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autore: Autore: Monica Tassoni

2. La cooperazione allo sviluppo italiana e la Convenzione ONU: a che punto siamo?

Si calcola che il 10–12 % della popolazione mondiale sia composta da persone con disabilità e, di queste, la maggior parte risiede nei paesi poveri. Tutte insieme le persone con disabilità rappresenterebbero la “terza nazione più popolata del mondo”, dopo la Cina e l’India. Queste persone poi hanno molta più probabilità di vivere in condizioni di povertà, non riuscendo ad avere accesso al cibo, all’acqua, ai servizi minimi.
Da questa constatazione parte il nostro lavoro, come ONG, affinché i progetti di cooperazione allo sviluppo, a partire da quelli che noi stiamo preparando e gestendo, siano inclusivi dei bisogni e riconoscano i diritti delle persone con disabilità.
Ma il mondo della cooperazione allo sviluppo sta affrontando il tema? E in che modo?
Vorrei partire facendo un quadro generale sull’attuale situazione della cooperazione allo sviluppo in Italia e dai risultati di quello che io credo sia stato il primo tentativo e, forse, unico in Italia di avere un quadro il più esaustivo e completo possibile sui progetti di cooperazione allo sviluppo che includono la tematica della disabilità.
Il quadro della cooperazione internazionale è cambiato molto negli ultimi 10 anni e, se una volta la cooperazione allo sviluppo era uno dei pilastri su cui si reggeva la politica estera italiana, ora la cooperazione non passa più per progetti di lungo respiro ma è condotta verso le emergenze, quindi con interventi di breve respiro, ma di apparente grande efficacia e largo impatto mediatico.
Anche dal punto di vista dei finanziamenti vediamo che dagli anni ’70 le risorse finanziarie destinate alla cooperazione allo sviluppo da parte dell’Italia si sono sempre più ridotte fino all’ultima finanziaria che ha stabilito il record in negativo nello stanziamento per l’aiuto ai paesi in via di sviluppo. Rispetto al 2010 abbiamo assistito a un taglio del 45%, portando a 179 milioni di euro i fondi a disposizione nel 2011 (comprensivi delle spese interne di gestione), per la cooperazione allo sviluppo: la cifra più bassa degli ultimi 20 anni.
Un altro aspetto su cui vorrei richiamare l’attenzione è come negli ultimi anni la cooperazione allo sviluppo italiana non è più un’esclusiva della dimensione governativa, sul piano istituzionale, né delle ONG formalmente riconosciute, sul piano non governativo. E, forse, neppure un’esclusiva del mondo non profit. Altri soggetti istituzionali (gli Enti Locali e Regionali, le Università), altri soggetti non governativi (associazionismo, Onlus, fondazioni, commercio equo e solidale, microcredito, turismo responsabile e anche mondo del lavoro, imprese, economia solidale, associazioni di migranti) negli ultimi 20 anni si sono affacciati al mondo della cooperazione, abitandolo a pieno titolo. Bisogna riconoscere, formalmente e sostanzialmente, il pluri universo degli attori di cooperazione e solidarietà internazionale, che agiscono secondo diverse forme e specificità (cooperazione internazionale allo sviluppo, cooperazione decentrata, cooperazione comunitaria, azioni di solidarietà).
In questo quadro in trasformazione si colloca l’approvazione della “Convenzione Internazionale sui diritti delle Persone Disabili” adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre 2006 che è diventata il punto di riferimento e stimolo per sensibilizzare i diversi attori della cooperazione sulla necessità di includere i contenuti della Convenzione e, in particolare, quelli dell’articolo 32 nelle progettazioni verso i Sud del mondo.
A livello Italiano, dopo la ratifica della Convenzione (ratificata dall’Italia nel febbraio 2009) sono state pubblicate e poi approvate nel 2010 le nuove linee guida sulla disabilità del Ministero Affari Esteri Italiano, prova di una sensibilità costante e crescente su questo tema.
Le linee guida sono il frutto di un lavoro congiunto che ha visto protagonisti persone con disabilità, esperti, ONG e istituzioni. Peccato che la carenza di fondi attuali metta a rischio una loro concreta applicazione.
Per promuovere i contenuti dell’articolo 32 Aifo, DPI Italia (Disabled People International –www.dpitalia.org) assieme ad altre 12 ONG europee che sono raggruppate nel Consorzio IDDC (International Disability and Development Consortium – www.iddcconsortium.net) nel 2006 hanno promosso un progetto finanziato dall’Unione Europea dal titolo: “Mainstreaming della disabilità nella cooperazione allo sviluppo”.
Il progetto prevedeva una serie di azioni a livello europeo finalizzate alla creazione di un nuovo approccio della cooperazione internazionale che tenesse conto delle necessità e delle risorse delle persone con disabilità che vivono nei paesi in via di sviluppo. Una delle azioni realizzate in Italia, e in altri 15 paesi europei, è stata quella di effettuare una mappatura di quelle organizzazioni italiane che a vario titolo e livello, occupandosi di cooperazione allo sviluppo, includevano la dimensione della disabilità nei loro progetti di cooperazione.
Questa attività ha coinvolto una variegata tipologia di enti: il Ministero degli Affari Esteri, Enti locali, ONG, Organizzazioni di persone con disabilità – DPOs (Disabled People Organisations), Università, Centri di documentazione e ricerca.
Sintetizzando i risultati, si è evidenziato che l’attenzione rivolta alla disabilità all’interno della cooperazione allo sviluppo proviene principalmente da ONG che hanno la disabilità come obiettivo generale o dalle DPOs e in parte anche dal Ministero degli Affari Esteri – Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo. Per il resto si tratta di attività discontinue e, nel caso degli Enti Locali, di finanziamenti a progetti sviluppati da altri attori. (I dati completi della mappatura sono disponibili sul sito del progetto in lingua inglese).
Ci troviamo quindi di fronte a una scarsa attenzione alle persone con disabilità e a progetti che, per la maggior parte, quando hanno come focus le persone con disabilità, sono prevalentemente limitati all’area medica o assistenzialista.
I vari attori della cooperazione hanno dimostrato poi di conoscere poco le politiche e le legislazioni sulla disabilità. Un altro punto da evidenziare è lo scarso coinvolgimento delle organizzazioni delle persone con disabilità in attività di pianificazione progettuale, esecuzione, monitoraggio e valutazione dei progetti di cooperazione.
Sinteticamente i punti critici su cui stiamo lavorando vanno nella direzione di:

