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autore: Autore: Roberto Ghezzo

Gestione e marketing del non profit

“Ho fatto le tagliatelle, ma son venute tristi”, dice la massaia di Bologna, sempre pronta all’autocritica e alla ricerca sincera della perfezione quando si tratta di pasta sfoglia fatta a mano. Il tortellino è triste quando non sa di nulla, è triste la crescentina quando è troppo unta, è triste il cibo che non mantiene quello che promette.
Gustave Flaubert, nel suo Dizionario dei luoghi comuni, definì l’economista “scienziato triste” ed è per questo che l’economia viene spesso denominata “la triste scienza”. Forse perché l’economia è una scienza ingrata, le cui leggi pare si divertano a cancellare il sorriso anche dei più ottimisti: è la scienza dove gli errori si pagano caro, anche con la vita. Sono moltissimi i contadini indiani suicidi perché non sono stati in grado di pagare i debiti contratti con le multinazionali del grano, quel famoso grano i cui semi bisogna ricomprarli ogni anno. È ormai un luogo comune, non più messo in discussione, che l’economia sia il luogo dove finiscono i buoni sentimenti, dove si attua la lotta del tutti contro tutti, dove l’egoismo viene premiato.
È possibile, sfatando questi luoghi comuni, fondare un’economia diversa?
Un medico brasiliano, Eugenio Scannavino, ha chiamato il suo progetto di educazione in Amazzonia Saude e alegria, salute e allegria, perché la salute è l’allegria del corpo e l’allegria è la salute dell’anima. È utopico pensare all’economia come una scienza sana e allegra?
L’etimologia del termine felicità viene da felicitas, la cui radice “fe” significa abbondanza, ricchezza, prosperità. I campi di grano per i latini erano felici, nel senso di fecondi.
Si può essere veramente felici solo se si è fecondi. Solo se sapremo riappropriarci dell’economia intesa come capacità dell’essere umano di essere fecondo e creativo potremo essere felici come solo una massaia di Bologna sa esserlo.
 

Gestione e marketing del non profit

Il concetto di risorse umane può essere frainteso se mettiamo al primo posto nella scala dei valori l’azienda e i suoi obiettivi. In una concezione di lavoro sana c’è sì il prodotto ma anche una relazione armonica con la natura e con gli altri esseri umani. Invece viviamo come rovesciati: le aziende ormai controllano il pianeta, alcune sono più potenti degli stati, e gli esseri umani sono risorse, né più né meno che risorse come alberi, ferro o petrolio. Qualche politico parla di Azienda Italia, pensando di fare un figurone e riducendo la Qualità della vita alla Quantità del PIL. Luca Cordero di Montezemolo, che ha imparato a pensare come penserebbe un’azienda se fosse una res cogitans, sogna probabilmente un mondo dove ogni abitante possiede due Fiat. Il paradiso per Microsoft è sicuramente un mondo dove chiunque possieda 3 computer… Poco importa se per fare questo distruggiamo, inquiniamo, saccheggiamo la Terra, che non è più Madre: l’essere umano è in funzione delle Aziende, ovvero target – cliente e risorsa umana – forza lavoro. Il dipendente perfetto allora è quello che mette al primo posto l’azienda, che la pensa giorno e notte, che vive per lei, coercitivamente (i nuovi schiavi sfruttati delle fabbriche asiatiche) o in maniera volontaria dappertutto. Purtroppo anche nel no profit assistiamo a queste storture: qualche associazione vive esclusivamente per il superattivismo dei suoi membri, vive in competizione con le altre, sogna di proliferare in tutto il mondo. Attenzione quindi a non aziendalizzare troppo le persone, ad annientarle riducendole al loro ruolo. Non è l’uomo per l’azienda ma l’azienda per l’uomo… Anche nel no profit!

(Roberto Ghezzo)

 

Il leone e la zebra

Parecchi anni fa ho visto un documentario sulla vita animale nella savana, uno di quei classici documentari che ogni tanto fa bene guardare perché si vede un mondo pre-umano, come se l’uomo non fosse mai vissuto su questo pianeta (il che a conti fatti sarebbe stato meglio per tutti gli altri esseri viventi, dato che sono tantissime le specie che si stanno estinguendo a causa della nostra acuta intelligenza). Il documentario descriveva le varie tattiche che molti erbivori mettono in pratica per difendersi dai predatori: una di queste è tipica delle zebre. La fatidica domanda che ci chiediamo dalle scuole elementari – “Ma perché le zebre sono juventine? Perché sono a strisce bianche e nere?” – finalmente ha una risposta. Attraverso la selezione naturale, le zebre hanno sviluppato il loro caratteristico manto per essere meno individuabili dai predatori e per un motivo semplice e molto interessante. Quando il leone di turno scatta dietro a un branco, il fatto di vedere passare decine di zebre tutte uguali, centinaia di righe bianche e nere in movimento, gli fa perdere la concentrazione, non riesce cioè a concentrarsi su una zebra in particolare… per cui finisce quasi subito per spomparsi e lasciar perdere… almeno qualche volta. Se non c’è una zebra che abbia una qualche particolarità, che sia ad esempio più isolata dal branco, o resti indietro perché è più lenta, per il leone è difficile fissare le sue energie su una in particolare e alla fine questa tecnica di fuggi-fuggi di massa, di confusione di massa funziona.
È molto interessante questo meccanismo psicologico, ed è lo stesso, credo, di quello che accade quando consideriamo le ingiustizie su questo pianeta: nel loro insieme ci sembrano una massa indistinta e il nostro possibile apporto per trovare una soluzione sembra veramente una goccia nel mare. Migliaia di bambini muoiono ogni giorno per fame, ma questo fatto non emerge nemmeno più da questa massa indistinta: come si dice, non fa notizia. Qualcosa qua e là emerge, quando fa rumore, per poi quasi subito inabissarsi nell’oblio. Oggi sono i tragici fatti che accadano in Birmania, gli stessi che abbiamo visto nel 1989 sulla piazza di Tien An Men. Ma ancora il Darfur, il Tibet, l’Iraq… e via così finché la nostra attenzione si perde, si spompa, per magari approdare a cose più terra terra, alle quali alla fine applichiamo una attenzione maggiore, come il rigore non dato (come al solito) proprio alla Juventus.

Numeri come zebre
Prendo in mano un numero della rivista “Amici dei lebbrosi” (per l’esattezza il n. 7/8 di quest’anno), organo dell’AIFO, la ONG degli amici di Raoul Follerau. Ci trovo un articolo di Giampiero Griffo che ci informa che: “Le persone con disabilità sono circa 650 milioni e l’82% di loro vive in paesi in cerca di sviluppo. Il 98% di queste persone non ha accesso ai servizi riabilitativi. Nel mondo più dell’85% delle persone con disabilità non ha un impiego e solo il 2% dei minori ha una educazione formale”.
Cosa di prova a leggere una cosa del genere? 650 milioni? Sono circa un decimo della popolazione mondiale! A leggere questi numeri ci si sconforta, si è presi da una sorta di apatia e di rigetto. Anche perché è evidente che nel Sud del mondo la disabilità non è frutto del caso, non è frutto di processi che non sono ancora sotto il nostro controllo. Anzi. A differenza della maggior parte dei casi che si presentano nei nostri paesi, nel Sud del mondo la disabilità è frutto di ingiustizia. Si stima che il 50% delle disabilità sono prevenibili e direttamente causate dalla povertà. Fame, malnutrizione, disabilità e povertà sono legate; la malnutrizione causa circa il 20% delle lesioni. Ma come se non bastasse ci sono anche poveri di serie A e poveri di serie B. Leggiamo infatti poco più avanti: “La condizione di disabilità è causa ed effetto di povertà perché le persone con disabilità sono soggette a discriminazioni e a mancanza di pari opportunità che limitano la loro partecipazione sociale e violano i loro diritti. La visione negativa che la società trasferisce sulle persone con disabilità produce un fortissimo stigma sociale che ha conseguenze nella vita economica, culturale, politica e sociale. In caso di guerra, di catastrofi naturali e umane le persone con disabilità sono le prime a patire le terribili conseguenze delle emergenze, spesso con la morte e la mancanza di attenzione alla loro condizione. Per questo le persone con disabilità rappresentano i più esclusi fra gli esclusi, i più discriminati fra i discriminati, i più poveri tra i poveri”.
Povertà e disabilità sono strettamente correlate ed entrambe sono frutto di una ingiustizia di fondo, quella che vede una non distribuzione della ricchezza tra gli abitanti di questo pianeta. La Banca Mondiale stima che le persone con disabilità sono comprese tra il 20% dei più poveri dei poveri.
La disabilità riguarda non solo gli individui ma anche le loro famiglie e le comunità. Si ritiene che la vita del 25% della popolazione nella regione Asiatica sia influenzata dalla disabilità.
Il leone a questo punto si ferma. Quando si parte con l’intento di colpire preciso, di essere efficaci, di dare una zampata alle ingiustizie, anche le buone intenzioni di fronte a questo disastro restano sconcertate, non si sa da dove partire. La massa di milioni di poveri resta lì, indistinta, imprecisa e il senso di impotenza ci invade.

Da azione a relazione
Ma nello stesso numero di “Amici dei lebbrosi”, troviamo una via di uscita dallo stallo. Troviamo una risposta. L’AIFO è una ONG che è riuscita a mettere in piedi tantissimi progetti di aiuto basati su quella che viene chiamata la Riabilitazione su Base Comunitaria, partendo cioè dalla consapevolezza che l’unico modo di operare un cambiamento in positivo è fare leva sulla comunità. Non serve tanto costruire un ospedale nel deserto ma è molto più efficace dare la formazione e gli strumenti per la riabilitazione innanzitutto ai disabili stessi, alle loro famiglie, agli insegnanti del villaggio, agli operatori sociali che vivono lì.
Dai milioni di poveri, dalla massa indistinta di disabili, attraverso la finestra della rivista “Amici dei lebbrosi” emergono invece delle storie, delle persone, dei volti, come quello di Pupala Satyavati, una ragazza che è riuscita a vincere la lebbra. Veniamo a sapere della possibilità di creare gemellaggi come quello tra la scuola primaria di Dolceacqua (IM) e la scuola Naye Asha in India. Oppure ancora troviamo esperienze concrete come quella straordinaria dei “Tambores do Tocantins”, di Porto Nacional in Brasile, che quest’anno hanno fatto una tournée proprio qui in Italia e che sono nati con lo scopo di contribuire alla preservazione delle tradizioni brasiliane, particolarmente nell’area della percussione. Si sono così resi accessibili a bambini, giovani e adolescenti il contatto e la conoscenza delle proprie radici musicali attraverso la riscoperta delle tecniche di costruzione degli strumenti, salvando dalla scomparsa alcuni di questi, come il tamburo di Rabo o Roncador, il tambor de barro.
Non più una massa grigia e indistinta ma persone e volti, colori e storie.
Il grande salto si fa poi quando dalla logica dell’azione passiamo a quella della relazione, e anche la logica dell’aiuto diventa un’altra. Non è più la logica del leone che aggredisce e colpisce. Nella relazione avviene uno scambio e il gioco delle parti non è più a senso unico, si ribalta. Anche i numeri cambiano: la relazione si può avere solo con poche persone. Don Milani, che pure era un uomo dal cuore aperto, diceva che non si può amare più di 40 persone! L’aver cura, dice il teologo brasiliano Leonardo Boff, è quello che ci rende umani, è la cifra del nostro essere. Individualmente possiamo aver cura solo di poche persone, la relazione avviene solo con chi ha un volto, la relazione si dà tra persone che hanno deciso di fare un cammino insieme. Madre Teresa di Calcutta, a chi le chiedeva qual era la persona più importante della sua vita, ha risposto: “Quella che ho davanti in questo momento”. Non serve quindi andare a cercare tanto in là, ognuno di noi incontra persone ed è a partire da queste persone cui abbiamo iniziato a voler bene che possiamo attuare un cambiamento. È come dire che il vero cambiamento parte da noi stessi, in quanto ci lasciamo cambiare dalle persone che abbiamo incontrato. Paulo Freire diceva: “Nessuno libera nessuno. Nessuno si libera da solo. Ci liberiamo insieme nella comunione”. La risposta è nell’essere comunità, abbandonando la logica del primo mondo che come un leone vuole colpire la zebra, vuole arrivare in un paese del Sud del mondo e cambiarlo in meglio, senza avviare un confronto con la comunità e in questo confronto ridisegnare i propri obiettivi e atteggiamenti. Max Robson, un educatore brasiliano di Vila Esperança, che è uno dei tanti progetti aiutati da AIFO, lo ha detto bene durante un incontro in una scuola elementare di Casalecchio di Reno (BO): “Non ci sono bambini poveri e bambini ricchi. Ci sono solo bambini ricchi, alcuni dei quali poveri di soldi”. Aiutare vuol dire quindi scoprire questa ricchezza, viverla insieme, scoprire che, per dirla sempre con le parole di Robson, la persona non è il problema ma la soluzione del problema.
C’è sicuramente un livello politico sul quale dobbiamo fare pressione perché ci sia un cambiamento di attenzione e prospettiva. Basti pensare che perfino le attività di cooperazione internazionale allo sviluppo non si occupano delle persone con disabilità (una ricerca ha fatto emergere che nei paesi della Unione europea solo il 2-5% dei fondi è destinato a progetti sulla disabilità).
Ma c’è un altro livello, ed è alla portata di tutti noi. La domanda allora non deve essere più: “Cosa fare e come farlo?” – ma dovrebbe essere: “Sono disposto a incontrare l’altro e a fare un cammino di strada insieme a lui?”.
 

La creatività divergente, detergente e… salvagente

Eccoci finalmente al quarto appuntamento dello Spazio Calamaio dedicato ai laboratori realizzati durante il convegno “Storie di Calamai e di altre creature straordinarie: disabili come educatori nell’esperienza di integrazione a scuola”, in occasione del ventennale del Progetto Calamaio a Bologna.
Il mio laboratorio era dedicato alla creatività e il pensiero divergente, partendo dalla constatazione che il primo atto creativo alla base degli incontri che svolgiamo in classe è quello di scollegare il termine handicap dall’universo abituale nel quale lo troviamo inserito, sia attraverso una sua ridefinizione con l’aiuto di contesti diversi (come la fiaba e il gioco), sia attraverso lo specifico del Progetto Calamaio, ovvero l’incontro diretto con la persona con deficit, che si sperimenta in quanto animatore con disabilità e diversabilità.
Un giochino all’uopo, del quale per intrisa cattiveria non daremo la soluzione ma che è abbastanza celebre e che potrete trovare ad esempio nel libro Change di Watzlawick (edizioni Astrolabio), è il seguente:

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connettere tutti i 9 punti con solo 4 linee rette senza staccare la penna dal foglio.

La difficoltà principale in questo gioco deriva dal fatto che questi 9 punti ci appaiono come un quadrato. In effetti noi vediamo un quadrato formato da 9 punti, non vediamo i 9 punti presi singolarmente. La percezione del problema, l’immagine che ce ne facciamo già inficia profondamente il nostro tentativo di trovare una soluzione. Prendiamo questo quadrato di 9 punti come una metafora dell’handicap: se cercheremo di superare o risolvere questo problema tracciando linee all’interno del quadrato (come ci porta il nostro naturale modo di pensare) non riusciremo mai a trovare la soluzione. La parola handicap è una parola impoverita perché collegata troppo spesso solo a se stessa (ai disabili, ai loro famigliari, agli operatori del settore, all’insegnante di sostegno, ecc.). È una parola povera di vita perché collegata quasi esclusivamente a un sapere tecnico, scientifico, specifico (medico, pedagogico, psicologico, ecc.). L’unico modo di risolvere il problema dei 9 punti è di uscire dal quadrato, scoprire che in effetti non abbiamo di fronte un quadrato ma solo 9 punti, scoprire che il quadrato è solo un modo di vedere i 9 punti.
Una volta abbiamo proposto il problema dei 9 punti in una scuola media e una ragazza ha detto: “Forse per risolverlo bisogna fare perno sui punti immaginari!” e subito dopo ha risolto il problema. È proprio qui il segreto, fare perno su punti immaginari esterni al quadrato, sforzarsi di immaginare questi punti, produrre una nuova immagine di handicap. Fare cioè perno sulla nostra creatività, perché una caratteristica essenziale dell’atto creativo è proprio quella di uscire dagli schemi cui il pensiero abitudinario ci imbriglia.
La soluzione è data dal muovere le linee partendo dal quadrato ma uscendone, ad esempio scoprendo che la parola handicap ha molto a che fare con lo sport, anzi nasce proprio come parola sportiva (pare che la mano–hand sul berretto–cap fosse il modo di dare uno svantaggio a un fantino più vincente degli altri). Se facciamo attenzione, si scopre così che ogni gioco al suo interno ha un handicap, una difficoltà, che è conseguente al nostro rapporto con le regole del gioco.
La creatività quindi sta tutta nel definire nuove regole, adattandole ai limiti delle persone, che rendano possibile l’obiettivo-fine di ogni attività ludica, ovvero giocare divertendosi. Nei laboratori dove proponiamo il giochino dei 9 punti, quando dopo alcuni minuti tutti sono già alle prese con la ricerca spasmodica della soluzione, le scarabocchiature e lo stress, il conduttore dell’animazione propone: “Volete un aiutino?”. Molti dicono di sì ma molti dicono di no… Ragionare sul perché accade questo è molto importante. Molti non vogliono essere aiutati perché non sarebbe più divertente, vogliono farcela da soli, sentono cioè che possono farcela e che saranno ricompensati dalla soddisfazione di aver superato la difficoltà, cioè l’handicap, in cui consiste il sale di questo gioco, come quello di tutti i giochi. Non esistono infatti giochi che non abbiano una qualche difficoltà-handicap al loro interno. Nel calcio, ad esempio, la porta non è larga trenta metri (sarebbe troppo facile mettere la palla dentro, ci sarebbe troppo poco handicap) e nemmeno è di un metro, difesa magari da due portieri (sarebbe troppo difficile metterla dentro, ci sarebbe troppo handicap). L’handicap è come il sale per la minestra: senza non avrebbe sapore, troppo la renderebbe immangiabile. Il segreto è dosare il sale, dosare la difficoltà, dosare l’handicap: solo così possiamo giocare divertendoci. Il divertimento nasce da un equilibrio tra successi e insuccessi, tra difficoltà e superamento della difficoltà. Il divertimento nasce nello spazio compreso tra due momenti di un ipotetico segmento, in cui a un capo sta “troppo handicap” e dall’altro “pochissimo handicap”: nel primo caso non possiamo giocare, nel secondo non ha senso giocare. Nel primo caso, troppo handicap, la difficoltà impedisce lo scopo stesso del gioco (nel calcio è metter la palla dentro e quindi, con una porta larga un metro e due portieri, tutte le partite probabilmente finirebbero in parità!). Nel secondo caso, pochissimo handicap, sarebbe troppo facile raggiungere l’obiettivo del gioco e quindi non ci sarebbe divertimento (con una porta larga 30 metri, tutti farebbero gol a ogni tiro, e di conseguenza la partita sarebbe continuamente interrotta dalla ripresa del gioco a metà campo, non si potrebbe capire il valore né dei portieri né dei giocatori, e in definitiva il risultato finale della partita dipenderebbe più dalla casualità che dal valore delle due squadre in campo).
In questo senso la parola handicap ha due accezioni: una negativa e l’altra positiva. La negativa è quella per cui l’handicap è sostanzialmente lo svantaggio causato dalla presenza di un deficit che rende più difficile il rapporto con l’ambiente: in questo senso l’handicap va ridotto, bisogna lavorare per diminuirlo. Ad esempio, le barriere architettoniche vanno abbattute, il che tra l’altro, crea un mondo più a misura per tutti, perché le persone a ridotta mobilità che si troverebbero avvantaggiate da un ascensore largo o un bagno accessibile, non sono solo quelle con deficit, ma anche le persone anziane, le mamme con il passeggino, il manager con la valigia da viaggio, ecc.
Nella seconda accezione, invece, scopriamo che l’handicap ha anche una dimensione positiva se riusciamo a creare un sistema di regole di gioco per cui sia possibile divertirsi. Se si gioca e non ci si diverte, qualcosa non va… Magari basterebbe ridefinire le regole che non sono adeguate e non pensare che siamo noi a non essere adeguati.
Diversità e divertimento
hanno la stessa radice latina, devertere, cioè percorrere altre strade, volgere lo sguardo altrove: questa concezione di handicap, per cui lo consideriamo essenziale al divertimento, ci porta al centro quindi del pensiero divergente, ovvero del pensiero creativo. Ecco perché l’handicap in sé, come il sale in sé, non è il punto da mettere a fuoco, non è un alimento, non ci interessa, ma è invece essenziale nel suo essere in rapporto con le regole di ogni gioco. Condividiamo cioè la percezione dei più che non si interessano all’handicap in quanto tale. È giusto così. Ma invece di lamentarsi di questo e di operare con il pensiero convergente proponendo spazi dove si parla in termini medici e specialistici del mondo dell’handicap, invece di proporre l’ennesimo spazio chiuso, l’ennesima giornata del disabile, l’operazione più creativa che possiamo fare è smarcarci da questo ricadere nel quadrato (anche se qualche volta purtroppo sono i disabili, le famiglie stesse o gli specialisti a fare quadrato). Il senso dei nostri incontri nelle scuole è scoprire e svelare la creatività che viene liberata dall’interazione tra l’handicap e il grande gioco della vita (nella quale siamo sempre pedoni, come dice Mongo nel film Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks, e chi non conosce la battuta si vada a vedere il film, essenziale a mio avviso nella formazione di qualsiasi persona si occupi di educazione e animazione).
La divergenza del Calamaio è anche quella degli occhi di Ben Turpin, lo strabismo che fa ridere, di chi sa considerarsi con autoironia, che è l’arma più vincente che abbiamo quando parliamo agli studenti. Ci possiamo ispirare ad esempi altissimi di autoironia come quelli che si trovano nella cultura yiddish (si veda al proposito il libro edito da Piemme e curato da Moni Ovadia Così giovane e già ebreo, una serie esilarante di storielline yiddish raccolte da M. A. Ouaknin e D. Roetnem). Attraverso un modo di porsi diretto, l’animatore con deficit si presenta come una persona che appunto anima, propone dei giochi, fa divertire… al di là del suo deficit stesso. In genere non si distingue tra la persona e il deficit di cui è portatrice. Il Progetto Calamaio invece nasce nell’incontro tra un animatore e gli studenti di una classe, nel quale il deficit, la carrozzina, la lavagnetta per comunicare sono sì presenti ma non sono il tema più importante dell’incontro. “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito” dice un proverbio orientale. Il tema che più ci interessa non è il deficit (questo sì di una categoria di persone) ma è appunto l’handicap, gli strumenti creativi per ridurlo o per valorizzarlo attraverso una ridefinizione delle regole, il tema vero è l’handicap di tutti, anche quello dei normodotati gravi, ovvero l’imbarazzo e le incomprensioni che nascono dalla non conoscenza della diversità.
Quello che interessa non è quindi attirare l’attenzione degli studenti su una categoria protetta (il che farebbe pensare alla Lipu), ma quello di vedere come la crisi che il deficit produce in qualsiasi sistema di regole codificato e tendenzialmente statico, può essere rigenerativa, divertente, sana… Scoprire che Claudio non parla ma comunica lo stesso con il metodo della lavagnetta trasparente può far nascere una serie di pensieri che ci interessa molto limitatamente. Ad esempio: “Guarda che cosa si può fare (per i disabili) con gli ausili (per i disabili)! Che forza d’animo che ha avuto Claudio! Che sensibilità e intelligenza!”. Molto più significativo è scoprire assieme ai ragazzi che si può comunicare anche senza parlare, che ci vuole una buona dose di allenamento e di creatività, che non è notoriamente utile solo alle categorie protette, ma a tutti gli esseri umani.
Il Calamaio in questi vent’anni ha dunque scoperto di essere strabico, senza macchia e senza paura nelle tempeste della vita, utile a tutti, perché è creativo, divergente, detergente e salvagente.
 

