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autore: Autore: di Stefano Toschi

BEATI NOI/La legge del dono

Non avevo mai considerato in modo approfondito il tema dei trapianti, finché non ho letto le linee guida della Regione Veneto in materia. Uno dei problemi principali del trapianto d’organi è proprio la determinazione della priorità con cui assegnarli. La scelta rischia di risultare discriminatoria: per quanto esistano dei criteri stabiliti, spesso la valutazione deve essere fatta su casi singoli. Più che “casi”, preferisco parlare di “persone”: questo è proprio il punto cruciale della questione. Fra le controindicazioni al trapianto vengono comprese, fra le altre: i disturbi di personalità, disturbi psicotici in fase di remissione, disturbi affettivi in atto, passati tentativi di suicidio (magari verificatisi proprio in relazione alla patologia che il trapianto potrebbe risolvere), i gravi disturbi nevrotici, il ritardo mentale con quoziente di intelligenza inferiore al 70, ecc. Insomma, i disabili mentali non “meritano” il trapianto. Non solo, dal tono delle linee guida sembra quasi di intendere che il trapianto sul disabile sia una sorta di “spreco” dell’organo in questione. Questo perché, in alcuni casi, può essere inferiore la prospettiva di vita. Più in generale, i trapiantati devono poi seguire per tutta la vita terapie indispensabili che richiedono costanza e precisione, quindi si suppone che queste caratteristiche non possano essere proprie di un disabile. Forse che tutta la vita di un disabile non sia già di per sé costellata da cure e terapie, anche difficili da seguire? Il disabile non può essere un’“isola”, mai: è evidente che intorno a lui ci sono persone che lo amano e che se ne prendono cura. Questa interpretazione così rigida rischia di far ritornare alla visione filosofica dell’uomo macchina di La Mettrie che, nel suo materialismo estremo di fine Settecento, proponeva di considerare l’uomo solo in base all’insieme dei suoi organi, anche per determinare in modo empirico cosa, effettivamente, distinguesse la sua humanitas dalla natura animale. Di per sé, il concetto stesso sotteso all’opportunità del trapianto rende facile il pensiero del corpo umano come un aggregato di parti che possono essere rese disponibili ad altre persone. La gratuità dei trapianti e il fatto che non sia un diritto esigibile da un’altra persona mirano, appunto, a scongiurare la possibilità che si cada in questa visione meccanicista. Oggi, la medicina può intervenire sul corpo umano come mai prima d’ora. L’unità tradizionale tra corpo e persona è messa in discussione e ci spinge a rivedere la nostra concezione della personalità. L’idea del trapianto, inoltre, porta con sé quella della morte, pertanto non può che essere assai controversa.
Nel caso in questione, ovvero dei trapianti su persone con disabilità, al di là dei risvolti etici e pratici che questa paventata esclusione comporta, la posizione della Regione Veneto è in forte contrasto con la Convenzione ONU sui Diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia dalla Legge 3 marzo 2009, n. 18. L’articolo 25 recita che “le persone con disabilità hanno il diritto di godere del più alto standard conseguibile di salute, senza discriminazioni sulla base della disabilità”. Inoltre, essa impone di “fornire alle persone con disabilità la stessa gamma, qualità e standard di servizi e programmi sanitari, gratuiti o a costi sostenibili, forniti alle altre persone, compresi i servizi sanitari nell’area sessuale e di salute riproduttiva e i programmi di salute pubblica inerenti alla popolazione”.
Come i miei lettori sapranno, le parole, i termini utilizzati, per me, hanno un peso. Colui che fornisce l’organo, non a caso, si chiama “donatore”. Il dono, in sé, è qualcosa di gratuito. Per questo motivo al donatore potenziale, a noi tutti, insomma, viene chiesto esplicito consenso, nel caso se ne presentasse la circostanza, alla donazione degli organi. Senza la precisa volontà il dono non sarebbe tale, si tratterebbe piuttosto dell’esproprio di un bene. Pertanto, come può la legge stabilire che una persona con disabilità non ha il diritto di ricevere un dono così generoso da un’altra persona? Se ci fosse la sola mentalità efficientista sottesa al dono di un organo, non ci sarebbe neppure il dono. Esisterebbe solo una compravendita di beni, di pezzi di ricambio. Se la persona con deficit, fisico o mentale, non è stato escluso dal dono della vita, così la scienza non dovrebbe negargli la possibilità, al pari di ogni altra persona, di rinascere a nuova vita. Come ogni candidato al trapianto riceve un’attenta valutazione del caso individuale, così dovrebbe essere fatto per i disabili. In caso contrario, sarebbe la legge a ergersi a giudice del valore delle persone, discriminando individui che, per il diritto, appunto, dovrebbero essere uguali per natura. Se anche la scienza e la legge dimenticano la centralità della persona, la nostra società non potrà essere da meno. Se utilizzate in questo modo, le nuove frontiere della medicina diventano strumenti di selezione genetica e possono aprire strade pericolose, come quelle, ad esempio, delle analisi prenatali obbligatorie, volte a stabilire chi ha il diritto di nascere e di vivere.
Qualche giorno fa partecipavo al dibattito del tavolo disabilità dei Piani di zona di alcuni Comuni dell’hinterland bolognese. I Piani di zona dovrebbero essere uno strumento virtuoso di confronto e di arricchimento per le Istituzioni, che hanno modo di ascoltare i bisogni reali della comunità. Ebbene, nonostante partecipassero al dibattito, per conto delle Istituzioni, i professionisti e gli amministratori più sensibili alle problematiche del territorio, è stato sconcertante assistere alla disparità di vedute delle Associazioni e dei famigliari delle persone con disabilità rispetto a quelle dei Comuni, delle Asl, ecc. Questi ultimi sono apparsi quasi totalmente avulsi dalle reali problematiche di cui, quotidianamente, deve farsi carico la famiglia di una persona con deficit. Per giunta, gli argomenti oggetto del dibattito erano, se vogliamo, quasi banali, per lo meno routinari. Per questo motivo mi fa molto riflettere il fatto che la legge possa stabilire, a priori, una valutazione dell’individuo sulla base, ad esempio, del quoziente intellettivo. Quest’ultimo viene esplicitato da un numero, ricavato sulla base di una serie di prove standardizzate. Inutile dire che in esse non trova alcuno spazio, fra i criteri, l’intelligenza emotiva spesso dimostrata da chi non è in grado di risolvere quesiti di logica, o la capacità comunicativa alternativa propria di molti disabili. Eppure, anche queste persone sono una ricchezza, sono importanti: per qualcuno, per chi li ama, per chi si prende cura di loro, ma anche per la comunità intera. Comunità, sì, non collettività: ancora una volta, i termini non possono essere frutto di una scelta non meditata.

