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autore: Autore: Giovanni Preiti

Pechino 2008, un’Olimpiade giusta?

Pochi giorni fa, in uno dei tanti convegni al quale partecipo, sulla tematica dello sport per i disabili, mi sono trovato a dover difendere il valore di una Olimpiade. Infatti uno dei relatori, uno psicologo che si occupa di sport come mezzo per il recupero di persone con problemi mentali, dopo aver delineato lo scenario dei risultati raggiunti dallo sport in Italia e dopo il racconto dell’esperienza di uno dei nostri atleti paralimpici campione a Torino 2006, ha preso subito le distanze dicendo che il valore dello sport non veniva di certo tracciato da quelli che sono i comuni confini federali, politici e mediatici dello sport attuale che vedono in Pechino 2008 il prossimo grande traguardo. Come presidente, seppur solamente di un Comitato Provinciale Paralimpico, mi sono sentito di dover comunque difendere il significato puro dello sport e gli ho risposto che se eravamo seduti allo stesso tavolo e parlavamo insieme davanti a una platea, i nostri confini non potevano che essere condivisi. Gli ho ricordato che anche in passato c’eravamo già incontrati per giocare sullo stesso campo da calcio come avversari e ora eravamo lì per delinearli assieme quei confini. Inutile dire quanto siano importanti per noi le Paralimpiadi, come mezzo di promozione. Grazie a Torino 2006, alla nomina a Commissario Straordinario della Federcalcio del nostro presidente nazionale Luca Pancalli, e anche a uno spot televisivo di un noto istituto bancario del quale era protagonista Emanuele Pagnini, uno dei nostri atleti disabili della nazionale di sci, il CIP (Comitato Italiano Paralimpico) ha fatto un grande passo mediatico, rendendo visibile una dignità già conquistata dal punto di vista legislativo con la L. 189/2003. Questo ha significato la possibilità per tante persone disabili di conoscere l’opportunità sociale di fare sport. In realtà, so bene che lo scenario che si prospetta a meno di un anno da Pechino 2008 è terribile: un milione e mezzo di persone sfrattate nella città di Pechino per le costruzioni e la ristrutturazione della città olimpica, un intero quartiere storico che è stato raso al suolo e ricostruito come distretto commerciale per le Olimpiadi. Secondo il COHRE, Centre on Housing Rights and Evictions, ben 1.250.000 persone sono già state sfrattate a Pechino come risultato dello sviluppo urbano legato ai Giochi Olimpici. Almeno altre 250.000 persone saranno sfrattate nel prossimo anno per raggiungere un totale di 1.500.000 persone che avranno perso la loro abitazione a causa delle Olimpiadi. Di queste, più di 30.000 persone all’anno sono state gettate nella povertà a causa della demolizione delle loro case. Ad aggiungersi a questi numeri, il livello di violenza e repressione contro le vittime degli sfratti forzati è stato e rimane un problema. Lo studio del COHRE, evidenzia però come il fenomeno sia da associarsi più in generale alle grandi manifestazioni come i Giochi Olimpici: per le Olimpiadi di Seul del 1988, 720.000 persone furono allontanate con la forza dalle loro abitazioni e radunati in campi di raccolta. Ad Atlanta nel 1996, la ristrutturazione cittadina portò all’allontanamento di 30.000 poveri e alla demolizione di 2.000 appartamenti in case popolari così come per le Olimpiadi di Atene furono introdotte nuove leggi per rendere più facili le operazioni di esproprio e centinaia di Rom furono mandati via dai loro accampamenti. In Cina, il paese premiato per l’organizzazione dei giochi olimpici, simbolo della fratellanza e unione tra gli uomini, manca il riconoscimento dei fondamentali diritti dell’uomo, come la libertà di stampa, di opinione e ogni anno vengono eseguite centinaia, forse migliaia, di condanne a morte. Purtroppo, anche durante i giochi, il regime torturerà o ucciderà qualcuno, all’ombra di qualche carcere. Inoltre la Cina ha iniziato a costruire un’autostrada di 108 chilometri sul lato tibetano dell’Everest, per facilitare il percorso dei tedofori (la torcia percorrerà 137mila chilometri con 22mila tedofori attraverso i 5 continenti). Nonostante per questi lavori le preoccupazioni ambientali sono presenti, non è chiaro però se il progetto di costruzione della strada creerà complicazioni alla fragile natura della regione himalayana. La costruzione della grande opera (del costo di 19,7 milioni di dollari) dovrebbe essere ultimata nel giro di quattro mesi. Ciò permetterà ai tanti turisti, scalatori, operatori vari e giornalisti che accorreranno in massa sull’Everest, di portarsi dietro tutte le loro diavolerie tecnologiche, preludio di un grosso inquinamento nella zona allorché tutte le televisioni del mondo saliranno a queste altitudini per accertarsi che la torcia bruci. Tuttavia, tra le comunità montane dell’Himalaya, c’è chi teme che i grandi lavori sul Tibet proseguiranno anche dopo le Olimpiadi. Sembra difatti che il governo di Pechino abbia investito un fiume di denaro per “conquistare il Tibet”: entro il 2010 saranno spesi circa 10 miliardi di euro per 180 opere infrastrutturali; dal prolungamento della recentissima linea ferroviaria Pechino-Lhasa, capitale del Tibet, fino a Xigaze, seconda città tibetana, alla realizzazione di acquedotti, linee elettriche e linee telefoniche. In questo modo la maggior parte dei tibetani (in maggioranza dediti alla pastorizia) dovrebbe essere raggiunta dall’influenza del governo cinese e dalle trasmissioni televisive di Pechino. E come ciliegina sulla torta sarà messa a dura prova anche la salute degli atleti dalla disastrosa situazione ambientale di Pechino. L’aria di Pechino è ormai la peggiore al mondo, e i primi a farne le spese sono i pechinesi. Ma per gli atleti, i pochi giorni di permanenza saranno più che sufficienti a lasciar loro tracce indelebili dell’inquinamento della capitale cinese.
Di fronte a tutto questo verrebbe voglia a chiunque di boicottare un così grande crimine, ma credo che ormai sia troppo tardi. Io, nel mio piccolo, chiederò ai miei atleti paralimpici di rappresentare e di difendere non solo l’onore dell’Italia che con tanti sacrifici hanno meritato, ma di difendere di fronte a tutti l’onore dell’uomo, e della civiltà che ha raggiunto, senza dover mai più in futuro pagare un così caro prezzo.

