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autore: Autore: Rosanna De Sanctis

5.Corpo, relazione, movimento… per i bambini

di Giacomo Busi, Roberto Parmeggiani, Rosanna De Sanctis

Il progetto “Corpo, relazione, movimento” realizzato grazie al contributo del Comune di Bologna Area Benessere di Comunità in collaborazione tra Associazione d’iDee e Associazione CDH di Bologna, è uno strumento sperimentale di educazione alla salute per i ragazzi delle scuole dell’obbligo che stiamo svolgendo da settembre in cinque scuole primarie e una scuola media di Bologna Quartiere Saragozza e coinvolge 150 bambini. Mai come oggi l’attività fisica, intesa soprattutto come “attività del camminare”, coinvolge aspetti fondamentali della nostra vita. Muoversi a piedi continua a interessare una molteplicità di aspetti culturali, di cui si sente sempre più il bisogno di riappropriarsi. Ma ci sono anche altri aspetti importanti. L’intenso benessere psicologico e fisico che si prova dopo una passeggiata non è l’unico effetto positivo del camminare: una vasta quantità di studi scientifici, come è noto, ha dimostrato che l’attività fisica svolta con regolarità induce anche numerosi benefici per la salute.
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità:
• la sedentarietà è il quarto fattore di rischio di mortalità su scala mondiale
• patologie legate all’inattività sono le malattie cardiovascolari, il diabete e l’obesità
• l’obesità e il sovrappeso sono in aumento anche tra i bambini
• una modica attività fisica riduce del 50% i rischi di queste patologie, produce benessere fisico e mentale e determina un calo sostanziale del rischio di ipertensione, osteoporosi e delle conseguenze psicologiche della vita sedentaria quali lo stress, l’ansia, la depressione e il senso di solitudine
• camminare o andare in bicicletta per circa 30 minuti al giorno riduce del 50% i rischi di malattie cardiocircolatorie, sviluppo del diabete in età adulta, e obesità; e riduce inoltre del 30 % il rischio di sviluppare ipertensione.

Nella pubblicazione “Global recommendations on Physical activity for Health” (2010) l’OMS definisce i livelli di attività raccomandati. Secondo queste linee bambini e ragazzi di età compresa fra i 5 e i 17 anni dovrebbero compiere almeno 60 minuti di attività fisica al giorno e la maggior parte di essa dovrebbe essere aerobica. Nonostante queste evidenze manca ancora la consapevolezza dell’importanza del movimento fisico per la salute e l’automobile è quasi sempre utilizzata anche per compiere tragitti molto brevi, inferiori ai 3 km. Gran parte dei bambini e degli adolescenti di oggi spesso conducono una vita sedentaria tra la scuola e il computer.

Cammina, che ti passa
Esiste una relazione significativa, sostenuta da evidenze scientifiche, che collega il camminare e lo stato psico-corporeo dell’essere umano. Secondo i ricercatori, infatti, camminare in mezzo alla natura, magari in compagnia di altre persone, riduce lo stress percepito e aumenta il benessere mentale. Le passeggiate all’aperto, specie se fatte insieme ad altre persone, si sono dimostrate avere un grande impatto sul benessere di chi si trova in condizioni psico-corporee non soddisfacenti.
Una ricerca comparata dell’University of East Anglia (UEA), Regno Unito, pubblicato sul “British Journal of Sports Medicine” ha analizzato 42 studi, per un totale di 1.843 partecipanti in 14 diversi paesi: dai risultati emerge che le persone che fanno regolari camminate di gruppo riescono a mantenere bassa la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca, a controllare i livelli di colesterolo e ridurre la propria massa corporea, allontanando così il rischio di ictus. Quindi, camminare in gruppo aiuta a tenere lontane molte patologie e mantenere un buono stato di salute. Infatti, camminare in gruppo è uno dei metodi più facili e veloci di aumentare il proprio livello di salute: le persone che camminano in gruppi tendono anche ad avere un atteggiamento più positivo verso l’attività fisica e a sentirsi meno isolate. Anche con le persone che tendenzialmente rivelano un basso livello di energia e movimento, le camminate in gruppo possono rappresentare un forte catalizzatore e un agente che stimola emotivamente l’adozione di comportamenti sani. L’analisi dimostra che le persone che camminano regolarmente in gruppo hanno registrato cali statisticamente significativi della pressione media arteriosa, della frequenza cardiaca a riposo, dell’indice di massa corporea e del livello totale di colesterolo. Inoltre, camminare in gruppo migliora la capacità respiratoria, attraverso un aumento della potenza polmonare. Infine, questo miglioramento delle funzionalità fisiche generali si associa a un miglioramento dell’umore e a una diminuzione dei rischi di sviluppare umore depresso. Camminare in gruppo rappresenta quindi un’attività sicura e piacevole, che ha un grande potenziale benefico sia per la salute fisica che psicologica [Hanson, 2015].

Raccolta d’informazione e la progettazione di percorsi
Al centro del progetto troviamo l’informazione sull’importanza del movimento per la salute fisica e psichica dell’individuo e la riacquisizione graduale dell’abitudine a camminare soprattutto nei brevi spostamenti urbani, nel tempo libero e nel fine settimana.
Tra gli obiettivi:
• indagine su quanto tempo i bambini e ragazzi dedicano all’attività fisica
• apprendere che il movimento fisico produce effetti positivi sulla salute ed è un importante fattore di protezione dalle malattie
• apprendere una modalità corretta di camminare
• individuare brevi percorsi sicuri all’interno del territorio comunale
• il cammino come viaggio di conoscenza di se stessi.

Azioni e raccolta delle emozioni
• Incontri in aula scolastica e “in cammino” sul territorio
• somministrazione questionario iniziale
• lavoro in piccoli gruppi
• facili camminate nei parchi della città. In tali occasioni ci si concentrerà sulle sensazioni ed emozioni provate ascoltando il proprio corpo in movimento
• compilazione questionario pre e post camminata
• elaborazione dell’esperienza della camminata.