Gestione e marketing del non profit

Il concetto di consumo critico lo associamo spesso a un esercizio quasi burocratico di attenzione e selezione del prodotto: armati di lente di ingrandimento e di una calma da filatelici andiamo alla ricerca delle fregature sull’etichetta. Come è stato prodotto? È stata usata manodopera mal pagata e sfruttata? Ha inquinato l’ambiente? Il marchio appartiene a una multinazionale? Sarà biologico? Mi è utile veramente? E così via.
Bisognerebbe invece associare di più il consumo critico alla creatività. Un esempio: lo sport più consumato e consumistico nel mondo è il calcio. A Bologna, trent’anni fa, su iniziativa di un nostro collega che purtroppo non c’è più, Alberto Fazzioli, nasceva il calcio in carrozzina, ovvero uno sport adattato alle caratteristiche di giocatori con disabilità e diversabilità. In genere siamo portati a ritenere che dobbiamo essere noi ad adattarci alle regole delle varie discipline sportive: il calcio in carrozzina dimostra come invece tutte le discipline nascano da un atto creativo, dalla coscienza di essere in primo luogo consum-attori, cioè artefici delle cose che consumiamo.
Scomodando il buon Kant, se dovessimo scrivere una Critica della ragion pura del consumo critico, vedremmo che il prodotto, in quanto fenomeno, è da sempre soggetto alla nostra attività creatrice. La crescente, varia e complessa ricchezza dei prodotti che consumiamo ha indotto la pubblicità martellante e imperante a imporre un prodotto-noumeno, un prodotto la cui essenza ci sfugge, è inconoscibile a noi consumatori comuni mortali. Quasi quasi ormai accettiamo per fede che i prodotti industriali siano migliori di quelli che ci potremmo produrre noi con le nostre mani. Recuperare una dimensione creativa attraverso gesti semplici, come fare il pane in casa o cercare di riparare gli oggetti rotti (come facevano i nostri nonni), o inventare uno sport su misura per noi, è la vera cifra del consumatore critico.
 

Gestione e marketing del non profit

Ha scritto il grande pedagogista brasiliano Paulo Freire: “Nessuno libera nessuno, nessuno si libera da solo: gli uomini si liberano nella comunione”.
Questo concetto è alla base di… tutto! Sia perché tocca praticamente ogni aspetto della vita umana, sia perché sta alla base di gesti molto concreti, quanto possono essere quelli economici. Penso ad esempio al microcredito, in particolare nel Sud del mondo: affidare una piccola cifra, o un bene da vendere, a una famiglia permette di mettere in moto un meccanismo virtuoso, dove il controllo viene esercitato in primo luogo dalla comunità. François Ratzimbazafy, lo psicologo malgascio che ha fondato un’associazione di famiglie ad Antsirabe, me lo spiega in modo semplice: se affidiamo un sacco di carbone da vendere, o un sacco di semi di mais da piantare, praticamente sempre si riesce a recuperare la somma investita, perché l’esazione viene poi affidata alle stesse famiglie della comunità. In un ambiente come può essere quello contadino, o di piccola comunità urbana, tutti si conoscono e la fiducia reciproca, che è una garanzia del ritorno del prestito, nasce da una condivisione concreta. I comportamenti costruttivi, di impegno, vengono premiati e fanno da modello per le altre famiglie, creano le condizioni per uno sviluppo dove tutti sono coinvolti. Certo è un processo lento perché non si basa su un cambiamento imposto, che viene dall’alto, ma si basa su un cambiamento di mentalità. Il lavoro con le famiglie qualche volta è faticoso. Eppure l’unico sviluppo possibile è quello dove la libertà, come diceva anche Gaber, non nasce dalla creazione di uno spazio libero, magari da un progetto ben riuscito. La libertà nasce dalla partecipazione e dalla comunione dove ci si libera tutti insieme.
 

L’esilio del disabile

La seconda parte dell’estetica dell’handicap. Analizziamo l’immagine della persona disabile utilizzando alcune categorie dell’estetica occidentale. La comunicazione e la creatività, ovvero il sentiero del ritorno dall’esilio. Le donne brutte di Picasso, la casualità di John Cage

Rosenkranz nella sua Estetica del brutto (1850), opera che d’ora in poi terremo sempre presente, notava che più cresce la complessità della forma organica e più un organismo può apparire brutto o bello. Ad esempio, una pietra può essere brutta ma non può diventare brutta quanto lo possono diventare un animale o una pianta, essendo la pietra più semplice, meno complessa e differenziata. L’uomo, che è al top della complessità organica, è l’essere più bello della creazione ma può diventare, per lo stesso motivo, il più brutto. Teniamo sullo sfondo questa considerazione e proviamo ad indagare le ragioni per cui un uomo può diventare brutto, a partire magari dal suo stesso stato esistenziale cioè quello di essere umano. In relazione alla disabilità questa analisi può rivelare qualche sorpresa.

Animale o dio?

Innanzitutto una persona con deficit ha una grande difficoltà ad essere accettata come persona in quanto tale, sia perché è "nascosta dal suo deficit", cioè identificata con il suo deficit, sia perché la sua condizione appare sorprendente per un che di contraddittorio, di paradossale. Per i greci chi non è nella pòlis, chi non appartiene alla città, chi non ne parla il linguaggio, chi ne sta fuori, o è un animale o è un dio. La condizione umana dell’handicappato è un dato in teoria condiviso e accettato da tutti, ma nel concreto, nel quotidiano non è così. Per l’immaginario collettivo l’handicappato stenta a rimanere sul piano umano e slitta ora verso il piano animale ora verso il piano divino. Vediamo perché. Generalmente si considera il disabile come più sofferente, anzi per certi versi il simbolo della sofferenza, che come sappiamo è un concetto che gioca un ruolo molto importante nella dottrina cristiana. Purtroppo è ancora molto diffusa la concezione che individua il disabile come colui che espia i peccati dell’umanità (e nella concezione più arcaica le colpe della famiglia), del disabile che una volta lasciata questa valle di lacrime se ne va dritto in Paradiso. Quindi se la via della sofferenza è una via che porta a Dio, naturalmente un handicappato più che col piano temporale ha a che fare col mondo a venire, più che con il qui ed ora la percezione dell’handicappato rimanda all’al di là. Ecco un primo paradosso: a che mondo appartiene il disabile?
Come se non bastasse, accanto a questa spinta diciamo ascendente, c’è una spinta discendente che schiaccia il disabile, lo appiattisce sui dati "terreni". La sua corporeità, infatti, risalta molto di più che nei normodotati (basti pensare alle funzioni primarie, ad esempio mangiare o bere, che spesso sono problematiche e saltano subito all’occhio); la sua animalità, ma forse sarebbe meglio parlare di corporeità (l’animalità ha a che fare con l’anima, mentre il corpo disabile può essere sentito come ottuso, opaco, privo di strade interne di energia) viene in primo piano. L’animalità, pur presente in ogni uomo ma che dall’educazione-galateo viene addomesticata, valorizzata e sublimata, nel disabile diventa un ospite scomodo perché troppo spesso subita e incompresa. Torniamo al detto greco: chi non sta nella pòlis o è un animale o un dio. Abbiamo visto che l’handicappato è sottoposto a due spinte compresenti che negano comunque la sua dimensione umana. L’uomo è un essere dove si armonizzano sia il dato animale sia la componente razionale-divina. L’uomo è nella natura, appartiene alla natura, ma nello stesso tempo è come se la guardasse dall’esterno proprio grazie alla facoltà-dimensione umana per eccellenza: l’autocoscienza. L’uomo è a metà strada tra l’animale e il divino e su questo territorio di mezzo ha costruito la sua città, la sua comunità, in cui è essenziale condividere il lògos, il linguaggio, per poterne far parte. Se questa condivisione per il disabile è problematica, è inevitabile, come si è visto, l’esilio fuori dalla città.

Altri paradossi

Per Rosenkranz la contraddizione data dalla compresenza tra stati esistenziali diversi non può che urtare e risultare brutta. Ma ci sono anche i mondi vegetale e minerale con cui il disabile si trova ad intrattenere rapporti di somiglianza ed analogia. Pensiamo ad un disabile indurito sulla sua carrozzina, un uomo-pietra, o ad un handicappato passivo che subisce tutto come un uomo-vegetale. La presenza nello stesso corpo di mondi diversi, l’umano, l’animale, il vegetale, il minerale, non può che scatenare avversione, senso di bruttezza. I medievali, tanto per fare un esempio, raffiguravano il diavolo come un uomo con le zampe di capra.
Ma le apparenti contraddizioni si moltiplicano: la vita dell’handicappato a molti sembra non-vita, una vita priva delle caratteristiche tipiche della vita (il movimento, la trasformazione, le situazioni sempre nuove, una storia con passato, presente e futuro). Una vita che stenta ad affermarsi in un corpo che ha parti che sembrano morte: il cervello, le braccia o le gambe già consegnate a quella specie di bara mobile che è la carrozzina. Consideriamo ancora la contraddizione che rende questa persona un fantasma, un essere che è e non è insieme. E dei tanti mostri, creature diverse (ne abbiamo passati in rassegna alcuni nei numeri passati di HP), vorrei ricordare la creatura del dottor Frankenstein, l’essere che la scienza riesce a tenere in vita (come avviene per tanti neonati che solo pochi anni fa sarebbero morti) anzi riesce a far risorgere, per poi consegnarlo ad un’esistenza che non trova accoglienza nella comunità umana.

Ritorno dall’esilio

Chi non è nella pòlis o è un animale o è un dio. Chi non parla il linguaggio, il lògos, della città, chi non dialoga, non confronta scambia e commercia idee con gli altri suoi simili, non è umano, non è della pòlis, non fa politica.
Il nodo della comunicazione tra un normodotato e un disabile è il nodo più importante. Proprio a causa del deficit un disabile mette in crisi il sistema convenzionale del linguaggio e se non troviamo, immaginiamo, creiamo, un codice linguistico che ci permetta di comunicare, il destino di un disabile è segnato. La sua diversità diventa estraneità, non c’è dialogo, non c’è riconoscimento. La paradossalità dell’apparire del disabile, le apparenti compresenze di stati esistenziali così contraddittori che prima abbiamo passato in rassegna, scaturiscono proprio da questo mancato riconoscimento, da una mancata comunicazione. La logica dell’esilio è la logica che relega il disabile in una dimensione eterna e senza storia, ora quella naturale dei bisogni animali ora quella divina di un mondo a venire. In entrambi i casi al disabile viene negata una storia, una dimensione temporale umana in cui passato-presente-futuro sono tre stadi collegati ma anche molto diversi tra loro.
Gli unici antidoti possibili a questa patologia sociale e culturale rimangono la conoscenza e la comunicazione. La carrozzina potrà sempre apparire una sedia elettrica per chi non ne conosce l’utilizzo, ad esempio, nello sport. La conoscenza (potenziata magari dai mass-media) e la creatività sempre più collegano il mondo del disabile al Mondo, sempre più ci allontanano da quell’immagine stereotipata e brutta che abbiamo illustrato prima. Mai come oggi si sente l’esigenza di immaginare e di creare un mondo a misura d’uomo, forse perché con la creatività e gli strumenti che abbiamo adesso sappiamo che è possibile, che è un traguardo raggiungibile. Chi avrebbe parlato solo poco tempo fa di sport per disabili?
E’ fondamentale capire però che questo ritorno dall’esilio non è una operazione di bontà da parte del mondo dei normodotati, da parte dei cittadini della pòlis. Fuori della pòlis, come ho detto, il destino di un disabile è segnato ma anche la pòlis avrà vita breve. Quella comunità che non riesce a integrare le persone, che non ha un lògos-linguaggio in grado di trasformarsi, di adattarsi in modo tale da sfruttare tutte le potenzialità è destinata alla rovina. L’esilio del disabile testimonia una patologia della città che, non curata, può diventare mortale.

Etica ed estetica

La corrente principale della nostra tradizione culturale ci porta a considerare la bellezza un aspetto della bontà ed il bene come connaturato al bello. Espressioni come "il vizio rende brutti e la virtù rende belli" oppure "non c’è vera bellezza senza libertà e non c’è vera bruttezza senza illibertà", sottendono una connessione profonda tra etica ed estetica, tra valori morali ed estetici. Rosenkranz enumera una serie di caratteristiche, suddivise da buon hegeliano in tre triadi, tipiche dell’essere brutto che qui riportiamo:

Volgare

meschinità: esistenza condotta sotto i propri limiti
debolezza: esistenza condotta al di sotto della forza che le spetterebbe
bassezza: quando la libertà è subordinata alla illibertà

Vile

quotidiano: abituale e triviale
casuale: arbitrario e mutevole
rozzo: svilimento dell’essere

Ripugnante

goffo: negazione del grazioso
morto: negazione del giocoso
orrido: negazione dell’attraente e quindi insulso e malefico.

Naturalmente non ci interessa qui stabilire l’esattezza di questa tabella nè prendere in considerazione la teoria che l’ha determinata ma certamente essa è molto stimolante e suggestiva. La prima cosa che si nota è il fatto che molte categorie hanno a che fare con l’aspetto etico dell’individuo e in particolare sottolineo la debolezza, che connota una esistenza condotta senza la forza e dignità che le spetterebbe. E’ evidente che una persona con deficit psichico o fisico più facilmente di un normodotato potrebbe essere definita con alcune delle categorie della tabella. Ma la cosa forse più importante da notare e di cui Rosenkranz non s’avvede (anche perché non dimentichiamo che è un autore del secolo scorso e indubbiamente il nostro gusto estetico è mutato) è che non necessariamente tutte le categorie della tabella prese in sè sono negative. Quotidiano e casuale, ad esempio, non significano necessariamente trivialità o arbitrarietà (termini questi che invece hanno una connotazione negativa). Nell’arte contemporanea si è esplorato molto il terreno della casualità con dei risultati straordinari. Esiste ad esempio una composizione di John Cage ottenuta sovrapponendo un pentagramma su una mappa del cielo stellato le stelle diventavano così, arbitrariamente, delle note, e il risultato casuale una musica che definirei cosmica.

Handicap e arte contemporanea

C’è un certo elemento di casualità anche nella improvvisazione: nel mondo occidentale il jazz ci ha familiarizzato con questa modalità di fare musica, soprattutto il free jazz, che ha portato alle estreme conseguenze l’improvvisazione (perché qui i musicisti hanno una libertà totale) e dove l’effetto complessivo è casuale. Certo alla maggior parte delle persone potrà apparire brutta questa musica, inascoltabile, eppure è espressione di una ricerca artistica, di un senso del bello che non è magari condiviso da tutti. Se l’arte non diventa comunicazione, se quel quadro, quella musica non mi dicono niente, non mi parlano, forse mi potranno apparire brutti, tutt’al più mi lasciano indifferente. L’handicap deve diventare comunicazione.