BEATI NOI/On the road: odissee dei nostri giorni

Io sono uno che viaggia tanto. Per partecipare ai convegni, più che per vacanza. Ogni volta la partenza mi mette agitazione, ma allo stesso tempo la attendo con ansia. Quella del viaggio è una metafora usata e abusata in letteratura e in filosofia. Però dal punto di vista di un disabile, sia che ci si riferisca al viaggio in quanto tale, sia che lo si usi come immagine, la prospettiva, in parte, cambia. Prima di tutto, negli anni è cambiato il modo di concepire l’offerta turistica per le persone disabili. Dall’idea di una vacanza di gruppo stile “colonia”, di tipo “curativo”, in strutture dedicate, si è passati a un’offerta abbastanza ampia di luoghi accessibili, in condizioni non più riservate e in mete aperte al turismo di massa. Oggi è possibile anche un accesso facilitato alle informazioni che permette di trovare sistemazioni ad hoc e informazioni aggiornate dallo schermo di un pc o con qualche telefonata.
Se pensiamo invece alla valenza metaforica del viaggio, per una persona con deficit più che mai esso impone di affrontare i propri limiti. Le difficoltà organizzative, l’abbandono delle comodità e delle certezze casalinghe: difficile per tutti, impegnativa prova materiale e psicologica per chi ha limiti più evidenti. Il viaggio, dunque, porta con sé il rischio della perdita, dell’abbandono all’ignoto, ma è anche promessa di conquista del nuovo, di arricchimento della persona. Posti nuovi e lontani, culture diverse, persone sconosciute: tutto questo arricchisce il viaggiatore e, spesso, impone di valicare anche i confini personali. Il viaggio è definito come lo spostamento da un luogo a un altro, ma il luogo non è solo quello dello spazio fisico, è anche un luogo interiore. Ogni viaggio ci arricchisce soprattutto per le persone che incontriamo sul nostro cammino. Come diceva Thoreau, chi cammina solo può partire oggi, ma chi viaggia in compagnia deve attendere finché l’altro non è pronto. Ecco, di solito, nella compagnia, sono io quello che si fa attendere. Quello che non è pronto e non lo sarà mai senza l’aiuto altrui. A volte penso, quando parto con qualche gruppo organizzato, magari di ragazzi delle parrocchie, che qualcuno ha detto loro che, se accompagnano in vacanza e assistono persone con deficit, diventeranno persone migliori. Forse ne parleranno agli amici come di un’esperienza edificante, alcuni addirittura come un’opera di misericordia. Io mi chiedo quante persone ritengono di “fare del bene”, magari anche a se stessi, attraverso di me. Certo, non che non sia così: mettersi al servizio degli altri è sempre un comportamento meritevole. Ma anche la persona con deficit deve mettersi a disposizione degli altri. In viaggio in compagnia, fatica a dire la propria su orari, ritmi, spostamenti. Sta alle esigenze degli altri, non può fare ciò che vuole quando vuole, spesso non può fare proprio nulla da solo, senza dipendere da altri. Naturalmente questo vale nella vita di tutti i giorni, ma nella quotidianità, di solito, i ritmi sono scanditi in base alle esigenze della persona con deficit, perché ci sono familiari o operatori retribuiti che si prendono cura di lui. Questa è la grande ricchezza del viaggio fatto con amici: nessuno ha obblighi nei confronti di nessuno, proprio per questo la vacanza diventa uno scambio sincero e costruttivo di esperienze, di vite, di ritmi, di tempi, di abitudini. Anche il disabile deve dare prova di grande adattabilità, di pazienza, di tolleranza. Spesso, se si ha un deficit, si è meno flessibili, meno propensi alla condivisione e allo scambio. Si tende a diventare un po’ egocentrici, vagamente egoriferiti. Il clima più sereno della vacanza rende tutti i partecipanti, che abbiano o meno un deficit, più propensi all’apertura verso l’altro. La convivenza quotidiana con persone con cui, durante l’anno, si condivide poco più di un caffè, può diventare insopportabile, oppure portare a una comunione di vita bellissima. Dipende prima di tutto dalla capacità di adattarsi di ognuno di noi, dall’abilità nell’andare incontro ai ritmi e alle esigenze altrui. Se si impara ad andare d’accordo in vacanza, si tornerà a casa ben più tolleranti e aperti nei confronti del prossimo. I Greci, che pur estremizzando i paradigmi umani la sapevano lunga, usavano quella del viaggio