Camminare in tanti modi diversi
La riflessione sull’importanza del movimento, soprattutto quello quotidiano, legato al benessere ma anche al piacere dato dalla possibilità di godere dello spazio fisico in cui viviamo, ci ha spinto a riflettere anche sul tema dell’accessibilità e dei diversi modi di camminare.
L’apporto specifico dell’Associazione CDH, attraverso gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, ha riguardato proprio questo aspetto. Nell’incontro svolto a scuola i bambini e i ragazzi sono stati invitati a fare esperienza della diversità attraverso l’incontro diretto con persone con disabilità.
Una riflessione, quindi, partendo dall’esperienza, dalle sensazioni e dalle emozioni vissute in prima persona. Successivamente, attraverso giochi di ruolo e domande, abbiamo ampliato il ragionamento volto a produrre una maggiore consapevolezza di sé e dell’uso del corpo, di quello della persona con disabilità e del proprio. La conoscenza riduce le distanze e i pregiudizi, ci permette di parlare con libertà anche di ciò che spesso sentiamo come inappropriato e di scoprire punti di contatto tra noi e chi consideriamo diverso. Ecco allora che è possibile scoprire che Francesca gioca a tennis come Andrea oppure che Francesca preferisce andare al parco in compagnia come Elisa e Giulia oppure che a tutti piacciono i pic-nic. L’incontro al parco e la camminata sono stati poi l’occasione per avere un riscontro diretto su ciò di cui avevamo discusso in classe e per confrontarci con quegli aspetti concreti che possono rendere più difficile o, al contrario, facilitare l’accesso al parco.
Dopo brevi tratti di camminata i partecipanti hanno espresso le loro sensazioni rispetto a cosa percepivano dello spazio (suoni, odori, temperatura e tipo di terreno) e a come questo cambiava addentrandoci sempre più nel parco. Allo stesso modo anche l’animatore con disabilità presente esplicitava il suo sentire coinvolgendo i partecipanti mettendoli a confronto con le diverse risposte.
Uno spazio specifico è stato lasciato alla valutazione degli ostacoli e alle possibili soluzioni, più o meno creative. Tra tutte si è convenuto che, al di là della necessità di ridurre le barriere architettoniche, una delle strategie più efficaci per superare eventuali difficoltà e per godere appieno del piacere del camminare è la relazione. Fare insieme, condividere, sperimentare mettendo in comune le diverse abilità.

I promotori del progetto
Associazione d’iDee si occupa da più di 12 anni di sviluppare progetti che contri- buiscano a una società più solidale, capace di tutelare i diritti delle minoranze, anche attraverso la diffusione di iniziative culturali, formative, ricreative che contribuiscano a creare una diversa sensibilità collettiva. Il nostro intento è quel- lo di costruire interventi educativi che, valorizzando le differenze, agevolino le persone in situazione di disagio nel loro percorso di crescita personale, e sociale. L’Associazione Centro Documentazione Handicap, nata nel 1996, gestisce un centro di documentazione sui temi dell’handicap, del disagio sociale, del volontariato e del terzo settore e vuole essere un laboratorio culturale aperto sui temi dello svantaggio e della diversità. Si propone di favorire una cultura in cui le persone svantaggiate siano soggetti di diritto, protagoniste del cambiamento personale e sociale e di dare a ogni persona svantaggiata la possibilità di un’inclusione basata sulla valorizzazione delle sue risorse. Ciò che spesso sentiamo come inappropriato e di scoprire punti di contatto tra noi e chi consideriamo diverso. Ecco allora che è possibile scoprire che Francesca gioca a tennis come Andrea oppure che Francesca preferisce andare al parco in compagnia come Elisa e Giulia oppure che a tutti piacciono i picnic. L’incontro al parco e la camminata sono stati poi l’occasione per avere un riscontro diretto su ciò di cui avevamo discusso in classe e per confrontarci con quegli aspetti concreti che possono rendere più difficile o, al contrario, facilitare l’accesso al parco. Dopo brevi tratti di camminata i partecipanti hanno espresso le loro sensazioni rispetto a cosa percepivano dello spazio (suoni, odori, temperatura e tipo di terreno) e a come questo cambiava addentrandoci sempre più nel parco. Allo stesso modo anche l’animatore con disabilità presente esplicitava il suo sentire coinvolgendo i partecipanti mettendoli a confronto con le diverse risposte. Uno spazio specifico è stato lasciato alla valutazione degli ostacoli e alle possibili soluzioni, più o meno creative. Tra tutte si è convenuto che, al di là della necessità di ridurre le barriere architettoniche, una delle strategie più efficaci per superare eventuali difficoltà e per godere appieno del piacere del camminare è la relazione. Fare insieme, condividere, sperimentare mettendo in comune le diverse abilità.

Dalla parola al corpo

La parola si è imposta da sempre, nella cultura, nelle filosofie e nelle religioni occidentali, come canale privilegiato della comunicazione fra gli uomini: il logos, espressione della superiorità umana, si oppone al corpo, luogo dell’oblio della ragione. La parola sembra assorbire ogni possibilità espressiva, mentre il corpo viene sempre più ad essere il grande sconosciuto. Ma è nel corpo che troviamo istinto e passione, piacere e dolore, esperienze immediate quotidiane e fondamentali della vita.
Il corpo si esprime e da’ informazioni. In qualsiasi relazione, lo scambio e la comprensione dipendono, al di là e ancor prima della parola, da elementi corporei, come la direzione dello sguardo, la distanza, la postura, il tono della voce, il silenzio la gestualità. Il corpo mette in scena la presenza, persuade, seduce intimorisce, avvicina, allontana ; per mezzo del corpo l’inconscio parla direttamente.

Corpo bloccato, corpo negato, corpo vivo, corpo agito: il corpo comunica.

Il piede che batte frettoloso, la mano che ricerca una carezza, gli occhi sbarrati svelano un emozione e un pensiero che spesso non coincidono con ciò che stiamo affermando, richiedendo , o rifiutando verbalmente.
Oggi si è ampiamente dimostrato l’esistenza e l’importanza di un linguaggio non verbale che continuamente accompagna e a volte si sovrappone al linguaggio verbale; in questo numero di Hp vi presentiamo tre diverse esperienze di interventi e terapie a mediazione corporea che affrontano il tema del corpo da angolazioni estremamente originali e interessanti.

Spazi scolastici

L’importanza del corpo e della comunicazione corporea all’interno della scuola è stato un tema da sempre sottovalutato o addirittura ignorato. Così per lo spazio, la disposizione dei banchi, delle classi…
Intervista a 5 insegnanti della Scuola Media Zanotti di Bologna

Come è organizzato lo spazio in questa scuola, seguite lo spazio istituzionale o è stato riorganizzato?