Secondo me una estetica dell’handicap esiste già, una risposta alla domanda sulla bellezza delle persone disabili già è stata data dall’arte contemporanea. A ben vedere la tabella di uno studioso di estetica del secolo scorso, come Rosenkranz , ha offerto agli artisti e di conseguenza al senso della bellezza, più di uno spunto di ispirazione. Quando Picasso raffigura una donna con un occhio di fronte e l’altro occhio di profilo, forse potrà apparire un quadro brutto, la negazione del grazioso. Picasso in quel quadro ha invece rappresentato il tempo, il movimento. Quel quadro che ha un deficit di realismo, ha invece un surplus di realtà, perché rappresenta il tempo, il reale in un altro modo. Quel viso di donna, la composizione cosmica di Cage, il free jazz e la sua casualità, forse sarebbero apparsi brutti a Rosenkranz, ma per noi contemporanei esaltano l’essenza stessa dell’arte, l’essenza del nostro essere ricercatori e scopritori. Nella comunicazione con una persona con deficit, pensiamo ad esempio a deficit psichici, l’errore, la casualità, l’improvvisazione diventano parte integrante, anzi punti di forza di un rapporto. Ogni educatore sa che è importante valorizzare questi momenti, sa che è importante non lasciarsi sopraffarre dall’ansia della programmazione, dei risultati ed avere il coraggio di seguire qualche volta l’ispirazione. Con l’aumentare della conoscenza reciproca si scopre una logica nelle cose che prima apparivano illogiche e frutto del caso, si scopre che un errore può essere più significativo di una azione che raggiunge l’obbiettivo (in fin dei conti sbagliando Colombo ha scoperto un nuovo continente!).

Mistica e quotidiano

Man mano che cresce la comunicazione si affianca un senso di bellezza, alcune volte tanto più affascinante quanto più si è fatto fatica per trovarlo, altre volte improvviso, che colpisce come il satori, l’illuminazione che è il punto di arrivo della pratica zen.
Il maestro zen dà al discepolo un raccontino (koan) da meditare come pratica per raggiungere il satori, l’illuminazione. Generalmente questi koan colpiscono per la loro paradossalità e vogliono mettere in crisi il pensiero logico, sequenziale di cui il discepolo è prigioniero. Il seguente racconto si intitola "Joshu e la ciotola" ed è tratto da un testo classico dello Zen, La porta senza porta, di Mumon (1183-1260):

Joshu lava la ciotola

Un monaco disse a Joshu: " Sono nuovo del monastero. Ti prego di insegnarmi ". Joshu domandò: " Hai mangiato la tua zuppa di riso? ".

Il monaco rispose: " L’ho mangiata ".

Joshu disse: "Allora faresti bene a lavare la tua ciotola ".

In quel momento il monaco fu illuminato.

Commento di Mumon: Joshu è l’uomo che apre la bocca e mostra il proprio cuore. Non so se quel monaco abbia visto davvero il cuore di Joshu. Spero che non abbia scambiato la campana per una brocca.
E’ troppo chiaro e perciò è difficile vederlo.
Uno sciocco una volta cercava un fuoco con una lanterna accesa.
Se avesse saputo che cos’era il fuoco avrebbe potuto cuocere il suo riso molto prima.

Credo che per noi occidentali faccia molto bene ossigenare il cervello con testi come questo, o riscoprire il pensiero dei mistici nostrani come San Francesco. Penso che possano aiutarci a riscoprire un senso dell’esistenza non appiattito sulle categorie dell’efficienza, del tempo lineare, del possesso, del dominio, del consumo. Una rivalutazione del quotidiano (come la ciotola del monaco) della semplicità delle azioni quotidiane che tanto spazio hanno nella vita non solo di un disabile, è un passo che si accompagna anche alla bellezza.

Essere e dover essere

Torniamo alla tabella di Rosenkranz e alla commistione di valori etici ed estetici. L’handicappato potrà apparire un essere vile, volgare o ripugnante ma in sè un disabile non è altro che una persona più debole perché ha dei deficit. Il suo apparire goffo, rozzo o insulso molto spesso siamo tenuti a considerarli anche come aspetti morali. Ad esempio ogni educatore sa perfettamente quanto sia difficile distinguere il bambino, disabile o non, che volontariamente "fa il cattivo" dal bambino che ai nostri occhi diventa cattivo perché le cose non vanno come dovrebbero, cioè come noi vorremmo che andassero. Le cose per una persona con deficit non sono andate come dovevano andare, mentre per un normodotato le cose vanno e sono andate come dovevano andare. Ma dove sta la bruttezza? Nel non esser adeguati ad un supposto dover essere o nel non saper far fronte all’inaspettato? C’è più creatività quando le situazioni stesse ci spingono a rimetterci in discussione o nella abitudinarietà tranquilla, nella banalità normale di un giorno che è come doveva essere? E’ più goffo, morto, orrido, e questo sì ripugnante, un pensiero che non sa stupirsi del nuovo, che non sa accettare nuove sfide e difficoltà e che nelle difficoltà vede solo negatività e ne ha paura.

Ridere con e ridere di

Il termine diversità e il termine divertimento hanno la stessa radice nella parola latina “devertere”, cioè volgere in opposta direzione, percorrere altre strade. Abbiamo già visto molte volte, in questo percorso di articole dedicati all’estetica dell’handicap, come il devertere, la diversità del disabile, che spesso viene letta in senso tragico, in realtà illumina un percorso anche di creatività, di ricerca, al di là degli stereotipi

Il termine diversità e il termine divertimento hanno la stessa radice nella parola latina devertere, cioè volgere in opposta direzione, percorrere altre strade. Abbiamo già visto molte volte, in questo percorso di articoli dedicati all’estetica dell’handicap, come il devertere, la diversità del disabile, che spesso viene letta in senso tragico, in realtà illumina un percorso anche di creatività, di ricerca, al di là degli stereotipi. Vorrei però approfondire anche l’aspetto più propriamente comico del divertimento che alcune volte è molto evidente ma solo a certe condizioni si riesce a valorizzare. Ci aiuta in questo l’Estetica del brutto di Rosenkranz, scritta nel 1850, che è una miniera di stimoli per riflettere sulla estetica dell’handicap, per rimettere in discussione la ugualianza tra bruttezza ed handicap, spesso data per scontata. Ad un certo punto Rosenkranz afferma che il bello familiarizza con il brutto nel comico. Si ride certamente di una cosa buffa, di ciò che ci sorprende perché inaspettato e che intrattiene rapporti con il brutto. Il grande Charlie Chaplin aveva formulato una delle regole auree dei film comici dei primi anni del secolo: quando cade una persona anziana ciò non fa tanto ridere ma se un poliziotto scivola su una buccia di banana l’effetto comico è garantito. Quando l’istituzione, il sistema, ciò che per sua natura è serio e ordinato, scivola su una buccia di banana, ciò fa molto ridere. Perché? Perché per fortuna l’uomo è libero rispetto anche a se stesso, alle proprie convenzioni, alle proprie abitudini consacrate. E qui salta fuori ancora un ruolo che volente o nolente un disabile ricopre cioè quello di mettere in crisi il sistema in cui si inserisce perché è un sistema che non è stato pensato per la sua diversità.

Beccati questo pernacchio

In molte situazioni il disabile esprime quella che Eduardo De Filippo nel film "L’oro di Napoli" di De Sica, definisce il "pernacchio". Da non confondere con la volgarità della pernacchia, il pernacchio è difficile da fare, bisogna esercitarsi. "Forse siamo ancora in tre o quattro a Napoli, il che significa in tutto il mondo,che sappiamo farla". La tecnica del pernacchio è una tecnica complessa, bisogna mettere la mano in un certo modo, soffiare con una certa intensità, ma soprattutto è l’intenzionalità trasferita in questo gesto che non lo rende volgare e che produce un effetto che però è dirompente. Il pernacchiato, il destinatario del pernacchio, viene distrutto, un po’ come avviene per le bibliche mura di Gerico quando risuonano le trombe di Israele. Il potere, in qualsiasi sua forma, teme di essere deriso perché viene smascherato, l’atmosfera magica che si costruisce intorno svapora in un lampo. Il disabile, mettendo in crisi il sistema, è come se gli facesse un grande pernacchio e facendo così svolge un servizio insostituibile, perché il pernacchio è una medicina, è l’antidoto che ferma qualsiasi potere dal diventare dittatura, riporta la struttura alla sua vera funzione che deve essere di servizio verso l’uomo, verso la persona singola e diversa, irripetibile. Non so chi ha scritto: la satira ci ricorda che per quanto in alto uno può sedersi è sempre sul culo che è seduto. E nessuno è più ridicolo di chi si dà una importanza esagerata perché sa fare questo o quello o chi si condanna a dire cose sempre molto intelligenti.
Chi invece ride di un handicappato ha la risata di chi si crede intelligente nei confronti di qualcuno meno intelligente, produttivo, socialmente accettato, non vincente. E’ cioè la pernacchia, volgare, perché sta dalla parte di chi è al potere. E’ la derisione, lo scherno verso chi è diverso e per questo più debole.
Il disabile, nei confronti del sistema di regole che l’uomo si dà, agisce come il bambino che scopre che il Re è nudo, perché mette in discussione ciò che non viene mai messo in discussione, obbliga a guardare le cose per quello che sono.

Un mondo più umano

Ecco perché tante volte la sensazione di chi conosce il "mondo dell’handicap" è di aver scoperto un mondo più umano (come ho sentito dire da Vasco Mirandola, un attore e regista, ad una serata-spettacolo dedicata all’handicap, dal titolo interessante- "Il sesto senso"-, organizzata a Bologna dal centro Studi San Domenico nel maggio di quest’anno). Si sperimenta come una specie di sollievo, come se scaricassimo un peso, quando si scopre che ciò che il disabile mette in discussione, ad esempio il galateo, non è poi così importante. E’ un ritorno all’essenziale, è una risata liberatoria. Per qualcuno potrà apparire una vita terra-terra, per qualcun altro invece dà la sensazione del marinaio che grida "terra, terra!".
In un mondo dove l’importante è saper fare, il disabile apparentementesi presenta come colui che non sa fare; quando è fondamentale per sentirsi importanti saper dire cose intelligenti e profonde, il disabile magari salta su con una fesseria, con il suo motto senza senso che ci sfida, che si espone alla pernacchia e che invece può risultare esso stesso un liberatorio pernacchio. E la cosa apparentemente strana, quella cosa che accade a tanti educatori, operatori vari, volontari, amici normodotati è che un poco alla volta si incomincia a capire. Invece che provar pena o vergogna, si incomincia a ridere di gusto, invece che sentirsi in imbarazzo per un ruttino al bar ci si sente sollevati e si incomincia a ridere di chi è imbarazzato intorno a noi.
Tante volte ci viene da ridere proprio perché bisognerebbe, e sarebbe buona educazione, stare seri, o perché ridere non è pietoso, e magari si ride di più quando intorno a noi c’è un imbarazzato silenzio di compunzione e serietà.

Efesto, lo zoppo

Chi frequenta persone disabili immancabilmente possiede aneddoti e raccontini vari divertentissimi. Se il disabile stesso sfrutta sapientemente il suo deficit l’effetto è straordinario. Ricordo un gustoso episodio durante una trasferta della nostra squadra di calcio in carrozzina. Il portiere dell’albergo faceva difficoltà a rilasciarci le ricevute delle consumazioni al bar, ricevute di cui noi avevamo bisogno per aver diritto a dei rimborsi. Allora un nostro giocatore, con tetraparesi spastica dalla nascita, si è spinto vicino al portiere con la sua carrozzina e, con il suo modo di strascicare leggermente le parole, l’ha apostrafato duramente così: "Guardi che prima dell’incidente io facevo il finanziere, se lei non rilascia subito le ricevute chiamo un paio di amici e le faccio chiudere la baracca, ha capito?" Tutti noi atleti eravamo piegati in due dalle risate senza farci notare dal portiere che intanto era impallidito. Con mille scuse ha iniziato a batter cassa subito e da quel momento abbiamo avuto tutte le ricevute possibili e forse anche qualcuna in più.
Del resto Rosenkranz ricorda che gli stessi greci hanno intuito una connessione profonda tra comicità-bellezza-bruttezza, quando hanno raccontato di Efesto lo zoppo (disabile dunque) che con l’aiuto di una rete ha catturato Afrodite, la dea della bellezza e se l’è sposata suscitando le risa di tutto l’Olimpo.

La retorica dell’handicap

Parlare di mondo dell’handicap come "mondo più umano" può apparire un po’ retorico, si corre il rischio di comunicare una immagine un po’ troppo rose e fiori, almeno così mi ha fatto notare qualche collega educatore cui ho letto l’articolo prima di lasciarlo in redazione. E’ vero: il pericolo c’è. In qualche modo tutto può apparire retorico, in particolare tutto ciò che ha già una immagine poco variabile, fissa, come può essere l’immagine dell’handicap.
Il termine retorica si è costruito nel corso del tempo una accezione negativa. Quando si dice a qualcuno: "Sei retorico!", si intende: "sotto sotto al tuo discorso, infiorettato e forbito, non c’è sostanza". In genere sono i palloni gonfiati che fanno grandi discorsi retorici, cioè vuoti, inutili. Tornando al primitivo significato del termine, retorica è l’arte di fare discorsi persuasivi, arte tenuta in grande conto fin dall’antichità essendo una disciplina molto importante ed utile per chiunque facesse politica. Si dice che con l’avvento dell’impero romano le scuole di retorica che preparavano appunto gli uomini politici diventassero sempre di più scuole inutili proprio perché la politica veniva decisa dall’imperatore e non dal senato, non da una partecipazione vera alle scelte politiche. Esiste secondo me una retorica dell’handicap che è vuota proprio per questo, cioè non aiuta un inserimento del disabile nella politica, nella vita della polis, ma lo confina in ruoli ben definiti.
Da un lato quello dell’eroe tragico, nella versione arrabbiata (il disabile che lotta per i propri diritti), nella versione malinconica (l’angelo caduto dal cielo che anela disperatamente, cioè‚ senza speranza e senza reali possibilità, alla felicità); ultimamente anche nella versione trash, un po’ cattiva, un po’ moralmente malata, perversa e masochistica (mi viene in mente Rosanna Arquette nel film Crash di Cronenberg). Dall’altro quella dell’eroe buono, bambino e innocente (Forrest Gump?) o quella stessa che ho proposto io (faccio autocritica) del disabile eroe del pernacchio, il piccolo e debole Davide contro il potente sistema-Golia. Insomma a grandi linee la dicotomia bello-sublime che abbiamo analizzato in HP63. In entrambi i casi la retorica che cristallizza l’immagine stereotipandola rischia di essere quella imperiale, dove chi detiene il potere è una certa cultura subita dal disabile. Potrebbe, ripeto, diventare retorica anche il pernacchio di cui ho parlato precedentemente, se non si fa l’operazione successiva di tornare al confronto, al dialogo, alla vita in comune. Qualsiasi ruolo rivestito dal disabile evidentemente rischia di essere retorico se si sclerotizza in una funzione, per quanto utile. Si dice molte volte che è beata quella società che non ha bisogno di eroi ma di uomini normali, che non ha bisogno di uomini della provvidenza ma solo di persone consapevoli che quotidianamente si danno da fare per realizzare una società vivibile.

Ossimori e stereotipi

Vorrei analizzare in particolare tre figure retoriche tra loro del resto molto collegate, e che hanno a che fare con l’immagine dell’handicap: l’ossimoro, lo stereotipo e la metafora. Una figura retorica è la forma stilistica che mira ad ottenere una maggiore efficacia nel discorso.
Quando due termini opposti vengono correlati si crea un ossimoro: una gaia tristezza, una calma inquietudine, una notte lucente. Spesso la percezione che abbiamo delle persone con deficit si configura proprio come ossimoro soprattutto a causa di una presunta paradossalità del loro esistere. Un handicappato sportivo, che lavora o che si sposa, sembrano cose paradossali, tanti ossimori che ci stupiscono. Pensiamo solo alla carrozzina, una sedia che si muove, una cosa che dovrebbe star ferma, fatta per muoversi. L’esistere dell’handicappato presenta situazioni contraddittorie (vedi HP63). L’aspetto ossimorico del disabile possiamo accettarlo ed interpretarlo come sfida. L’essere dell’handicappato si configura allora come avventura, come storia la cui caratteristica fondamentale è il superamento delle difficoltà. L’uomo è attirato dalla sfida e dall’avventura; un romanzo come I promessi sposi (il titolo sembra proprio un ossimoro) in cui i protagonisti devono superare mille difficoltà finisce quando Lucia e Renzo si sposano. Crolla il nostro interesse, quello che accade dopo è ordinario, quasi inutile, noioso forse, insomma non vale la pena di raccontarlo. Fermarsi alla dimensione ossimorica significa stereotiparla, renderla luogo comune. Entrare nel mondo dell’handicap per accogliere la sfida (vedi l’entusiamo di molti volontari), per fare i conti con questo ossimoro può in un primo approccio andare anche bene. Poi però ci si accorge che se la sfida rimane sfida e l’ossimoro ossimoro allora (come per i promessi sposi se Don Rodrigo non morisse di peste) la storia romperebbe gli argini, diventerebbe un polpettone alla Beautiful, un succedersi di episodi e di puntate in cui le logiche sentimentali sono sempre le stesse. Entrare in un mondo al limite significa uscirne da un altro. L’unico modo per non evadere da nessun mondo è averne uno così ampio da inglobare tutto. La vera sfida diventa allora superare la sfida. Superare hegelianamente, cioè passare ad uno stadio successivo però conservando gli stadi precedenti senza rimuoverli.

Le metafore creative

In aiuto ci viene un’altra figura retorica che però può ridare dignità, può aiutarci a ritornare alla vera politica: la nostra capacità di fare metafore ovvero di inventare nuove analogie tra le cose, di connetterle sempre in modo diverso mettendo così in movimento il mondo. Il termine metafora viene dal greco metaphorein, trasferire, trasportare, e consiste nel trasferire ad un oggetto il nome proprio di un altro secondo un rapporto di analogia. La metafora si spiega con una similitudine abbreviata, ad esempio "la sera è la vecchiaia del giorno" presuppone la similitudine "come la sera sta alla fine del giorno così la vecchiaia sta alla fine della vita". In altre parole la metafora viene determinata da un connettere due termini grazie ad un terzo termine che li media, ad esempio "i cappelli d’oro" è una metafora che scaturisce dal fatto che "biondo" è un attributo tanto dell’oro che dei capelli. Esistono metafore stereotipate ma anche metafore nuove, imprevedibili, e di queste è piena la poesia. La caratteristica più importante che differenzia il vero poeta da un imitatore, da un epigono‚ è proprio la capacità di creare nuove metafore e in questo modo nuovi mondi, nuovi modi di guardare al mondo, nuove espressioni di quello stupore che accomuna tutti gli uomini quando guardano il mondo. Il mondo dell’handicap ha bisogno di poeti, di creatori di metafore che abbiano la capacità di vedere un unico mondo in cui handicap ed umanità sono parole collegate. La difficoltà è quella di creare collegamenti e metafore però tenendo presente che la diversità delle persone con deficit non va rimossa ma va valorizzata.

