strutturale. Ancora oggi è una eccezione trovare un bagno attrezzato nelle scuole dove non frequentano più bambini con handicap, la tendenza è quella di sbaraccare tutto appena il bambino cambia scuola, oppure realizzare strutture posticce, in legno, smontabili poi appena non vengono più richieste per quel bambino specifico.

L’istituzione scolastica sembra ancora fare acqua da molte parti.

L’integrazione deve entrare nei programmi, non dimenticando anche di valorizzare il sapere della lingua italiana per usare i vocaboli giusti, un linguaggio corretto. Leggo ancora su molti giornali la parola “Down” con la lettera minuscola. In pochi sanno che stanno parlando del dottor Down, un medico che visse nello stesso villaggio dove abitò per quarant’anni Darwin. E poi: chi sa che in Italia sono 800.000 le persone Down?

Questione di programmi, di indirizzi ministeriali. O no?

A scuola non si studiano queste cose e invece andrebbero inserite nei programmi di biologia, di fisiologia… Una cosa che mi da molta amarezza è che molti bambini dopo avere passato magari cinque anni in classe con un bambino Down, facendo una bella esperienza, non trovano altri termini per definire questo handicap che indicare il nome del loro caro compagno di scuola. Questo non mi basta proprio: la scuola deve trasmettere conoscenza, deve trasmettere sapere.

Oppure colpa della politica?

La politica risente molto della superficialità cui accennavo prima. porta visioni parziali che hanno poi scarsa efficacia. Ad esempio io credo che bisogna mettersi a lavorare molto sulle “professioni di aiuto”. Quando nasce un bambino si possono prevedere tutte le tappe che interesseranno la sua vita (il pediatra, la maestra, poi il dentista…): bene, se durante la sua vita va incontro ad un abbandono deve intervenire allora il Tribunale dei minori. Mi domando: sono preparate queste persone? queste professionalità ad intervenire su casi del genere? Si conoscono tra loro i vari soggetti che vengono mano a mano chiamati in causa? Credo che bisogna soprattutto intervenire aiutando, formando le persone che già hanno un ruolo specifico nelle tappe dello sviluppo di un bambino, di una persona.. Coordinandoli e dando loro strumenti adeguati per affrontare i casi più diversi. Non vedo altre strade.

L’handicap, oggi, passa spesso anche in tv. La sua opinione?

Faccio parte della commissione Rai sull’handicap e la cosa che più mi ha colpito è la tendenza dei dirigenti Rai a intervenire sull’handicap con quelle che loro chiamano “pillole”: interventi estemporanei, di qualche minuto, buttati dentro al maggior numero di trasmissioni televisive e interpretati da personaggi noti del mondo dello spettacolo. Non credo assolutamente a questo approccio, sono cose pericolosissime: non mi fido, non ho alcuna certezza che questi personaggi famosi possano dire cose sensate e costruttive. Questo è un processo di vendita, non di comprensione.

Una proposta?

Bisogna invece lavorare per fare programmi che permettano di sviluppare delle conoscenze. E gli spazi ci sono: penso a “Sereno variabile”, a “Quark”, a “Linea verde”… Servono meno dibattiti e più linee di comprensione. Stavo pensando ad un programma sulle invenzioni, tutte le invenzioni. Quasi sempre sono collegate alla riduzione dell’handicap.

Donne forti e donne e basta DONNE FORTI, DONNE E BASTA

Aida è una donna sulla sessantina, con i capelli bianchi e un fisico
vigoroso e asciutto. vive in una casa modestissima, che da su una strada molto
trafficata: il suo desiderio sarebbe di avere davanti casa un piccolo passo
carraio per potere portare fuori la figlia con la sua poltrona a rotelle.
Angela è una ragazza-bambina di ventiquattro anni; non si muove, non parla,
emette un mugolio continuo che risuona nel registratore come costante motivo di
fondo della nostra intervista. la madre, che è sola, in quanto ha avuto questa
figlia da un uomo che non si è fatto più vedere, la solleva dal divano letto,
la cambia, la imbocca, le prepara tutti i pasti tritati, altrimenti lei si soffoca.