A: Lo spazio in alcune aule è stato riorganizzato per una migliore fruizione dello stesso da parte degli alunni. Noi insegnanti di sostegno utilizziamo molti spazi (laboratori, antiaule, palestra) e abbiamo verificato come il cambiare spazio sia utile per i ragazzi per "scaricare" tensioni.

C: Io mi occupo di informatica e di facilitazione dell’apprendimento attraverso il computer. Ho organizzato lo spazio 3 anni fa quando sono arrivato qui ed è iniziata questa attività. Nell’aula di informatica ho creato due spazi: uno per i computer e uno per rilassarsi; perché anche se il computer è utilizzato in forma ludica, richiede comunque ai ragazzi concentrazione e attenzione molto elevati, quindi per me è fondamentale dare dopo l’attività al computer un tempo per rilassarsi, "scaricare", chiacchierare.

Lo spazio l’ho organizzato in base alla comunicazione circolare dei messaggi; i ragazzi sia della I che della III sono seduti in cerchio, ma purtroppo le aule sono piccole e quindi oltre al cerchio all’interno, c’è un semicerchio. Lo so che non e’ ottimale, ma meglio questa sistemazione che quella istituzionale.

E: La palestra era già stata progettata così fin dall’inizio della costruzione della Scuola. E’ molto bella, luminosa, ricca di grandi e piccoli attrezzi, ha sei canestri per poter far giocare più gruppi di bambini e in più’ accoglie anche 50 ragazzi contemporaneamente e questo ci favorisce molto nel lavoro .

D. "Il corpo, lui non tace mai: sotto lo sguardo, sotto il contatto dell’altro, non cessa di emettere messaggi." (Lapierre) Quanto conosce e utilizza nella relazione educativa i canali della comunicazione corporea e non verbale?

B: E’ una relazione che ricerco, perché è istintivo ricercare un contatto fisico con gli alunni, e per contatto non intendo solo quello puramente fisico, ma anche uno sguardo, un certo modo di dare e ricevere ascolto

C: Anche io utilizzo il corpo nella relazione è un modo naturale di vivere il rapporto in modo completo e poi ho osservato che migliora non solo la relazione ma anche l’apprendimento degli alunni.

D Il corpo all’interno della scuola a parte le ore di educazione fisica o di drammatizzazione è mortificato; nelle aule i ragazzi stanno fermi nel loro banco. Ma io credo che la corporeità non riguarda solo il corpo inteso come movimento, ma l’ascolto del corpo, saper ascoltare le proprie emozioni e sensazioni. In questi ultimi anni c’è stata una atrofia del sentire, anni fa ho lavorato all’MCE (Movimento Cooperativo Educazione) e ho fatto diverse esperienze, da allora cerco di dare ai ragazzi uno spazio che non è di movimento, ma un ascolto del proprio sentire; ad esempio quando entro in classe chiedo: "Come state? come vi sentite?, come definiresti con un colore la giornata di oggi o il tuo essere oggi?" per me già questo è dare attenzione e iniziare la giornata in modo diverso. Io sono consapevole di come comunico ma non sempre riesco ad utilizzare questa consapevolezza. Ci sono alcune tecniche che cerco di utilizzare, come il tono della voce, l’intercalare, i silenzi…

E: Il corpo è per me fondamentale, l’attività fisica è estremamente importante, tanto che finalmente anche nelle scuole elementari si fa attività motoria e noi notiamo la diversità in Ia dei ragazzi che hanno svolto attività e quelli che non l’hanno avuta; perché nei primi c’è una maggiore disponibilità motoria. Noi in questa Scuola facciamo, io ed il mio collega, in ore extrascolastiche un avviamento alla attività sportiva, ma non finalizzata all’agonismo e ogni anno abbiamo molte adesioni. Negli anni abbiamo rilevato che in queste attività i ragazzi esprimono se stessi non solo da un punto di vista fisico ma anche psicologico-emozionale, il fatto di essere in tuta come loro, di rotolarsi come loro, di giocare con loro li aiuta ad aprirsi a liberarsi ad esprimersi, più volte è accaduto e accade che i ragazzi ci raccontino i loro disagi, le loro paure; spesso ci vengono a cercare con delle richieste specifiche di aiuto; in aula è più difficile, già la cattedra crea una separazione qui c’e’ una vicinanza, un ascolto, un contatto fisico e umano che difficilmente si crea in altri luoghi anche se in questa Scuola accade ma perché ci sono insegnanti sensibili oltre che preparati e gli alunni ne hanno veramente bisogno. Inoltre nella nostra attività vengono trasmessi valori come il rispetto delle regole, la collaborazione, la solidarietà, la capacità di rispettare gli altri, l’accettare la sconfitta che io credo siano punti fondamentali nella crescita e nello sviluppo di una persona.

Esiste in questo ultimo decennio una letteratura e una quantità di informazioni relative all’educazione corporea, ma l’attenzione è spesso stata sul progettare e attuare un programma in funzione del corpo del bambino. E il corpo dell’insegnante?

A: Per l’insegnante c’è molto meno, sarebbe molto importante avere una formazione in questo senso, le poche occasioni che ho avuto mi hanno aiutata nella relazione con i ragazzi creando un rapporto più sereno e costruttivo. Noi abbiamo troppo spesso la funzione di trasmettere ai ragazzi rimanendo fuori,non consapevoli che in quel momento siamo già in relazione con loro

C: L’insegnante viene considerato molto poco nel suo aspetto corporeo, e il rischio è che lui trasmetta messaggi e segnali negativi che vengono ascoltati dai ragazzi soprattutto da quelli molto sensibili creando un danno non solo nella relazione ma anche nella trasmissione di informazioni, contenuti e apprendimenti. Ho la sensazione che quando si parla di corpo, così come a volte accade anche per l’informatica, molti colleghi pensano che quello è giocare e non insegnare, non comprendendo che utilizziamo tutti in ogni momento il corpo e la comunicazione corporea.

D: Tutto è ancora molto teorico. Ho fatto un’esperienza pratica solo all’MCE e ad un seminario condotto da una compagnia teatrale lavorando a fianco a loro e con i ragazzi, solo allora ho veramente compreso.