  • costruire partenariati tra ONG di cooperazione e organizzazioni di persone con disabilità; infatti Aifo si è fatta promotrice di un accordo di rete che vede coinvolta l’ONG Educaid e alcune tra le più importanti federazioni e DPO di persone con disabilità, DPI e FISH;
  • accrescere le risorse destinate ai progetti inclusivi delle persone con disabilità;
  • passare da una concezione della cooperazione allo sviluppo come intervento umanitario, a un approccio basata sulla tutela dei diritti umani;
  • accrescere le competenze degli attori della cooperazione sul nuovo paradigma della disabilità attraverso l’elaborazione di curricula ad hoc e di manuali di formazione. Infatti, attraverso il progetto Mainstreaming, è stato prodotto un manuale sul ciclo progettuale inclusivo e coinvolte diverse università italiane (Roma, Padova, Bologna) con l’elaborazione di moduli formativi all’interno di master;
  • fare in modo che tutti i progetti, compresi quelli di emergenza, siano inclusivi dei bisogni delle persone con disabilità. Le persone con disabilità corrono un rischio molto più grande in caso di disastri naturali o in quelli causati dall’uomo rispetto alle persone senza disabilità. Quindi è necessaria una preparazione maggiore degli operatori dell’emergenza affinché i bisogni specifici delle persone con disabilità vengano presi tutti in considerazione. Ciò implica l’esigenza di assicurare finanziamenti per garantire che tali aspetti siano integrati nella progettazione e realizzazione di qualsiasi intervento. In questo settore è stato fatto ancora molto poco, unico punto di riferimento a livello nazionale è la Carta di Verona sul salvataggio delle persone con disabilità in situazioni di crisi ed emergenza (2007).

Abbiamo quindi ancora molto lavoro da fare affinché la Convenzione ONU sia conosciuta e applicata qui al nord come nel sud del mondo perché si passi dall’esclusione all’inclusione e all’uguaglianza.