come metafora principale della vita e dei cambiamenti cui una persona va incontro nell’arco della propria esistenza. Famosi sono i nostoi, i viaggi di ritorno degli eroi greci da Troia. L’Odissea è sicuramente il più celebre. Forse meno noti, ma altrettanto significativi, i viaggi di ritorno condotti da Nestore, da Menelao e da Agamennone. Tutti questi viaggi sono metafore sagge della nostra esistenza. Nestore rientra in Patria con facilità e, lì, riprende la sua vita serena, fra gli affetti familiari. Menelao deve penare di più per fare ritorno: impiega ben dieci anni, con vicende più vicine alle peripezie di Odisseo, ma, infine, giunto a Sparta è di nuovo riunito alla sua Elena e, con lei, conduce fino alla morte un’esistenza tranquilla. Questi paradigmi del lieto fine, sebbene diversi fra loro per la modalità di conquista dello stesso, sono quelli più vicini alla nostra sensibilità. Oggi sono talmente tante le brutture della vita, che tutti fantastichiamo sul lieto fine delle peripezie cui siamo sottoposti. C’è poi il paradigma di Ulisse, quello più celebre, dunque quello su cui più si è scatenata la fantasia di scrittori e poeti. Egli soffre molto durante il viaggio, deve affrontare ogni sorta di prova, eppure, al ritorno, la sua sofferenza non è terminata. Deve operare la propria vendetta nei confronti dei Proci, che occupano la sua dimora e insidiano la sua sposa Penelope. Questo incarna le paure dell’uomo moderno, la mancanza di certezze, la fatica della conquista che non trova quiete nemmeno al ritorno nella propria dimora, il desiderio di riscatto e di vendetta. Odisseo è un eroe moderno, tanto che alcuni autori hanno immaginato che egli non abbia trovato pace al suo ritorno, ma sia partito di nuovo dopo poco tempo, incapace di sottostare ai ritmi dei giorni tutti uguali della sua dimora. Poi, c’è il “non-ritorno” di Agamennone che, appena messo piede nella sua casa, viene ucciso per vendetta dalla moglie Clitemnestra e dall’amante di lei, Egisto. Queste sono le metafore della vita di tutti noi, finché il cristianesimo non introduce la prospettiva di un “ultimo viaggio”, quello definitivo, che nell’avvicinamento a Dio rende giustizia di tutte le peripezie affrontate nel nostro viaggio terreno. Questa “scoperta” del cristianesimo attribuisce un senso a tutto ciò che accade nel viaggio della vita, perché l’uomo è animale razionale, ma anche spirituale: sotto entrambi i punti di vista, necessita di un senso per tutto ciò che gli accade, di un determinismo nella propria esistenza, soprattutto per giustificare il male. Anche nell’Antico Testamento, la libertà degli Ebrei dall’Egitto comincia con un lungo viaggio verso la Terra Promessa, un viaggio lungo e difficile, intrapreso sulla fiducia nelle parole di Dio. Nel Nuovo Testamento, questo sarà il viaggio della nostra anima verso la redenzione, percorso irto di ostacoli, ma che termina con il premio più alto. Senza il cammino, il viaggio, arduo e pericoloso, non c’è salvezza, non c’è crescita personale, non c’è arricchimento e consapevolezza. Lo sapevano bene i pellegrini del Medioevo, che percorrevano strade ancora oggi così frequentate. Questo cammino, però, deve essere anche interiore, lo sapevano bene, ancora una volta, i Greci: è questo il senso del “conosci te stesso” dell’oracolo di Delfi, ripreso poi da Socrate. Lo sapeva ancora meglio Agostino, che, ne La vera religione, ha affinato il concetto: “noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas”. Ovvero: non uscire da te stesso, rientra in te, nell’intimo dell’uomo risiede la verità. Per trovarla dentro di sé, la verità, il cammino è irto e difficile proprio come quello materiale. Voglio concludere lasciando spazio alle parole della poesia Itaca di Costantino Kavafis, perché egli è, forse, quello che ha saputo cogliere con maggiore profondità la metafora del viaggio. Perché il viaggio, per essere tale, deve avere ben presente una meta: sia essa un punto di arrivo, noto o ignoto, o anche, semplicemente, il ritorno. Senza meta, ci si perde, ci si smarrisce. Si rischia di scegliere la via più facile, quella in discesa. Sono troppe le deviazioni fra cui perdersi, se non si ha un obiettivo fisso nella mente, se non si trova una direzione.
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Beati noi – Niente di… personale

