Skip to main content

autore: Autore: Redazione

“Ma come ti trucchi?”. Un viaggio tra la conoscenza del proprio corpo e la scoperta della bellezza 

A cura della redazione

Benessere è “essere bene” con noi stessi, provare piacere nel fruire di quelle esperienze che, dentro e fuori dal nostro corpo, corrispondono più intimamente alla nostra parte desiderante. Benessere è anche una questione d’immagine, vedersi allo specchio e riconoscersi nel riflesso di quello stesso corpo, viverlo e manipolarlo con la familiarità che di solito riserviamo ai pensieri. Recuperare il contatto, colmare la separazione è possibile quando s’incontra o ci si scontra con la Bellezza, ed è successo anche a noi il pomeriggio in cui Martina Tarlazzi, educatrice e truccatrice, ha bussato, lo scorso marzo, alle porte del Calamaio. Un incontro nato per caso durante il workshop di Valeria Alpi e Claudio Imprudente “Il corpo  degli altri: immagini e riflessioni su sessualità e affettività delle persone disabili” al Convegno Erickson di Rimini, poi culminato nel laboratorio “Ma come ti trucchi?”, al quale abbiamo preso parte come gruppo per due giornate di risate, sorprese, consigli pratici e riflessioni sulle difficoltà e risorse racchiuse nei nostri corpi, dalla consapevolezza all’estetica, dalla cura di sé all’incontro con l’altro. Un filo rosso, quello del corpo e della sessualità, che ha accompagnato molto del lavoro del Progetto Calamaio di quest’anno, che ha rappresentato per noi e per Martina una continua scoperta, di cui condividiamo ora con voi qualche goccia di profumo.

All’inizio della primavera è venuta a trovarci al Centro Documentazione Handicap Martina, un’educatrice che è anche una truccatrice professionista, pronta a far bello tutto il nostro gruppo, sia i normodotati che i disabili. Sono stata davvero entusiasta nel vedere tanti trucchi sparsi sul tavolo… Mi sembrava di esse re in una vera beauty farm! Sarà anche per questo che mi sono fatta truccare per prima e mi sono fatta scattare con piacere molte foto.
Grazie ai miei colleghi ho vissuto una giornata davve ro emozionante, tant’è che mi sono sentita davvero una star anche se solo per un giorno. Martina ci ha spiegato alcune tecniche di trucco, una passione, ci ha raccontato, che le ha trasmesso sua zia molto tempo fa. Quando mi sono vista allo specchio mi sono sentita trasformata: quel giorno, infatti, mi ero svegliata con le occhiaie che ora non c’erano più, ero bella e stavo bene con me stessa… Peccato che quella sera non sia uscita… ero pronta per ballare!
Lorella

Prima d’ora non mi ero mai truccata in tutta la mia vi ta. Ci ho pensato un po’ quando ero al liceo ma poi ho lasciato perdere, non avevo il coraggio né di pro vare né di chiedere a qualcun altro di farlo con me. Ancora oggi a casa mia non ci sono strumenti per il trucco. L’esperienza che ho vissuto al laboratorio, però, mi ha fatto capire che si può apparire belli agli occhi altrui solo se noi per primi ci sentiamo belli. Nel partecipare mi sono divertita tantissimo e ho ri so molto anche quando sono tornata a casa e i miei genitori sono rimasti così stupiti nel vedermi che quasi si sono spaventati. Questa per me è stata la prima volta ma sono seriamente intenzionata a ripetere questa esperienza!
Danae