 

Uguali o diversi?

Di Giovanni Preiti

Questo è un interrogativo che da anni, come Progetto Calamaio, proponiamo agli studenti delle classi di tutta Italia. Durante gli incontri nelle classi facciamo ai ragazzi la seguente domanda: “Secondo voi Stefania (che è un animatore del Calamaio in carrozzina, per chi non la conoscesse) è diversa o uguale a voi?”. Questo quesito può essere facilmente traslato al mondo sportivo: gli atleti disabili sono uguali o diversi dagli atleti normodotati? In questi anni mi sono sempre battuto per fare in modo che i diritti degli atleti disabili fossero gli stessi di quelli dei normodotati, per far sì che le strutture siano accessibili a tutti, per cercare di creare la cultura dello sport per persone disabili. Ma dove siamo arrivati adesso? Sicuramente ci sono stati grandi miglioramenti, anche se siamo ancora lontani da una situazione ideale. In realtà non so bene neanche quale sia la situazione ideale; forse bisognerebbe che nelle scuole, nei centri sportivi, nei palazzetti, negli stadi, sulle piste da sci, ma anche nei giardini pubblici, ci fosse la reale possibilità di far praticare a tutti lo sport. La realtà è che lo sport non è uguale per tutti, e l’Italia è proprio l’esempio di questo: ci sono grandi differenze di interesse, di investimenti, di cultura all’interno del mondo dello sport italiano, basta fare un ragionamento sui numeri. Ad oggi il CONI, che è l’organo che ha la giurisdizione dello sport in Italia riconosce: 43 federazioni sportive, 17 discipline associate, 17 enti di promozione nazionali, un ente di promozione territoriale, 18 associazioni benemerite; sono affiliate al CONI oltre 65.000 società sportive e il numero di tesserati è superiore a 8 milioni. Di queste più di un terzo sono società di calcio, il resto va diviso per le restanti 42 federazioni, dentro queste c’è il CIP, Comitato Italiano Paralimpico, che nel 2006 contava 642 società affiliate; ora non conosco tutti i numeri dello sport in Italia, ma credo che il CIP si trovi nella stessa situazione, almeno per quello che riguarda i numeri, di altre federazioni e rientra quindi tra quelli identificati come sport minori. Bisogna quindi essere consapevoli che in Italia tutti gli sport sono diversi dal calcio e da pochi altri; è quindi impossibile solo pensare a una situazione di uguaglianza. Non verranno mai spesi milioni di euro per costruire stadi per persone disabili, o piste di pattinaggio, o campi da baseball, o da pallamano; l’importante è che per chi vuole praticare uno sport, ci sia la possibilità di farlo, anche se ha un deficit. Quello che credo di poter affermare con tranquillità, al di là di quanto la maggior parte delle persone possa immaginare, è che non ci sono grosse differenze tra atleti disabili e non disabili, questo nel bene e nel male; non sono solo luci quelle che brillano sugli atleti paralimpici, ad oggi non si sono riscontrati casi di doping tra i nostri atleti paralimpici e mi auguro che non ce ne siano mai, ma nelle altre nazioni non è così. Leggendo un’intervista sul sito delle recenti Paralimpiadi di Torino a Danilo Destro, vice-campione italiano di Curling, alla domanda su cosa pensa del doping risponde così: “Lo sport è competizione, le pressioni a cui sono sottoposti gli atleti sono crescenti e c’e’ chi, per ottenere risultati migliori e non essere tagliato fuori da un mondo sportivo sempre più esigente, si spinge oltre. Non mi sento di escludere che il doping possa riguardare anche il mondo Paralimpico”. Vi sono stati cinque casi di doping ad Atene, che hanno sporcato l’immagine di uno sport simbolo di una rinascita sociale, di vittorie sulle avversità della vita. Un controsenso della umanità e non soltanto agonistico, forse è un segno di uguaglianza, un tentativo di adeguarsi allo sport dei record e della ricerca delle prestazioni oltre ogni regola. Di una cosa sono certo: i “dopati” delle Paralimpiadi hanno un peso in più sulla coscienza, possono sentirsi uguali a quelli normali, purtroppo. Noi del Calamaio chiudiamo il gioco dell’uguale o diverso, cancellando la “o” e mettendo una “e”; sì gli sportivi disabili sono uguali e diversi dagli altri; quello che mi auguro è che siano uguali nel raggiungere, con il cuore, con il sudore e con il cervello ogni traguardo, e diversi come sono tra loro diversi tutti gli uomini.

