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autore: Autore: Roberto Ghezzo

Impressioni dal Madagascar

Ancora adesso, a distanza di qualche mese, faccio fatica a riassumermi in testa le impressioni e le conclusioni, se mai ci sono, del mio viaggio in Madagascar, attraverso la mitica statale n. 7, da Antananarivo, la capitale, a Toliara, sul canale di Mozambico. Andata e ritorno sempre per questa strada (800 km andare, 800 tornare), non per mancanza di fantasia ma perché è l’unica praticabile, l’unica asfaltata. Qualche volta questa strada, a due corsie in tutto, si inerpica su per le montagne dell’altopiano centrale, altre volte si perde nel nulla del tavolato immenso del sud, come una linea in un foglio bianco, anzi rosso, dove gli unici altri esseri viventi apparentemente sono le termiti con le loro città fortezza a forma di collina, qualche cespuglio o albero rado, qualche mandria di zebù in lontananza…
Il Madagascar è e non è come uno se lo può immaginare: sole a picco, colori vivissimi, animali esotici (camaleonti, farfalle, lemuri, ecc.) che si trovano solo in questa isola che si è staccata milioni di anni fa dall’Africa; ma anche risaie a perdita d’occhio (i malgasci sono i più grandi mangiatori di riso al mondo) che danno una decisa ambientazione orientale. La popolazione ha un aspetto più orientale che africano: solo tre tribù su diciotto sono di origine africana, tutte le altre discendono dai primi colonizzatori malesiani che hanno scoperto questa terra solo nel V secolo dopo Cristo.
Ma la prima cosa ancora che colpisce è la miseria, una miseria che subito appena usciti dall’aeroporto ti investe materializzandosi in baracche fatiscenti ai lati della strada, nei vestiti rappezzati, spaiati, indossati da esseri umani spesso magri, con gli occhi arrossati. La prima cosa che si nota è l’assenza di anziani e una stragrande maggioranza di bambini e ragazzi che giocano dovunque ci sia un piccolo spazio piano, che lavorano, che vendono qualche frutto ai lati della strada. Giocano, camminano, corrono spingendo i pousse pousse (ovvero i risciò locali) spesso a piedi scalzi, affondando i piedi nelle buche melmose, calpestando sassi, senza apparentemente risentire di questo; sembra incredibile, se lo facessi io mi piagherei subito…
La prima cosa che colpisce è la povertà, risultato ovvio del confronto tra dove si è e da dove si viene, dal primo mondo, dall’aeroporto De Gaulle di Parigi, dalla bella e efficiente Bologna, dalle agiatezze… La prima cosa che si vede e si sente è lo sporco, gli odori dei camion che sgasano diesel nero, dei fornelli a carbone per cuocere il cibo…
In Brasile ho visto situazioni di povertà, ma non così estrema, non ero abituato a questa povertà, perché comunque in Brasile è un misto anche di primo mondo: dove ti giri nelle grandi città ci sono sì le favelas ma anche grandi centri commerciali, grattacieli, negozi, fabbriche… e anche nelle favelas ogni casetta ha la corrente elettrica, la televisione, il bagno… Il Brasile è un paese ricchissimo dove metà della popolazione è povera: anche il Madagascar potenzialmente è ricchissimo ma la maggior parte della popolazione è poverissima, lo stipendio medio annuo è di qualche centinaio di dollari.
Poi, piano piano, dopo qualche giorno, ci si accorge non delle cose che mancano, ma di quello che ci sono. Ci si accorge che, ad esempio, nonostante tutta questa povertà non c’è nemmeno lontanamente la violenza che si respira in Brasile, o nella grandi città africane. Si scopre che il Madagascar è uno dei pochi paesi africani che non hanno sofferto la guerra civile, che non nasconde sotto terra delle micidiali mine anti-uomo come nel vicino Mozambico, che non ha amputati di machete come in Sierra Leone… La maggior parte delle persone è costituita da pacifici contadini e pastori, che nonostante le ristrettezze economiche vivono con una profonda dignità e con un grande senso dell’ospitalità. Per strada si vedono tanti padri accarezzare i loro figli con grande dolcezza, oppure si vedono gruppi di bambini ridere e giocare vicino ai campi dove lavorano i loro genitori, oppure ancora bambini più grandi (di 5 o 6 anni) prendersi cura dei loro fratelli più piccoli. La vita e la salute è facile perderle in questo paese, anche se non è così infestato, come l’Africa, da animali pericolosi: essendo un’isola, il Madagascar (come la Sardegna) non ha ad esempio serpenti velenosi. È flagellato dalla zanzara che porta la malaria e, se non hai il corrispettivo di 15 euro per pagarti il chinino, il tuo destino è segnato.