Di tutto ciò se ne sta facendo sempre più protagonista, oggi come oggi, anche l’uomo, utilizzando stratagemmi, in versione maschile, che fino a poco tempo fa erano esclusivamente ad appannaggio del mondo femminile.
Al laboratorio si è potuto constatare come, a mano a mano che passava il tempo e il trucco si faceva più completo, l’immagine dei modelli cambiasse, dando maggiore valore ai lineamenti del volto di ognuno. Più che mai è apparso fondamentale modificare la propria immagine, apportando lievi ritocchi alle ciglia o alle palpebre o, in misura ancora più accentuata, alle sopracciglia, così da mettere in evidenza tutta la luce vitale degli occhi. La cura di sé, infatti, acquista particolare importanza in questo esercizio di valorizzazione della propria persona. Apparire più curati aiu ta molto a stare con gli altri, consentendo di diventa re oggetto di uno sguardo accattivante, che finisce con l’accrescere l’autostima individuale. Tutti sono così protagonisti nella pellicola del proprio film.
Chi da maschietto non ha sentito la vocazione a ri correre a tali tecniche femminili di trucco si è lascia to ammaliare dalla proposta di un distensivo mas saggio al viso. Il gruppo viveva un’escalation di curio sità ed entusiasmo contagioso, tanto che anche gli educatori non disabili hanno avvertito l’urgente biso gno di sottoporsi a tale ardita prova. Chi scrive po trebbe apparire poco (ma solo un pochino) imparzia le, sottolineando come i risultati finali siano stati più esaltanti sui disabili che non sugli altri.
Mario

Ciò che abbiamo fatto al laboratorio mi è piaciuto per quanto il trucco non sia una mia esigenza primaria, anche perché dovendomelo far fare dalle altre perso ne, risulta a mio parere più un’attività per gli altri che per me stessa. Non mi fa impazzire l’idea che qual cun altro decida per me, la considero una cosa piut tosto personale. Allo stesso tempo io non sarei in grado di decidere quali trucchi e quali colori possono risaltare maggiormente sul mio viso. Forse dovrei prima imparare a capire quali sono i miei gusti e trovare qualcuno di cui possa fidarmi, chiedere il suo aiu to senza la paura di ricevere un rifiuto.
Stefania M.

Quando è stato il mio turno, inizialmente mi sono sentita tutta felice e contenta. Alla fine, però, quan do Martina mi ha fatto vedere il risultato finale, non mi sono sentita per niente convinta, non mi sono pia ciuta e mi sono detta: “Che brutti occhi che ho!”. Quando però Martina mi ha spiegato che voleva farli risaltare insieme ai miei occhiali, riguardando tutto il complesso mi sono piaciuta. Ho provato molto piacere nel truccarmi, prima per me stessa e poi per gli al tri. Quando ti trucchi, è un momento interamente per te, che ha inizio già da quando ti vuoi truccare.
Tiziana

Non mi piace farmi notare per i colori che indosso o che uso sul viso; essere al centro dell’attenzione non ha mai rappresentato una mia preoccupazione, anche se, intendiamoci, mi piace l’eleganza. Mi trucco solo in occasioni particolari, come lauree, feste o per lavoro e in questo caso mi faccio aiutare da altri soprattutto perché la mia mano, date le mie difficoltà, sarebbe decisamente troppo pesante. Quando mi trucco, infatti, preferisco un trucco leggero, non mi piacciono i cosiddetti “mascheroni”… Farlo ogni giorno? Sinceramente mi dovrei alzare come minimo mezz’ora prima se non di più, il che non è possibile. Inoltre di riflesso strizzo sempre gli occhi, per paura che qualcuno senza volere mi faccia male… anche mettere un rimmel, insomma, è per me una vera impresa!
Occorre poi dire che, dal punto di vista dell’immagine, noi disabili viviamo costantemente ai confini del paradosso: lo si percepisce con chiarezza quando il nostro corpo si immerge nella socialità o, più semplicemente, cammina e si muove per strada. La gente o non fa caso a te o punta il dito dritto sulla tua carrozzina. Se mi truccassi troppo, pensavo all’inizio del laboratorio, sarei più ridicola di quello che già sono. Per questo, a differenza delle mie colleghe, non mi sono fatta toccare da Martina. Ciò non toglie che al laboratorio io ci sia rimasta, per ascoltare le sue pa role e osservare in silenzio. È finita che lo scorso marzo, il giorno dell’inaugurazione della nuova sede del CDH, mi sono presentata davanti a tutti con il fard, un nuovo taglio di capelli e un nuovo colore, un abito nero molto elegante e una bella pochette. Vi ho stupito?
Stefania B.