La forza della debolezza

Non c’è un intento buonista in questo, ma una logica già ampiamente sperimentata per esempio nell’arte del ‘900. Mi spiego meglio: per i greci essenzialmente la bellezza si configura come armonia, come interazione equilibrata e ordinata tra le parti fra loro e tra le parti con il tutto. Il brutto è disarmonico, senza forma. Nel nostro secolo la ricerca degli artisti ha portato ad una esplosione di varietà armoniche in tutti i campi artistici. Pietra miliare della musica cosiddetta contemporanea è il Trattato di armonia di Schoenberg nel quale si mettono le basi per una teoria della musica che senza necessariamente porsi in antitesi con la tradizione sente la necessità di innovarla per un preciso bisogno di ricerca di modalità espressive nuove.
Schoenberg si chiede "Perché‚ nel passato alcune note non potevano essere suonate insieme? Perché‚ il loro armonizzarsi era considerato cacofonico?". Pensiamo solo al fatto che accostare la nota Fa e la nota Si per i medievali "est diabolus in musica", crea una dissonanza infernale, da evitare assolutamente soprattutto in luogo sacro. Schoenberg scopre che non esiste un preciso motivo perché due note non possano essere suonate insieme e che ciò che veniva considerato armonico nel passato deriva essenzialmente dal fatto che ogni nota, avendo una certa natura, si sposa bene con le altre che hanno una natura simile. Il Fa suonato con il Do sta bene perché si crea un legame forte, una nota rimanda all’altra, si sorreggono a vicenda. Tra Fa e Si invece si crea un legame debole perché sono note le cui caratteristiche (esiste una spiegazione fisica del fenomeno che non è importante ricordare qui) non sono così compenetrate tra loro. Ma Schonberg appunto non ritiene che questo legame debole fra le note debba essere censurato. Anzi. La debolezza diventa una forza espressiva, l’accostare senza pregiudizi tutte le note crea delle possibilità formali nuove. La debolezza diventa una risorsa fondamentale che permette alla musica di percorrere delle strade nuove, di trovare nuovi linguaggi. Sulla superficie di Wimbledon ormai il tennis più bello da vedere è quello femminile. Nel maschile tutto è appiattito sulla forza, sulla velocità della pallina. La debolezza relativa del tennis femminile rispetto a quello maschile, permette alla logica del tennis di essere molto più varia, con più sfumature, gioco da fondo campo, eccetera. In quello maschile la forza uccide il gioco: lo scambio spesso è ridotto a battuta e risposta, il tutto in pochi secondi. Una estetica dell’handicap, della debolezza, della difficoltà non solo è possibile ma in un certo senso è già stata scritta ed anticipata dal cammino naturale dell’arte contemporanea.

Conclusioni

Spero che il piccolo viaggio nell’estetica dell’handicap, che quest’anno abbiamo fatto insieme, abbia dato qualche idea ai lettori di HP per riconsiderare la figura del disabile in termini diversi, abbia chiarito qualche meccanismo che opera sotto sotto. E’ un viaggio che naturalmente non finisce qui.
Mi preme solo risottolineare che non ho voluto dimostrare la bellezza dei disabili anche perché ciò non è possibile. Al massimo si può mettere in dubbio l’uguaglianza bruttezza-handicap tante volte data per scontata. La bellezza come ho detto più volte non si dimostra ma si sperimenta, si vive, e poi si esprime. Forse il mio è un invito a sperimentare e a vivere questa bellezza, che non è patrimonio esclusivo delle persone dsabili ma di tutti noi.
Ho voluto parlare di bellezza perché il "mondo dell’handicap" è stato molto spesso confinato in un ambito scientifico, medico, psicologico, pedagogico, eccetera. Sinceramente dopo un po’ manca l’aria. Siamo abituati ad essere persuasi e quindi a dare priorità ad un discorso scientifico quando invece perdiamo di vista la persuasione della bellezza. Ripeto: l’estetica è un discorso filosofico sulla bellezza, non cattura la bellezza, non la dimostra, non la impone. Quando parlo di estetica dell’handicap non voglio compartimentarla, relegarla in un campo a parte. Purtroppo c’è già la scienza che suddivide la realtà in troppe sezioni, in ambiti separati, e lo deve fare se vuole essere di qualche utilità. Io sono di quelli che pensa che invece la filosofia non serva a niente, perché non è serva di nessuno. Per questo è molto utile.
Con chi si relaziona generalmente una persona disabile? Oltre che con la sua famiglia, con il medico, il fisioterapista, il volontario, l’operatore e per chiudere il cerchio con altri disabili. Il pericolo è che la disabilità della persona diventi il primo dato, per molti versi l’unico. Una cultura diversa dell’handicap, della vera integrazione, sta portando sempre più il disabile a confrontarsi con l’allenatore sportivo, con il collega, con la moglie o il marito.
Qui non è la disabilità ma è la persona che risalta, la sua capacità di rivestire più ruoli, di sperimentarsi in più campi. Quando ancora adesso c’è la necessità di sostenere che il calcio ad esempio non è terapia, che la prima finalità degli sport per disabili non è la terapia, è evidente che si combatte un certo modo di guardare al disabile appiattito sul suo deficit. Un giocatore di calcio in carozzina fa sport perché vuole fare sport. Lo sport ha una ragione in sé che non può essere ridotta ad altre categorie. Forse una categoria così vasta, alla quale possiamo ricondurre tante cose, anche molto diverse, è la Bellezza. Se guardando un gol in rovesciata nel calcio in carrozzina penso fra me e me:-"Bello!"- la ragione principale risiede in quello sport. Ma per comunicare questa bellezza ho tanti modi, uno di questi è stato scrivere questi articoli.

Creatività: istruzioni per l’uso

Quest’anno la terza parte di HP sarà dedicata al tema della creatività. Quando mi hanno proposto di curare, assieme ad altre persone, questa parte mi sono sentito abbastanza lusingato. Infatti se uno ti dice che sei una persona creativa, te lo dice per farti un complimento e se qualcuno viene considerato preparato a parlare di creatività o a coordinare un lavoro sulla creatività, beneficia a sua volta della magia che permea questa parola. Eppure dopo una prima sensazione di sicurezza, man mano che pensavamo a come impostare questo lavoro, ci siamo resi conto che non era facile, che creativo può essere tutto e niente, che creatività è una parola fin troppo abusata quasi come “amore” nelle canzonette.

Parlare di creatività

Perfino partire con la domanda banale "che cosa è la creatività?" alla quale diversi articoli avrebbero dato delle risposte esaurienti, forse è già sbagliato o fuorviante. Quando ti chiedi "che cosa è…?" presupponi che ciò di cui si sta parlando sia una "cosa". La creatività invece ce la immaginiamo come un che di vivo, sempre in movimento, che stupisce, che si rinnova, che cambia, che non è così afferrabile come potrebbe esserlo una mela. La mela è una cosa che posso descrivere, tenere in mano, addentare: la creatività è più sfuggente. La mela è un oggetto, un ob-iectum, qualcosa che mi sta gettato dinanzi; la creatività ha a che fare con oggetti (un quadro, un risotto, una bella conferenza) ma sta soprattutto nel processo che ha portato alla realizzazione dell’oggetto. Non mi sta solo dinanzi, ma sta anche dietro e dentro le cose, nascosta alle cose. La mela mi è presente, la creatività mi rimanda al passato, ad un processo che viene dal passato, che devo interpretare nel presente e non so a cosa nel futuro mi potrà portare. Una mela mi può sembrare oggi tale e quale a ieri, mentre una cosa considerata ieri creativa, oggi potrebbe apparirmi banale.

Come funziona?

Bene, allora proviamo a partire da qualcos’altro, ad esempio, "come funziona?". Questa domanda presuppone un soggetto, una macchina, un organismo, un essere che funziona in un certo modo, utilizzando alcune strategie, alcuni ingranaggi. Qui si apre il problema del rapporto misterioso tra creatività e meccanicità. Da questo punto di vista si scopre che la creatività è sì una cosa viva, in trasformazione e sfuggente ma è anche un modo di procedere, un fare con dei contorni abbastanza definiti. Siamo critici con la visione romantica dell’artista, del creativo, come del genio che si eleva sopra la massa, il Prescelto tutto spontaneità e ispirazione che dona al mondo la sua poesia. L’arte è anche studio, mediazione, lavoro di artigianato. La letteratura sulle strategie della creatività, sul come insegnare la creatività, magari ai manager per essere più efficienti e più produttivi, è molto fiorente. Anche qui però la sensazione è che si stia parlando solo di un aspetto della creatività con il pericolo di ridurla ad una tecnica o insieme di tecniche in vista di uno scopo. Gli artisti, considerati da sempre come una categoria particolarmente creativa, producono spesso oggetti che non hanno una utilità ben definita. Oscar Wilde addirittura dice che l’essenza dell’arte è di fare cose inutili che val la pena di ammirare, o che non c’è niente di più indispensabile del superfluo (quest’ultima frase è citata nell’ultimo film di Benigni, La vita è bella). E’ importante parlare di creatività senza l’assillo del risultato perchè la creatività non può essere solo uno strumento (non ricordo chi ha detto che l’atto creativo ha due momenti, tappe fondamentali: l’azione e l’ozio).

Creatività in ambito educativo

Durante la gestazione di come impostare questa terza sezione di HP le domande sulla creatività si sono moltiplicate. Ci siamo chiesti, ad esempio, chi è veramente da definirsi creativo, se si può imparare ad essere creativi, dal punto di vista multiculturale cosa significa creatività nel mondo orientale, o ancora qual’è il punto di vista della creatura. Abbiamo deciso di affrontare questo mare di interrogativi senza pretendere di tenere una rotta ben definita ma lasciandoci trasportare dal vento delle suggestioni e dei diversi punti di vista, dalle correnti che emergono in superficie da profondità che non potremo mai esaurientemente esplorare. Ci è parso utile affrontare il tema della creatività da molteplici punti di vista, generali (in questo numero accenneremo ad esempio all’intelligenza artificiale) o molto particolari, sentendo la voce dei protagonisti (vedi l’articolo sull’esperienza realizzata dalla comunità Albatros) ma anche analizzando tecniche specifiche con una particolare attenzione a quelle utilizzate in ambito educativo (vedi l’articolo Cucinare storie). La nostra preoccupazione è stata quella di evitare di pensare alla creatività in un unico modo, cercando il più possibile non tanto di percorrere un solo itinerario ma di disegnare una mappa, indicando qua e là strade, fiumi, montagne, città e paesi, sentieri poco segnati e ancora da esplorare. Uno di questi è l’estetica dell’handicap (che sarà un appuntamento fisso dei prossimi numeri perchè ci sembra un terreno particolarmente adatto per fare il fiato e misurare la nostra capacità esplorativa). I sentieri della creatività possono infatti essere percorsi a piedi, a cavallo, in bicicletta e in mille altri modi, anche, perchè no?, in carrozzina.

Invitiamo il lettore a non confondere la mappa con il territorio (come direbbe l’autore di Ecologia della mente, Gregory Bateson): leggere la ricetta del risotto e mangiarsi il risotto sono due cose molto diverse (come direbbe Wilma De Angelis). La speranza è che questa sezione dedicata alla creatività ispiri appetito nel lettore, tenendo presente che l’appetito vien mangiando. Il lettore pertanto è invitato a prendere nota degli ingredienti, a procurarseli, a diventare cuoco lui stesso (magari mettendoci un pizzico di originalità) e, se il risultato è buono, a spedircene in redazione un assaggio, perchè ci piacerebbe inserirlo nel menù dei prossimi numeri di HP. Il lettore ideale per noi è come il Piccolo Principe che non si accontenta della pecora che gli disegnamo.

Le forme della bellezza

Il brutto è un concetto estetico che è entrato a pieno titolo nella riflessione filosofica solo a metà del ‘700 con Edmund Burke. Nell’antichità il brutto viene considerato la negazione del bello-vero-buono e come tale mero non-essere. Non vale la pena occuparsene: il brutto non ha dignità, è pronto per la rupe Tarpeia.
Ma Burke scopre che esistono molteplici valori estetici che non è possibile racchiudere in una categoria estetica onnicomprensiva, il Bello appunto, e così teorizza il Sublime come categoria e a se stante (nell’antichità il sublime era invece un grado del bello, il grado più alto).

Burke connota in questo modo le due categorie:
– il bello: caratteristica di oggetti che ispirano amore (ad esempio i bambini,le cose piccole e graziose, la donna: ricordarsi che il nostro scrive nel 1756!)
– il sublime: caratteristico di oggetti che ispirano terrore (ecco che il Bruttoper la prima volta fa la sua comparsa nella riflessione estetica) e timore,rispetto ed ammirazione (Dio, ma anche Satana, un deserto, il mare in tempesta,eccetera).
Gli oggetti belli sono anche deboli, fragili come ad esempio i fiori; glioggetti sublimi sono paurosi, connotati da una forza sovrumana che può porci inpericolo, che può disporre della nostra vita. E’ una distinzione per noiinteressante: un disabile è un essere debole e come tale può facilmenteispirare sentimenti di amore, di protezione. Acutamente Burke nota che l’amoresi avvicina al disprezzo più di quanto non si creda. Ad esempio il cane è ilmigliore amico dell’uomo, il più amato degli animali ma nello stesso tempo perbestemmiare si usa la parola cane e non ad esempio la parola leone. Del leoneinvece si ha una paura che incute rispetto, ammirazione, non certo amore. Ladebolezza, immediata conseguenza del deficit, porta il disabile a rientrarenella classe degli oggetti belli (non a caso bambino ed handicappato sonotermini spesso associati per caratteristiche ritenute comuni: la tenerezza, lasensibilità, l’aver bisogno d’aiuto, l’innocenza) .Nello stesso tempo, e saltafuori di nuovo l’aspetto paradossale e contraddittorio dell’essere handicappato(ne abbiamo parlato a lungo in HP 63), una persona con deficit per la suadiversità incute paura. La condizione dell’handicappato richiama ai più ideequali morte, sofferenza, limite, realtà che non vorremmo vedere e checontinuamente rimuoviamo dalla nostra coscienza. Da un lato i sorrisi, lestrette di mano, i palloncini e i fiori, le torte delle feste (immagini tipichedi molte riviste che si occupano di handicap); dall’altro la diversità cometragicità, il dolore del mostro, la tempesta delle difficoltà di un disabile.Da un lato i colori tenui dell’amicizia,
dall’altro i colori foschi della non integrazione. Da un lato il bello,dall’altro il sublime. Ovvero il perturbante.

Casa dolce (?) casa

In un saggio del 1919 ("Das Unheimlich"), Freud analizza ilconcetto di perturbante e scopre una cosa apparentemente molto strana: la parolatedesca unheimlich (perturbante, inquietante) ha moltissimi significati, alcunidei quali la portano a coincidere con i significati della parola heimlich(nascosto, familiare, intimo, segreto). La radice delle parole è Heim, casa, eFreud nota che solo ciò che in qualche modo ha a che fare con la nostra casa èperturbante. In altri termini non tutte le diversità ci fanno paura e sonoperturbanti, ma solo la diversità che ci riguarda da vicino, che riguardaprofondamente il nostro essere al mondo. Nel disabile sono compresenti questidue aspetti: l’essere debole, l’essere sotto il nostro controllo, l’essere menopotente dei normodotati, da una parte; dall’altra l’essere manifestazione di undestino di morte, sofferenza e limite che sfugge al nostro potere e che subiamoin quanto uomini. La diversità del disabile è perturbante perché ha a chefare con la nostra casa, con il nostro abitare il mondo.
Per uscire da questa dicotomia che rischia di stritolare un rapporto autenticocon un disabile, suggerisco (e mi ripeto) di avviare un incontro che possaandare oltre la constatazione della disabilità e ci faccia assaporare lapersona che sta davanti a noi. La conoscenza diretta di una persona disabilepuò aiutarci ad andare oltre la stereotipia esplicitata dalla coppiabello-sublime. Se ho la possibilità di vedere un disabile che gioca a calcio incarrozzina scopro molto cose. Innanzitutto che la sua debolezza non significadisabilità, nel senso di non abilità, ma determina un fare sport che èspeciale, particolare. In questo caso la persona disabile è un atleta: la suadebolezza non necessariamente richiama idee di protezione ed amore (nello sportdel calcio in carrozzina l’agonismo è presente quanto in altri sport e vi sfidoa provare simpatia per un atleta della squadra avversaria che vi elimina con unsuo gol da una competizione importante: a me è successo).
D’altra parte la disabilità di un atleta non necessariamente lo inquadra nelsublime (nel significato cui Burke dà a questa parola). Bisogna come già hodetto più volte, collegare la parola handicap a parole vitali, significative,come ad esempio lo sport. Anche gli aspetti più perturbanti e inquietantiespressi dal deficit, in un contesto di gioco, di sport, sono messi in secondopiano dalla bellezza del gesto atletico.
Solo in questo modo il disabile non sarà per definizione bello come un bambinoo sublime come un eroe tragico.

Originale o Imitazione?