 Ancora una volta, la mia attenzione è stata attirata da una definizione, da un problema che potrebbe sembrare solo linguistico, ma che nasconde un significato ben più profondo. Ultimamente, ho dovuto affrontare diverse pratiche burocratiche il cui oggetto, per un motivo e per l’altro, era sempre la mia disabilità. Nei documenti ero “affetto” o “portatore” di handicap. Francamente, non saprei dire quale termine mi abbia fatto più pensare.

“Portatore” mi richiamava la pesantezza di un fardello, come se l’handicap fosse non solo una mancanza di qualcosa, ma un carico troppo gravoso per le mie spalle. L’“affetto” richiamava l’ambito linguistico della malattia, mentre io non sono affatto malato. Al di fuori dei documenti, invece, ero una “persona con handicap”. Questa è stata la definizione che mi ha fatto pensare più di tutte. Anche se è una locuzione che mi sento attribuire da quando sono nato, ogni tanto si è più portati, vuoi per uno specifico contesto, vuoi per una particolare disposizione d’animo in cui ci si trova in un dato momento, a riflettere sulle cose. 

Persona con handicap: significa alla lettera persona con qualcosa in meno, o in più? Con qualche difetto? Chi non ha qualcosa in meno, o in più, degli altri? Questo pensiero mi ha indotto a riflettere sul concetto di persona. Questa parola, così abituale nel nostro linguaggio, nasconde una lunga storia di pensiero filosofico dietro di sé. Nell’antica Grecia, la “persona”, pròsopon, era la maschera che stava davanti al volto degli attori di teatro, che non solo ne alterava i tratti, ma ne modificava, amplificandola, anche la voce. Per gli antichi, dunque, la persona che siamo è semplicemente una maschera che indossiamo a favore del pubblico, di coloro che ci circondano. “Persona con disabilità” sembra una di quelle ben note definizioni aristoteliche, composte di genere prossimo e differenza specifica. Il genere persona è condiviso fra tutti, mentre l’handicap differenzia dagli altri. Appare paradossale, però, che ciò che differenzia il disabile dal resto delle “persone”, ovvero un qualche deficit, è ciò che genericamente, per contro, accomuna tutti i portatori di deficit fra loro, anche se ogni handicap, ogni caratteristica in più o in meno è diversa per ogni singolo individuo. Ma si sa, per la legge, ma anche per l’immaginario comune, la categoria “handicap” è un immenso calderone in cui finisce veramente un po’ di tutto. Se il genere “persona” ha la funzione di accomunare, la specifica “con handicap” o “con disabilità” è ciò che mette in relazione con l’altro, perché si riferisce non all’individuo in sé, ma a un confronto con chi, invece, non ha questa caratteristica, non “porta addosso” alcun handicap o mancanza. Per definire la “persona con handicap” si è scomodata addirittura la legge, la 104/92, che fornisce una simile definizione: “persona che, a causa del proprio stato, subisce una condizione tale da determinare un processo di svantaggio sociale, di emarginazione. Come cittadini a pieno titolo, le persone con disabilità hanno gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino e, in particolare, il diritto alla dignità, alla parità di trattamento, a una vita autonoma e alla piena partecipazione alla vita sociale”. Insomma, per la legge il cittadino con handicap è tale solo se viene discriminato ed emarginato. Posto che è faticoso per tutti far valere i propri diritti di fronte alla legge, handicap o no, non si capisce per quale motivo il soggetto disabile è tale solo se è socialmente emarginato. Ovviamente può capitare che avvenga questo, ma accade anche a chi non ha alcun deficit, mentre a chi ce l’ha, come nel mio caso, può benissimo non accadere.