L’insegnamento è un rapporto in continua interazione, creare una didattica di ascolto sul sentire, sull’esprimere la propria emotività crea per loro dei momenti magici si pongono in una condizione di maggior attenzione e suggestione, si esce dal tradizionale, io ho ottenuto attraverso la scrittura emozionale, scritti di una intensità e originalità che mai avrei ottenuto se avessi chiesto un tema tradizionale

Quindi hanno espresso se stessi….

D: Certo, in questo modo la Scuola diventa sede di ascolto, dei loro stereotipi ma anche delle loro originalità, delle loro paure, dei loro disagi. A casa spesso non hanno una povertà affettiva ma una povertà di ascolto dei loro bisogni che non sono solo quelli materiali. Negli scritti si lasciano andare con loro grande sorpresa e esiste un forte bisogno di dire, di essere ascoltati soprattutto in una fase come questa dell’adolescenza.

Nel dibattito permanente sulla formazione degli insegnanti si sono precisati due aspetti: uno relativo alla formazione professionale e metodologica, l’altro riguarda la formazione della personalità intesa come capacità di osservare, di essere flessibili, di rivedere obiettivi e procedimenti educativi. Quanto è per lei importante la comunicazione e la consapevolezza corporea nella formazione?

A: A mio parere conta moltissimo, ad esempio quest’anno il Corso di Formazione a cui ho partecipato sulla "Gestione dell’aggressività in aula" ( Corso di formazione per insegnanti Comunali condotto dal Centro Studi Mosaico Psicologie n.d.r.) utilizzava come strumento lo psicodramma e quindi il corpo, per me è stato un contributo importantissimo mi ha aiutato e mi aiuta nel lavoro perché ho imparato a riconoscere la mia e la comunicazione dell’altro, sono maggiormente in ascolto e anche i contenuti prettamente curriculari vengono trasmessi con maggiore efficacia e semplicità, e’ stato una formazione pratica e non solo teorica come spesso accade.

B: La formazione corporea manca, o la svolgi personalmente e individualmente o è spesso assente nella formazione istituzionale; soprattutto è una formazione che dovrebbe essere estesa a tutti i docenti, non solo agli insegnanti di sostegno, perché la comunicazione corporea e il suo utilizzo riguarda tutti non solo gli alunni in situazione di svantaggio.

C: la formazione che possiedo, deriva da un mio interesse personale e da un bisogno che non trovava risposta nella formazione istituzionale. Purtroppo le conoscenze che ho acquisito sono rimaste in un ambito teorico, perché non ho avuto occasione di partecipare a corsi o stage pratici.

D: se pur lavoro da 15 anni, ancora oggi la formazione corporea è entrata molto poco; per me è stata una conquista di questi ultimi anni. Ricordo ad esempio l’esperienza che ho avuto che già accennavo prima, sulla scrittura emozionale con riferimento a lavori svolti da alcuni noti Neuropsichiatri americani per me quella attività rimaneva una attività a parte, io allora non la riuscivo a fondere con la didattica quotidiana. Ultimamente ne sono più consapevole, anche se è ancora molto distante, nessuno ci aggiorna su questo, ora iniziano alcuni centri e gruppi teatrali ma al di fuori della Scuola, del Provveditorato, dei canoni tradizionali, che lavorano sul concreto e non sulla teoria, dove esiste un ascolto reale, a noi non serve la teoria, io il maggiore aiuto l’ho ottenuto da un’attrice…

E: Per me è molto importante ma tutta la mia formazione è passata attraverso il corpo…..

 

A: Tina Fiocchi : Insegnante di Sostegno Comunale
B: Mirella Iotti: Insegnante di Sostegno Comunale
C: Federico Aiello : Educatore della Coop. Nuova Sanità
D: Rita Barbieri: Docente di Lettere
E: Maurizia Ogier: Docente di Ed. Fisica

Ridere fa bene

I clown therapist lavorano negli ospedali e nei centri di salute mentale con i bambini ricoverati, gli anziani, le persone con handicap psichico, nei reparti per ammalati di AIDS. La comicoterapia nasce negli ospedali americani e precisamente a New York nel 1986; in Italia questo tipo particolare di “sostegno” esiste negli ospedali in provincia di Milano, Como e Varese dal 1996Ridere fa bene e aiuta anche a guarire. Lo dice il senso comune, ma le ricerche degli scienziati lo confermano, e si studiano i meccanismi fisiologici che entrano in azione. Lo scopo è quello di usare il riso non come una cura, ma come un complemento al processo naturale di guarigione.
Parecchi studi hanno dimostrato che nei soggetti che vivono esperienze divertenti, quali assistere a commedie o film comici, aumenta la capacità di affrontare il dolore. Da circa dieci anni la psiconeuroimmunologia cioè lo studio dell’influenza esercitata dallo stato psicologico e dal sistema nervoso sul sistema immunitario ricerca e studia come le emozioni possono influire sulle reazioni chimiche che avvengono nell’organismo, specialmente nel sistema immunitario.
Si sta cercando di determinare se l’umorismo e il riso aumentino le endorfine (sostanze chimiche presenti nel cervello) che fungono da naturali “antidoti” al dolore.
Ridere distende i muscoli, rallenta il battito cardiaco, abbassa la pressione, stimola la secrezione d’endorfine.
Ridere è un’occasione catartica accessibile a tutti, purifica, drena e disintossica. Cosi le preziose endorfine contrastano le emozioni negative che abbassano le difese, rendendo l’organismo più vulnerabile alle malattie.
La clown therapy, od ora anche detta comicoterapia, nasce negli ospedali americani precisamente a New York nel 1986; il pioniere è un clown professionista Michael Christensen che ha creato insieme con Paul Binder la “The clown care Unit” (unità di cura da parte di clown) che porta il sorriso e la fantasia negli ospedali pediatrici, il modello è stato poi esportato in Francia (“Le Rire Medecin”) e in Svizzera (la Fondazione Theodora).
In Italia dal 1996 la clown teraphy è operativa in otto ospedali nelle provincie di Milano Como e Varese a cura della Fondazione Aldo Garavaglia e ora un’esperienza analoga è nata nel reparto oncologico dell’Ospedale Meyer di Firenze, grazie all’Associazione Clown Aid. A Roma l’Associazione Ridere per Vivere opera nelle corsie del Centro Paraplegici e nel reparto Aids dello Spallanzani.
Ma ridere dicono i clown therapist è un‘arte da imparare: “perché siamo soggetti a pregiudizi culturali che c’impediscono di scoppiare in una sonora risata, ad esempio crediamo che ci voglia una buona ragione per ridere mentre questo comportamento si esplica al di fuori della logica della razionalità e pensiamo che il movente della risata sia la contentezza, mentre si deve ridere per sentirsi meglio: per essere contenti”.
“Il riso ha una funzione sociale“ ha scritto Bergson, erompe ed è un sano modo di difendersi contro ogni eccessiva rigidità. Freud è stato il primo ad analizzare in chiave psicoanalitica il “Witz”, la battuta di spirito. Il riso, che dal punto di vista della fisiologia nervosa è semplicemente una liberazione d’energia, dal punto di vista psicologico può essere considerato come una forma di linguaggio. Un linguaggio che inizialmente è individuale, ma può diventare, per contagio un linguaggio sociale.