Forse potrà apparire una cosa scontata ricordare che esistono molti tipi dibellezza accanto ai quali la diversità dì un disabile può inserirsibrillantemente. Tanto per fare un esempio la bellezza di una ventenne comeClaudia Schiffer non fa sfigurare affatto la bellezza di una cinquantenne comela Deneuve. Ma anche i visi delle persone più anziane esprimono esteticamentedi più o meglio altre cose rispetto al bel viso di un bambino. Ogni età ha lasua bellezza, ogni razza umana ha la sua peculiarità in fatto estetico e nonc’è una ragione teorica per lasciare fuori le persone con deficit da questavarietà e ricchezza di forme. Casomai è brutto perché ridicolo un anziano chepretende di avere la bellezza di un ventenne o un ventenne che si atteggia comequalcuno più anziano di lui. Si determina un effetto di bruttezza quando ingenerale una bellezza cerca di snaturarsi ed omologarsi in favore di un altra,di una bellezza ritenuta più vincente. Questo è un pericolo molto presenteanche per un disabile: l’essere identificati come una imitazione venuta male diun originale, di un modello naturale e normale. Una imitazione, ricordaRosenkranz è sempre brutta perché denota mancanza di creatività, dioriginalità, è povera di vita. E’ la sensazione che provano due personevestite nello stesso modo che si incontrano ad una festa. Oppure quandoguardiamo un quadro e lo troviamo molto bello, e poi ci dicono che in realtàquel quadro è una imitazione di un altro, o magari è un falso. Si capiscefacilmente il perchè non c’è peggiore offesa per un pittore dire di un suoquadro "sembra una fotografia!" come non c’è peggiore offesa per unfotografo dire di una sua foto "sembra un quadro!".
Se guardiamo agli handicappati come persone che rincorrono faticosamente e,ancor peggio, senza speranza una condizione normale a loro preclusa èinevitabile il considerarli brutti. Quanto volte sentiamo dire di un disabile"guarda, adesso (o in questa foto) non sembra neanche disabile!".
Se consideriamo la diversità di una persona con deficit per come è, slegata dauna associazione mentale che del resto è scontato fare con la normalità, lasua originalità acquista aspetti positivi. Anche da un punto di vista estetico.Quando è morto il mio amico e collega disabile Alberto ho sentito questafrase:"Sono convinto che Alberto è rinato bellissimo da qualche altraparte di questo pianeta". Mi sono chiesto fra me e me: perché, non eragià bello prima? Come sarebbe stato Alberto senza i suoi movimenti spastici, lesue sudate, il suo modo di ridere, le sue parole borbottate che adesso cimancano tanto? Come possiamo sentire la mancanza di una persona che non siaanche bella, nonostante le indubbie difficoltà che la sua condizione didisabile comportava? Provate a pensare ad un vostro amico, ai suoi difetti: uncarattere un po’ troppo apprensivo oppure troppo collerico, un naso storto otroppo lungo, eccetera.Come sarebbe questo amico senza questi difetti. Sarebbepreferibile, è la risposta più spontanea. Ma proviamo a immaginarlo veramentesenza questi difetti, a immaginare di viverci insieme, finalmente in pace, senzaproblemi, perfettamente d’accordo su tutto, simili in aspetto e uguali nellasostanza, sani-belli-forti come nelle migliori pubblicità …

Il cerchio alla testa

Per spiegare meglio: osservate questo cerchio:

è il più perfetto che siamo riusciti a disegnare. Eppure guardando almicroscopio scopriremmo che non è poi così perfetto come lo vediamo.Scopriremmo delle increspature sulla carta, la linea curva d’inchiostro dellacirconferenza tutt’altro che definita, per cui la definizione matematica dicerchio (come insieme dei punti di un piano la cui distanza da un punto dato èuguale o minore ad un numero assegnato) non sarebbe soddisfatta dal nostrodisegno. In realtà tutte le figure geometriche che possiamo disegnare (perfinoquelle al computer) non sono perfette se non nella nostra testa.Questo inducevaPlatone a sostenere che tutte le cose del mondo non sono altro che imitazioniimperfette delle idee e come tale il mondo, con tutto il suo ammasso di coseimperfette, soggette al tempo, alla rovina, alla morte, è un mondo brutto. Conla stessa logica rigorosa Platone ne deduce che l’arte, essendo a sua voltacopia del mondo terreno, si discosta due volte dalla vera realtà, si allontanadue volte dal vero essendo una imitazione di una imitazione.
Tutti i cerchi che possiamo fare sono cerchi imperfetti, con qualche difetto,con qualche deficit. Sono cerchi disabili. C’è una definizione di creativitàabbastanza strana data da una persona di cui ci possiamo fidare: Picasso. Ladefinizione è questa:"Creatività è la capacità di osservare bene lecose".
Picasso richiama l’attenzione sulle cose in se stesse, non
sull’idea che abbiamo di queste cose. Questo è un pensiero estremamente riccoperché ha moltissime applicazioni. Prendiamo ad esempio una classe di bambini.Il termine classe viene utilizzato in matematica per definire un insieme dioggetti con caratteristiche comuni. Essere creativi per Picasso significa tenersempre presente che non hai a che fare con idee astratte ma con situazioni eoggetti unici, singolari, che non sono riducibili ad idee chiare e definite, checome il nostro cerchio hanno dei deficit "ideali". Naturalmente noipossiamo e dobbiamo ragionare per idee perché ciò può essere molto funzionaleper gli scopi che ci prefiggiamo. Raggruppando per classi i bambini, classid’età, è evidente che si vuole ottenere l’effetto di permettere all’insegnantedi relazionarsi con soggetti che abbiano lo stesso grado di comprensione di ciòche loro viene insegnato. Ogni insegnante che si rispetti sa però che la classedi bambini non contiene soggetti uguali tra loro, e la sua bravura sta tuttanella capacità di adattarsi ad ogni bambino perché ogni bambino è diversodall’altro. Non esiste il Bambino ma esistono i bambini. E’ molto utileconoscere il Bambino perché ci permette di programmare, di stabilire degliobiettivi, di darci degli strumenti (questo è il sapere scientifico che si puòanche apprendere sul libri); poi però abbiamo a che fare con bambini che hannodei nomi, delle storie uniche e irripetibili (e questo è il momentopropriamente artistico della attività educativo, il momento della scelta deglistrumenti, delle continue verifiche, eccetera …). Creatività è imparare aguardare le cose per quello che sono. Educare è imparare a guardare quelbambino per quello che è: ciò risulta più facile se guardiamo noi stessi perquello che siamo.

Scegliere la nostra originalità

Il nostro modo di guardare alle cose è frutto di una cultura, ha una storia.E’ molto importante familiarizzarsi con una abitudine a mettere in discussionele cose troppo evidenti. Facciamo un esempio. Il nostro modo di guardare allospazio risente molto della concezione cartesiana per cui il valore di un puntoè dato dal sistema di riferimento nel quale è inserito. Dal punto di vistadella qualità un punto è uguale all’altro, cambia solo il valore a livelloquantitativo. Mi spiego meglio: non esistono luoghi nel mondo che sonoqualitativamente diversi dagli altri, cioè che ad esempio sono sacri. Un luogoè una entità misurabile. Punto e basta. Se entro in una chiesa o in unqualsiasi altro spazio che abbia in sè qualcosa di sacro, questo qualcosa nonè misurabile, non è oggetto di scienza. Da qui a dire con i positivisti chequesto qualcosa non esiste, il passo è breve. Nel nostro mondo occidentalel’approccio scientifico di questo tipo ha allontanato il sacro dalla nostradimensione. Questo tipo di visione è molto diversa da quella che propone Donjuan, lo stregone yaqui, a Carlos Castaneda, l’autore di vari libri diantropologia. In "A scuola dallo stregone" Castaneda racconta unepisodio molto significativo. Avvicinandosi a Don Juan per diventare suodiscepolo e farsi spiegare i misteri della magia yaqui, Castaneda scopre chequello che si è proposto non è così semplice da attuare. Innanzitutto DonJuan dice che acconsentirà a diventare maestro solo se l’aspirante supereràuna prova che consiste nel cercare sulla veranda della sua casa il proprio puntodove stare. Il rettangolo della veranda non è un insieme di punti uguali fraloro (come potrebbe apparire a chi ha un modo di pensare cartesiano). Castanedadeve scoprire il proprio punto, deve capire da solo dove poter stare, anzi dovedeve stare se vuole imparare. Ad una prima analisi della veranda a Castanedasembra invece che ogni punto sia uguale all’altro. Sfinito dopo un giorno diricerche, quando gli pareva ormai giusto desistere dallo scopo, si accorge cheun punto della veranda gli sembra diverso dagli altri e sedendosi lì si sentebene. Quando Don Juan torna e lo vede seduto lì gli dice: "Bene, haitrovato il tuo posto. Ora posso insegnarti". Il sapere di Don Juan non èun sapere trasmissibile come quello scientifico, che si può scrivere sui librie che tutti possono imparare. Essere discepoli implica l’aver scelto il proprioposto, e così essere maestri si può solo a certe condizioni. Ogni uomo è unessere originale, un origine che, come racconta l’etimologia della parola,significa essere una sorgente. Questo è più evidente con una persona disabile,ed essendo più evidente (come abbiamo detto in HP61) è anche più nascosto.Scegliere la nostra originalità significa ritornare alla sorgente, fare come ildiscepolo che su invito del maestro cerca il proprio posto, il posto che sololui può occupare.

Conoscere come storia

Torniamo al cerchio. Abbiamo detto che ogni cerchio disegnabile su carta,rispetto a quello mentale, ideale, è una imitazione. A questo punto qualsiasicerchio diventa sostituibile da un altro, con il criterio di preferenza discegliere cerchi il più possibile perfetti (se il nostro obiettivo è quello diutilizzare il cerchio ad esempio per delle operazioni geometriche, o percostruire una casa). Da un punto di vista estetico invece la valutazione cambia.
Potremmo disegnare un cerchio rosso o uno blu e a livello geometrico non cisarebbero variazioni particolari. Non cambierebbe nulla. Ma se dovessimoutilizzare questi cerchi come motivi decorativi di un vestito il criterio discelta cambierebbe molto.
Ma che dire di una figura come questa:

Un cerchio deforme. La parte bassa di questo cerchio che è la più perfettapuò aiutarci a costruire qualche regola geometrica. Invece nella partesuperiore questa operazione è impossibile. Prima valutazione immediata: questoè un cerchio brutto, venuto male, inservibile. Non è così semplice trovareuna regola per l’insieme dei punti di questo cerchio, (ma si può ancorachiamarlo così?). Non è così semplice calcolarne l’area. Qui i punti dellasua circonferenza non sono equidistanti da un centro, anzi guardando bene,dov’è il
centro? La definizione di cerchio, abbiamo visto, è una descrizione perfettadel cerchio e come tale è un contenuto conoscitivo che è perfettamentetrasferibile da una testa ad un’altra. Se io dicessi ad una persona che non hamai visto in vita sua un cerchio: "Disegnami l’insieme dei punti di pianola cui distanza eccetera, ovvero la definizione di cerchio)", questapersona mi disegnerebbe proprio un cerchio. Ma se dovessi descrivere il cerchiodeforme ad una persona che non lo sta guardando, non ce l’ha di fronte, sarebbeabbastanza difficile. Forse inizierei col dire: "sotto è come un cerchionormale (normodotato), poi invece nella parte superiore da sinistra va prima supoi scende un poco, poi torna su……Potremmo descriverlo come un semicerchiocon sopra una linea strana. Potremmo, con l’aiuto del calcolo infinitesimale,calcolarne l’area (con l’attenzione di ricordarsi però che dall’area non se nepuò ricavare la forma perché esistono infiniti cerchi deformi con la setssaarea del nostro). Sicuramente esiste una formula matematica che definsce edescrive il cerchio deforme ma non è così evidente-immediata, sarebbeimpossibile partendo da essa farci una immagine mentale del nostro cerchio.
Forse se fosse un logo di qualcosa dovremmo dargli un nome. Non sarebbe più ilCerchio ma avrebbe un altro nome, un nome particolare, unico. Per evitarcicerchi alla testa potremmo appallottolare questo foglio di carta e buttarlo giùnel cestino Tarpeio.
Se per descrivere la fìgura del cerchio deformato utilizzassimo una grigliatratteggiata, magari degli assi cartesiani, potremmo descrivere meglio ildeficit del cerchio in questione. Quello che però siamo comunque costretti afare è di andare oltre la definizione di cerchio perché non descrive anche ilcerchio deforme che abbiamo disegnato. Questo cerchio ci obbliga ad unadescrizione più particolareggiata, non si accontenta di uno sguardo veloce marichiede tempo e ricerca. Si potrebbe scoprire che quel cerchio inutilizzabileper gli scopi ordinari, si può utilizzare in altri modi. Strumenti diversiservono anche per risolvere problemi diversi. Il deficit di perfezione delcerchio può diventare una risorsa.

Il Bel Niente

Parlare di deficit come risorsa può apparire una contraddizione in termini.Generalmente si pensa ad una risorsa come qualcosa che c’è, che esiste, noncome qualcosa che manca, non come un’assenza, un deficit. Eppure, sarà che larealtà ama essere contraddittoria, una mancanza-deficit può diventaresignificativa, almeno quanto il silenzio, quanto una pausa all’interno di unbrano musicale. Il silenzio non è assenza di musica ma assenza di suono: lamusica infatti è armonia di suoni e silenzio. Un deficit non è assenza diumanità, di significato, di valore, ma assenza potremmo dire di normalità(parola che si porta dietro una accezione positiva e una negativa), abbassamentoo innalzamento, a seconda del punto di vista, della soglia dei nostri limiti inquanto esseri umani. Il Progetto Calamaio nelle scuole elementari propone questogioco: promettiamo ai bambini un bellissimo regalo se riusciranno a batterci inuna delle scommesse che spesso facciamo con loro. Ma quando mettiamo le mani intasca per tirar fuori il regalo, tiriamo fuori un Bel Niente. In effetti in manonon abbiamo che un Bel Niente. Qualcuno può essere deluso, qualcun’altro puòanche ritenersi preso in giro, eppure si scopre che questo Bel Niente,inaspettatamente, è pesante, molto pesante, e anche voluminoso. E’ divertentemimare di avere fra le braccia questa cosa così ingombrante e ancora piùdivertente è passarla al compagno che sta vicino. Il Bel Niente passa di manoin mano fino a ritornare all’educatore che l’aveva tirato fuori dalla tasca. Ilvantaggio del Bel Niente è che può diventare quello che vogliamo, può anchediventare molto piccolo e leggero come una bolla di sapone. Un altro enormevantaggio è che si può portare dovunque ed è così comodo che spesso non sisa di averlo in tasca. Infatti, invitando i bambini a controllare nelle proprietasche si scopre proprio che alla fine, tirando fuori tutto quello che c’è intasca, in mano resta un Bel Niente. Se un bambino tira fuori dalla tasca unagomma o un fazzoletto o tutte e due le cose insieme, alla fine in tasca rimarràsempre un Bel Niente. In fondo questa è l’unica certezza che abbiamo (nelleproprie tasche infatti ognuno può pescare cose molto diverse prima di arrivareimmancabilmente al Bel Niente), è l’unica cosa che ci accomuna tutti. Con lagomma si possono fare molti giochi (anche cancellare gli errori) ma non èfacile immaginare, ad esempio, di avere in mano qualcosa di ingombrante: con ilBel Niente sì. Forse può sembrare che questo regalo abbia un deficit direaltà: ad esempio non si può barattare o vendere, anche se si può peròcondividere, non si deteriora anche se lo si può utilizzare quasi sempre.L’unica cosa da temere è che ci si dimentichi di giocarci. Il deficit ha sensose riusciamo a giocarci, se riusciamo cioè a fare il gioco di esserehandicappato.
Il Bel Niente diventa un Brutto Niente quando non riusciamo a connetterlo altutto: Ma anche il Tutto può essere brutto, dittatoriale, senza il Niente. E senelle nostre tasche fossimo condannati a trovare sempre qualcosa? Senza il vuotoci sarebbe solo il pieno (anzi il Pienone, la calca, la folla che schiaccia ogniindividualità), un ordine prestabilito necessario nel quale noi non abbiamopossibilità di vero movimento, perché tutto già c’è, tutto è già statoimmaginato e creato. Dal niente invece possono nascere le idee più diverse. ILBel Niente sta al Tutto come il silenzio sta ai suoni, ed è in questo giocoarmonioso, musicale, misterioso, che ogni essere umano, disabile e non, siavventura.

La riabilitazione su base comunitaria

Cooperazione internazionale e disabilità/La riabilitazione su base comunitaria è un particolare tipo di riabilitazione molto pratica nei paesi poveri. Abbiamo raccolto, in occasione di un seminario organizzato dall’AIFO (Associazione Italiana Amici di Roul Follereau) alcune testimonianze di persone impegnate in progetti di riabilitazione per disabili nelle parti meno sviluppate del mondo

Mi chiamo Sunil Deepak, sono medico e lavoro da dieci anni in Italia. Il mioruolo nell’Aifo è di sviluppare progetti dal punto di vista tecnico e medico.Lavoro anche per l’OMS per i gruppi vulnerabili: nomadi, popolazioni indigene,rifugiati e chi vive in bidonville. In questi gruppi non c’è solo disabilitàfisica e mentale ma anche disabilità sociale: le persone più colpite sono glianziani, le mamme singole, i sieropositivi.

D. Qual è la filosofia del progetto dell’Organizzazione Mondiale dellaSanità che si chiama Riabilitazione su Base Comunitaria (RBC)?

R. La filosofia della RBC si può riassumere nel vedere la persona nella suaglobalità. Non si può separare ad esempio l’educazione dalla riabilitazione,non dobbiamo occuparci solamente di singoli "pezzi" della persona,come fanno gli specialisti. Dal lavoro, all’aspetto sanitario, dallapartecipazione alla vita quotidiana, allo sport, alla cultura: lo sforzo è divedere tutte le cose insieme. Lo sviluppo della medicina occidentale hainfluenzato la cultura dei paesi più poveri nel senso di dire: basta avere latecnologia e gli esperti e si può fare tutto. Questo atteggiamento si basa suistituzioni e strutture costose. In realtà c’è poca attenzione allacontinuità dei progetti, e l’ultima fase rischia di essere quelladell’arrangiarsi. Quando andiamo nei paesi più poveri siamo abituati a guardaregli ospedali, quanti sono i medici e terapisti, e quando non li vediamo diciamoche non esiste niente. La RBC invece dice che ci sono tantissime risorse: igenitori, gli amici, la comunità che vogliono fare qualcosa, fanno quello chepossono, ad esempio vanno dallo sciamano e fanno sacrifici. Se tu dai loro lapossibilità di acquisire qualche strumento in più, qualche conoscenza, lorosono pronti a fare qualcosa in più. Non puoi sostituire il ruolo deiprofessionisti ma ci sono tanti aspetti cui i professionisti non possonodedicarsi: è diciamo una riabilitazione complementare.

D. Che tipi di interventi mettete in atto?

R. Quando si lavora con le persone nei villaggi si fanno cose bellissime mapurtroppo si coinvolgono solo poche persone. Bisogna cercare di coinvolgere igoverni nazionali per fare delle politiche per i disabili. Cerchiamo contatticon quanti più ministeri possibili, Lavoro, Sanità, Educazione, AffariSociali. Quando ci sono, bisogna rinforzare le strutture che già esistono. Adesempio nei villaggi non c’è solo volontariato ma ci sono anche insegnanti, chesono portatori di informazioni, non solo distributori di servizi, possono andarenelle case, parlare con le persone. Le persone disabili e le loro famigliedevono uscire dall’isolamento, devono capire che insieme hanno più forza,possono cominciare a parlare come gruppo dei loro problemi e vedere qualisoluzioni ci sono. Agenzie esterne, che sia AIFO o il governo, possono arrivarefino ad un certo punto; solo quando le persone cominciano a reclamare i lorodiritti, solo allora un cambiamento può avvenire.

D. Com’è, in genere, la vostra collaborazione con i governi?

R. A livello internazionale i governi sono contenti quando si parla diprogetti per disabili perché i politici poi si fanno fotografare, si fannopubblicità. Ma in un certo senso i progetti RBC sono anche pericolosi perchéad un certo punto la gente che ha iniziato a confrontarsi sulla disabilità poiparla anche di altro. Noi ovviamente non vogliamo fare un discorso politico masiamo convinti che le RBC porta anche altri cambiamenti. Quando ci sonoelezioni, ad esempio, molti membri dei gruppi RBC diventano membri delParlamento e supportano i programmi. Questo è avvenuto sia in Guyana che inMongolia. E’ sicuramente un processo a lungo termine e molto lento: pensasolamente al fatto che i medici in Indonesia non sono contenti perché si sonocostituiti comitati RBC dove è la gente ad essere protagonista. Le persone chehanno il potere fanno fatica ad accettare questo.

D. Gino Filippini, che lavora a Korogocho, una delle zone più povere diNairobi, capitale del Kenya, sostiene che il problema della disabilità è solouno dei tanti problemi che sono collegati più in generale alla povertà, alladisabilità sociale e auspica un approccio che tenga conto di questo. Tu checosa ne pensi?

R. Penso che certi problemi, la povertà, la proprietà della terra, inparticolare a Korogocho, sono molto grossi, sono anche più difficili darisolvere. Trovo che con l’avvento della urbanizzazione edell’occidentalizzazione della società c’è il rischio che le persone perdano icontatti con le loro radici. I valori della competizione e i feticci dellasocietà del consumo portano le persone a dimenticarsi dei più deboli. Parlaredi disabilità anche a Korogocho è un messaggio forte e importante perché noidi fatto stiamo dicendo ai poveri: guardate che tra di voi ci sono ancora piùpoveri, che cosa potete fare per loro? Questo discorso è molto importante, èun momento di dialogo per riconoscere che siamo persone. Parlare delladisabilità, dare speranza ad una comunità non è da sottovalutare e lasciare aparte.
Inoltre con la RBC, dove possibile, cerchiamo di promuovere anche il teatro o ilcanto tradizionale legandolo alla disabilità, anche se apparentemente sembranocose scollegate. In Guyana ci sono popolazioni indigene che si vergognano diparlare la loro lingua. Noi abbiamo raccolto le fiabe in libri: i bambini diquesta etnia non devono dimenticare le loro radici.