Sullo sfondo il cavallo

In realtà il cavallo è il vero protagonista di questa storia; ed è proprio dove abitano i cavalli che questa mattina mi sono recato, ed esattamente al club "Parco dei cavalli – GESE", appena fuori Bologna. Mi immaginavo una bella chiacchierata in ufficio con Roberto Flamini e magari dopo una passeggiata per il maneggio. Non è stato così…
Roberto mi aspettava al centro del capannone coperto, ed era nel bel mezzo di una lezione con Ledio, un ragazzino proprio niente male, alle prese con il salto di una crocetta ed evoluzioni al galoppo. Mi raccomando, non pensate che un maneggio sia un posto "fighetto": la terra, e "non solo quella", che si pesta non invita certo all’eleganza, ma bisogna badare di più alla praticità, quindi scarpe comode, abbigliamento adatto ed essere disposti a sporcarsi. Roberto, con la passione di sempre, inizia a parlare: l’Aiasport di Bologna è nata nel 1979, e da allora gestisce un servizio d’attività equestre per disabili con finalità riabilitative, socio-educative e sportive. Il centro Aiasport è frequentato da circa 170 utenti disabili e non, d’età compresa fra i 3 ed i 45 anni; il lavoro è svolto da una équipe multiprofessionale che comprende medico specialista, psicologo, terapista della riabilitazione, psicomotricista istruttore sportivo, istruttore d’equitazione ed educatore professionale.
Il lavoro interdisciplinare, svolto anche in collaborazione con gli operatori dei Servizi Socio-Sanitari pubblici e privati, permette una conoscenza ed un approccio al tempo stesso globale ed analitico, che consente di scegliere, nell’ambito delle possibili proposte legate al cavallo e al suo ambiente, quelle più significative per ciascuna persona. Secondo l’esperienza maturata nel corso degli anni, l’attività equestre può svolgere un ruolo significativo negli interventi a favore di persone disabili in età evolutiva ed adulta con difficoltà sul piano motorio, intellettivo ed affettivo-relazionale, ma anche di bambini e ragazzi che presentino condizioni di svantaggio sociale o situazioni di deprivazione affettiva o cognitiva che ne pregiudichino le possibilità evolutive. Può rappresentare inoltre una stimolante occasione di crescita per bambini delle scuole materne ed elementari, che desiderino avvicinarsi al mondo del cavallo.

Mentre Roberto mi parla, ci siamo spostati nell’immenso parco che circonda il maneggio a fare una passeggiata. Il cavallo che ha lavorato abbastanza con Ledio si merita un po’ di riposo.
"Ledio, perché ti piace andare a cavallo?"
"Perché è bello".
"Ti piacciono i cavalli"?
"Sì!"
"Cosa ti piace"?
"Mi piace galoppare, saltare!"
Poche parole ma indicative. Non tutti i ragazzi sono in grado di fare quello che fa Ledio, ma tutti possono avvicinarsi a questi stupendi animali che esprimono forza, potenza. A volte basta starci sopra, gustare le sensazioni motorie date dal dondolio, per stare bene.