Il Dottor Sorriso

Entrano negli ospedali nei reparti pediatrici, i bambini ridono e le infermiere e i medici sorridono, i genitori si sentono sostenuti nel cammino di guarigione dei loro figli. I clown vogliono capire la sofferenza di ogni bambino e trovare gesti e parole che portino sollievo alla sofferenza.
I clown della Fondazione Aldo Garavaglia con il loro intervento fanno ritrovare al bambino ospedalizzato un mondo fatto di colori, musica, magia e umorismo. Tutto questo attraverso spettacoli d’animazione umoristica e d’altro genere, con un unico filo conduttore: tante risate.
Vestiti da clown, ma con camici multicolori da dottori si aggirano nei reparti pediatrici; il loro arrivo è annunciato dalla musica dei loro strumenti che creano nei bambini curiosità e stupore. I Dottor Sorriso hanno sempre precedentemente un incontro informativo con le infermiere responsabili del servizio, per conoscere il numero dei bambini da visitare e il loro stato di salute fisica e psicologica, oltre all’autorizzazione dei genitori e dei bambini stessi. I clown della Fondazione sono legati al segreto professionale e al rispetto delle norme igieniche ospedaliere.Una volta giunti dal bambino creano su misura un piccolo sketch, facendo il possibile per coinvolgerlo (nei limiti della sue possibilità) poiché dicono: ”è importante che il bambino non viva solo il ruolo di spettatore, ma che possa partecipare alle magie e agli spettacoli d’animazione, creati appositamente per lui.” Cosi’ fra bolle di sapone, musica, campanelli immaginari giochi di magia, pupazzi parlanti, oggetti dai mille rumori inizia una complicità fra i clown e i bambini che si lasciano trasportare in un mondo di fantasia evadendo dalla realtà ospedaliera. Alla fine della visita i bambini ricevono palloncini e una cartolina con la foto dei clown e s’invitano a scrivere agli stessi clown. Ogni reparto di tutti gli Ospedali visitati dal Dottor Sorriso hanno infatti un apposito spazio per ricevere la posta e come dicono i Dottor Sorriso “il giorno della visita in tutto l’ospedale regna il buon umore”.

Per informazioni:
Fondazione Aldo Garavaglia Tel 02/930.40.40
Associazione Clown Aid Tel 055/896.41.34
Associazione Ridere per Vivere Tel 06/562.27.25
Corsi per Clown therapist: Max Deon, psicoterapeuta, tel. 014.634.110 Zurigo.
Dal 13 al 20 Giugno 1999 la Libera Università di Alcatraz (S. Cristina – Perugia) organizza il Festival Internazionale di Comicoterapia con Patch Adams e altri ospiti

Il piacere di giocare

Ciascun gioco ha significato, anche quello di tipo più “normale”; i bambini a partire da un’età molto precoce, utilizzano il gioco come un mezzo per esprimere la loro relazione con il mondo che li circonda e con le altre persone.
Intervista a Licia Vasta psicopedagogistaNel 1921 la Klein aveva cominciato ad interessarsi al modo in cui l’apprendimento, un’attività presumibilmente intellettiva, potesse subire l’interferenza di blocchi causati da fantasie e paure inconsce.
Successivamente s’interessò non solo ai blocchi, ma all’attività stessa d’apprendimento, e affermò che tutto quello che il bambino fa nel suo gioco è un’espressione della sua fantasia inconscia. Ciascun gioco ha significato, anche quello di tipo più “normale”; infatti, proprio nel gioco libero l’accento passa dalla domanda “ che cosa fa quest’oggetto” alla domanda “che cosa posso fare io con quest’oggetto”. Winnicot afferma che solo giocando il bambino o l’adulto ha la possibilità d’essere creativo e di sfruttare pienamente la sua personalità; il gioco permette di ottenere un piacere, vale a dire una soddisfazione e uno scarico mediato e indiretto dei moti pulsionali attivati.
I bambini a partire da un’età molto precoce, utilizzano il gioco come un mezzo per esprimere la loro relazione con il mondo che li circonda e con le altre persone, e per affrontare le difficoltà sia fisiche sia emotive. Il gioco è così un primo passo nella formazione del simbolo. E’ la capacità di digerire, elaborare e riflettere su un’esperienza importante. Tramite il gioco, i bambini nella vita di tutti i giorni possono entrare in contatto con i propri sentimenti e avere l’opportunità di elaborare eventi esterni o interni a loro stessi.
Poiché questi sono in gran parte inconsci, i bambini non saranno capaci di parlarci direttamente del loro significato, anche se sono capaci di parlarci delle azioni e degli eventi che sono riprodotti nel gioco.
Il gioco si mostra dunque carico di significato, ed è un veicolo a tutti gli effetti per l’espressione delle fantasie infantili, vale a dire i pensieri e i sentimenti inconsci che stanno dietro alle azioni.
Di questo tema ne parliamo con Licia Vasta psicopedagogista: coordinatrice psicopedagogica servizi per l’infanzia, socia del Centro italiano di psicoterapia psicoanalitica per l’infanzia e l’adolescenza di Bologna.

Il tuo intervento a chi è rivolto con quale metodologia e orientamento?