D. Qual è l’atteggiamento sociale verso i disabili?

R. I genitori dei bambini e adulti con disabilità hanno vari comportamenti:da chi li chiude in una stanza a chi aiuta il figlio o la figlia a svilupparetutte le capacità. Ciò non è dovuto a cattiveria ma ad ignoranza, paura,cultura. Penso che l’atteggiamento generale dipenda dal fatto che finché unafamiglia non è toccata allora non se ne cura. Quando cominciamo a parlare conla comunità delle persone disabili spesso sentiamo dire: "Ma non cisono!". Perché non li vedono, non sono mai fuori. Un’altra cosa purtroppoda rilevare è la differenza tra quello che uno vorrebbe realizzare e quello chepoi si realizza. Nelle comunità si sente spesso dire: "Siamo tutti uguali,abbiamo gli stessi diritti, non abbiamo pregiudizi". Ma se tu poi chiedi adun genitore se suo figlio può giocare con un bambino disabile o sua figlia puòsposare un disabile allora sì, avviene un po’ come da noi, che la gente storceil naso e si oppone. Tutto il mondo è uguale da questo punto di vista. Qui inItalia siamo più sofisticati, meno scoperti, anche perché il governo dàqualche servizio in più che non nei paesi in via di sviluppo.

D. Che differenza c’è, secondo te, tra l’operare nel sociale in Italia eall’estero?

R. Trovo che lavorare nei paesi in via di sviluppo per certi aspetti sia piùfacile. Non c’è assistenza dalle istituzioni, non ci sono scuole speciali, nonci sono centri per terapie, ausili. Però paradossalmente se tu cerchi dicostruire tutto questo lavoro con le comunità trovi che è molto più facile.In Italia tante volte ho la sensazione che se le istituzioni e le scuole se neoccupano, allora di fatto deleghiamo loro e ce ne laviamo le mani. Non vogliamoassumere le responsabilità. Non vorrei giudicare nessuno ma è più faciledelegare. Da parte delle comunità coinvolte dalla RBC ho visto che si riesce acostruire più partecipazione anche perché lì il disabile non è moltodistante. Per certi versi l’Italia è molto avanti. Guarda solo che tipo diricaduta c’è stata a livello internazionale quando è stato dato un ministeroad Antonio Guidi. Molte persone all’estero, che non conoscono nulla di politicaitaliana, quante volte mi dicono: "Ma voi avete avuto un ministrodisabile!" In Italia ci sono tanti modelli positivi da proporre allepersone nei paesi in via di sviluppo.

D. Infine il domandone finale: perché fai questo lavoro?

R. Io sono diventato medico in India. Mi piaceva questo fatto di aiutare glialtri. A tutt’oggi riesco a vedere 200 progetti in 61 paesi. Mi piace moltosentire che c’è stato cambiamento in molte persone e che in qualche parte èdovuto a me. Penso che se facciamo il confronto tra Aifo ed altre ONG, piùprofessionali, mi è chiaro che il nostro è un modo di muoverci forse piùrispettoso, partendo dal basso. Magari non facciamo ospedali,… ma in moltialtre cose mi sento soddisfatto.

I bairos del Mozambico

Mi chiamo Leonida Compostella, ho cominciato in Mozambico con il ProgettoLebbra 8 anni fa. Allora la stima era di un 30% di lebbrosi disabili. Nonabbiamo iniziato con un progetto specifico per i disabili perché la prioritàallora era di espandere il trattamento proposto dall’OMS (che allora toccavasolamente il 7%) alla totalità dei lebbrosi, obiettivo che in questi anni èstato raggiunto. Si facevano piccole attività per i disabili a Maputo, lacapitale, in quelli che chiamiamo i bairos, ovvero gli slums, le favelas percapirsi. C’era un gruppo di malati che vivevano nascosti. Abbiamo conosciuto percaso un signore del luogo della Conferenza di San Vincenzo, che avevaorganizzato un gruppetto di volontari che si autotassava per fare delleattività con i disabili. Abbiamo cercato di discutere con loro per dare menoassistenzialismo e promuovere la partecipazione attiva delle persone disabili.

D. Come sono visti i disabili?

R. Dipende credo dall’area. Se ti trovi in un’area cittadina o periurbanasono visti come una difficoltà, un peso. Lì la lotta per la vita èestremamente difficile. In ambiente rurale invece c’è molto il senso dellafamiglia, anche se si sta perdendo, purtroppo. Il disabile che sta in famigliaha qualcuno che lo accudisce, come per i vecchi e i bambini e c’è inoltre lapossibilità di inserirlo all’interno del processo produttivo della comunità.Si portano a casa dei prodotti e qualche disabile riesce a tagliare la buccia, afare piccoli lavori, eccetera. Si sente inserito.

D. Quanti sono?

R. C’è una associazione di disabili, si chiama Ademo, che si occupa diquesto e che ha qualche stima ma dati reali credo non li abbiamo neanche loro.Per quanto riguarda la lebbra posso dire che ci sono 6/7.000 malati. Moltissimesono le cause di disabilità. Tieni conto che nel Mozambico c’è stata unaguerra, quindi mine e conseguenze delle mine. Poi cattiva assistenzapre-peri-postnatale: molti bambini nascono con problemi e traumi. Poliomielitec’è stata, anche se adesso è ridotta. Ci sono ancora zone in cui mangiano lamanioca che è tossica e causa paralisi. E’ preoccupante l’alcoolismo, che staaumentando in modo incredibile.

D. Come sono i vostri rapporti col governo?

R. Si sta interessando alla disabilità, da due o tre anni c’è un gruppo chesta preparando un progetto di legge anche se l’ho perso di vista. Il Presidentedella Repubblica è stato nominato come presidente onorario dei disabili,dovrebbe avere un po’ di sensibilità.

D. Qual è la filosofia che seguite negli interventi?

R. Finora il mio progetto si è limitato alla lebbra ma adesso sto iniziandoun progetto di sanità di base in un distretto periferico a 500 km da Maputo.Mia moglie sta cercando di coinvolgere le donne, parlando fondamentalmente,senza un programma predefinito, vedendo i problemi che emergono. Avendo giàfatto qualche incontro stanno emergendo delle problematiche stiamo pensando acome affrontarle. Non so se questo è un metodo. L’idea a medio termine è dirisistemare dei presidi sanitari e che a lato ci sia una commissione sanitariadi cittadini che possa individuare problemi, stimolare.
Vorremmo appoggiarci alla missione cattolica di quella zona in cui le personehanno uno spirito di volontariato. Altrimenti quando ci sono situazione disopravvivenza pensare al volontariato è un po’ difficile. In Africa la cosapiù importante più che la società è la famiglia. Nessuno fa volontariatoperché si sente parte della società, mentre ognuno si sente parte dellafamiglia, intendo al gruppo allargato ad una ventina di persone, di parenti.Molte volte quando si discute sotto sotto c’è la domanda: "Ma che cosa neviene alla mia famiglia?" ed è difficile fare il passo in avanti verso lasocietà. Sono venuti fuori da 16 anni di guerra civile e da vent’anni dicomunismo, che a sua volta si era sovrapposto ad una struttura coloniale. Lagente di fatto è abituata a non pensare, è difficile coscientizzarli sui lorodiritti, alla terra, alla scuola…..In Brasile ci sono le comunità di base chefanno un grande lavoro. Una cosa molto importante, che ho capito col tempo, èche in Mozambico bisogna portare avanti un discorso, come dire, per analogia. Mispiego: il nostro modo di pensare europeo, molto deduttivo, non funziona conloro, non convince. Persuade di più dire ad esempio: perché il figlio diquello va in quella scuola bella e tuo figlio va in una scuola senza banchi,senza bagni, cadente, pericolosa? La cosa più convincente è esprimersi inparabole e qualche volta penso che all’epoca di Gesù doveva funzionare propriocosì. Non puoi dire A + B = C, ma A ha dato questa cosa, B ha dato quell’altro,allora, per analogia, cosa ha dato C?…

I Cbr workers vietnamiti

Mi chiamo Lorenzo Pierdomenico, sono abruzzese di Giulianova, e alla bellaetà di 46 anni mi hanno offerto di andare in Vietnam come responsabile Aifo eio ho entusiasticamente accettato. Dal febbraio 1998 lavoro lì, è da pocoquindi. In questi mesi sono tra l’altro anche andato in visita al progetto RBCindonesiano, poi sono andato in Mongolia. Sono quindi solo quattro mesi che stoin Vietnam. Personalmente ho vissuto delle grossi difficoltà di ambientamentoperché il Vietnam è diverso dall’Italia, perché il Vietnam, specialmentequello del Nord, è diverso anche da tutti gli altri paesi asiatici che avevovisitato. Per vari anni ho speso le mie estati con qualche missionario (lavorocome insegnante e ho sempre avuto abbastanza tempo libero). Sono andato allascoperta di vari approcci in molti paesi. In Myanmar, ex Birmania, nel ’96 hoconosciuto Aifo che supporta 3 lebbrosari. Lì ho rintracciato solo duelebbrosari e ho fatto una relazione su quello che ho visto. Successivamente inItalia durante una assemblea della CIPSI (Coordinamento di Iniziative Popolaridi Solidarietà Internazionale), che coordina 27-28 associazioni italiane (glialtri coordinamenti sono il FOCSIV, Federazione Organismi Cristiani ServizioInternazionale Volontari, di cui fa parte anche Aifo e il COCIS, Coordinamentodelle organizzazioni non governative per la Cooperazione Internazionale alloSviluppo), ho riattivato i contatti con questa associazione.

D. Qual è il tuo compito?

R. In Vietnam il mio compito è di rappresentare Aifo che è fortementeimpegnata in questo paese. Abbiamo due programmi molto importanti. Il primo èil Progetto Lebbra: supportiamo due grossi lebbrosari oltre al reparto dimalattie infettive di Hanoi che si chiama Nadb, per la prevenzione e cura deilebbrosi (assieme ad altre Ong).
Poi c’è il progetto RBC che copre cinque province, circa otto milioni dipersone, di cui il 6% disabili, quindi fai presto a fare i conti, sono 480.000persone.

D. Qual è la vostra filosofia, il vostro approccio?

R. La filosofia del programma RBC è molto ampia, potremmo parlarne per moltotempo, comunque in sostanza l’idea di fondo è di arrivare alle famiglie, darepiù conoscenze possibili per affrontare nel migliore dei modi la problematica.La cosa più importante è dare consapevolezza che il disabile si puòritagliare il proprio spazio nella comunità. Condivido la linea dell’OMS: lenostre e le loro risorse sono così limitate che l’unico approccio possibile èla RBC.
Inoltre supportiamo economicamente una controparte vietnamita, abbiamo unaccordo con il Ministero della Sanità del Vietnam. Per sburocratizzare, perquanto possibile in un paese socialista, loro hanno messo su una associazione adhoc, Vinareha (Vietnam Rehabilitation Association) per cercare di raggiungeretutti i disabili del paese. La storia del Vietnam è costellata di guerre chehanno lasciato molte ferite: varie diossine che gli americani hanno scaricato, idefoglianti, così li chiamavano gli americani. E’ un paese con un’altapercentuale di disabilità. Dal 1987 hanno avuto questo approccio e il governoè collaborativo, La cosa positiva del Vietnam è che fermo restando che lestrutture sono povere, bisogna dire che sono però ramificate. Anche nei piùremoti villaggi c’è un presidio sanitario. Così è anche il sistemascolastico.
Il nostro obiettivo principale è di dare assistenza preparando i Cbr workers,cioè le persone volontarie che seguono training e poi, è proprio il caso didirlo, vanno alla ricerca, vanno a scoprire i disabili del territorio. Il Cbr hafocalizzato sette tipi di disabilità principali, lavoriamo su sette linee. Perquanto riguarda l’intervento, la prima cosa che si fa sul territorio è censirequanti disabili ci sono. Secondo: certificare i disabili che hanno bisogno diriabilitazione. Terzo: pianificare per realizzare centri di riabilitazione.Siamo per ora intervenuti a livello provinciale e di distretto. L’intento è diarrivare a migliorare le strutture anche a livello comunale.

D. I formatori sono europei?

R. No assolutamente: il gruppo di esperti è vietnamita, non usiamo unapproccio colonialistico. Io coordino e basta, e sto imparando tantissimo daloro. Per quanto riguarda quello che loro ritengono di non conoscere abbastanzaallora noi organizziamo dei workshop, chiamando degli esperti.

D. Quali problemi incontrate nel vostro progetto?

R. Per darti un’idea, nel 1987 l’80% dei disabili viveva in campagna mentrele persone diremmo preposte a risolvere queste problematiche, i dottori, ifisioterapisti, eccetera, erano in città. Abbiamo cercato, stiamo cercando, diribaltare il tutto, di creare una rete di riabilitazione il più possibileoperativa. I numeri sembrano darci ragione, abbiamo dati recenti abbastanzaconfortanti: sono state formate 270 persone, dottori soprattutto, che poi a lorovolta sono diventati trainer, in un processo a cascata. Risultato: abbiamo atutt’oggi circa diecimila Cbr workers.
Poi c’è il problema della distanza: è un punto dolente anche se nondappertutto. Pensa che ci sono province montuose dove ad un certo punto lestrade scompaiono, popolate da minoranze etniche che non parlano nemmenovietnamita. Stiamo sperimentando una tattica, chiamiamola così, un approcciodiverso, stiamo cercando di incontrare direttamente le famiglie dei disabili. Ilnostro obiettivo principale è quello di portare a scuola il maggior numero dibambini disabili in età scolare. Ci sono alcune scuole speciali che sonostrutture care da mantenere, con molte richieste. Il governo vietnamita non hale risorse. Non ci sono insegnanti di sostegno. Cerchiamo di usare al massimoquello che dovrebbe essere l’aiuto di tutti. La problematica più grossa è cheper ogni classe ci sono circa 40/50 bambini e molte maestre non se la sentono ditenere alunni disabili. Le insegnanti, per la maggior parte donne, non hannostrumenti. In tutte le province dove siamo presenti, attraverso i comitati chedecidono quello che deve essere la politica di intervento nei villaggi,cerchiamo di coinvolgere non solo personale medico ma insegnanti, veterani diguerra, associazioni di disabili che cerchiamo anche di promuovere, donne…

D. Come sono visti i disabili?

R. La disabilità non è il primo problema della gente, come da noi in Italiadel resto. L’atteggiamento culturale è uguale dappertutto: ci sono persone chelo vedono con pena, altri che lo accettano. Fino a quando non vediamo undisabile che riesce a realizzare qualcosa, non riusciamo a intuire le suepotenzialità.

D. Il fatto che ci siano molti disabili di guerra non influenza l’immaginedella disabilità in qualche modo in termini più positivi, in termini dimaggiore solidarietà?

R. Il disabile di guerra in genere è un mutilato che riesce già a svolgereun certo ruolo attivo nella società. Quello che è il vero problema è che lamaggior parte delle disabilità è dovuta a poca consapevolezza, ad esempio allarisposta tardiva ad un piccolo problema del neonato o del bambino. Ne ho visticosì tanti, e io non ho un background medico… Aifo è coinvolto molto nellaprevenzione proprio perché se ne fa pochissima. Mi dà un senso di frustrazionese vuoi, mi rendo conto che noi non possiamo risolvere i problemi del Vietnam.Ma credo che con successo riusciamo a dare una consapevolezza, inneschiamo unprocesso di speranza per i disabili. Questa è la cosa secondo me piùimportante. Ho visto persone che per il fatto stesso che qualcuno vada nelleloro case, case semplicissime, povere, a dare consigli (anche perché il Cbrworker ha solo 12 giorni di training, stiamo lavorando molto sulla qualità) hovisto queste persone riprendere speranza. Cerchiamo di intervenire e miglioraredove vediamo delle carenze ma, come ti ripeto, le necessità sono così tante.Se non ci fosse così tanta povertà credo ci sarebbe il 50% in meno didisabili. Dal 1986 c’è in Vietnam la politica del Moi Doi che, tradottoliberamente da me, dovrebbe essere una liberalizzazione "piano-piano"dell’economia. Ciò ha permesso ad alcune persone di arricchirsi in modosfacciato. Nelle città adesso inizia un fenomeno di bambini di strada,prostituzione infantile, droghe varie. Inizia ad essere un fenomeno che in unpaese socialista è preoccupante. Non ha le dimensioni dell’America del Sud, maci sono 50.000 ragazzi di strada, in conflitto con la legge (su 80 milioni dipersone).

D. Secondo te che nessi e discordanze ci sono tra lavorare nel sociale inItalia e all’estero?

R. Come nesso il fatto di sentire quello che io chiamo la necessità di darequalcosa agli altri, di dividere quello che hai con gli altri, a maggior ragionese sono persone con disabilità. La molla che scatta …viene così… Penso cheognuno ha questa cosa: c’è chi la scopre e chi no. Nella mia vita ho avuto uncammino più o meno di solidarietà per gli amici che ho avuto. Sono nato in unposto di provincia, quando macchine ce n’erano pochissime, si giocava in strada.Ho conosciuto in modo fortuito dei missionari e questa conoscenza mi ha lasciatoun segno. Avevo poi uno zio emigrato in Francia che quando tornava ci raccontavaun sacco di avventure: ho insomma immagazzinato questa cosa di partire e digirare. Da lì un’altra fortuna di venire in contatto con SOS Missionario di SanBenedetto del Tronto in cui sono l’unico a non essere sposato. Sai c’è lafamiglia, bisogna avere due o tre lavori per tirare avanti, per cui in questaassociazione mi son trovato ad essere il factotum della situazione…Poi hoconosciuto Aifo ed eccomi qua.

Estetica dell’handicap

“Bisogna collegare la parola handicap a parole vive, che non si facciano imbrigliare dal sapere scientifico”. “E’ la percezione del limite, è il come si vive questo limite che fa la differenzacreativa”. Quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito: per una nuova immagine dell’handicap

Se qualcuno leggendo questo titolo dicesse:- "Ma cos’è questa roba? Nonleggerò mai questo articolo, alla larga!"- lo capirei, perché forsesarebbe stata la mia reazione qualche anno fa. In effetti la gente si tiene allalarga dall’handicap e dalle persone handicappate perché crede che non siainteressante o divertente stare con queste persone. Da un lato ciò ècomprensibile e anche giusto (infatti se ritieni che stare con una persona nonti possa portare niente di utile è bene starne lontani). Dall’altro èsbagliato perché dell’handicappato abbiamo tutti una immagine spesso distorta,a cominciare dall’handicappato stesso.
A ben vedere questi articoli sull’estetica dell’handicap, fanno pensare a queilibri tipo Cento modi di fare la polenta. L’utilità é data dalle connessioni,analogie, spunti per connettere il cosiddetto "mondo dell’handicap" alMondo. Altrimenti la polenta (senza i cento contorni o modi di cuocerla) rimanesempre polenta e detto fra noi, da sola, senza neanche un minimo di olio, édifficile da affrontare (bisogna avere molta fame, o essere, come me, veneti).Questi articoli dunque non parleranno solo di handicap, ci mancherebbe. Anzitraggono spunto dall’handicap per parlare di qualcos’altro che é molto piùinteressante.