Aifo – Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau
via Borselli 4/6 – 40135 Bologna
tel. 051/439.32.11 – fax 051/43.40.46
numero verde 800550303
www.aifo.it info@aifo.it

Art. 32 della “Convenzione Internazionale sui diritti delle Persone Disabili”

  1. Gli Stati Parte riconoscono l’importanza della cooperazione internazionale e della sua promozione, a sostegno degli sforzi nazionali per la realizzazione degli scopi e degli obiettivi della presente Convenzione, e intraprenderanno appropriate ed efficaci misure in questo senso, tra e all’interno degli Stati e, nella maniera appropriata, in partnership con rilevanti organizzazioni internazionali e regionali e con la società civile, in particolare con organizzazioni di persone con disabilità. Tali misure potranno includere, tra l’altro:
  • assicurare che la cooperazione internazionale, compresi i programmi di sviluppo internazionali, sia inclusiva e accessibili alle persone con disabilità;
  • agevolare e sostenere la formazione di capacità di azione, anche attraverso lo scambio e la condivisione di informazioni, esperienze, programmi di formazione e buone pratiche;
  • agevolare la cooperazione nella ricerca e nell’accesso alle conoscenze scientifiche e tecniche;
  • fornire, nella misura appropriata, assistenza tecnica ed economica, anche agevolando l’accesso e la condivisione di tecnologie accessibili e di assistenza e tramite il trasferimento di tecnologie.
  1. Quanto previsto da questo articolo non è di pregiudizio agli obblighi di ogni Stato Parte ad adempiere alle proprie obbligazioni previste dalla Convenzione.

La comunità come motore di sviluppo

Se rivado con la mente alle mie esperienze in progetti di sviluppo, la prima cosa che mi viene in mente sono i volti delle persone, neri, bianchi, meticci, giovani, vecchi, adulti.
Sì, perché, per una serie di strane coincidenze della vita, mi sono ritrovata a percorrere strade di tanti paesi: partendo da quelle rosse e assolate del Rwanda, per passare al Cameroun, al Mali, alla Guinea Bissau, al Mozambico, al Brasile dove tornerò quest’anno.
La mia è stata una scelta probabilmente maturata tra i banchi di scuola, quando ancora non si sentiva parlare di quella strana materia che ora è oggetto di studi scientifici e che si chiama “Cooperazione allo Sviluppo”. A quei tempi gli unici che potevano parlare con cognizione di causa delle problematiche nord-sud erano i missionari ed anche i progetti non erano molto strutturati. Si trattava per di più di un aiuto che si dava a missioni o diocesi.
Chi partiva lo faceva senza nessun genere di “contratto” e la formazione prima della partenza era scarsa. Si andava per “aiutare” genericamente.
Ora le cose sono molto cambiate. Da 10 anni mi occupo dei progetti che l’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau –AIFO porta avanti in vari paesi nel mondo, particolare in Brasile, Mozambico, Guinea Bissau, Angola. In questi anni ho potuto assistere a un lento mutamento di approccio, da quello assistenzialista degli esordi (parliamo degli anni 70 e parte degli 80) a quello tecnocratico e modernista degli anni 80-90.

Cosa faremo fare ai nostri bambini?

Come dicevo, agli esordi la molla che faceva scattare la solidarietà era soprattutto la presa di coscienza dei bisogni di una comunità che abitava in qualche paese del sud del mondo. Ad esempio in Rwanda, alla fine degli anni 70, in visita a un missionario Padre Bianco, alcuni amici decidono di fare qualcosa per quei poveri che hanno bisogno di tutto. La prima cosa che li impressiona è la distanza che la gente, soprattutto donne e bambini, deve percorrere per raggiungere il fiume o la pompa dell’acqua più vicina.
Ecco il grande problema della gente: l’acqua e che sia pulita per impedire ai bambini di ammalarsi di parassitosi o altro. Così inizia il primo progetto di sviluppo di questa associazione, che chiamiamo “Vita Nuova” per comodità. La costruzione di un acquedotto che porti l’acqua al villaggio di Musha. Per iniziare questo intervento non viene fatto nessun studio critico della realtà locale, non vengono interpellate le comunità interessate cioè gli abitanti del villaggio di Musha, che si vedono arrivare gruppi sempre più numerosi di italiani che lavorano per la costruzione dell’acquedotto. Alla fine, dopo sforzi immani, l’acquedotto è concluso. Allora il volontario che l’Associazione aveva inviato per concludere i lavori e il missionario, preparano una riunione per presentare al villaggio la grande impresa, la realizzazione dell’acquedotto. Ma il risultato non è quello che loro speravano. Gli anziani del villaggio li lasciano parlare poi commentano: “Ma adesso cosa faremo fare ai nostri bambini?”