Durante tutto il viaggio, ho conteggiato 12 persone in carrozzina: mi hanno spiegato che la carrozzina è un gran lusso, la maggior parte dei disabili fisici vive in casa. Ci sono anche dei lebbrosari: la lebbra si può vincere tranquillamente, ma non è così facile accedere ai medicinali anche perché i villaggi sono sparsi e isolati, chi è malato raramente riesce ad arrivare a un presidio sanitario, dove comunque se si ha bisogno di medicine bisogna acquistarle. La maggior parte delle strutture che funzionano sia a livello scolastico che per la salute sono gestite da missionari.
La vita è appesa a un filo, la salute può mancare da un momento all’altro, il cibo non c’è sempre e quando il raccolto non rende sono problemi seri. Lo stato garantisce assistenza sanitaria gratuita (sulla carta) solo fino al terzo anno di vita del bambino… e poi la famiglia si deve arrangiare. La polizia che si vede ai posti di blocco lungo la strada un po’ è arrogante, un po’ è costituita da poveri che cercano di sopravvivere con il loro magro salario, non fa paura a noi vazaha (leggi vasà), ovvero stranieri, sinonimo vivente di ricchezza, di soldi, vazaha che si possono permettere di mangiare tre volte al giorno nei migliori ristoranti e di dormire nei migliori alberghi (entrambi a rischio infezioni intestinali o pulci, ma pur sempre i migliori). Non c’è pericolo che per sciocchezze o errore ci mettano in prigione dove si rischia di morire di fame (è vero!) se non ti portano da mangiare da fuori i tuoi parenti. Noi vazaha siamo potenti, intoccabili, siamo i bianchi che, come i francesi (colonizzatori e sfruttatori dell’isola), hanno i mezzi, hanno il meglio, siamo quelli a cui i bambini, senza essere troppo insistenti, sorridono chiedendo delle caramelle (“bon bon vazaha”) o rivolgono il saluto (“bonjour vazaha…”) per chiedere un pezzo di Tuc o di biscotti che solo noi possiamo permetterci di comprare.
Anche in Brasile mi ero sentito in colpa per tutto quello che noi del primo mondo abbiamo e consideriamo un diritto avere, ma in Madagascar mi sono accorto che tutto quello che ho qui in Italia (l’acqua potabile, l’acqua calda, un bagno, un cibo vario e gustoso, la macchina, la televisione, l’assistenza sanitaria, la possibilità di studiare, di comprare un libro e andare al cinema) lì sono beni di lusso, beni al di fuori della portata dei più.
Eppure il bambino con un enorme ascesso in un occhio ti sorride e ti saluta, un signore anziano (avrà 60 anni…) vestito di stracci ti saluta, una ragazza di vent’anni già con la bocca un po’ sdentata ti saluta; e io con un bel vestito, le scarpe, la pancetta-curva del benessere, abbassando il finestrino elettrico dell’auto che abbiamo noleggiato, ricambio con stupore il saluto. Stupore per tanta generosità, per un paese splendido, fatto di gente semplice e laboriosa, che come i nostri nonni fatica dalla mattina alla sera per il minimo indispensabile.
Jean François Ratsimbazafy, la nostra guida, responsabile di un progetto di adozione a distanza ad Antsirabe (per informazioni: ASSOCIATION TSINJO LAVITRA MAIS MADAGASCAR,
e-mail: jfrty@hotmail.com), ha immaginato uno sviluppo sano per questo paese, uno sviluppo che non distrugga la cultura contadina e i suoi valori, che permeano la società malgascia, uno sviluppo che possa valorizzare le enormi ricchezze naturali, senza deturparle. La chiave di volta della sua idea è che supportando un’attività economica sostenibile, potenziando la pescicoltura nelle risaie e rendendo i contadini più autosufficienti, si mette in atto un circuito virtuoso di produzione di ricchezza e di sviluppo innanzitutto comunitario. Questo non è solo un sogno ma è già realtà: Jean François è riuscito a mettere in movimento questo progetto con l’obiettivo di coinvolgere piano piano una settantina di famiglie.
L’idea del microcredito è l’idea vincente anche qui: non conviene dare un pesce, ma insegnare a pescare, non conviene dare un aiuto destinato a finire nel tempo ma conviene investire nella comunità. Solo se i contadini malgasci sapranno essere i protagonisti del cambiamento si potranno ridurre i meccanismi di impoverimento e di conseguenza si potranno ridurre anche le malattie e l’incidenza delle disabilità.

