Secondo voi quali sono le difficoltà che s’incontrano allenando a una disciplina sportiva una persona disabile o un gruppo di disabili? Questa è una domanda che faccio nei corsi di formazione per diventare istruttori di attività sportive per disabili. Ecco le risposte che mi vengono date: rapporti con i genitori, conoscenza tecnica approfondita della disciplina, conoscenza degli attrezzi e ausili per praticare la disciplina, disponibilità di manuali tecnici, ruolo di educatore-istruttore e problematiche connesse, conoscenza dei singoli atleti e delle loro problematiche e quindi dei loro limiti psico-fisici, allenare contemporaneamente atleti con caratteristiche diverse sia fisiche sia psicologiche, rapporti con i genitori (questo lo scrivo due volte perché è un problema molto grande, che vale doppio, dato l’importante legame dovuto alla situazione di bisogno), problemi di organizzazione dell’attività, trovare collaboratori e strutture adatte, stimolare e motivare gli atleti, organizzare attività con altri gruppi, ecc. Dopo aver scritto questo elenco su una lavagna chiedo invece quali siano le difficoltà nell’allenare un gruppo “normale” e, sorpresa delle sorprese, l’elenco delle difficoltà è molto simile al primo. Questo non vuol dire che sia proprio tutto uguale, sicuramente alcune difficoltà nel caso delle persone con deficit sono amplificate e le conoscenze devono essere maggiormente approfondite (e trovare dei manuali documentativi in proposito è veramente molto più difficile visto che in Italia ce ne sono pochissimi!).
Attualmente esistono innumerevoli realtà che si occupano di formazione: Associazioni, Enti di promozione, Federazioni, Università; capire quali siano quelli più attendibili, più qualificati e più utili non è semplice.
Con la legge 15 luglio 2003 relativa alla costituzione del Comitato Italiano Paralimpico, il C.I.P. diventa l’unico organo di riferimento a livello nazionale: secondo l’art. 2, comma h, del suo statuto (“Compiti, funzioni e finalità del C.I.P.”) il C.I.P. coordina e gestisce l’attività di formazione e aggiornamento dei quadri tecnici e dirigenziali e didattico-corsuale in generale per persone disabili, collaborando specificatamente in tal senso con gli uffici e strutture del C.O.N.I. competenti, con il M.I.U.R. (Ministero dell’Istruzione, Università, Ricerca), gli I.U.S.M. (Istituto Universitario di Scienze Motorie) e le Università.
In verità non è così semplice, ancora siamo lontani da questo, perché attualmente sono poche le realtà dove l’organizzazione formativa ha radici ben salde. Spesso la formazione su attività sportive per disabili è affidata alla volontà degli istruttori di acquisirla. Questi ultimi non provengono certamente dalle facoltà di scienze motorie, mentre più facilmente possono essere amici, obiettori di coscienza, volontari delle Associazioni, istruttori di altre discipline che vengono per caso a contatto con gruppi sportivi o atleti disabili, che magari frequentano lo stesso impianto sportivo e che si allenano l’ora dopo, oppure atleti che a fine carriera diventano tecnici.
Con questo non voglio dire che non ci siano allenatori formati in modo giusto o incapaci, voglio solo dire che fino a oggi ha avuto più peso la volontà rispetto all’organizzazione.
Un buon allenatore deve proporzionare le difficoltà alle capacità dell’atleta, non annoiare mai, stimolare le attività cambiando gli esercizi, essere paziente, conoscere bene le persone con cui ha a che fare, ascoltare tutti e poi decidere da solo, insegnare ed educare attraverso lo sport, ma anche imparare dallo sport. Ricordarsi che dopo lo sport c’è la vita quotidiana, con le sue difficoltà, e un successo nello sport può favorire il superamento di un ostacolo quotidiano, senza scordarsi però che una delusione può fare l’inverso.
Oggi la televisione offre ai nostri atleti, e mi riferisco soprattutto a quelli più giovani, un’immagine carismatica del campione da imitare, che lo porta a identificarsi in lui, allontanandolo dalle problematiche della sua realtà: l’allenatore deve essere lì a “riportarlo sulla terra”.
Questi sono discorsi che valgono per qualsiasi istruttore, sia per disabili che per normali;è per questo che vorrei che non si pensasse a un allenatore speciale, a uno che debba conoscere cose “marziane” per avere a che fare con quelli lì, a corsi speciali da sostenere per stare in palestra o in piscina, o sul prato o sulla pista da sci con quei ragazzi speciali, ma a qualcuno con le giuste conoscenze per fare le cose normalmente come fanno tutti; diverse perché le attività sono diverse (come se un istruttore di ping pong volesse insegnare ai ragazzi ad andare a cavallo).
Mi ricordo che parecchi anni fa, quando ero molto giovane e già allenavo un gruppo di ragazzi in carrozzina, e i miei colleghi mi dicevano: “Ma come fai? Sei bravissimo!”, e io rispondevo che facevo esattamente come loro, ed era veramente così. Non bisogna essere degli sprovveduti, naturalmente, per seguire queste attività, ed è sicuramente importante formarsi a educare con lo sport. Così come è bene che nessuno s’improvvisi allenatore, ma non bisogna pensare che nel caso dei disabili sia più difficile prendere una decisione, o aver paura che questa sia sbagliata; può capitare e comunque nell’incertezza la regola del buon senso è sempre quella più giusta.
Lo sport è un modo positivo per migliorare la nostra vita, e oggi è soprattutto in mano alla televisione e ai giornali, ma per fortuna è anche in mano a coloro che ce lo insegnano. Fatene un buon uso.

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