Dalle cattedrali nel deserto…

Ora ripensare a queste ingenuità fa un po’ sorridere. Però di progetti costruiti a tavolino, senza interpellare le comunità del posto sono tanti. Il presupposto da cui si partiva è che noi europei sappiamo leggere la realtà locale e abbiamo i mezzi per cambiare in senso positivo la situazione, mentre le persone che ci abitano non hanno chiare le loro necessità e non hanno i mezzi per risolverle. Con l’approccio tecnocratico degli anni 80 non cambia poi molto. Tutto nasce da una verifica dei progetti realizzati e dalla presa di coscienza che i risultati raggiunti non sono stati molti. Non c’erano stati grandi cambiamenti all’interno delle comunità tradizionali. La soluzione che si trova, allora, è quella di portare in queste società i mezzi e la tecnologia avanzata della società occidentale.
E’ l’epoca dei grandi progetti e, di conseguenza, delle cattedrali nel deserto. Si inizia anche a dialogare con i rappresentanti locali di questi popoli e non solo con il missionario di turno. Ma in molti casi il Governatore del posto o il Sindaco non fanno certo gli interessi della gente. Cercano di utilizzare i mezzi e le risorse dei progetti a proprio uso. Quanto capi di Stato africani si sono arricchiti alle spalle della cooperazione europea? Un esempio per tutti è quello di Mobutu, ex-dittatore dell’allora Zaire che è riuscito a stornare i grossi investimenti sui suoi conti bancari privati.
Anche questi sono progetti che sono destinati a fallire.
Da quando sono qui all’AIFO ho visto tanti di questi progetti svanire nel nulla e tante volte mi sono detta visitando un nuovo intervento: “cerchiamo almeno di non fare troppi danni”.
Perché noi occidentali non ci rendiamo conto che la realtà in cui i progetti si devono sviluppare non è vuota, ci sono popolazioni che conoscono bene l’ambiente in cui vivono e che hanno trovato delle strategie vincenti per sopravvivere anche in ambienti ostili. Pensate ai nomadi che vivono ai margini del deserto del Sahara o agli indios che vivono nelle foresta dell’Amazzonia. Questi popoli hanno una conoscenza del mondo che li circonda che è superiore a quella di qualunque grande scienziato occidentale. Probabilmente non lo sanno esprimere con la parola scritta come fa lui, ma è nel loro modo di vivere giornaliero che lo si constata. Quando noi interveniamo in questi ambienti con progetti, ad esempio, costruiamo una diga o incentiviamo l’allevamento dei cammelli, pensiamo che questi siano interventi tecnici che toccano solo quell’aspetto della realtà, e ci sbagliamo. Non ci rendiamo conto che stiamo cambiando gli equilibri ecologici, culturali e sociali di quella popolazione. Ripensiamo all’esperienza dell’associazione “Vita Nuova”. Loro pensavano di fare un intervento settoriale, tecnico, la costruzione di un acquedotto. Invece sono andati a mutare i rapporti sociali tra le fasce di età. I bambini nella società tradizionale di quella zona del Rwanda avevano certi compiti ben definiti che il progetto ha fatto saltare. I gruppi che si sono succeduti nel tempo per la costruzione dell’acquedotto hanno portato degli stili di vita completamente differenti rispetto a quelli del posto.
Con questo non voglio dire che bisogna conservare le differenti società sotto vetro preservandole dal contatto con le altre. Tutte le società sono in costante mutamento ed evoluzione. Il contatto con altri modi di vivere è naturale, non esistono più società isolate. Se questa è un presupposto, noi che lavoriamo nella cooperazione e siamo agenti di mutamento, dobbiamo però essere consapevoli del nostro ruolo e della ricchezza, in termini di conoscenze, che la gente che vive in queste società possiede.
In questi ultimi anni, viaggiando in vari paesi, ho trovato però una nuova consapevolezza e un rafforzamento delle capacità delle comunità locali. Questo in particolare in Brasile dove le teorie di Paulo Freire, fondatore della pedagogia dell’oppresso, si sono sviluppate e hanno dato vita a nuovi approcci di tipo partecipativo. Questo significa che i progetti non sono più studiati sulla testa dei “beneficiari” (termine bruttissimo con cui vengono definiti nel gergo della cooperazione la popolazione del posto), ma che questi vengono interpellati e hanno un ruolo attivo nella definizione degli obiettivi del progetto, delle strategie da adottare, delle attività che si intende realizzare.