La mia esperienza professionale mi porta a lavorare con la primissima infanzia 0/6 anni riconoscendo il gioco come primo strumento di comunicazione/osservazione.
Dopo la laurea ad indirizzo psicologico, il mio percorso di formazione è stato in pedagogia psicoanalitica e questo mi ha dato la possibilità di Ri-conoscere nell’indirizzo psicoanalitico un mio modo di rapportarmi all’altro, in particolare al bambino. Uno degli autori ai quali la Scuola di Formazione (C.I.Ps. Ps. I.A.) fa riferimento è Winnicot e quello che lo psicoanalista racconta nei suoi testi, dal mio punto di vista, è stato incisivo per incontrare il mondo interno del bambino.
Come psicopedagogista mi trovo spesso a lavorare in situazione, o ad incontrare i collettivi per supervisionare i casi. E’ importante definire il mio ruolo ed il mio intervento perché non rientrano in un campo perfettamente “terapeutico” ma in un percorso di “prevenzione “ al disagio. Riuscire a leggere i segnali che un bambino, anche di soli 14/15 mesi, presenta attraverso il corpo mi dà una sensazione di piacere. E’ la disponibilità dell’educatore, quell’adulto, che può muovere un cambiamento nell’altro. Solo attraverso il godimento dell’esperienza, del non farsi intrappolare dal dolore del bambino si può capire, o meglio sentire, il bisogno di questo. Ritengo il “piacere” la prima parola chiave che uno psicopedagogista dovrebbe tenere nella propria mente per sostenere l’altro. Il bambino può crescere solo attraverso una relazione, ma una relazione si sviluppa solo c’è la reciprocità del piacere.
Proverò a raccontare che tipo d’intervento faccio tenendo presente alcuni presupposti, sia quando sono io direttamente a giocare con il bambino, sia, quando sono le educatrici dei servizi educativi che seguo. Ormai sappiamo che ogni bambino c’è rivelato attraverso il gioco. Il gioco è anche osservazione, è la capacità di mantenere quella giusta distanza emotiva che mi fa osservare, ma anche osservarmi. Ascoltandomi posso differenziare me dall’altro, riconoscere ciò che posso temere io o teme l’altro. L’interpretazione del gioco, del transfert, come c’insegna Winnicott, è quasi totalmente interno a me, minimamente coinvolge verbalmente il bambino. Più il bambino è piccolo, più la lettura del gioco, i movimenti del gioco si ricercano nel pre-verbale. Quello che interpreto durante il gioco mi deve servire per modificare l’ambiente.

Perché è importante utilizzare il gioco in età evolutiva?

E’ una risposta breve ma è tutto poter affermare che il bambino mentre gioca ci porta il suo mondo interno, si presenta, ci racconta i suoi affetti, ci dice come le due energie di base (libidica e aggressiva) si muovono dentro/fuori di lui. Nel gioco è il non verbale che “entra in gioco”; gioco sta a significare “giocare dentro” e solo con un ascolto costante e continuo posso giocare, comprendendo l’altro nella comunicazione, nella disponibilità a tollerare dentro di me la diversità che incontro fuori.
Solo all’interno di questo rapporto è possibile la regressione, cioè il poter rimettere “in gioco” mancanze, frustrazioni per gestirle, non compensarle. Chiedersi quando si è con un bambino quali legami il bambino sente con l’ambiente, cosa ci sta narrando attraverso il gioco, come usa l’oggetto e lo spazio, a cosa sta dando importanza, quali sentimenti si stanno muovendo tra me e il bambino è di vitale importanza fra narrare il gioco, poter guardare se stessi mentre si guarda il bambino giocare.
Non c’è solo la tecnica nel gioco, c’è il sentimento nell’esperienza, il cambiamento in un bambino avviene dal momento che l’altro (l’adulto) coglie i suoi segnali e riesce a stare in contatto con l’ipereccitabilità, l’assenza, l’aggressività con affetti faticosi per il bambino.
Quando il bambino sente che l’adulto non scappa, il bambino si sente visto, letto, accolto, investito, celebrato anche nella parte non cosciente. In un movimento di questo tipo ritorna la parola chiave “piacere”, piacere di stare con l’altro e potersi permettere di cambiare; magari cambiare trasgredendo, condividendo un’esperienza di contatto e non di solitudine.
Questo, nel mio lavoro, mi dà la possibilità di muovermi non per situazioni che richiedono interventi terapeutici, ma che si attivano all’interno delle istituzioni educative (come asili nido e scuole materne) nelle lettura della prevenzione del disagio.
Alleggerire gli aspetti giudicanti, arricchire di immagini e di emozioni l’altro e condividere i “casi” all’interno del gruppo facilita il veicolare delle emozioni.
Il contatto con il bambino è decisivo nel nostro lavoro, ma sappiamo anche come certi atteggiamenti e movimenti possono diventare “pericolosi” se non filtrati dalla supervisione.
Altro passaggio nel gioco con il bambino è il dare un significato ai comportamenti del bambino; se l’adulto nei servizi educativi non propone un’organizzazione, se nella propria mente non ha una trama il gioco non si sviluppa, la fantasia non è feconda, non c’è sequenza narrativa, c’è solo la solitudine del bambino, perché ogni bambino ha dentro di sé una storia.
Per giocare deve raccontarla a qualcuno che lo sta ad ascoltare e le storie dei bambini sono legate alla quotidianità delle loro esperienze familiari. La presenza dell’adulto di quando gioca con un bambino, è il dare un significato allo stare insieme nei gesti quotidiani. L’educatore dovrebbe rispettare il sentimento vero del bambino, perché l’esperienza vera ha bisogno del suo tempo per costituirsi.
Il contatto presuppone il rispetto, l’ascolto, l’attesa.
Mentre gioco è il clima relazionale che “nutre” che trasforma e accoglie, che fa accedere nell’immaginario del bambino, alleggerendolo delle sue ansie. Il “buon gioco” è legato all’atmosfera che si crea nel rapporto con il bambino, alla capacità di contenere il disagio, le emozioni, la solitudine del bambino.

Qual è il tuo ruolo durante il gioco

Dipende dalla situazione; il mio ruolo, di solito all’interno di un piccolo gruppo con 2/3 bambini, può essere diretto o di “osservatore partecipante”; è sempre però attento ad aiutare quel bambino a trasformare le sue azioni senza significato in atti aventi un significato ludico.

Come?

Facendo da “specchio”, accettando e sottolineando con gesti e voci la propria presenza senza che sia intrusiva; rilanciando gli “spunti” del gioco, riprendendo le espressioni dei bambini. Integrando ed estendendo i movimenti ludici del bambino.