L’Aiasport si propone di mettere a disposizione della persona disabile e della sua famiglia le opportunità offerte dal cavallo e dal suo ambiente: ciò che è bello, sano e a contatto con la natura. L’interesse è rivolto all’individuo nella sua globalità, tenendo conto sia dei deficit imposti dalla patologia che delle potenzialità e delle risorse evolutive. In genere s’inizia a fare un lavoro sulle cosiddette regole del cavallo, in altre parole sul modo di mettersi in contatto con lui: come toccarlo, come farlo camminare, a cosa stare attenti (non passate mai dietro, non si sa mai), cosa gli dà fastidio, cosa gli piace; e poi s’inizia a fare dei piccoli tragitti, a prendere le redini, si studiano dei percorsi, dei giochi, fino a che uno non diventa bravo e allora inizia a fare salti, gare, come un vero e proprio cowboy!
Gli occhi di Roberto si illuminano: ed è proprio questo che i bambini aspirano a fare, delle gare! Ma in realtà le vere vittorie si hanno perché qui vengono fuori le loro difficoltà, i loro problemi. Non si pretende di superarli, ma certo qui si impara ad affrontarli. Come dice Roberto, sono aiutati dal fatto di trovarsi "muso a muso" con questi. Sì, il proprio muso contro quello del cavallo e non in senso figurato.
Le lezioni di solito durano 30-45 minuti con cadenza settimanale, singole o collettive, nell’ambito di progetti di tipo riabilitativo, socio-educativo o ludico-sportivo. Inoltre, da qualche anno viene fatta un’attività di turismo equestre per cavalieri disabili e non, escursioni e trekking a cavallo della durata di uno o più giorni, concorsi e scambi internazionali; questi servono soprattutto per l’aspetto educativo, qui c’è infatti l’occasione di conoscere meglio i ragazzi, di farli fraternizzare, e per questo si usa come mezzo il camper che è uno strumento forte d’aggregazione, oltre che comodo per viaggiare. Attualmente sono stati formati due gruppi: uno dei giovani (vale a dire fino ai venticinque anni) ed uno dei più piccoli fino ai dodici anni, oltre ad uno, che ormai è già indipendente, che svolge questo tipo d’attività.
L’équipe di lavoro prepara progetti di formazione al lavoro individuali, borse lavoro rivolte a persone con un deficit cognitivo o relazionale, nell’ambito delle attività di grooming (pulizia e preparazione dei cavalli, lavoro di selleria, pulizia box, ecc.). Qui si pratica anche attività agonistica per cavalieri disabili, concorsi equestri a livello regionale, nazionale e internazionale organizzati dalla FISD.

Mentre Roberto finisce di parlare mi accorgo quasi con stupore che siamo tornati al maneggio: le mie scarpe sono meno infangate del previsto, ho una bella sensazione addosso, e dopo esserci salutati, mentre mi rituffo in moto nel caos di Bologna, mi risuonano in testa le parole di Ledio: "Mi piace galoppare, saltare!"

Sede Legale:
Via Ferrara, 32
40139
BOLOGNA
Tel.0335\6583608 Fax 051\493236
E-MaiI: aiasport@iperbole.bologna.it
www.imprese.com/aiasport

Sedi operative:
Club "Parco dei Cavalli GESE"
Via Jussi, 141
40068
loc. Pulce
San Lazzaro di Savena (BO)

Circolo Ippico The River Ranch
Via del Bosco
S.Salvatore di Casola
Pianoro (BO)

Circolo Ippico Valganzole
Via della Fornace, 3
Sasso Marconi (BO)

Per ricevere ulteriori informazioni si può contattare il Coordinatore AIASPORT:
Roberto Flamini tel. 0335 16583608