…alla comunità del Lago

Vi faccio il caso di uno dei progetti che ho visitato in Brasile. Si trova alla periferia della capitale dello Stato di Amazzonia, Manaus, al nord del Brasile. Si tratta dello Stato più grande del Brasile. Circa il 75% dei suoi due milioni di abitanti vive nella capitale. La gente migra verso la città con il miraggio di trovare lavoro nelle multinazionali elettroniche che hanno sede nella zona franca di Manaus. Il quartiere denominato Lago di Aleixo si trova a circa 20 km dal centro della città ed è bagnato dal lago omonimo.
La popolazione del quartiere oggi è stimata in circa 45.000 abitanti, suddivise in 12 comunità, di cui 1.500 sono ex-hanseniani, cioè ex- malati di lebbra: alcuni in trattamento, alcuni anziani, un grande numero con disabilità gravi e con ulcere plantari. E’ un quartiere popolare dove sono molti i problemi sociali: disoccupazione, analfabetismo, violenza, traffico di droghe che arrivano via fiume dalla Bolivia. Le scuole pubbliche presenti non offrono proposte educative di buona qualità, il sistema sanitario non è sufficiente a rispondere in modo adeguato ai bisogni della popolazione, il sistema di trasporto collettivo è precario. Il fenomeno dell’occupazione delle terre continua a crescere.
Qui circa 15 anni fa è nato il Centro Sociale e Educativo (CSELA), un’associazione locale che raggruppa persone rappresentanti delle comunità che lavorano per migliorare le condizioni di vita del bairro, del quartiere. Qui non ci sono italiani o stranieri che dirigono.
Uno dei primi progetti che la comunità ha iniziato è stato quello dell’acqua, in quanto lo Stato non ha provveduto a portare l’acquedotto nel quartiere. Così si sono cominciati a forare i primi pozzi ed oggi la responsabilità del servizio è decentralizzata alle comunità. Ogni famiglia deve pagare una tassa di 6 reais al mese (il real è la moneta brasiliana, il cui valore attuale è di circa 60 centesimi di euro; si tenga presente che moltissimi vivono con il cosiddetto salario minimo che è di circa 130 reais). Solo due punti dell’acqua sono ancora gestiti direttamente dal centro, perché si tratta di pozzi costruiti in una zona di recente occupazione.
Altre attività molto sviluppate sono quelle relative all’educazione, animazione e di aggregazione per i bambini e i giovani. La maggior parte della popolazione del quartiere è costituita da ragazzi con meno di 18 anni. E’ facile che nell’ambiente disgregato, inizino a delinquere o a prendere la strada della droga. Ecco perché il Centro ha iniziato a organizzare, in collaborazione con la Pastorale della Criança delle visite domiciliari nelle famiglie a rischio. Sono circa 200 i bambini da 0 a 11 anni visitati nelle loro famiglie regolarmente. Viene fatta prevenzione delle principali malattie pediatriche e cura della malnutrizione. In caso di necessità le famiglie vengono aiutate a prendere contatto con i servizi sociali o sanitari.
Ai ragazzi inoltre sono proposti corsi di falegnameria, ceramica, cucito e attività sportive: ping pong, calcio, pallavolo, capoeira (la danza-lotta di origine africana), canottaggio. Sono 700 i ragazzi che partecipano a queste attività che servono a dare spirito di “squadra” ai ragazzi nel periodo delicato dell’adolescenza. Viene offerto sostegno scolastico, complementare alle ore di studio nelle scuole statali a cui partecipano 700 bambini con età compresa tra i 4 e i 17 anni.
Altra fascia debole del quartiere è costituita dagli anziani. Così si è iniziato a coinvolgere un primo gruppo di 70 persone in attività di psicomotricità, danza, musica, gite, eccetera. Di queste la metà sono ex-hanseniani perché nel quartiere c’era anticamente una colonia di lebbrosi. Questo fa sì che chi vive nel quartiere Lago do Aleixo sia emarginato perché proviene dal “quartiere dei lebbrosi”. Invece nel quartiere questo gruppo è perfettamente integrato nella comunità e partecipa alle varie attività come gli altri.
Prendersi in carico le persone più bisognose, cioè i bambini a rischio, gli anziani e gli ex-malati di lebbra, spesso disabili (o diversamente abili come direbbero gli amici del CDH) sono le priorità nel lavoro del Centro Sociale e Educativo.
Quando io li ho visitati, nel dicembre del 2001, erano alle prese con una nuova emergenza: dall’altra parte del lago di sono impiantate circa 5.000 persone che sono emigrate dall’interno del paese in cerca di lavoro. In questa nuova area di insediamento abusivo manca l’acqua, l’elettricità e non c’è scuola. Il Centro ha già provveduto ad un punto comune di acqua che viene erogata ad orari regolari e al trasporto dei bambini alla scuola statale tramite barche.
E’ chiaro che tutte queste attività riescono a realizzarle perché la nostra Associazione assieme ad altre dà loro una mano, però il loro obiettivo è quello di rendere piano piano le varie attività autosostenibili affinché anche gli abitanti di Lago do Aleixo vedano rispettati i loro diritti come cittadini brasiliani.