Mi puoi parlare di una tua esperienza?

Vorrei brevemente narrare un’esperienza con una bambina della sezione grande di un nido che coordino. Sara, così la chiamerò, si presentava come una bambina competente, attenta a tutto ciò che la circondava. Sara manteneva però un “muro invisibile” tra lei e i bambini, tra lei e l’educatrice; se a casa aveva un’ottima competenza linguistica, al nido si rifiutava di parlare.
A seguito di diversi colloqui con la coppia emergeva un quadro di separazione (dai genitori) non del tutto risolta. Il mio intervento, come in altri casi, è stato quello di intervenire sulla bambina ma pensandola dentro a quella specifica dinamica della coppia genitoriale. Sara al nido non godeva dell’esperienza del gioco, l’uso dell’energia libidica e aggressiva erano quasi assenti. Il mio intervento, durato quasi tutto l’ultimo anno di nido, con scadenza quindicinale, era integrato dall’educatore di riferimento. Ogni mese con le educatrici ci ritrovavamo a leggere le osservazioni, discuterle, formulare ipotesi e individuarne strategie.
Un primo intervento sul gioco (nello specifico era il gioco della bambola) che si è rilevato fondamentale per incontrare Sara è stato quello di restituirle le “emozioni che la bambola provava” come ad esempio “la bambola piange perché vuole la mamma..”.
Il mio ruolo inizialmente è stato di un Io ausiliario. Il gioco di accudimento alla bambola ha portato via via Sara a ri-conoscersi in quei movimenti, a permettersi delle emozioni che inizialmente nel mondo esterno (nido) potevano essere estranee e sconosciute. Fidandosi e affidandosi all’adulto si è permessa un movimento di separazione, si è potuto esplorare gli affetti della bambina.
Spesso il mio ruolo era silenzioso dove l’attenzione era rivolta ai gesti, alla postura ecc. ma questo non sarebbe stato possibile se a monte non ci fosse stata un’alleanza psicopedagogica con i genitori. In quel caso l’elaborazione di un’esperienza faticosa come la separazione è stata rivisitata con una lente d’ingrandimento restituendo a Sara il piacere del gioco, del movimento ad andare avanti, dove separarsi non è perdersi e sparire, ma ri-incontrarsi con altre modalità.

“E’ il contesto che ci manca?”

Girare un cortometraggio con ragazzi down può essere un’esperienza capace di ridiscutere preconcetti ed instaurare relazioni, profonde e al tempo stesso “normali”. “La cosa più divertente è stato lo spirito che ha animato i nostri incontri: stare insieme divertendosi, nel vedere come ognuno metteva qualcosa di indispensabile”. Intervista a Teo Vignoli e Irene Faranda.Come è nata la vostra idea di girare il film “…”, e come si è sviluppata?

Tutto è nato nel settembre ’98. Davide, un ragazzo down con il quale esco da tempo, continuava a dirmi che io e lui avremmo dovuto fare un film insieme : lui sarebbe stato il regista e io il produttore, si trattava semplicemente di trovare gli attori, e il gioco era fatto. L’idea sembrava al di fuori della nostra portata, però ci abbiamo creduto lo stesso e si è formato un gruppo molto eterogeneo, composto da una quindicina di volontari e 7 ragazzi down. Le età, infatti, variano da un minimo di 14 anni a un massimo di 33, e anche le estrazioni sociali e culturali sono diversissime: c’è il comunista figlio di proletari e il cattolico praticante, l’intellettuale figlia di professori e la praticona di famiglia contadina. Insomma c’è un po’ di tutto. Gli incontri per “girare” il film sono stati quindicinali e poi c’è stato tutto il lavoro di preparazione della sceneggiatura (e della scenografia) a piccoli gruppi. Gli strumenti utilizzati sono stati poco più che amatoriali, recuperati da amici e conoscenti (oltre a un contributo importante per il montaggio da parte di un videoamatore). La risorsa principale comunque è stata il tempo e la voglia.

Ma perché un progetto cosí impegnativo e particolare?

Sono molti i fattori che ci hanno spinto a dar vita a questo progetto. Anzitutto la necessità di ricavarci uno spazio di aggregazione plasmato a misura delle individualità che compongono il gruppo. Ma anche l’insoddisfazione nata da divertimenti “organizzati” privi di significato e di spessore, che riducono spesso lo stare insieme con gli amici a una sorta di sfogo fine a se stesso o che inducono più alla disgregazione, all’individualismo, piuttosto che al ritrovamento di un’identità di gruppo nella quale maturare una propria crescita. E poi, la voglia di stare insieme valorizzando le differenze, sfruttandole tutte in un progetto vasto e sfaccettato come quello di realizzare un film. La differenza tra normodotati e ragazzi down è stata una delle differenze emerse nel corso di questa esperienza, che è stata trattata con cautela e considerata in modo particolare, ma che spesso, durante le domeniche passate insieme, si fondeva nel melting pot di differenze che ci caratterizza.

Come avete vissuto la collaborazione con i ragazzi down? qualcuno vi ha aiutato nell’entrare in rapporto con loro?

Non è stato tutto facile e, anche se i 7 ragazzi down hanno tutti caratteristiche personali adeguate al contesto film, a volte abbiamo avuto delle difficoltà a rapportarci con loro, problemi di comunicazione o dubbi sul come comportarsi in situazioni particolari.
La spinta e il collante che ha reso possibile quest’esperienza, è stato lo spirito che ha animato i nostri incontri. Stare insieme divertendosi, divertendosi nel vedere come ognuno metteva qualcosa di diverso e di indispensabile nella realizzazione del film.

Nel recitare in questo film, quali sensazioni avete provato? non avete mai pensato che vi eravate “imbarcati” in un’avventura troppo grande per voi?