La mia formazione filosofica mi ha indotto a riflettere anche sul concetto di persona. In questo periodo in cui la bioetica e la medicina si interrogano continuamente su chi sia “persona” e chi no, se l’embrione o l’ammalato in fin di vita siano persone oppure no, questo concetto è messo a dura prova sotto diversi punti di vista. Tutti i filosofi si sono interrogati su quali fossero i criteri per definire la persona. Alcuni hanno ideato teorie fantasiose, altri hanno posto l’accento solo su alcuni aspetti. I primi filosofi che hanno inteso la persona come noi oggi sono stati i filosofi medievali, su tutti Boezio e Tommaso d’Aquino. Essi, profondi conoscitori delle dottrine aristoteliche, criticavano la scelta dello Stagirita di parlare dell’uomo come un’anima razionale unita a un corpo. Per loro non era possibile definire persona l’uomo in generale, ma solo un individuo concreto, unico e irripetibile. I filosofi antichi privilegiavano l’universale rispetto all’individuale, basti pensare all’importanza che avevano le Idee per Platone e le categorie per Aristotele. La filosofia cristiana medioevale, invece, sposta l’attenzione sull’individualità. Tommaso risolve l’aporia aristotelica del dualismo corpo-anima col principio di individuazione: quest’ultimo è la materia, ma l’individualità dell’uomo non consiste nel suo corpo. Infatti, ciò che dà essere e determinazione a un corpo è l’anima (forma): è quest’ultima che, unendosi a una certa materia, si individualizza. Forti di questa certezza, essi avevano innalzato la persona a ciò che vi è di più perfetto nell’intera natura. Celebre è la definizione di Boezio: la persona è sostanza individuale di una natura razionale. Secondo il filosofo, era proprio questo il significato dell’imperativo socratico “conosci te stesso”, ciò che definiva, appunto, il “te stesso”. Infatti, tutti noi ci sentiamo persona, ci sentiamo diversi e divisi dagli altri, ma accomunati dall’essere persone. L’identità personale è sempre stata di difficile definizione per la filosofia. Cartesio la risolve nel pensiero: penso, dunque sono. È questo che mi dà la certezza del mio essere persona. Locke, invece, circoscrive il problema della natura del soggetto nella continuità della coscienza: la persona, secondo lui, è un essere intelligente e pensante, che possiede ragione e riflessione, e può considerare se stesso in diversi luoghi e tempi. Da queste parole si evince il cambio di prospettiva con cui Locke guarda alla res cogitans. Secondo Locke, non è la persistenza della sostanza a far sì che un essere umano sia una persona, bensì è la continuità della coscienza (la memoria) a ricoprire il ruolo principe per poter parlare di persone. Dunque le persone prive di memoria? Non sono più persone o non sono più le stesse persone? Per ovviare alla possibilità paradossale che una persona senza memoria non sia più tale, Hume pone l’accento sulle sensazioni attuali, non solo su quelle ricordate: “quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso m’imbatto sempre più in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione”. Da qua in poi, la concezione della persona prende sempre di più la direzione dell’autocoscienza, dell’introspezione. Un concetto così intuitivamente forte come quello di persona, che distingue e individua come nessun altro, non è facile da manifestare col linguaggio. Ora, tanta filosofia contemporanea ha cercato di sminuire la dignità di persona di tanti individui che non avevano determinate caratteristiche sensoriali, di autocoscienza, di memoria di sé. Eppure, chi può dire quale sia la percezione di sé che hanno certe persone affette da handicap anche molto gravi? Spesso, semplicemente, non sono in grado di esprimersi, ma è evidente che quello che fa la persona non è solo una sua caratteristica visibile come un deficit qualsiasi: se quest’ultimo la individua, ecco allora che anche un deficit fa la peculiarità di un individuo. Come tutte le persone, anche quella con un qualche handicap si distingue dalle altre, non importa per cosa: in fondo, non abbiamo tutti gli occhi azzurri e nessuno si sente meno persona se non li ha.
 