Olimpiadi di tutti i giorni

Con questo numero di “HP-Accaparlante” nasce una nuova rubrica su sport e disabilità, dal titolo provocatorio “Sport agevoli”. Perché ho scelto questo titolo? Sapete, oggi si esaltano quelli che vengono chiamati sport estremi, molte volte vengono evidenziate prove di atleti che superano record incredibili, anche di atleti diversamente abili che superano limiti impossibili! Per curiosità sono andato a vedere sul vocabolario i sinonimi della parola estremo, trovando: difficoltoso, malagevole, faticoso, pesante, gravoso, laborioso, irto di ostacoli, problematico, arduo, complicato, oscuro, complesso, pericoloso, ecc. Tutte parole che spaventerebbero chiunque e che, di sicuro, non funzionerebbero come slogan per promuovere una qualsiasi attività. A questo punto, preso da una smania “dizionariesca”, non mi restava che vedere quali fossero i contrari della tanto temuta parola estremo e eccovi serviti: facile, semplice, leggero, lieve, risolvibile, comodo, agevole, calmo, piacevole, mite, abbordabile, benevolo, alla mano, possibile, realizzabile, ecc. Il più simpatico mi è sembrato agevole ed eccomi qui! Forse non tutti sanno che il 2004 è una data importante per lo sport: infatti il Parlamento Europeo e il consiglio dell’Unione Europea hanno stabilito, visto i valori educativi dello sport – come ad esempio il valore a forgiare l’identità delle persone – che le attività sportive hanno un valore pedagogico che contribuisce al rafforzamento della società civile. Perciò il 2004 è stato decretato come l’Anno Europeo dell’educazione attraverso lo sport, e non a caso è stato scelto quest’anno, perché si disputeranno anche le Olimpiadi in Europa, in Grecia. Per molti atleti il 2004 è il traguardo che li porterà a affrontare la venticinquesima edizione delle Olimpiadi Moderne ad Atene, a più di 1500 anni da quel 393 d.C. quando l’imperatore Teodosio, su esplicita richiesta del vescovo di Milano, decise di sopprimerle, per tornare poi a risorgere proprio ad Atene nel 1896 grazie a Pierre Fredi de Coubertin. A agosto, ormai in una moderna e trasformata Atene, si affronterà la massima espressione di quello che da tutti è universalmente riconosciuto con la parola sport. Di tutto ciò molto è già stato scritto e molto si scriverà, ma mi piacerebbe farvi pensare invece a qualcun altro. Sapete, mentre voi siete comodamente seduti a leggere il vostro “HP-Accaparlante” fresco di stampa, in questo preciso momento migliaia di persone, forse anche di più, delle quali mai nessuno sentirà parlare e che nessuno vedrà mai in TV, stanno praticando dello sport: ci avevate mai pensato? Persone basse, persone di colore, donne grasse, atleti acciaccati, vecchietti, bambini non udenti, ragazzi in carrozzina, il vostro commercialista, quel “rompiscatole” del terzo piano, vostra zia… stanno affrontando la loro piccola olimpiade di tutti i giorni, vincendo la loro battaglia, parlando l’unico linguaggio che non ha confini, restrizioni, limiti, che tutti possono comprendere, anche se molto diversi, difendendo quella bandiera a cinque anelli che è uguale per tutti. Ora, che mia zia seduta sulla sua cyclette da camera abbia qualcosa in comune con Shaquille O’Neal, stella strapagata e idolo del basket USA, e futuro protagonista del Dream Team a Atene, è proprio quello che rende unico il linguaggio dello sport. Che persone alle quali i medici abbiano detto “Guardi lei non potrà mai più camminare” possano addirittura difendere i colori della propria nazione alla maratona che si svolgerà durante i giochi Paraolimpici di Atene, tutto questo è incredibile, ma incredibile è anche solo pensare che Matteo finalmente è riuscito a fare quel canestro che per lui così piccolino sembrava impossibile, che Margherita è riuscita a salire in groppa a Stella quel cavallo che tanto la spaventava, che finalmente Andrea è riuscito a entrare in acqua e non solo a bagnarsi i piedi… ma anche che Sara non ce l’ha fatta a finire quel giro di pista ma domani ci riproverà e forse alla fine riuscirà anche lei a vincere la sua piccola olimpiade. Oggi bambini e adulti si ritrovano all’interno delle palestre, nelle piscine, nelle scuole a affrontare le loro grandi sfide ricordandoci che il mondo, almeno in qualche luogo, va nel verso giusto.