Ognuno di noi, in effetti, possiede la propria dose di insicurezza. Questo va ad influenzare parecchi comportamenti ed in particolare i rapporti che abbiamo con le altre persone. Troviamo sicurezza nell’ottenere dei risultati, coinvolgendo noi stessi al 100% in qualcosa da cui ricaviamo una certa sensazione di potenza. Ma nell’aggregazione di gruppi giovanili, si avverte spesso la tendenza all’attrazione tra persone che riconoscono negli altri le proprie stesse debolezze, e in questo modo si ottiene un alibi perfetto dato dalla reciproca omertà per l’incapacità di affrontare la propria insicurezza. Credo che la causa di tutto ciò sia da ricercare nella superficialità. Nel gruppo che si è creato ho sentito invece percorrere una via alternativa. Nella dinamica del film, molto spesso, il personaggio e la persona si fondevano in un imprecisato ruolo di recita di se stesso, che esorcizzava la paura delle proprie debolezze favorendo la totale espressione della persona. La sicurezza la si trovava nel rispetto reciproco, nella soddisfazione di riuscire ad ottenere qualcosa di grande come il cortometraggio, attraverso e grazie alla moltitudine di differenze. Difficile, infatti, ottenere sicurezza dalla totale comprensione: mi sento molto diversa da un ragazzo down (anche se è sbagliato generalizzare) e in molti casi lui si sente molto diverso da me; ma è possibile ottenere sicurezza dalla sensazione che la differenza diventi virtù, le debolezze ilarità, nella realizzazione di un progetto comune.

Quanto ha contato per voi il fatto di essere “gruppo” nel girare?

L’identità del gruppo è stata molto importante. E anche se certe volte mi facevo prendere troppo dalla foga di riuscire a filmare tutte le scene che ci eravamo proposti di fare quella giornata, o dalla riuscita tecnica del film, arrivati a fine giornata ero felice solo se tutto il gruppo era felice, se ognuno aveva trovato il suo spazio per esprimersi, se tutti erano orgogliosi del proprio contributo. Abbiamo cercato di integrarci a vicenda, e spesso l’attenzione verso i ragazzi down e l’aiuto che si cercava di dare loro non veniva dalla spinta perbenista del tipo: “loro sono down e quindi è giusto aiutarli”, ma dal fatto che io stesso ero felice solo se tutto il gruppo era felice, perché siamo il gruppo del film, e se manca qualcuno è un grosso problema e non si riesce a girare. Siamo gli “Alieni Spaziali”, come ci siamo chiamati all’inizio di questa avventura sotto proposta di Claudio, uno dei ragazzi down; e il nome rende l’idea, perché è stata una cosa veramente strana, in quanto ci si doveva confrontare con tante persone, quindi con tanti modi di agire diversi, e anche enorme, spaziale, perché il progetto per noi è stato gigantesco.

Come avete impostato le relazioni dentro il gruppo, in particolare con i ragazzi down?

Il film è stato il filo conduttore attorno al quale si sono sviluppati i nostri rapporti, costruiti con momenti di intenso scambio nel quale il “volontario” e il ragazzo down si mettevano in gioco. Per non ricadere nel paternalismo, bisogna fare insieme qualcosa che sia stimolante per tutti (nessuno di noi è un attore, e quindi ognuno doveva cercare di dare il massimo); in questo modo ognuno è protagonista del tempo che passa con il ragazzo down. Quello che abbiamo sempre cercato di fare è stato realizzare qualcosa con il ragazzo down, e mai solo per il ragazzo down, perché se non ci si diverte in prima persona facendo una cosa, allora non ha più senso farla: ci si porrebbe su un piano di totale superiorità e questo non mi piace. Perché noi non crediamo a storie del tipo: “i ragazzi down non raggiungono livelli di ragionamento elevato però sono più sensibili”: sono cavolate! O forse non lo sono, ma comunque non mi importa, perché ciò che è importante è che io e lui ci stiamo divertendo insieme, ci siamo fatti una risata perché non riusciamo ad azzeccare una battuta che sia una, o perché qualcuno ha fatto un’espressione assurda che ci fermiamo a riguardare sul video 100 volte, o perché è mezz’ora che due si stanno baciando e non riusciamo a fermarli per girare! Questi sono i momenti che ci accomunano. Più che uno scambio è un fiorire insieme, e su questo abbiamo costruito il film.
Mi sono trovato a disagio quando sono stato costretto a coprire la parte dell’educatore: quando ad esempio dovevo intervenire perché Paolo allungava un po’ troppo le mani, o quando dovevo arrabbiarmi con Davide che voleva il film fatto solo a modo suo… molto a mio agio invece mi sono trovato nella parte del complice che tentava di organizzare “l’intorto” con Antonella. E, comunque, queste sensazioni sono più o meno le stesse che provo nei confronti di tutti i miei amici, con i quali ho una grossa complicità e con i quali invece mi pesa arrabbiarmi
Non siamo stati quindi educatori perché non ne siamo capaci, ma allo stesso tempo non si può dire che siamo stati semplicemente amici: sono stato semplicemente io, lì, e in quel momento, con un gruppo nel quale ci sono persone con un livello di autonomia minore al mio. Di conseguenza, è automatico che se vogliamo fare una cosa insieme (perché ci piace) io darò una mano in più, rispetto a quella che magari riceverò.

Che cosa vi è rimasto di questa esperienza? in particolare, le vostre idee sui ragazzi down sono cambiate?

Mi ha colpito vedere come i ragazzi fossero ansiosi di incontrarci, percepirne l’entusiasmo insieme al continuo sentirsi parte di qualcosa di grande e di importante. L’euforia di Chiara che si affretta a cacciar via la madre, le espressioni di Paolo che esplodono inaspettate, le barzellette sussurrate di Andrea e la continua scoperta di un mondo tutto suo, che affiora solo a piccoli tratti. Sono immagini che non cancellerò dalla memoria, ma che non ho ancora metabolizzato, per cui non so tirare le somme e nemmeno generalizzare. Ciò che ho imparato, forse, è che i ragazzi down non esistono, che ognuno di quelli che ho incontrato è un mondo a sé, un universo da svelare a poco a poco, a volte con costanza e fatica. Nessuno di loro mi ha mai buttato le braccia al collo, a dire il vero Antonella lo ha fatto un paio di volte, ma lo stereotipo del down sorridente, socievole e affettuoso a ogni costo non so proprio chi l’abbia inventato. L’incontro è spesso divenuto scontro, ma la novità stava nella capacità di ricominciare ogni giorno da capo, voltare pagina senza rimpianti o brutti ricordi. Claudio e Anto fanno pace, si amano e si respingono. Davide si sente escluso se non è al centro dell’attenzione e mette il broncio per un’ intera serata, ma poi basta, si torna a ridere, a sentirsi protagonisti di una storia ancora da scrivere.

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