 

Beati noi – La malattia diversamente immaginata

 
Prima la malattia di mia madre, poi di tre miei amici carissimi, infine la mia, seppure lieve, mi hanno portato a riflettere su questo argomento. La prima cosa da dire è che, nel corso dei miei 50 anni di vita, tantissime volte sono stato definito malato quando non lo ero. Insomma, pare sia impresa impossibile far capire ai più che quando ho l’influenza, sì, sono malato, ma normalmente non lo sono. Il mio deficit è una caratteristica fisica, non è una malattia.

Non è contagioso, non si trasmette, anche se in passato le future mamme in attesa mi hanno evitato perché temevano che qualcosa si attaccasse ai loro pargoli nel grembo solo per via di uno sguardo (che potenza mi viene attribuita, impressionante davvero, meglio delle armi batteriologiche!). Altre volte, è stato chiesto espressamente a mia madre se ero contagioso. Il mio handicap, la mia particolare condizione fisica, porta con sé maggiori difficoltà e, talvolta, maggiore cagionevolezza di salute rispetto ad altre persone, ma è vero anche che conosco persone apparentemente “sane” che, nei fatti, sono ben più malate di me. Mia mamma e gli amici che ho citato prima hanno affrontato la malattia in modi molto diversi fra loro, dovuti anche alla differenza di età e situazioni di vita, ma tutti in modo davvero esemplare. Nel caso di mia mamma, la preoccupazione unica era dovuta al fatto di lasciare me senza la sua guida e il suo aiuto. La malattia, che la accompagnava da tanto, era solo un impedimento alla sua vita con me e per me, non alla sua esistenza in quanto tale. Mai l’ho sentita dire qualcosa di diverso. Tutto ha sopportato con grande coraggio, fino a quando le è stato concesso di potermi assistere, seppure sempre più faticosamente. La mia amica, invece, è giovane, ha una figlia adolescente. Il suo approccio alla malattia è stato totalmente diverso. È una scienziata, quindi il suo approccio è stato molto tecnico, molto razionale. Ha scritto un blog, ha analizzato scientificamente ogni aspetto della terapia, ha usato tutta l’ironia di cui era capace nel suo racconto, ha prontamente fatto fronte grazie a essa ai momenti di sconforto. L’altro amico ha interpretato la malattia come una grazia divina, qualcosa che gli ha fatto apprezzare le cose importanti della vita. Questo coraggio mi ha ricordato l’esperienza di un’altra amica, Chiara M., autrice del bellissimo libro dal titolo Crudele, dolcissimo amore, in cui affronta una grave malattia degenerativa, che chiama semplicemente “Lei”, senza mai nominarla, come occasione di riscoprire nella propria vita l’amore di Dio per i Suoi figli. 
 