Storie di Calamai e di altre Creature Straordinarie

Il convegno Storie di Calamai e di altre Creature Straordinarie, che si terrà quest’anno il 24 e il 25 novembre a Bologna, è un appuntamento “di studio e gioco” per festeggiare il ventesimo compleanno del Progetto Calamaio e approfondire tematiche a noi care. “Studio e gioco” non vanno considerati concetti in antitesi: possiamo serenamente mettere in soffitta il detto “prima il dovere e poi il piacere”.

Tra le tematiche centrali del convegno ci sarà sicuramente l’estetica dell’handicap che è anche oggetto dell’articolo che segue di Stefania Baiesi. È un articolo molto interessante perché, dalla viva esperienza di vita di un’animatrice storica del Progetto Calamaio, si può toccare con mano il ruolo della bellezza nell’autoaccettazione di una persona con deficit. A ben vedere il Calamaio non fa altro che valorizzare una dimensione di animazione, di gioco e quindi anche di danza, musica, espressione, in una parola di bellezza che spesso rimane problematica in una persona con deficit.
L’animazione attuata nel Progetto Calamaio si pone in un terreno a metà strada tra l’educazione e lo spettacolo, cerca di portare i bambini in un terreno magico dal quale osservare e discutere con uno sguardo nuovo temi come la diversità e l’handicap. La prima risorsa è proprio la partecipazione attiva in questo processo di un animatore-educante che ha dei deficit: l’incontro con i bambini diventa occasione di scambio di conoscenze, di riduzione delle paure e imbarazzi, cioè degli handicap. La bellezza, il fascino, la magia, il divertimento degli incontri del Calamaio sono la prima spinta, anzi proprio il motore per ridurre gli handicap. Se una persona con deficit riesce attraverso la sua diversabilità a farci divertire, a creare magia e bellezza, allora automaticamente l’immagine stereotipata e negativa cucita addosso a queste persone viene meno, aprendo la possibilità di un dialogo autentico tra i bambini e gli animatori del Calamaio.

Nel momento in cui si scopre la bellezza anche nella lentezza, nel fare le cose in modo nuovo e diverso, nell’inaspettato, magari nell’errore, la diversabilità acquista una luce nuova, non generata dal confronto perdente con la “normalità” ma dalla riscoperta della originalità e creatività presenti in quella persona, in quell’animatore con deficit, che ha un nome e cognome, ha una personalità, ha degli interessi, dei gusti, degli hobby, ha una storia… Come quella che ci racconta Stefania nell’articolo che segue.