Specialmente allenatori

Secondo voi quali sono le difficoltà che s’incontrano allenando a una disciplina sportiva una persona disabile o un gruppo di disabili? Questa è una domanda che faccio nei corsi di formazione per diventare istruttori di attività sportive per disabili. Ecco le risposte che mi vengono date: rapporti con i genitori, conoscenza tecnica approfondita della disciplina, conoscenza degli attrezzi e ausili per praticare la disciplina, disponibilità di manuali tecnici, ruolo di educatore-istruttore e problematiche connesse, conoscenza dei singoli atleti e delle loro problematiche e quindi dei loro limiti psico-fisici, allenare contemporaneamente atleti con caratteristiche diverse sia fisiche sia psicologiche, rapporti con i genitori (questo lo scrivo due volte perché è un problema molto grande, che vale doppio, dato l’importante legame dovuto alla situazione di bisogno), problemi di organizzazione dell’attività, trovare collaboratori e strutture adatte, stimolare e motivare gli atleti, organizzare attività con altri gruppi, ecc. Dopo aver scritto questo elenco su una lavagna chiedo invece quali siano le difficoltà nell’allenare un gruppo “normale” e, sorpresa delle sorprese, l’elenco delle difficoltà è molto simile al primo. Questo non vuol dire che sia proprio tutto uguale, sicuramente alcune difficoltà nel caso delle persone con deficit sono amplificate e le conoscenze devono essere maggiormente approfondite (e trovare dei manuali documentativi in proposito è veramente molto più difficile visto che in Italia ce ne sono pochissimi!).
Attualmente esistono innumerevoli realtà che si occupano di formazione: Associazioni, Enti di promozione, Federazioni, Università; capire quali siano quelli più attendibili, più qualificati e più utili non è semplice.
Con la legge 15 luglio 2003 relativa alla costituzione del Comitato Italiano Paralimpico, il C.I.P. diventa l’unico organo di riferimento a livello nazionale: secondo l’art. 2, comma h, del suo statuto (“Compiti, funzioni e finalità del C.I.P.”) il C.I.P. coordina e gestisce l’attività di formazione e aggiornamento dei quadri tecnici e dirigenziali e didattico-corsuale in generale per persone disabili, collaborando specificatamente in tal senso con gli uffici e strutture del C.O.N.I. competenti, con il M.I.U.R. (Ministero dell’Istruzione, Università, Ricerca), gli I.U.S.M. (Istituto Universitario di Scienze Motorie) e le Università.
In verità non è così semplice, ancora siamo lontani da questo, perché attualmente sono poche le realtà dove l’organizzazione formativa ha radici ben salde. Spesso la formazione su attività sportive per disabili è affidata alla volontà degli istruttori di acquisirla. Questi ultimi non provengono certamente dalle facoltà di scienze motorie, mentre più facilmente possono essere amici, obiettori di coscienza, volontari delle Associazioni, istruttori di altre discipline che vengono per caso a contatto con gruppi sportivi o atleti disabili, che magari frequentano lo stesso impianto sportivo e che si allenano l’ora dopo, oppure atleti che a fine carriera diventano tecnici.
Con questo non voglio dire che non ci siano allenatori formati in modo giusto o incapaci, voglio solo dire che fino a oggi ha avuto più peso la volontà rispetto all’organizzazione.
Un buon allenatore deve proporzionare le difficoltà alle capacità dell’atleta, non annoiare mai, stimolare le attività cambiando gli esercizi, essere paziente, conoscere bene le persone con cui ha a che fare, ascoltare tutti e poi decidere da solo, insegnare ed educare attraverso lo sport, ma anche imparare dallo sport. Ricordarsi che dopo lo sport c’è la vita quotidiana, con le sue difficoltà, e un successo nello sport può favorire il superamento di un ostacolo quotidiano, senza scordarsi però che una delusione può fare l’inverso.
Oggi la televisione offre ai nostri atleti, e mi riferisco soprattutto a quelli più giovani, un’immagine carismatica del campione da imitare, che lo porta a identificarsi in lui, allontanandolo dalle problematiche della sua realtà: l’allenatore deve essere lì a “riportarlo sulla terra”.
Questi sono discorsi che valgono per qualsiasi istruttore, sia per disabili che per normali;è per questo che vorrei che non si pensasse a un allenatore speciale, a uno che debba conoscere cose “marziane” per avere a che fare con quelli lì, a corsi speciali da sostenere per stare in palestra o in piscina, o sul prato o sulla pista da sci con quei ragazzi speciali, ma a qualcuno con le giuste conoscenze per fare le cose normalmente come fanno tutti; diverse perché le attività sono diverse (come se un istruttore di ping pong volesse insegnare ai ragazzi ad andare a cavallo).
Mi ricordo che parecchi anni fa, quando ero molto giovane e già allenavo un gruppo di ragazzi in carrozzina, e i miei colleghi mi dicevano: “Ma come fai? Sei bravissimo!”, e io rispondevo che facevo esattamente come loro, ed era veramente così. Non bisogna essere degli sprovveduti, naturalmente, per seguire queste attività, ed è sicuramente importante formarsi a educare con lo sport. Così come è bene che nessuno s’improvvisi allenatore, ma non bisogna pensare che nel caso dei disabili sia più difficile prendere una decisione, o aver paura che questa sia sbagliata; può capitare e comunque nell’incertezza la regola del buon senso è sempre quella più giusta.
Lo sport è un modo positivo per migliorare la nostra vita, e oggi è soprattutto in mano alla televisione e ai giornali, ma per fortuna è anche in mano a coloro che ce lo insegnano. Fatene un buon uso.