9 punti non sono un quadrato

Per spiegare meglio osservate e provate a risolvere questo celebre problemino:

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connettere tutti i 9 punti con solo 4 linee senza staccare la penna dalfoglio. La difficoltà principale in questo gioco è di considerare questi 9punti come un quadrato. In effetti noi vediamo un quadrato formato da 9 punti,non vediamo i 9 punti presi singolarmente. La percezione del problema,l’immagine che ce ne facciamo già inficia profondamente il nostro tentativo ditrovare una soluzione. Prendiamo questo quadrato di 9 punti come una metaforadell’handicap: se cercheremo di superare o risolvere questo problema tracciandolinee all’interno del quadrato non riusciremo mai a trovare la soluzione. Laparola handicap è una parola impoverita perché collegata troppo spesso solo ase stessa (ai disabili, i loro famigliari, gli operatori del settore,all’insegnante di sostegno, ecc … ). E’ una parola povera di vita perchécollegata spesso ad un sapere tecnico, scientifico, specifico (medico,pedagogico, psicologico, ecc … ). L’unico modo di risolvere il problema dei 9punti è di uscire dal quadrato, scoprire che non c’è un quadrato ma solo 9punti, scoprire che il quadrato è solo un modo di vedere i 9 punti. Bisognacollegare la parola handicap a parole vive, che non si lascino imbrigliare dalsapere scientifico: ad esempio collegare l’handicap allo sport, alla danza, allavoro (vedi ad esempio il calcio in carrozzina, la CanDoCo Dance o per miaesperienza diretta il Progetto Calamaio). La nostra rivista HP-Accaparlante giàdal suo nome presuppone proprio questo: una H, lettera muta, che invece parla,non solo di se stessa ma anche di esperienze, di strumenti, di creatività. Nonè il parlarsi addosso, non è la logica triste delle varie "giornatedell’handicappato", sempre più simili alle sagre della castagna, chetuttavia almeno un significato gastronomico ce l’hanno. A Torino, durante unodei corsi di formazione che teniamo come Progetto Calamaio, una insegnante,persuasa dai nostri argomenti e dal dubbio che già da tempo aveva maturato, hafatto autocritica promettendo che si sarebbe adoperata per cambiare il nomedella sua associazione, Gruppo Amici Handicappati (GAH). Quando la percezioneche abbiamo dell’handicap è sbagliata inevitabilmente, pur in buona fede, sicommettono degli errori ed è per questo che noi del Progetto Calamaiososteniamo che l’handicap prima di tutto è un problema di tipo culturale. Eproprio per questo siamo anche molto ottimisti: quando un bambino di otto annivede in televisione una gara fra atleti disabili non potrà fare a meno diconsiderare come naturale il desiderio di un disabile di fare sport, per lostesso motivo per cui solo pochi anni fa ciò sarebbe stato impossibile.L’immagine del disabile cambia e molto in fretta grazie ai mezzi dicomunicazione.

I punti immaginari

Una volta abbiamo proposto il problema dei 9 punti in una scuola media e unaragazza ha detto: "Forse per risolverlo bisogna fare perno sui puntiimmaginari!" e subito dopo ha risolto il problema. E’ proprio qui ilsegreto, fare perno su punti immaginari esterni al quadrato (le parole vive dicui si parlava prima), sforzarsi di immaginare questi punti, produrre una nuovaimmagine di handicap. Qui dobbiamo fare perno sulla nostra creatività perchéuna caratteristica essenziale dell’atto creativo è proprio quella di usciredagli schemi cui il pensiero abitudinario ci imbriglia. E’ per questo che valela pena di affrontare una tematica come quella dell’estetica dell’handicap.Certo un po’ alla volta, perché non si pretendono cambiamenti improvvisi: anchedopo aver trovato la soluzione, dopo cioè aver fatto lo sforzo di liberarsidalla percezione del quadrato, i 9 punti continuano a vederli come un quadrato.Allo stesso modo i seguenti due segmenti

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continuamo a vederli uno più lungo e l’altro più corto anche se a misurarliabbiamo visto che sono della stessa lunghezza. L’importante è iniziare,mettendo in crisi i luoghi comuni, facendo emergere quello che non si lasciafacilmente acchiappare, come ad esempio lo sfondo (ci accorgiamo dell’importanzadell’estremità dei segmenti quando li confrontiamo fra loro), o le cose troppoevidenti. C’è un bellissimo racconto di Edgar Allan Poe, La lettera rubata, nelquale la polizia e i servizi segreti cercano senza trovarla una letterasottratta ad un importante ministro. La cercano nella casa del sospettato, lacercano dappertutto, sezionano i mobili uno per uno. Non la trovano perchè lalettera è un po’ bruciacchiata fra le carte del camino, in bella mostra. Non latrovano perchè è troppo evidente, nessuno l’avrebbe nascosta lì e diconseguenza nessuno la cerca lì. E’ nascosta perchè non è nascosta, ènascosta agli occhi di chi complica le cose pensando che le cose sianocomplicate. Nell’handicap la bellezza è una lettera rubata.

Gli handicappati sono brutti?

Partiamo da questa domanda che forse potrà apparire in un primo momentobrutale ma ha il pregio di essere diretta e di porre con forza la questione. Inmolti casi vi è uno sviluppo del pensiero quando si è in grado di porre nuovedomande perchè sono le domande ad aprire nuovi orizzonti. Wittgenstein peròavverte che una risposta è possibile solo se la domanda ha un senso, il che inaltri termini significa che quando è possibile una domanda è possibile ancheuna risposta. La sensazione è che ormai sia venuto il tempo (culturale esociale) in cui possa emergere la problematica dell’estetica dell’handicap. Inpunta di piedi si fa avanti una maturazione culturale che permette le sfilate dimoda per donne handicappate o di corsi di trucco per donne cieche. Ma in chesenso parleremo di bellezza in questa serie di articoli? Sono convinto chel’essenza della bellezza sfugga alle parole, ad un discorso su di essa. Ilgrande compositore italiano Luciano Berio alla domanda "Che cos’è lamusica?" ha risposto candidamente: "Se sapessi che cosa è non lafarei".
In che cosa consiste la bellezza della musica? Se la sua bellezza fosseesprimibile in parole, se fosse trasmissibile esattamente attraverso i concettisarebbe riducibile a qualcos’altro e quindi cesserebbe di essere qualcosa diassoluto, di autonomo. Ma, nonostante questo, parlare della bellezza ha sensoperchè nasce dall’esigenza di esprimere una esperienza, fa parte dell’esigenzadell’uomo di comunicare, che a sua volta diventa attività artistica.
Come si può parlare di Dio, se la sua essenza è per noi inesprimibile? Dio sinasconde perchè la sua presenza ci annienterebbe e annientandoci non potremmoessere quindi liberi. La bellezza dunque si rivela ma anche si nasconde. Questaserie di articoli vuole stimolare il pensiero più che dare risposte o suggerirericette. Non vogliamo dunque "dimostrare" qui la bellezza deglihandicappati, perchè è un’operazione che non ha senso. Anzi è dannosa perchèpresuppone una forzatura che nell’estetica non è ammessa, cioè il "devivedere" le cose in un certo modo. La bellezza invece si lascia vedere dachi è in grado di vederla, da chi si è preparato a riceverla. Bisognasmetterla di pensare alle cose come riducibili ad un sapere di tipo scientificoe oggettivo, che non mostra le cose ma che le dimostra. 0 meglio possiamo direche esiste un tipo di sapere che si configura in un certo modo matematico e chefunziona in un certo ambito di discorso. In altri ambiti bisogna utilizzarealtre regole, altri giochi.

Tre obiezioni

Ma torniamo alla domanda:" Gli handicappati sono brutti?" pervedere se è una domanda che ha un senso e come tale ha già una risposta chebasterà scoprire. Inizialmente vale la pena di considerare tre obiezionipossibili all’emergere della domanda stessa, ovvero:
1) gli handicappati hanno problemi più importanti (assistenza, trasporto, ecc…) per cui non ha senso affrontare questo problema che tutto sommato èsecondario;
2) gli handicappati sono belli o brutti quanto le persone normodotate. Unaestetica dell’handicap non ha ragione di essere, anzi ghettizza ulteriormenteperché presuppone due categorie speciali, la bellezza e la bruttezza deglihandicappatì, come se fossero separate dalla Bellezza e Bruttezza con le Bmaiuscole.
3) gli handicappati SONO BRUTTI (e detto per inciso tu che ti poni questadomanda per lo meno hai una mancanza di tatto nel ricordare una cosa cosìevidente).

Prima obiezione
Evidentemente qui si considera la bellezza un problema di superficie di contro aproblematiche di sostanza, essenziali, primarie. In realtà ci si è resi contoche il problema handicap è un problema culturale, prima che medico eassistenziale. Sopravvivere non è la stessa cosa di vivere, come essere vestitinon è la stessa cosa di essere vestiti bene. Teniamo presente solo che appenatrent’anni fa era una cosa rivoluzionaria uscire in carrozzina ed andarsene perle strade. Adesso forse sono rivoluzionarie una carrozzina colorata o unaragazza disabile con le calze a rete, è solo questione di tempo. E’ certo cheil cammino dell’autostima passa anche per una valutazione estetica di noistessi.Una insegnante una volta ci ha raccontato l’episodio di una sua alunnadisabile che le ha fatto questa domanda: "Professoressa, perchè mi hannochiamata brutta handicappata?". Di fronte ad una domanda del generechiunque si sarebbe trovato imbarazzato nel trovare una risposta. Credo che siaimportante costruire giorno per giorno una nuova consapevolezza, attraverso attisemplici e quotidiani troppo spesso dimenticati: scegliersi un vestito, mettersiun profumo, personalizzare la carrozzina. Se il terreno è preparato anchedomande angoscianti, come quella della ragazza disabile, possono trovarerisposta. Certo non possiamo dare a qualcuno quello che non abbiamo già noistessi. Non possiamo pretendere la fiducia in se stessa in una persona cui nondiamo la nostra fiducia. E l’immagine che abbiamo degli altri è strettamentecollegata all’immagine che abbiamo di noi stessi. L’angoscia dell’insegnante èl’angoscia dell’alunna, come l’handicap del disabile è l’handicap delnormodotato. Questi articoli che sto scrivendo possono suggerire risposte nellamisura in cui capiamo che la domanda sulla bellezza dei disabili è una domandache interessa tutti.

Seconda obiezione
E’ più subdola perchè si basa su una evidenza tutta razionale del tipo"La Bellezza è uguale per tutti" come se al tribunale dell’esteticanon valesse anche il principio che la giustizia non è dare a tutti la stessacosa ma dare a ciascuno il suo. Una sinfonia di Beethoven, un coro sardo, unraga indiano: sono tre delle innumerevoli forme musicali, diversissime tra diloro ma nell’essenza del loro mistero accomunate. Ciò non significa che nonvadano ascoltate, studiate e capite proprio esaltando le loro differenze, leconcezioni musicali così per certi versi opposte dalle quali scaturiscono.Questa serie di appunti che vado scrivendo, che pomposamente chiamo esteticadell’handicap, vogliono solo essere una serie di suggestioni per guardareall’handicap da una angolazione forse poco frequentata.

Terza obiezione
Più che una obiezione alla domanda ne è una risposta, e definitiva,inappellabile. Cercheremo di andare oltre questa immediatezza dell’uguaglianzabruttezza-handicap. E’ l’immediatezza che va messa in discussione e questa è lacosa più difficile. Nel racconto La lettera rubata, Edgar Allan Poe avverte cheproprio le cose più evidenti risultano essere invisibili. Nei processi creativila consapevolezza dei contorni, dello sfondo è fondamentale perchè è propriouna non consapevolezza che determina la nostra incapacità ad influenzare ilnostro ambiente. Una persona creativa è in grado e si sente in grado diinfluire sulle cose, è consapevole del proprio ruolo di trasformatore dellarealtà. Bisogna mediare l’immediatezza, svelare ciò che è già svelato,bisogna agguantare ciò che è sfuggente proprio perchè da sempre è sotto inostri occhi.
Un’ultima precisazione prima di continuare. Ero abbastanza indeciso se parlaredi estetica dell’handicap o di estetica del deficit. L’handicap, comedifficoltà, richiama tutta una serie di categorie (lotta, coraggio,vittoria-sconfitta, eroe-antieroe) mentre il termine deficit mi sembra richiamipiù il concetto di limite. Non mi interessa l’estetica del coraggio,dell’Enrico Toti che lancia la stampella contro i nemici, o la tragicità dicerte figure di deformi della nostra letteratura. Pure questo aspetto c’è eandrebbe approfondito, ma mi sembra già esplorato, anche troppo. Mi interessainvece parlare di handicap in senso più ampio, includendo anche l’estetica deldeficit.

Handicap e identità

Certamente la prima spinta verso un nuovo modo di pensare che tiene contoanche dell’aspetto estetico delle persone disabili viene da queste stessepersone che fra le tante contraddizioni (e nei prossimi HP ne passeremo inrassegna alcune) con cui si trovano ad aver a che fare, vivonocontemporaneamente una duplice alternativa: da un lato la tendenza ademanciparsi dal proprio deficit e dall’altro a riconsiderarlo non solo intermini negativi ma anche positivi. Una cosa di cui soffre una persona condeficit è l’identificazione, operata dagli altri e da se stessa, della propriapersona con il proprio deficit. Esemplifico: quando vedo un normodotato vedo unapersona umana ma quando vedo una persona con tetraparesi spastica vedo unhandicappato. E’ successo e succede così anche alle donne che da anni cercanodi modificare la loro immagine di sesso debole per misurarsi con il modelloforte di uomo. Però c’è un’altra tendenza che è quella che porta unhandicappato non tanto a superare il deficit, il che è utopico perchè non èpossibile annientarlo, ma a riconsiderare in modo concreto e realistico leproprie caratteristiche determinando la nascita di un che di originale.Consideriamo ad esempio gli sport per disabili, in cui i disabili non competonocon i normodotati ma nello stesso tempo la bellezza ed i valori essenziali dellosport restano intatti, restano gli stessi. Continuando l’analogia con il mondofemminile, come le donne, emancipandosi da una immagine negativa, riscoprono escoprono il piacere di essere donne, così anche gli handicappati, anche se ilcammino in questo senso è ancora lungo, scoprono che è importante unaemancipazione sia da sè che dal modello forte di uomo. Cioè si cerca di usciredalla diversità, intesa come estraneità, e nello stesso tempo si scoprononella propria diversità delle risorse ed una unicità che vale la pena divalorizzare.

La bellezza della imperfezione

Consideriamo queste due pubblicità molto famose qualche anno fa:
Televisore Supertriniton. La Perfezione
Fiat Punto. La Risposta
Siamo portati ad associare alla bellezza il concetto di perfezione. Una cosa chenon ha difetti, non ha deficit, è il massimo cui un uomo possa aspirare,diventa desiderabile e pertanto bella. Una cosa bella è una risposta, colma unalacuna, una insoddisfazione. E’ una pienezza che avvolge, che non lascia altridesideri. La perfezione ha una particolarità che la rende interessante per lanostra ricerca: esce dal tempo. Una cosa perfetta non è perfettibile, cioè èil risultato di un processo che si è compiuto, di un viaggio che è terminato.Una cosa perfetta rimane tale e quale nel tempo, non ha più senso parlare di unpresente, passato o futuro.
La perfezione per i greci ha a che fare con le cose finite, per i cristiani conl’Essere infinito. Per i greci l’infinito è un concetto negativo, irrazionale,al quale hanno contrapposto la bellezza e divinità di un mondo sferico,limitato ed armonico. Per i cristiani invece l’infinito è un attributo di Dioaccanto alla potenza, alla sapienza al non aver limiti di alcun genere. I Deigreci si possono rappresentare perché razionalmente indagabili, mentre il Diocristiano è al di là della portata umana, è imperscrutabile e non essendocila possibilità di farcene una idea non è possibile rappresentarlo se nonindicandolo solamente, per via indiretta. Il Dio cristiano è un Dio nascosto,non si può vedere perché lo sguardo umano non potrebbe sopportarne la vista.Quindi tutte le cose sono imperfette, tutte sono creature e uno solo è ilPerfetto, il Creatore.
Come è possibile una bellezza della imperfezione? Bella è una cosa che ispirain noi il senso dell’infinito, di Dio, del sacro, pur necessariamente essendofinita ed imperfetta. La perfettibilità diventa un attributo di tutte le coseperchè finite ed imperfette, anzi più una cosa è perfettibile e più sarà inun certo senso tendente all’infinito. Questo spiega perché un quadro non finitopuò essere più bello del quadro finito. Il suo non-essere finito stimolal’immaginazione e ci mette nella possibilità di entrare in rapporto conl’infinito.
Da questo punto di vista che differenze ci sono tra esseri umani ed esseri umanicon deficit? Non in senso assoluto, perchè sia un essere umano che un essereumano con deficit non sono perfetti, sono in trasformazione ed evoluzione. Certose li confrontiamo c’è una differenza ma è la condizione umana che liaccomuna.

Saggi e scarafaggi

A proposito della perfezione è interessante ricordare che lo scarafaggio éuno degli animaletti più antichi, sopravvissuto a cambiamenti ed a eregeologiche. Il suo segreto? Ha (o è) un organismo perfettamente adeguatoall’ambiente da non avere più bisogno di modifiche. Ha (o è) un organismo nelsuo genere perfetto. In che senso è bello? Per la maggior parte delle personeuno scarafaggio fa schifo ma quando Gregor Samsa si trasforma, nel raccontoMetamorfosi di Kafka, in un enorme insetto, tutto sommato vive la sua nuovaesistenza con piacere anche se sente tragicamente brutta l’inadeguatezzarispetto alla propria famiglia. L’idea di perfezione contiene moltesfaccettature e forse bisogna imparare a relativizzarla. L’essere umano in sèha un deficit di perfezione ma forse il problema non è il tendere ad uno statosenza difetti, senza disabilità, senza tempo, ma il fare i conti con il limite.E’ la percezione del limite, è il come si vive questo limite che fa ladifferenza.
Quando durante un corso di formazione abbiamo fatto vedere un filmato sul calcioin carrozzina dove si vedeva una rovesciata in area con conseguente gol, uncorsista ha esclamato: "Bello!". Questo atto sportivo è statoperfetto, perchè con perfetta scelta di tempo e un perfetto movimento, ilpallone è stato calciato in porta. Eppure è stato un atto sportivo in unosport, il calcio in carrozzina, dove giocano sia atleti normodotati sia atleticon deficit. Non è dunque il limite, ma la percezione del limite, il nostrorapporto con il limite che determina ora la bellezza ora la bruttezza. Bisognameditare a fondo questo proverbio orientale: "Quando il saggio indica laluna, lo stolto guarda il dito". Certo forse è più comprensibilel’atteggiamento dello stolto nel caso il saggio abbia nella mano un unico ditoperchè gli altri sono amputati. Non si vede mica tutti i giorni una mano con unsolo dito! Eppure lo stolto continuerà a perdersi la bellezza della luna, perguardare quella che per lui è la mano non di un uomo saggio ma solo di un uomodisabile.