 

L’insostenibile bellezza dell’essere

di Stefania Baiesi

Io so di non essere una bella donna, magra, alta, un gran pezzo di donna… Non sono la classica donna alta, con forme fisiche particolarmente pronunciate e allettanti, da suscitare commenti di approvazione, magari eccessiva, con fischi volgari e parole poco eleganti!
Il fatto è che veniamo da una storia in cui chi era portatore di un deficit veniva chiuso in casa per vergogna e questa è stata anche la mia storia. Da piccola addirittura mi vergognavo se persone, che non fossero i miei genitori, mi osservavano andare in giro per casa, avevo imbarazzo a trovarmi con persone estranee; ad esempio in bagno, in intimità, farmi toccare, farmi fare il bidet. La mia casa è sempre stata un via vai di assistenti domiciliari, colf, persone che venivano addirittura appositamente a farmi il bagno… Mi vergognavo di farmi vedere in condizioni un po’ – come dire? – poco rassicuranti, non convenienti e imbarazzanti. In città o al mare, mi vergognavo di essere in déshabillé, con la mia schiena storta… Mi vergognavo dei vestiti che indossavo, e che avevo, e di non avere la disponibilità economica per potermi comprare qualcosa, non dico da serata galante ma anche solo qualcosa di decente, anche non di marca… Bastava che fosse stoffa di qualità, che non fosse cara esagerata e che fosse decente, oltre che ai miei occhi, agli occhi degli altri. Insomma, che piacesse a me.

Autoaccettarsi… accettando l’altro

Poi è accaduta una cosa molto importante: ho iniziato ad accettarmi attraverso una persona disabile a me molto cara. Prima di conoscerla, come ho detto, io non mi piacevo. All’inizio niente del mio corpo mi andava bene; la mia bocca, il mio naso troppo grande, a patata, il bacino troppo largo, il sedere troppo in fuori, la schiena storta, con le tre “osi” (scoliosi-lordosi-cifosi), le mie gambe corte, senza polpaccio, i miei piedi piccoli e tozzi… Avevo paura di non essere accettata da lui.
Invece è stato proprio lui che con la sua vita mi ha detto: “Se ci sono arrivato io, ci puoi riuscire anche tu!”.
Da allora, pian piano è cambiato tutto, non fuori ma dentro di me. Mi sono resa conto che il problema era dentro di me! Attraverso questa persona mi sono fatta coraggio, ripetendomi all’infinito: “Se c’è arrivato lui ad accettarsi, ce la posso fare anch’io!”.
Da allora la mia vita è cambiata in meglio: mi è cominciata a piacere la mia faccia, la mia mandibola che non era più troppo larga, il mio naso non era troppo largo, ho cominciato a scoprire di avere un braccio che funziona, con cui posso scrivere sia a computer, sia a mano, posso disegnare e fare molte altre cose, tagliare delle verdure, riempire alcuni tipi di pasta fatta in casa. Ho scoperto di avere una testa che funziona, di possedere delle ricchezze che sarebbe stato ingiusto usare solo per me e da mettere a disposizione di chi non le ha!
Lui è come me, è in carrozzina. Anche lui deve essere sollevato da altri: lo “stile” è lo stesso. Le differenze ci sono ma alcune difficoltà sono comuni, ed è andata proprio così: prima ho accettato lui, poi mi sono accettata io stessa. Da quando ho conosciuto questa persona mi sono messa a confronto con lui; da allora è cambiato tutto in me – ripeto, non fuori ma dentro di me – ho cominciato a sentirmi meglio con me stessa, più a mio agio con il mio corpo.