Il giorno dei giorni

Quel giorno tanto atteso finalmente è arrivato. Il giorno dei giorni, per tutto il movimento degli “altri sportivi” è stato il 10 marzo 2006, quando la freccia scoccata dalla campionessa olimpica Paola Fantato, nello Stadio Olimpico di Torino, ha infranto il gigantesco muro dando inizio alla cerimonia d’apertura dei IX Giochi Paralimpici Invernali. Io, come molti altri italiani, non sono riuscito ad andare a Torino e tutto quello che ho vissuto di questa Olimpiade l’ho percepito da casa o qualche tempo dopo, dai racconti di quelli che c’erano stati da spettatori o protagonisti. Inutile dire che questi giochi hanno rappresentato una svolta: adesso posso parlare a chiunque di un atleta disabile senza rischiare di  non essere compreso, o rischiare di vedere qualcuno perplesso nel riconoscere la stessa importanza di un altro campione. La prova di tutto questo l’ho avuta la scorsa settimana: mi trovavo in una scuola dell’Appennino bolognese, durante un incontro del Progetto Calamaio: avevo di fronte un gruppo di ragazzi di prima media, e come spesso ci capita, ci ritroviamo a parlare di sport, di quello che praticano loro e di quello fatto da noi; di solito lo stupore dei ragazzi è quando scoprono che anche un ragazzo disabile, che magari fa fatica a muovere un muscolo può praticare sport come loro; stavolta invece lo stupore è stato nostro nel vedere che, grazie alle Paralimpiadi, qualcuno di loro conosceva già tutte queste cose. Parecchie sono state le vittorie, soprattutto quelle dell’organizzazione che dopo dei magnifici Giochi Olimpici ha messo in piedi una magnifica edizione dei giochi Paralimpici. Una delle passate sere ho avuto la fortuna di dividere la tavola con gli atleti italiani, vera sorpresa di questa edizione, e cioè la milanese Silvia Parente che ha conquistato ben quattro medaglie tra cui una d’oro, nella categoria Blind (non vedenti) in ciascuna disciplina dello sci alpino (libera, gigante, slalom speciale e supergigante) e la sua guida e mio concittadino bolognese Lorenzo Migliari. Ero ansioso di conoscere da loro le emozioni di chi aveva vissuto questo evento da protagonista. Dello loro parole mi hanno colpito soprattutto la descrizione delle emozioni che loro sentivano nella gente che li circondava, nello spirito del villaggio olimpico, nell’incontro con gli altri atleti avversari delle altre nazioni o atleti dei Giochi Olimpici, con i quali dividevano i campi d’allenamento. Devo dire che quelle loro parole erano una piacevole conferma di quello che avevo percepito anche io a casa, dalla tv, nelle trasmissioni che avevano anticipato e accompagnato i giochi. Vi cito un esempio: in una trasmissione di approfondimento, proprio in chiusura dei Giochi Olimpici, dove si tiravano le somme di una Olimpiade negativa per il nostro sci alpino, in un commento del nostro attuale più celebrato atleta dello sci, Giorgio Rocca, si sentì dire: “Speriamo che gli atleti paralimpici risollevino l’onore della  nostra disciplina, che noi non siamo riusciti a difendere!”. Sicuramente io ero uno spettatore favorito, visto che ormai da molti anni mi occupo di sport e disabilità, però credo che a tutti sia stato chiaro che per Rocca i colleghi paralimpici erano compagni di nazionale come lui, avevano diviso i campi di gara e allenamento, le responsabilità e la gloria. E grazie a quell’augurio di Rocca è stato proprio lo sci alpino a conquistare le otto medaglie che hanno portato l’Italia sul nono gradino paralimpico migliorando il dodicesimo posto della precedente edizione di Salt Lake City del 2002. Cos’altro ricordare di questa Paralimpiade? Sempre dal racconto di Lorenzo Migliari: l’urlo ITALIA dei trentamila dello Stadio Olimpico, all’ingresso della nostra nazionale durante la sfilata della cerimonia d’apertura, la fredda Torino trasformata per alcune settimane in un caloroso centro del mondo, gli spalti gremiti dai bambini delle scuole Italiane (più di 25.000) che hanno assistito ai giochi, il fragore dei tifosi nello stadio del ghiaccio, nell’accogliere il primo, degli unici due goal segnati, dalla nostra nazionale di Ice Sledge Hockey al debutto in una Paralimpiade (pensate avevano iniziato ad allenarsi assieme solo da 5 mesi!) e quei cinque centimetri quadrati conquistati al calcio, nella Gazzetta dello Sport del lunedì, che raccontavano l’oro paralimpico di Silvia e Lorenzo nel Gigante. Naturalmente c’è stato anche qualcosa che non ha funzionato e penso soprattutto al comportamento dei media, una cerimonia d’apertura interrotta a pochi minuti dalla fine, da Rai Due, per trasmettere dei cartoni animati, l’acquisto della Rai dei diritti televisivi, poi venduti non avendo nessuna diretta di gare sulla Rai e solo una breve trasmissione giornaliera in orario improponibile e anche il fatto che Mediaset non abbia dato nessuna notizia sulle nostre medaglie!

Insomma tante luci e qualche ombra.

“Che siamo dentro
il Giorno dei Giorni
… fatto per vivere…
il Giorno dei Giorni
… tutto da fare e niente da perdere….
… senza più limite…
il Giorno dei Giorni
… attimi e secoli, lacrime e brividi…”

Citando Luciano Ligabue che ha accompagnato con la sua canzone la cerimonia d’apertura.
Grazie Torino, ora è tutto nelle nostre mani.