“Mi sono sentita bella”. È con queste parole che Lorella mi accoglie nella stanza, pensando a come si era sentita quando l’avevo truccata per la prima volta. Le sue parole mi commuovono e mi fanno capire che la strada intrapresa è quella giusta e che sì, bisogna continuare così. Bisogna continuare a trasmettere il senso della cura di sé, a lavorare in quell’ottica di empowerment che da educatrice ritengo fonte di ogni cambiamento, a far risplendere gli occhi e la pelle di coloro che non si sono mai visti così belli. Tutto ciò perché la costruzione della nostra identità passa at traverso il confronto con il mondo e l’Altro-da-sé, e il corpo è la via maestra per capire chi siamo e come siamo inseriti nel mondo. Per questo motivo, il prendersi cura della propria dimensione esterna è necessario e funzionale al nostro adattamento nella realtà in cui viviamo e non rappresenta uno step da tralasciare. Conoscere il proprio corpo, con i suoi difetti e le sue bellezze, permette a ognuno di noi di affrontare la realtà con un’autostima e una forza superiori rispetto al passato e sentirsi bene nel proprio corpo è la base per dominare la propria vita con naturalezza ed equilibrio. Tutte queste riflessioni sembrano ovvie per i giovani rampanti di questa società basata sul l’apparenza e sul consumo, ma sembrano, al contrario, parole inapplicabili in contesti considerati diversi, quasi scissi dalla società predominante.
Persone con disabilità, carcerati, abitanti di quartieri considerati malfamati, persone malate o depresse, non sembrano essere il target delle aziende di cosmetici e dei luoghi del benessere e molto spesso, a questi ultimi, viene negata la possibilità di prendersi cura del proprio corpo, facendo venire meno il senso della loro identità. È quindi necessario trasmettere l’idea che il diritto alla bellezza e al sentirsi bene nel proprio corpo è di tutti, e che è necessario smettere di segregare le persone in categorie predefinite, per ché siamo solo persone e non oggetti, con bisogni e diritti di eguale importanza.
In varie occasioni, parlando dei laboratori di cura di sé che porto avanti con persone con disabilità e adolescenti, mi sono sentita dire: “Perché dovrebbero truccarsi, con tutti i problemi più grandi che hanno da affrontare!”. A queste persone ho sempre risposto che: “I problemi, se affrontati con maggiore auto stima e amor proprio, si risolvono meglio”.
È alle fantastiche persone che ho incontrato al Centro Documentazione Handicap di Bologna che dedico queste parole, perché sanno ancora credere nel cambiamento e dare vita alle risorse che ogni singolo individuo porta nascoste dentro di sé.
Martina

Per ulteriori informazioni:
martinatarlazzi@gmail.com  



E’ morta Rosanna, la mamma di Claudio Imprudente. Da tempo era gravemente malata e fino all’ultimo è stata amorevolmente assistita presso la Comunità “Maranà-tha”. Vogliamo ricordarla con questa intervista che è stata pubblicata nell’ultimo libro di Claudio, “Una vita imprudente” (Trento, Erickson, 2003). Ne approfittiamo anche per ringraziare tutti coloro che sono stati vicini a Claudio, alla sua famiglia e alla Comunità.

Ho pensato di farvi raccontare i miei primi anni da qualcuno che direi mi conosce bene, una persona a caso: la mia mamma. Un amico insegnante, Riziero Zucchi, le ha rivolto qualche anno fa delle domande per capire meglio il punto di vista dei genitori di figli “diversabili”, le modalità attraverso le quali si rapportano all’esperienza scolastica dei figli e, in generale, alla loro crescita.

Riziero: Vorrei chiederLe di raccontarci l’esperienza scolastica di Claudio, a partire dalle sue fasi iniziali.