È soltanto una delle otto "voci" che Giuliana Ronzio e Paola Galli,hanno raccolto nel libro "Madre e Handicap" pubblicato da Feltrinellilo scorso anno. Otto testimonianze drammatiche, intense, falsate talvolta dallapresenza di un marito "che parlava per", dall’avere un microfono cheregistrava implacabile le storie quotidiane di queste famiglie. Un anno dopoPaola Galli torna da Ai-da. Stessa casa, stessa strada molto trafficata. Erarimasta d’accordo che sarebbe tornata a trovarla, era uno dei casi che l’avevamaggiormente colpita. "Angela è morta, lasciatemi in pace… non vogliopiù sapere niente!". Una storia tragica, una donna sola, una figliagravemente handicappata,… un rapporto simbiotico con la figlia. Paolo eGiuliana non sono riuscite durante l’intervista ad isolare all’interno del filonarrativo la vita di Aida da quella di Angela "come se questa donna dallapersonalità così spiccata, dal senso di autonomia dall’uomo ben preciso, nonriuscisse proprio a esistere senza que-
sta presenza fissa della figliola". Giusep-pina, losca, Eleonora, Paola,raccontano altre storie. Alcune più serene, altre soltanto diverse. Un mondo di"mamme" protagoniste e possessive, di donne forti. Ma soprattutto didonne… e basta!, non troppo dissimili dalle altre.
Giuliana Ponzio e Paola Galli sono amiche da tempo. Si sono conosciute a scuola,all’Istituto Tecnico Einstein di Firenze, dove entrambe insegnano storia eletteratura. Giuliana, divorziata, ha una figlia, Alessandra, di 28 anni. Haaiutato la madre nella stesura di questo libro anche se in famiglia avevanoreagito un po’ male a questa collaborazione, temendo che il trovarsi a confrontocon tante "storie tristi" avrebbe influito negativamente su di lei,sul suo handicap. Alessandra, infatti, è stata colpita da una tetraparesispastica e questo le comporta una certa difficoltà nello spostarsiautonomamente, nel prendere i mezzi pubblici,…
Tutte barriere che comunque è riuscita a superare, comprese quelle culturali.Alessandra è iscritta alla facoltà di Psicologia ed è in attesa di un figlio.Per Giuliana la presenza dell’handicap in una famiglia deve essere visto insenso emancipante. "Bisogna cercare di vedere l’handicap con degli occhipositivi e per fare questo non può’ essere sufficiente il buon senso, il sensocomune. Bisogna avere il coraggio di andare controcorrente e di ragionare concriteri diversi. Molte madri poi si nascondono dietro al fatto di avere figlihandicappati per cercare di evitare qualsiasi sforzo per loro stesse. Potrebbeessere utile al contrario utilizzare anche strade "più maschili"rivolte a combattere un certo eroismo che ancora arde in molte di queste madri.Non bisogna avere paura di farsi aiutare!
In "Madre e handicap" non si parla di servizi, di struttureassistenziali, non era questo l’obiettivo delle autrici. Il taglio èsoprattutto psicologico, sono numerose le citazioni di Freud nella prima partedel libro ed anche i capitoli che introducono le interviste alle madri sonostate costruiti in base a questi criteri. Quello su "Il rapporto con l’uomo"è stato curato da Paola Galli. 52 anni, Paola abita in un quartiere popolaredi Firenze dove ha sede la comunità di base de L’Isolotto, una delle tantecomunità sparse per l’Italia che si riconoscono nell’area della sinistracattolica. L’intervista a Patrizia è indicativa sul dato comune che le autricihanno riscontrato nel rapporto madre/marito: "Questo rapporto cheattraverso le parole di entrambi, si rivela davanti a noi sereno e affettuoso, eche quindi risulta un elemento rassicurante per lei, nasconde però al suointerno il pericolo di sempre, quello cioè di porre la donna in una posizionedecisamente subalterna. Come non interpretare così le frasi e l’atteggiamentodi Patrizia, che tendono sempre a ribadire quello che Carlo dice? La figuramaschile appare ancora una volta come il canale attraverso il quale vienevissuto il rapporto con l’esterno: la gente, le istituzioni, ecc. ma anchel’elemento determinante del modo come è stato impostato il rapporto tra igenitori e il figlio (sereno e tendente a sdrammatizzare). La fiducia e lostimolo a vivere l’esperienza dell’handicap in modo meno ansioso per la presenzadel marito – sembrano essere pagati da Patrizia con questo ruolo di"spalla", che smorza i suoi gesti e lascia a volte in sospeso, comesfocate, le sue parole ("Lui con questo suo modo… non c’è gusto; ineffetti si parla dei problemi; ma in quanto arrivare a litigare…"); gestie parole che lasciano presupporre una vivacità interiore, una voglia di esserese stessa che abbiamo visto soltanto affacciarsi timidamente qua e là".
Giuliana Ponzio e Paola Galli erano partite dal presupposto che l’handicapcostituisse una formidabile presa di coscienza per uno stravolgimento dei valoritradizionali più triti e conservatori. Non è stato così. Nella maggioranzadei casi l’handicap era solo l’aggravante, la disgrazia imprevedibile, la croce.Ma per Paola Galli non ci si deve arrendere davanti al discorso trainante legatoalla "diversità" dell’essere donna. "Il problema dell’handicapè in parte riconducibile al movimentofemminista. Oggi per le donne le cose sono molto cambiate, e la stradina. Non è lo stesso perl’handicap, ed anche il movimento delle donne deve avere un ruolo in questosenso e non può pensare di arrestarsi proprio ora".
La storia di Paola (non l’autrice del libro) è avvincente e positiva. Ha trefigli di cui una, Claudia, è mongoloide. "Vivo in un mondo dove le personeche frequento non vivono la diversità come un problema…; quando capisci cheun albero può essere dritto o storto, ma è sempre un albero…A quel punto lìè la società inadempientem non siamo noi, io e Claudia".
Ma tu veramente no ti sei sentia mai sola in questa storia?
"Una volta che avevo accettato la bambina e avevo detto che era mia, nonvolevo nessun aiuto. Mio marito era in casa, le voleva bene, ma dai dottori l’hoportata sempre io e forse non perchè lui non lo volesse fare, ma ero io che nonglielo permettevo. Io credo che bisogna avere degli interessi oltre ai figli; ioora ho cominciato a muovermi. A volte ci si fa prendere della pigrizia, dallastanchezza…"
Dai ricatti sentimentali…
"Si, è vero, a volte bastano due giorni; fa bene a loro e fa bene a noi.Quando mi sono assentata per due giorni la scorsa primavera, loro, mio marito edue figlie, sono sopravvissuti".