È recente la notizia della comparsa sul mercato di un bambolotto con lineamenti e caratteristiche fisiche che riproducono quelli di un neonato Down. Esso è stato messo in vendita da un’azienda che si ripropone di donare, per ogni bambola venduta, un contributo a un’associazione che si occupa delle problematiche legate a tale sindrome. Questa notizia ha dato seguito a una serie di reazioni contrastanti, alcune favorevoli, la maggior parte critiche. I detrattori sostengono che una simile iniziativa abbia il solo scopo di lucrare sulla situazione di deficit delle persone affette da sindrome di Down. In effetti, l’immissione di un nuovo giocattolo sul mercato fa sempre seguito a un’accurata valutazione economica e di marketing, quindi più che al suo valore educativo i produttori puntano a ben altro valore. Inoltre, la concorrenza oggi è spietata, dunque ci si inventa di tutto per aggiudicarsi una fetta di mercato.
Tuttavia, questa iniziativa non è del tutto una novità. Già una decina di anni fa la bambola più famosa al mondo, la Barbie, era stata prodotta nella versione in carrozzina. Non era questo però il primo passo della bambola in questione nel mondo della diversità: già da tempo esistevano Barbie multirazziali. Ciò è davvero particolare se si pensa a tutte le critiche che essa si è attirata nel corso degli anni, soprattutto da parte delle femministe, che riconoscevano in quei canoni estetici di irraggiungibile perfezione per una donna in carne e ossa un’istigazione all’omologazione, alla distorsione della realtà, ai disturbi alimentari delle giovanissime, al riferimento a modelli sbagliati, prettamente esteriori. In effetti, per una ragazzina afroamericana, per esempio, non doveva essere piacevole giocare tenendo fra le mani tale bellezza teutonica, in cui sicuramente non poteva rispecchiarsi, cosa che invece i bambini fanno normalmente quando giocano.
Il passo ulteriore si è compiuto, per l’appunto, quando è stata data la possibilità di riconoscersi nella loro bambola preferita anche alle bambine costrette in carrozzina. Giocare sempre con tali esemplari di bambole superdotate certamente non permetteva grande compartecipazione emotiva alle ragazzine con deficit: se già questo modello creava problemi alle giovanissime cosiddette normali, figurarsi a chi mai si sarebbe potuta permettere di indossare vestiti simili a quelli del guardaroba eccezionale della Barbie, o di fare lunghe cavalcate con Ken, o di compiere tutte quelle attività che, nei loro giochi, le bambine fanno svolgere alle loro bambole. Ecco invece che, con la comparsa della Barbie in carrozzina, che seguiva quelle di varie bambole impegnate nelle più diverse professioni, l’alter ego in pura plastica poteva davvero rispecchiare l’immagine esteriore di una particolare fetta di acquirenti. L’utilità di questa bambola ha scatenato diverse obiezioni, se non altro per il fatto che, di solito, si gioca con Barbie perfette proprio perché si vorrebbe essere così, si fanno vivere loro avventure che si sogna di poter davvero provare un giorno: non a caso, le bambine inventano sempre storie a lieto fine, fanno prendere alla loro bambola il the con le amiche come vedono fare alle mamme, fanno loro frequentare palestre, negozi di lusso, indossare abiti da favola, vivere appassionanti storie d’amore che immancabilmente si concludono con un bel matrimonio! Anche in tempi più moderni ciò avviene, sebbene sia mutato il modo di vivere queste avventure di fantasia. Ora i sogni delle ragazzine non vengono incarnati da una bambola di plastica, bensì da un sofisticato avatar virtuale che vive una Second Life ben più sofisticata di quella costruita dalla sola fantasia di una bambina di qualche anno fa. I doppi virtuali vivono avventure in un mondo digitale così complesso, da diventare quasi una seconda realtà, che lascia ben poco spazio all’immaginazione. Questa virtualità è frutto sì di fantasie dei protagonisti, ma tali immaginazioni vengono così ben rappresentate da questo mondo parallelo, in tutti gli aspetti, da creare vere doppie vite, in cui sfogare spesso istinti repressi nella vita reale, che possono sfociare nel patologico. Insomma, nulla a che vedere con le avventure fantastiche della Barbie, che non erano vissute come una seconda vita immaginaria, ma piuttosto auspicate dalle bambine, che si creavano non un presente alternativo, ma una speranza in un futuro da sogno.