Rosanna: Ha avuto un’esperienza meravigliosa in una scuola speciale riservata esclusivamente a soggetti spastici. Le scuole speciali erano una rovina, è vero, perché non davano risposte adeguate a diverse esigenze: c’era il disabile fisico, c’era il disabile mentale, c’era il soggetto iperattivo e il povero ragazzo in carrozzella era il più abbandonato perché bisognava stare dietro a quello che correva fuori. Invece lì erano tutti nelle stesse condizioni, più o meno gravi, ma nelle stesse condizioni. Avevano una maestra unica tutto il giorno, terapisti, logopedisti, insomma avevano tutto. Gli hanno persino insegnato a usare il denaro, attraverso un mercatino che era organizzato nella scuola con periodicità quindicinale. I bambini dovevano andarci con un po’ di  soldi e potevano comprarsi qualche cosa. Un giorno andai a prendere Claudio e c’era una bambina spastica che piangeva perché, essendosi dimenticata i soldi, non poteva comperare niente. Io volevo darle dei soldi e stavo per farlo quando l’assistente sociale mi trattenne dicendo: “No signora, perché così non impara a essere responsabile: si è dimenticata di chiedere i soldi alla mamma ma vedrà che la prossima volta non mancherà di ricordarsene”. Quindi una scuola che l’ha preparato davvero molto bene. Quando è passato alle medie aveva un corredo culturale molto buono; purtroppo ha avuto la sfortuna, tra virgolette, di incontrare tre ragazzi, proprio delle pesti, che però si erano attaccati a lui e lo portavano fuori, lo tiravano fuori dalla classe.

Riziero: Noi abbiamo notato che i bambini, quelli definiti più cattivi, alla fine sono quelli più attaccati e bravi.

Rosanna: Io in classe ho avuto un ragazzo spastico e nel banco vicino a lui ci è andato un altro ragazzino che stava ripetendo la prima media perché non aveva nessuna voglia di studiare, non stava mai attento. Vicino al ragazzo disabile ne è diventato il paladino, e stava molto più attento. Una volta che ho sgridato Fabrizio perché rideva, lui mi ha apostrofato: “Signora, perché lo sgrida?”. E io: “Perché lui è un alunno di questa classe e deve stare attento come stai attento tu!”. Il ragazzo poi è venuto a dirmi: “Signora, grazie!”.

Riziero: Claudio alle medie ha trovato questi amici, dicevamo…

Rosanna: Ha perso un po’ la voglia di studiare, c’era poi anche il fatto che da studiare ce n’era molto alle medie e lui tutti i pomeriggi doveva andare a fare terapia e per fare terapia venti minuti doveva stare via almeno tre ore, perché il pulmino lo veniva a prendere, lo portava e lo riportava a casa.
Poi al liceo non si è trovato bene: i professori, timorosi di rapportarsi a lui, non lo interrogavano, e quindi, concluso il terzo anno, quando aveva già iniziato a studiare filosofia in cui andava molto bene e il professore era entusiasta, io gli ho detto: “Claudio, o cambiamo liceo e andiamo da un’altra parte oppure te ne stai a casa”. Lui ha scelto di stare a casa, ha cominciato a leggere.

Riziero: Da tempo lavoriamo con i genitori perché pensiamo che il futuro sia una valorizzazione della consapevolezza e della scienza dei genitori. Io lavoro nella scuola e vedo che la scuola disprezza i genitori. Noi pensiamo che i genitori dei ragazzi disabili debbano essere necessariamente dei genitori speciali. Mi interessava innanzitutto il Suo parere su questo e sul percorso effettuatocon Claudio; ma soprattutto i fattori importanti per cui Claudio è diventato quello che è.

Rosanna: I genitori di figli disabili devono principalmente considerare i loro figli normali, questo  significa non porre la differenza: “Lui non può fare questo, non può fare quest’altro…”. Io, se necessario, in passato ho sgridato Claudio e continuo a sgridarlo tuttora. Per me lui è normale, ma lo è sempre stato, così è per me e lo era anche per mio marito. Quindi è stato sgridato quando occorreva. Poi bisogna pensare che gli altri bambini si lasciano andare fuori a giocare: anche loro devono stare fuori insieme agli altri. Capiterà che si sporchino, si facciano male, si graffino ma succede anche a tutti gli altri bambini. Quindi bisogna dar loro fiducia e non tenerli chiusi in casa, perché altrimenti non crescono, restano degli eterni bambini.