Diversabilità

Un aspetto che mi appassiona e mi stupisce sempre, è la capacità, direil’abilità della disabilità (anche se sembra contraddittorio), a mettere incrisi qualsiasi struttura, qualsiasi ordine prestabilito. Perfino le parole.Passando in rassegna i termini con i quali si definisce chi ha un deficit, restasempre la sensazione che queste parole siano imperfette, imprecise, alcuneaddirittura proprio sbagliate. E’ una storia lunga, questa, nella culturadell’handicap e proveremo ad analizzare alcuni dei termini più utilizzati inquesti ultimi anni. Premettiamo che per noi è fondamentale la distinzione tradeficit ( un dato oggettivo, una mancanza certificata, ad esempio la sordità) el’handicap (la difficoltà, lo svantaggio che il deficit procura alla persona,gli ostacoli che questa persona incontra nell’ambiente). Detto questoconsideriamo ora le due classi principali di parole che designano la persona condeficit: la prima classe (handicappato, portatore di handicap, persone insituazioni di handicap) evidenziano l’handicap; la seconda (disabile, nonvedente, motu-leso, eccetera) evidenziano il deficit.

La parola giusta

Il termine handicap ha due accezioni, una positiva, l’altra negativa:quest’ultima è tradotta con le parole svantaggio e ostacolo. All’handicap cosìinteso dobbiamo dichiarare guerra, dobbiamo lavorare per ridurlo, perché questoè possibile, perché realmente possiamo agire su ciò che è handicappante, chedetermina svantaggio. Quando si parla dei poveri dei paesi in via di sviluppobisognerebbe sempre parlare di impoveriti.
A ben guardare un aiuto a chi è povero non può ridursi alla sempliceassistenza ma deve partire dalla lotta contro i meccanismi che impoveriscono.Parlare di impoveriti, piuttosto che di poveri, può aiutare un processo diconsapevolezza dei meccanismi reali che determinano il problema. Parlare dihandicappati intendendo esclusivamente (com’è di fatto) le persone con deficit,senza parlare di handicappanti (le barriere architettoniche, culturali,eccetera) è profondamente sbagliato. Oltretutto l’handicap è una categoriatrasversale alle persone, tocca tutti: anche un normodotato può esserehandicappato, perché si può trovare in imbarazzo, può provare paura, può nonentrare in comunicazione con una persona che ha un deficit.
Oltre a questa accezione negativa di ostacolo, svantaggio, la parola handicapinvece ne ha una che apparentemente non sembra positiva, ma in realtà lo è:difficoltà. In ogni gioco c’è un handicap, c’è una difficoltà, checostituisce il sale del gioco. Il sale di per sé non è un alimento, è amaro,è insostenibile da solo: è così con le difficoltà che non riusciamo agestire, che non riusciamo ad inscrivere in un gioco, in un sistema di senso chedia loro valore. Se invece l’handicap riusciamo a connetterlo ad un gioco, condelle regole, se riusciamo a giocarci, allora scopriamo un punto di vista sullarealtà che è notevolissimo.
Quindi handicappato è un termine che genera confusione perché:
1) sposta l’attenzione sul risultato piuttosto che sulla causa (sul poveropiuttosto che su chi, o cosa, impoverisce; sull’handicappato piuttosto che suchi, o cosa, è handicappante);
2) viene usato per definire chi ha un deficit quando sarebbe più correttoriferirlo a tutte le persone, anche i normodotati, che entrano in rapporto coldeficit. Il risultato evidente è che si crede che l’handicap sia un problema diuna categoria di persone (gli handicappati e le loro famiglie) o di chi sioccupa per lavoro di handicap (i terapisti, i medici, eccetera);
3) non tiene conto anche del significato positivo della parola handicap.
Una dizione che ha il pregio di distinguere tra handicap e persona è"portatore di handicap". Anche qui però non si tiene conto del fattoche tutti sono potatori di handicap per cui non si centra l’obbiettivo didistinguere chi ha un deficit da chi non ce l’ha. Tra l’altro "portatore dihandicap" può essere un termine fuorviante perché sembra che questapersona necessariamente porti gli handicap con sé, quando invece un disabilepuò benissimo aver superato alcuni handicap. E’ evidente che se un disabile nonriesce a raggiungere il secondo piano di un edificio perché ci sono le scale enon c’è l’ascensore, in questo caso non è lui che ha portato l’handicap ma sel’è trovato appioppato addosso dall’esterno. Sicuramente è più corretta ladefinizione "persona in situazione di handicap" ma il problema anchequi sta nel fatto che se vogliamo essere consequenziali con la distinzione tradeficit ed handicap dobbiamo riferire questa definizione a tutte le persone.

Quando il deficit porta la novità

Altri termini per designare una persona con deficit sottolineano appunto lapresenza del deficit: in-abile, dis-abile, motu-leso, non-vedente, eccetera.Questi termini hanno il pregio di non confondere tra handicap e deficit e anchese sembrano più crudi, perché impietosamente vanno ad individuare la presenzadi un deficit, in realtà dicono le cose come stanno o come sembra che stiano.E’ questo il punto su cui dobbiamo soffermarci. Sicuramente la presenza di undeficit può ledere alcune abilità della persona, ma in molti casi conl’intervento di un adeguato programma educativo e la disponibilità di ausili,una persona con deficit può essere abile in modo diverso, raggiungendo in parteo totalmente gli stessi obiettivi di una persona normodotata, in qualche casoapportando la scoperta di nuove strade che possano diventare risorse per tutti.Mi sembra ben spiegato nell’articolo di Zucchi, in questo numero di HP, il sensodel linguaggio dei segni dei sordi che va ben al di là di una sempliceimitazione del linguaggio ordinario. Ma di esempi ce ne sono moltissimi. Ilpresidente della nostra associazione CDH, Claudio Imprudente, è in carrozzinaed è muto: comunica utilizzando una lavagnetta trasparente sulla quale sonoincollate le lettere dell’alfabeto. Attraverso questa lavagnetta Claudio ognigiorno incontra persone, lavora nelle scuole, comunica col mondo. Mi sembra chedefinire dis-abile, non abile una persona così, sia difficile. Certo in moltealtre situazioni Claudio è considerato disabile ma è forse corretto dire nonautosufficiente, perché con l’aiuto di una persona può fare quasi tutto quelloche fa un normodotato (mangiare, spostarsi, eccetera). La mente del normodotatoche telefona sta al suo braccio che prende in mano la cornetta, come la mente diClaudio sta all’operatore che realizza l’azione di telefonare. Sono dueoperazioni molto diverse nei mezzi ma non nel risultato. Da questo punto divista uno è autosufficiente, l’altro no: entrami sono abili. Certo il fatto distare su una carrozzina gli preclude la possibilità di correre con le propriegambe, anche se ipotizzassimo l’aiuto di una o più persone. Qui ci troviamo difronte ad una vera e propria disabilità i cui limiti sono abbastanza definiti.Ciò non significa per Claudio l’impossibilità di fare sport: il calcio incarrozzina è la dimostrazione che possono esistere atleti con tetraparesispastica.
In tutti questi casi la parola disabilità indica forse un inizio del percorso erischia di diventare ingiusta se non tiene conto della storia personale diognuno, della ricerca di nuove strade per essere abile in modo diverso.

Arriva il diversabile

Ecco il termine che vorremmo utilizzare sempre di più al posto di disabile:diversabile. Claudio Imprudente dice spesso che i termini utilizzati perindicare chi ha un deficit hanno poco a che fare con la fiducia (in-valido,dis-abile, eccetera). Diversabile è un termine propositivo e positivo, che cisuona bene perché mette in evidenza l’essere diversamente abili di moltepersone con deficit. Nel cammino della cultura dell’handicap riteniamo che iltermine diversabile provenga da un’idea "necessaria" storicamente.Siamo convinti che iniziare ad usarlo possa aiutare a vedere le persone condeficit in una prospettiva nuova, meno istantanea nella constatazione deldeficit, meno medica, più attenta ad una storia, ad un cammino di acquisizionedi abilità. Giustamente si potrà obiettare che noi tutti siamo diversabili(basta vedere il modo di camminare di ognuno): certamente chi ha un deficit loè di più. Il termine diversabile contiene imprecisioni, almeno quanto iltermine disabile. Queste imprecisioni però hanno almeno il pregio di infondereun po’ di ottimismo in più senza per questo cadere nell’errore di dimenticarsidel deficit e dell’handicap. Il diversabile non è normodotato, almeno quanto ildisabile! Diversabile poi non è la parolina magica che automaticamente cambiale cose: può però forse cambiare il nostro modo di percepirle, e già questoè un modo di cambiare, è un punto di partenza. E’ un po’ la vecchia storiadella bottiglia mezza piena e mezza vuota: il contenuto della bottiglia è lostesso nei due casi, ma in uno si sottolinea la mancanza, la vuotezza, ildeficit (la disabilità), nell’altro si sottolinea la presenza di qualcosa, dipotenzialità di possibili abilità. Certo una bottiglia mezza piena (magari divino) non è uguale ad una bottiglia piena, però suggerisce che lo puòdiventare aggiungendovi degli elementi, non tanto in uno spirito di imitazionedella pienezza della "piena", quanto in uno spirito creativo. Mia ziaGigetta beveva quella che a Venezia si chiama "bevanda", cioè acqua evino insieme, molto dissetante; con l’aggiunta sapiente di frutta, dal vino siottiene la sangria. Allungare il vino con qualcos’altro (miele, acqua e spezie,eccetera) può fare arricciare il naso ai puristi ma era la consuetudine adesempio nel mondo antico. Il deficit del mezzo vuoto è la constatazione di unsegno meno nel confronto con la "pienezza" normodotata. La disabilitànon è un punto di arrivo, ma è un punto di partenza. Se troviamo un ambienteche ci dà fiducia, se ci diamo da fare nella ricerca di ausili, se riusciamo apercorrere per quanto possibile una strada di superamento ma anche divalorizzazione dell’handicap, diversabili si diventa.

Riabilitare

Quest’anno la terza parte di Hp sarà dedicata alla riabilitazione, un tema molto importante che riguarda gli operatori sociali, i disabili, i loro genitori. Un argomento che taglia trasversalmente tutti i ruoli costituiti e porta ad interrogarsi non tanto su quali siano i metodi riabilitativi contemporanei, ma che cosa significhi lo stessa idea del riabilitare.
Non faremo una rassegna completa dei metodi riabilitativi ma, come è nel nostro stile, cercheremo di esplicitare il nostro punto di vista su cosa è messo in gioco nel processo riabilitativo per tutte le persone che vi prendono parte. Daremo spazio alle esperienze concrete, a quelle più innovative ed emergenti (anche provenienti dal “sud del mondo”), intervistando i protagonisti della riabilitazione e in particolare privilegiando le “storie”, la scrittura come strumento per dare forma ai processi di cambiamento.
Infine un’ultima sezione dedicata ai confini della riabilitazione cercherà di presentare esperienze che come fine principale non hanno la riabilitazione ma che sono spazi di “abilitazione”.

Ai confini della riabilitazione

I confini sono fatti anche per sconfinare, ma ciò rischia di creare qualche confusione, non solo nelle mani semplici di noi assistenti di base, o operatori sociali. Insomma, di noi addetti ai lavori. Uno spazio di interviste a contrabbandieri e a guardie doganali: tutto può accadere quando si è…La parola riabilitazione fa pensare qualche volta a chi, accusato come colpevole di qualche fattaccio, risulta alla fine innocente. La presunzione di innocenza nei confronti delle persone disabili passa anche attraverso un diverso modo di percepire le attività che li vedono protagonisti: non tanto per “riabilitare”, dare la possibilità di discolparsi a chi nel passato è stato emarginato per qualche motivo, né nel senso di tornare ad una situazione di normalità, quanto per dare la possibilità di rendere abile in modo diverso la persona con deficit o svantaggiata, renderla divers-abile. Ultimamente gira questo vocabolo, diversabile, che non ci dispiace: tra parentesi il normodotato, termine che tutti siamo, credo, costretti ad usare, ma che in genere si ritiene abbastanza brutto, lascerebbe il posto a normabile (che è un po’ meglio, purché non si pensi ad un normodotato con l’impermeabile).
Solitamente si concepisce il terapista come colui che applica una terapia ma esso stesso non è destinatario dell’azione. Potrà sembrare una banalità sottolineare che l’utente non è il riabilitatore ma il riabilitando. Esistono invece delle attività che sicuramente hanno anche ricadute in chiave di riabilitazione, ma che si rifanno ad altri modelli, ad altre modalità di rapporto tra disabile e colui che lo aiuta nell’attività. Prendiamo, ad esempio, in considerazione i termini disciplina (sportiva, marziale, eccetera), animazione (concetto abbastanza vago e da approfondire), laboratorio (artistico, teatrale, eccetera), dove il rapporto tra operatore ed utente è diversamente inteso rispetto a quello tra riabilitatore e riabilitando. In una disciplina come lo judo abbiamo di fronte un maestro e un discepolo, non ci sono da una parte un operatore e dall’altra un utente: il coinvolgimento del maestro e dell’allievo nei confronti della disciplina non è qualitativamente diverso se non nei livelli di consapevolezza. Entrambi usufruiscono della disciplina, entrambi sono “utenti”: nello stesso tempo entrambi sono “operatori” della disciplina, in grado diverso. Ciò avviene, ad esempio, anche tra allenatore e giocatore: due ruoli al servizio di un unico sport. Lo vedremo nell’intervista, che segue, ad un allenatore di calcio in carrozzina.

Respons-abilità

Un problema centrale delle persone disabili, cioè quello di relazionarsi quasi tutto il tempo con operatori che hanno presente innanzitutto il loro deficit, impedisce di fare un salto di qualità, impedisce al disabile di ricoprire più ruoli, di giocare più giochi. Per scongiurare questo pericolo, in un centro, che ho avuto modo di visitare a Lisbona, dove si facevano delle attività artistiche con allievi disabili, è stato scelto innanzitutto un maestro, un artista affermato, gli si sono dati gli strumenti che ha richiesto e si è iniziata l’attività. L’interesse di questo maestro è sempre stato spostato sul risultato artistico, più che sul deficit dell’allievo. Questo evidentemente non significa non aver consapevolezza del deficit, ma significa dirsi che il motivo per quella attività non è di fare terapia ma di fare arte. Ho la sensazione che, di fatto, chi lavora nell’ambito handicap, che ha i ferri del mestiere, che conosce i suoi polli, tante volte sforzandosi di emancipare il disabile dal deficit, essendo questo uno dei principali bisogni dell’utente, ottiene l’effetto contrario. Ma non per cattiveria o poca bravura: proprio perché il rapporto è di un certo tipo, proprio perché noi tutti addetti ai lavori, volenti o nolenti, abbiamo dei limiti, dati dal nostro ruolo e dalla nostra deformazione professionale. Quando il mio allenatore di calcio in carrozzina mi dice che innanzitutto vede nel giocatore un atleta e non un disabile, in qualche modo lo invidio, perché la mia forma mentis, il mio ruolo, in quanto assistente di base o educatore, mi induce invece a comportarmi in un certo modo, cioè da adb e da educatore. Non c’è niente di male in questo, se non proprio nel fatto che spesso un disabile ha più a che fare con me o persone come me, che altro. Se nella vita del mio utente io e gli altri addetti come me giocassimo un ruolo di secondo piano, forse la mia deformazione professionale non sarebbe un problema; ma siccome purtroppo nella maggior parte dei casi ancora non è così, bisogna prenderne atto e cercare delle soluzioni.
Una di queste è tentare, per quanto possibile, di spostare il peso del rapporto sulla azione, sul suo significato (che sia fare sport, arte o quello che si vuole); ciò dà la possibilità di equilibrare il rapporto perché non c’è più un unico destinatario dell’azione (l’utente) ma c’è innanzitutto un cammino da fare entrambi.
Il ruolo dell’educatore e il ruolo dell’allenatore sono due ruoli diversi, ed è importante non confonderli. Il lavoro dell’assistente di base è un lavoro di respons-abilità perché devo essere abile a rispondere, e ad aiutare a rispondere, ai bisogni del mio utente, bisogni che sono in parte determinati e comunque sempre influenzati dal deficit dell’utente. La responsabilità dell’allenatore è invece, per così dire, più limitata, centrata, meno generica: l’allenatore deve rispondere al bisogno di fare sport di una persona. Non è in questo caso il deficit a creare il bisogno, perché tutti (maschi e femmine, giovani e anziani, normabili o diversabili, eccetera) possono sentire questo bisogno. Il bisogno non è tanto l’espressione di una mancanza nell’individuo, come siamo portati a pensare noi che ci relazioniamo molto a bisogni “influenzati” decisamente dalla presenza di un deficit, di una mancanza. Il bisogno è l’espressione di qualcosa che c’è, di qualcosa che necessita casomai di un aiuto (quello di noi operatori) per svilupparsi.

Archimede riabilitatore

Penso che più i riabilitatori impareranno ad ispirarsi anche ad altri modelli che non siano pesantemente influenzati dalle scienze e più ci sarà la possibilità di aumentare in qualità il rapporto. Prendete questo sfogo per quello che è: basta con le analisi scientifiche o pseudo-tali, basta con la truppa di medici, psicologi, pedagogisti, eccetera. Si fa per dire… ma basta comunque con il rapportarsi al deficit dandogli più importanza di quella che ha. Bisogna spostare l’attenzione dal deficit a quello che posso fare con ciò che ho come potenzialità e su come posso essere protagonista dell’attività che scelgo per esprimermi.
In altre parole: riabilitare non è solo un fatto scientifico ma culturale, perché “aiutare a diventare abili”, infatti, è sempre in relazione agli obiettivi che ci poniamo, è sempre un imparare a fare delle cose. Che cosa è richiesto, ai disabili, di fare? O di diventare? Cosa si richiede loro, nella nostra cultura? In una visione molto medico-scientifica, il riabilitatore deve raggiungere obiettivi di efficienza, misurabili. Benissimo. Ma un allenatore, per tornare all’esempio, vuole raggiungere anche altri obiettivi, legati a logiche diverse. La vita è fatta da un insieme di giochi che, come dice Wittgenstein con la sua teoria dei giochi linguistici, non sono riducibili ad un unico gioco, ma ognuno ha delle proprie regole, una propria bellezza. Porre tutti gli sforzi, come spesso si fa anche perché non ci sono le forze, solo su un unico gioco, quello della riabilitazione-tornare alla normalità, è ridurre la persona con deficit al deficit, identificandola col deficit. Perfino l’itinerario stesso di acquisizione di abilità, alla fine, non permette alla persona di utilizzare queste stesse abilità per venire fuori dal sistema della riabilitazione (vedi nell’intervista di Marco Grana a Massimo Manferdini, il riferimento alle aberrazioni cui possono andare incontro i centri diurni). In altre parole un sistema di servizi, se è chiuso in se stesso, non può essere di vero servizio alla persona.
Ogni gioco è un mondo con le sue regole, e come non esiste un unico gioco, un’unica logica, un’unica bellezza, così non ci può esser un unico modo per fare riabilitazione. Quelli che dicono che tutto è riabilitazione, intendendo tutto è terapia, sbagliano. Esiste un modo di far riabilitazione che è tutto fuorché terapia: vedasi il calcio in carrozzina, sport inventato da un gruppo di spastici, che da un punto di vista terapeutico può essere consigliato a tutti, fuorché agli spastici. Tant’è: perfino la pallavolo, sport apparentemente innocuo, fa male: anzi è al primo posto negli sport che provocano traumi agli arti!
Dare dei punti di appoggio sui quali poter sollevare più mondi (parafrasando liberamente Archimede): forse questo è un vero atto di riabilitazione, perché prova l’innocenza e perdona, perché riabilita anche l’operatore, il maestro, l’allenatore, il cui vero alibi è sempre la bellezza di quello che si fa, del gioco che si gioca.