Una giornata speciale

Vi confesso che ero un po’ scettico, quando in maggio mi hanno chiesto di organizzare per venerdì 13 ottobre, la Prima giornata paralimpica Nazionale, e ora vi spiego il perché. Innanzitutto il giorno, un venerdì, una giornata lavorativa, nella mattinata, quando i bolognesi, oltre che dalla routine del lavoro, sono attratti dal mercato della Montagnola. In più mi chiedevo: come possiamo far venire i nostri atleti, se anche loro sono impegnati a scuola o al lavoro? Ci avevano chiesto di fare le dimostrazioni sportive nelle piazze principali, visto che lo scopo principale era la visibilità, e pensavo quanto fosse complicato ottenere Piazza Maggiore da parte dell’Intendenza dei Beni Culturali, per sistemare tutte le nostre attrezzature. E poi c’era l’incognita del tempo, il 13 ottobre poteva già essere pieno inverno e la pioggia avrebbe spento tutta la nostra passione sportiva, relegandoci in qualche struttura periferica, dentro un palazzetto. Questa iniziativa fa parte di un programma nazionale, che comprende altre sei città italiane: Roma, Torino, Palermo, Bari, Assisi e Padova, nell’ambito di un progetto più ampio dal nome “Il cuore che illumina lo sport”, una collaborazione tra CIP (Comitato Italiano Paralimpico) e l’associazione Enel Cuore Onlus. Visto che la manifestazione si svolgeva nella mattina di venerdì, sarebbe stato fondamentale la partecipazione delle scuole bolognesi, e visto che l’organizzazione era a carattere regionale, di tutte le scuole dell’Emilia Romagna. Bocciata l’idea di svolgere le gare in Piazza Maggiore, una persona dell’organizzazione mi ha suggerito di fare comunque un corteo in sfilata dalla Piazza con i nostri atleti e gli alunni delle scuole, per raggiungere i Giardini Margherita, luogo della manifestazione. Erano quasi le nove, quando mi sono affacciato sul “Crescentone”, accompagnato da un pulmino dell’Esercito, utilissimo partner della manifestazione, un timido sole incoraggiava la nostra manifestazione, si intravedevano le prime classi; ecco stava per iniziare una giornata speciale. I volontari della Protezione Civile distribuivano magliette con la scritta “Il cuore illumina lo sport”, e io iniziavo a pensare a come organizzare la sfilata che ci avrebbe condotto ai Giardini per l’inizio della manifestazione. Il nostro corteo vedeva gli atleti in testa, alcuni in carrozzina, altri indossavano già il proprio kimono, in mezzo a loro gli atleti professionisti della Zinella, con le loro tute arancione a guidarci, dietro le scuole con in testa lo striscione dell’ITC Salvemini di Casalecchio e dietro le altre scuole e poi gli altri. C’erano anche la RAI e i giornalisti, la Banda, i vigili in testa, tutti intorno si chiedevano cosa stava succedendo e io l’onore di far partire il corteo. Stavo attraversando le vie principali della mia città, non mi rendevo bene conto, ma le persone ci guardavano, ci ammiravano, non so se capivano bene chi eravamo e perché eravamo lì. Il sole diventava sempre più alto e più forte, il tempo mi sembrava fermo, era strano stare al centro della strada a volte fermo, per l’incedere lento del corteo, fermo dove di solito bisogna correre per evitare di essere travolto dalle macchine e Bologna lì testimone del nostro passaggio. Quando siamo arrivati ai Giardini il sole splendeva sui nostri campi di gara: il tatami per gli atleti del judo, la pedana della scherma, il circuito del tandem, il campo del tiro con l’arco e i campi da tennis, basket, pallavolo e hockey e le autorità ci aspettavano sul palco per dare il via ufficiale alla manifestazione. L’inno di Mameli ufficializzava l’inizio delle gare, ora era solo questione di fatica, sudore e divertimento, toccava ai nostri campioni e ai ragazzi delle scuole. Tutto è andato benissimo, è stata una grande festa e io forse per la prima volta ho sentito che eravamo sportivi come gli altri e con gli altri! Ecco cosa mi ha detto Fabrizio che ha partecipato con me a questa Prima Giornata Paralimpica:
“L’idea di invitare le scuole a questa prima giornata paralimpica è stata significativa da parte del CIP, perché la scuola può essere un serbatoio importante al quale attingere affinché sempre più ragazzi disabili si avvicinino alla pratica sportiva. Tra le varie discipline convenute alla manifestazione, era presente anche il wheelchair hockey (hockey su carrozzina elettrica) con alcuni atleti della squadra di Bologna, fra cui il sottoscritto, uno della squadra di Ancona e uno di Milano, che hanno dato vita a una esibizione mista tre contro tre. Il match, risultato molto combattuto ed equilibrato, è terminato con un pareggio: 4 a 4. Purtroppo, non essendo al completo né la squadra di Bologna né una squadra sfidante, non è stato possibile svolgere una regolare partita, che avrebbe previsto cinque giocatori per ogni formazione.
Le esibizioni dell’hockey e del basket in carrozzina si sono svolte nel Playground dei Giardini Margherita. La maggior parte del pubblico era composta dagli studenti di alcune scuole medie inferiori e superiori di Bologna, che hanno attivamente partecipato col loro tifo. È stato molto bello sia essere presente a questa manifestazione come uno dei protagonisti della dimostrazione di wheelchair hockey, che aver visto il pubblico partecipare con interesse ed entusiasmo a questa particolare iniziativa, dimostrando così un apprezzamento francamente inaspettato”.
Non sono riuscito a sentire tutti, ma molti sono rimasti contenti e ci saranno cose da migliorare, quello che so è che con questa giornata si è aggiunto qualcosa per essere nel mondo dello sport, che non siano solo i riflettori delle Paralimpiadi… la meta è sempre più vicina!