Riziero: Lei prima mi diceva della crescita di Claudio, e della necessità di una continua sollecitazione…

Rosanna: Continua, continua. Leggergli, parlargli continuamente, metterlo di fronte alle sue responsabilità. Quando cominciava già a scrivere i numeri, io e mio marito avevamo preso l’abitudine alla sera di giocare a carte per passare un po’ il tempo. Noi giocavamo e Claudio stava vicino a noi, così  scriveva i numeri e teneva i conti sul tavolo di marmo. Faceva il segnapunti; naturalmente ci voleva più tempo, ma noi aspettavamo, senza brontolare, e lui ha imparato a fare questo. Il tavolo dopo era da pulire, è vero, però anche se i bambini giocano per terra dopo occorre pulire, lui giocava sul tavolo… Bisogna principalmente dare fiducia. Si soffre tantissimo, perché lasciarlo andare fuori con un amico la prima volta è molto faticoso, poiché non si sa quello che succederà… Ma tenerlo in casa è peggio: lo si rovina. Un giorno ricevetti una telefonata: Claudio era uscito con un suo amico e si erano “inzuccati”; quando ritornarono a casa non dissi niente perché temevo che il ragazzo che guidava potesse prendere una sgridata dal padre. Ma internamente lo so io quello che ho provato! Non è successo niente di particolarmente grave, perché erano stati tamponati da una macchina; però lui si era rotto il naso. Però non credo che questo…insomma voglio dire che è più facile tenerselo in casa, è sicuramente più facile!

Riziero: Secondo Lei che cosa trattiene le mamme dei bimbi disabili dal dare fiducia?

Rosanna: Innanzitutto occorre precisare che le madri si sentono peccatrici, cioè si sentono addosso la colpa di aver procurato l’handicap al figlio.

Riziero: Ma chi glielo procura questo senso di colpa?

Rosanna: La gente, perché dice: “Come sei stata disgraziata, sfortunata”. Quindi la gente ha una grande responsabilità al riguardo. E poi, non saprei…

Riziero: Io ho un sospetto: che a volte ci siano molti medici che hanno questo atteggiamento nei confronti della disabilità, cioè formulano delle diagnosi che sono delle pietre tombali: “Signora, Suo figlio non ce la farà mai!”.

Rosanna: A me è capitato questo: il bambino era molto sveglio e, quindi, anche la dottoressa che l’aveva assistito la prima notte in cui aveva avuto delle crisi fortissime non mi disse che cosa pensava. Mi ricordo che Claudio nacque in marzo e verso Natale la dottoressa, il cui marito lavorava anch’egli all’ospedale come medico, mi disse: “Signora, venga che facciamo vedere il bambino anche a mio marito”; il marito le disse: “Guarda, quello che ti posso dire è che questo ragazzo è molto presente”. Ancora però non si era riusciti a capire cosa fosse necessario fare, anche perché non ci avevano spiegato ciò che era accaduto esattamente. Non pensavo che potesse essere affetto da tetraparesi spastica perché, essendo piccolo, non si reggeva ancora in piedi e quindi era naturale che non stesse diritto. Poi capimmo che c’era qualcosa  che non andava e decidemmo di andare da uno da uno specialista. Questo, duramente, mi fece i complimenti dicendomi: “Signora, Lei ha capito subito che Suo figlio non è normale… proprio ieri sera ho visto un documentario della Carlo Erba relativo a un istituto che hanno aperto a Firenze. Ecco, Le consiglio di portarlo in un istituto”. Io andai a vedere questo istituto, parlai con il direttore che mi consigliò di trasferirmi a Firenze e mi disse: “Si prenda una cameretta, così io faccio fare terapia a Suo figlio”. Io pensai che sarebbe stato un danno enorme portarlo via dalla sua casa, dal padre… io fuori di casa e tutto il resto. Nel mio caso sono contenta di non averlo fatto.

Riziero: Le volevo chiedere, signora, in che modo Claudio L’abbia fatta crescere come persona.

Rosanna: Dunque, io sono sempre vissuta in mezzo ai ragazzi, per il mio lavoro di insegnante. Quando ho capito cosa aveva Claudio, lui aveva già più di un anno e io mi sono sentita molto responsabile nei confronti dei miei alunni. Potrà sembrare strano, ma io mettevo prima loro e poi Claudio: quando ero con loro dovevo pensare solo al lavoro, non a mio figlio. Questo pensiero mi ha aiutata, mi ha dato maggior forza per impegnarmi nel mio mestiere con coraggio.