La malattia, insomma, viene affrontata in molti modi, a volte cambia le persone, altre volte sono le persone a cambiare “lei”. Spesso, cambia anche chi sta vicino al malato, ne cambia la vita, i tempi, i ritmi, ma anche i valori, le speranze, le aspettative per il futuro, la visione del passato, dei rapporti personali, delle amicizie, del prossimo. La malattia ha generato mostri, pazzi e poeti, artisti e assassini. Si dice che Lucrezio abbia scritto il suo De rerum natura per intervalla insaniae, cioè nei momenti di lucidità dalla sua follia d’amore. Monet era afflitto da gravi problemi alla vista quando dipingeva le sue opere migliori. Le malattie mentali sono quelle che meglio si prestano a questa interpretazione. James Hillman, rielaborando la frase di Jung “gli Dei sono diventati malattie”, evidenzia che l’esclusione delle forze divine, un tempo presenti nella vita dell’Uomo, oggi sta causando malattie e patologie, sta distruggendo armonia ed equilibri. La malattia mentale di alcuni risulta molto affascinante, quindi altrettanto pericolosa, perché spesso celata e insospettabile. La follia viene scambiata per genialità, attira le masse, porta alla distruzione. Hitler potè agire come agì perché la sua lucida follia trascinò un intero popolo. Grandi predicatori e sobillatori di masse le ammaliavano proprio in virtù della loro anormalità. Sabbatai Zevi, che si autoproclamò a metà del Seicento Messia per il popolo ebraico, essendo poi costretto all’abiura con grande delusione dei suoi seguaci, era affetto da un grave disturbo bipolare della personalità. Spesso la normalità stanca, sembra poco moderna, poco stimolante. La follia libera dagli schemi mentali, dalle sovrastrutture, dalle inibizioni. La malattia è rivelatrice di se stessi e del rapporto con gli altri. Quante volte ci capita di giudicare gli amici per quanto ci stanno vicini o meno nel momento dell’infermità? Il coniuge, nel rito cattolico, lo si sposa “nella salute e nella malattia”. È indicativo che questo venga citato insieme alla più generica formula “nella buona e nella cattiva sorte”. Non era sufficiente comprendere la malattia fra i casi di “cattiva sorte”? Evidentemente no, perché niente come la malattia, subita o assistita, ci pone di fronte alla nudità dell’anima del malato e di chi gli sta vicino. Thomas Bernhard, nel bellissimo libro Il nipote di Wittgenstein, che è ambientato in un ospedale viennese, racconta il rapporto fra due amici nella infermità di entrambi, il narratore ai polmoni, il nipote del celebre filosofo in preda a una grave malattia mentale. In realtà, pare che Bernhard abbia romanzato il suo rapporto con l’amico proprio per tacitare il senso di colpa che nutriva nell’averlo abbandonato nel momento del bisogno. Ma se non è del tutto aderente al vero la narrazione dell’evoluzione del loro rapporto di amicizia nel periodo della degenza ospedaliera, lo è la descrizione dell’intimità spirituale che i due raggiungono di fronte al dolore e alla morte. Intorno, la società prevede come unica cura la compassione, in alcuni casi un altezzoso distacco. 
 
Il malato mentale spesso rifiuta la cura. Questo, insieme ad altre peculiarità di questo tipo di malattia, genera nei più una visione colpa-punizione. Il pregiudizio che vede la malattia generata da una colpa ha radici ataviche. Nelle culture antiche era addirittura il peccato dei padri che veniva scontato attraverso handicap o malattia dei figli. Da qui il bisogno della teodicea, della grande domanda si deus est, unde malum? Da qui, i grandi interrogativi dei filosofi e dei teologi sul dolore innocente, sul perché delle malattie dei bambini, degli innocenti. La malattia è ancora vista come una punizione divina, come qualcosa che si è meritato, che ci si è cercati. Per alcune malattie psichiatriche il pregiudizio è molto radicato, si suppone che il malato non si aiuti, non partecipi al processo di guarigione che viene avviato per lui dai medici, che non voglia in realtà guarire, ma che intenda coltivare la sua pazzia come protesta o fuga nei confronti della società, del mondo. Nella malattia non c’è colpa, non è un modo per espiare i peccati, men che meno quelli dei padri. Questa rivelazione è il primo “scandalo” del cristianesimo, che venera un Dio fatto uomo, sofferenza fisica inclusa. Poi insegna che “visitare gli infermi” è una delle sette opere di misericordia corporale, che addirittura fa ottenere le indulgenze giubilari al pari della visita alle Basiliche. 
 
Le persone sono giudicate sulla base delle loro malattie. Subì questo trattamento anche Nietzsche che, ironia della sorte, scrisse proprio che la malattia e il modo di affrontarla è rivelatrice dell’animo delle persone. Solo di fronte alla malattia e alla sofferenza l’uomo è se stesso. Da quando si diffuse la voce che Nietzsche era pazzo, forse perché affetto da sifilide, tutte le sue opere sono state lette solo alla luce di questa follia, la critica le ha interpretate esclusivamente in questa direzione. La malattia diventa la persona e viceversa. Il malato si identifica e si ricomprende solo nei confini della sua malattia. Figuriamoci se ci troviamo di fronte a un handicap “trasparente” come il mio: una malattia si può nascondere, la mia disabilità no, essa mi rende più trasparente degli altri, sono obbligato a mostrare i miei limiti al mondo. Ecco, quando nella mia vita ottengo di essere guardato al di là del mio handicap, oltre alla mia fisicità così caratteristica, e ottengo di non essere identificato con il mio deficit, come in una enorme, paradossale sineddoche letteraria, che indica la parte per significare il tutto, ebbene, ognuna di queste volte io sono io, non una singola caratteristica di me, solo più evidente delle altre. In conclusione, ognuno immagina e vive in modo diverso la propria condizione, anche quando dal punto di vista medico ci si trova di fronte alla medesima infermità.
 