Uscire dagli schemi

La mia storia, come quella di tante, è partita dallo scoprire che avevo un deficit, una parte di me che non potevo di certo cancellare! In un modo o nell’altro, fatto sta che ce l’hai! Cosa fai? La devi comunque prendere per quella che è e da lì non si scappa! L’unica strada è accettarsi. Certo è difficile, molto difficile…
Ma quali sono le alternative?
Alcune persone sono convinte che non accettando la propria condizione fisica, si possa viverla meglio. Per me invece la vivi peggio, molto peggio! Quali sono le alternative ad accettarsi? Qualcuno me le sa dire, se ci sono? Io penso che ognuno di noi, disabile o “a norma”, non ne abbia molte: l’unica è prendere la vita per quella che è!
Se sei diversabile e ci nasci, non è che la tua condizione la puoi cancellare, né curare con troppa facilità! A meno che non succeda un miracolo, ma in poche e schiette parole mi viene da dire che se cerchi il miracolo vuol dire che non ti sei accettato/a, vuol dire che non hai ancora accettato di avere dei limiti, le tue mancanze.
Dobbiamo essere noi diversabili a uscire dagli schemi, e gli schemi dai quali dobbiamo uscire sono: lo schema della cura della malattia, della sfortuna, del pietismo.
Dobbiamo uscire dalla logica della cura e della riabilitazione o meglio dobbiamo riabilitarci in un altro senso. Non dobbiamo ridurre tutta la nostra vita a una riabilitazione soltanto fisica ma dobbiamo riabilitare la nostra immagine! Dovremmo pensare di allargare il senso della riabilitazione, di ampliarlo, sviluppare di più la nostra fantasia, la nostra mente, la nostra creatività in un altro modo artistico, alternativo.
Spesso passiamo gran parte della nostra vita in ospedale o nei centri di riabilitazione motoria; tra bastoni, stampelle, tripodi, quadripoli, carrozzine di ogni tipo e di fattezze diverse, a seconda delle nostre esigenze e delle modifiche stabilite dai medici, tra deambulatori, busti, corsetti, docce e gambaletti, strumenti utili, per carità, meno male che esistono, e dei quali oramai siamo diventati dei veri esperti. Andando al Centro di Riabilitazione Motoria di via Bernardi qui a Bologna, con personale qualificato e permanente negli anni, ho potuto usufruire dell’offerta di un servizio qualificato, ma questo centro l’ho rivalutato anche come luogo in cui si possono coltivare rapporti, amicizie durature ormai ventennali.
Bisogna uscire dalla logica della “campana di vetro dell’Iperprotezione!”, dalla logica della sofferenza, e non ultimo dalla paura degli altri di farti male. In un incontro a scuola un bambino mi si è seduto sulla schiena senza la paura di farmi male, in modo talmente naturale che da lì è nata l’idea di mimare la tartaruga con l’aiuto dei bambini. Per me era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere, mi ha lasciato stupita. Io fin da piccola sono stata trattata come dentro una campana di vetro. Quel bambino con naturalezza ha rotto la campana e io ho provato una grande emozione.

Il vestito fa il monaco

Noi portatori di deficit spesso ci ritroviamo con un’immagine brutta di noi stessi, che non ci piace, che non ci convince molto, che vorremmo cambiare. Da qualche parte bisogna cominciare e io direi che si può cominciare dal vestire.
Non mi piacciono i colori sgargianti, i colori flash con tinte di capelli particolari, per farsi vedere, non mi piacciono i comportamenti eccessivi: l’esuberanza, esibizionismi, piercing, tatuaggi…
A dire il vero in questi anni sono cambiata tanto anch’io. Ho cambiato modo di vestire in questi anni, sono cambiate le mie esigenze, sono diventata un po’ più sportiva, casual, mi sono modernizzata e anche molto. Ora sono elegante sì, mi ci vedo sempre bene, non è che lo disdegni, ma ora distinguo di più, molto di più; a seconda di quello che devo fare durante la giornata, mi vesto diversamente, a maggior ragione in matrimoni, battesimi, o quant’altro mi possa capitare di speciale.
Oltre ai classici colori blue, bianco e nero a me sono sempre piaciuti i colori tenui pastello da vestire, verdi scuri, smeraldo, bosco, oliva sia chiaro che scuro, alloro, tutti i marroni terra di Siena e ocra, rossa e gialla, beige per disegnare. Sì, io disegno! E scrivo! Questi sono i miei hobby, ci ho lavorato sopra e attraverso questi hobby mi sono accettata, e fatta accettare, a livello lavorativo.
Ho faticato degli anni a convincermi di valere qualche cosa.
Ma sono certa che è servito a qualcosa il lavorare, farmi conoscere, farmi vedere per quello che sono, le mie qualità, essere credibile, dimostrare di avere carattere, di avere delle idee dei pensieri delle cose da dire e da comunicare al mondo; è servito dire sempre il mio parere, sfruttare al meglio la mia fantasia, la mia creatività, precisione, quello spirito che ti dice di non lasciare le cose a metà, che ti invita, ti spinge a portare a termine quello che stai facendo, che ti viene da dentro e che a volte si dimostra come un fremito insostenibile.