Tutto questo per spiegare che, se anche la bambina in carrozzina poteva giocare con una bambola “normale” su cui riversare speranze e aspettative, che pure sarebbero il più delle volte andate deluse, tutt’altra cosa era far vivere avventure ugualmente da favola a una Barbie in carrozzina come lei! Sì, perché lo stesso shopping sfrenato e lo stesso matrimonio da favola, ma vissuto da una bambola nelle stesse condizioni, diventavano una speranza quasi palpabile. Molto particolare è la storia di una bambina costretta sulla carrozzina, la quale amava molto giocare con le bambole, vestirle, pettinarle, ma invidiava le amichette che potevano davvero vivere le avventure che ideavano per le loro beniamine, mentre lei, con la sua carrozzina, era molto limitata. Poi, sua mamma trovò e le regalò per un Natale la Barbie in carrozzina, appena uscita sul mercato in edizione limitata, con giunture snodabili perché potesse stare ben seduta, ma con tutte le altre caratteristiche comuni alle Barbie normali. La bambina allora si mise a giocare con la bambola, ma non facendole vivere chissà quali fantastiche avventure, bensì facendole imitare i gesti che infinite volte lei stessa aveva ripetuto nel fare le sue terapie riabilitative. Dopo alcune settimane di gioco così impostato, la bambina chiamò la mamma dicendole che era accaduto un miracolo, e le mostrò la Barbie, cui aveva raddrizzato le giunture mobili, tenuta in piedi diritta, che veniva da lei fatta camminare, correre, saltare. La bambina disse alla mamma che tutta la terapia che aveva fatto fare alla bambola era servita a farla camminare di nuovo, che le sue gambe si erano raddrizzate e stava ora ritta in piedi come tutte le altre Barbie. E davvero la bambina era felice, questo era un chiaro segnale che coltivava la speranza di riuscire un giorno, grazie alla terapia, a camminare, come era riuscita a fare con la sua Barbie.
Ecco, tutto ciò rischia di diventare una mera operazione di marketing, che banalizza l’handicap e lucra sulla disabilità. Un gioco non può certo bastare a educare alla diversità: si pensi che nelle più famose squadre di calcio buona parte dei giocatori sono di colore, ma gli ultrà sono quasi tutti razzisti convinti. Questo significa che, senza educazione, l’esempio a volte conta ben poco, ma significa anche che, come un personaggio molto famoso fa dimenticare le sue “diversità” (se è nero, cieco, malato, ecc.), perché diventa una figura familiare, così una cosa consueta per un bambino, come può essere un gioco, diminuisce se non annulla la sua percezione del diverso. Succede anche a chi ha amici disabili: se sono vere amicizie, dopo un po’, pur rimanendo presenti i bisogni fisici della persona e dunque le necessità assistenziali, l’amico non pensa più al deficit dell’altro, diventa una semplice caratteristica fisica.
Le parole “gioco” ed “educazione” hanno, nel greco, una radice comune: paidìa e paidèia. Il gioco, infatti, dovrebbe essere la principale attività dei bambini, proprio perché è l’approccio fondamentale per apprendere le cose, per capire i meccanismi complessi del mondo che li circonda. La simulazione della realtà attraverso il gioco è fondamentale per l’apprendimento, lo sviluppo delle capacità di problem solving, la comprensione del reale: giocare con i soldatini fa capire cosa significa il gioco di squadra, la fiducia nei compagni, ma anche le difficoltà della vita, la necessità di pensare strategie, espedienti, vie di fuga. Oggi al posto dei soldatini di piombo ci sono i videogiochi, sicuramente più violenti, con immagini e situazioni cruente molto realistiche, spesso inadatte a dei ragazzi (tralasciamo in questa sede l’annosa discussione sugli effetti sulla psiche dei giovani della violenza di alcuni videogiochi), ma che spesso simulano situazioni in cui è necessario adoperare tutte le proprie capacità di problem solving, di trovare strategie, di pensare velocemente alla risoluzione di problemi complessi. Queste simulazioni, del gioco virtuale come di quello reale, educano ad affrontare le situazioni più diverse della vita vera: non a caso, prima o poi, tutte le bambine giocano a fare la mamma o la sorella maggiore o la maestra delle bambole, i maschietti a fare i piloti, gli astronauti, i calciatori, ecc. Dunque, giocare a fare la mamma di una bambola con le caratteristiche proprie di chi è affetto da sindrome di Down farà sì che, da grandi, le diversità saranno un po’ più familiari e, si sa, quello che si impara da piccoli rimane nella personalità e non si dimentica più.
Rubrica
SPORT AGEVOLI/La relazione movimento-linguaggio nello sviluppo del bambino
di Arianna Casali, psicologa presso la cooperativa sociale “Progetto Crescere” di Reggio Emilia e Simona Tagliazucchi, responsabile area trattamento, abilitazione, rieducazione presso la stessa cooperativa. Quando si pensa alla mente, generalmente, ci si sofferma sulle Leggi tutto…