 

Beati noi – La seconda navigazione

Si è tenuto di recente un convegno organizzato dall’Unar, l’ufficio del Ministero delle Pari Opportunità contro le discriminazioni razziali. L’argomento riguardava tutte le forme di discriminazione: handicap, sesso, età, razza, genere, religione, idee politiche e via dicendo. La mia amica e collaboratrice Chiara ha partecipato a questo incontro e me ne ha riferito. Parlando con lei sono emersi alcuni temi a me molto cari.

Durante il convegno la Chiesa Cattolica è stata accusata di non avere ancora firmato la convenzione internazionale sui diritti delle persone disabili. Il Vaticano è l’unico stato che insieme al Quatar non ha sottoscritto questo documento. Ciò è dovuto al fatto che tra gli altri diritti contenuti nella carta c’è anche il diritto di aborto per le donne disabili. Naturalmente la Chiesa non può accettare che l’aborto passi per un diritto: non può fare una discriminazione tra le donne normali e quelle disabili. Le cose non sono mai come appaiono, è sempre necessario fare lo sforzo di una “seconda navigazione”, come diceva il buon vecchio Platone. Occorre avere uno sguardo profondo sulle cose prima di fare delle valutazioni. Ci si potrebbe interrogare sull’opportunità di questo rifiuto della Santa Sede. Non firmare un documento così importante e significativo per le persone con disabilità per colpa di un singolo articolo può sembrare poco lungimirante ma per la Chiesa la vita è un’unica realtà e il diritto alla vita nasce dal momento del suo concepimento e comprende l’intera esistenza umana. Perché permettere ai soggetti più deboli quello che si nega a tutti gli altri? Hanno meno dignità di cristiani i soggetti disabili? Forse che il peccato della persona con deficit è meno grave di quello degli altri? Le cose, dicevamo, non sono mai quelle che sembrano. Prendiamo l’esempio dell’esposizione mediatica che stanno avendo in questo momento le persone affette dalla sindrome di Down. Le possiamo vedere dalla De Filippi, a Buona Domenica, al telegiornale. Nei primi due casi vengono usati come intrattenitori e imbonitori del pubblico, che ride di fronte ai loro limiti, alle piccole manie, alle loro quotidiane difficoltà. Non è chiaro come abbia scoperto questo filone aureo, ma la De Filippi ha fatto passare via etere il messaggio che tutti i ragazzi Down sono terribilmente tirchi. Da questa scientifica osservazione esperita sul campo, eccola invitare amici e parenti a proporre al giovane scambi improbabili fra il loro sorridente porcellino salvadanaio e l’autografo del divo di turno. Poi, tutti a raccontare al pubblico le loro ingenuità e debolezze. I critici televisivi, tutti a dire che la Maria nazionale fa opera di bene contro le discriminazioni e i luoghi comuni sui deficit cognitivi. A me, invece, quei poveri ragazzi, inconsapevoli di essere stati risucchiati dal calderone mediatico che ci viene propinato ogni giorno, fanno tanta pena. Loro e le loro famiglie. Quelli che guardano queste trasmissioni magari sono gli stessi che, poi, pubblicano su Facebook i gruppi del tipo “Picchiamo i ragazzi Down”. Poi, ci sono quelli che, davanti a questi gruppi, si stracciano le vesti, si scandalizzano, alzano la voce, invocano la forca per gli autori. Ma fanno tutto ciò allo stesso modo in cui lo fanno per i gruppi che inneggiano alla violenza sui cani. Queste sono le stesse persone che non hanno mai nemmeno rivolto la parola a un giovane Down, non sanno neppure che tale sindrome non è una malattia, sono gli stessi che chiedono alle mamme dei bambini con la trisomia 21 se sono contagiosi per la loro prole, sono quelli che parcheggiano regolarmente nei posti riservati ai disabili. Parliamo delle stesse persone che forse non hanno mai chiesto a un genitore se avesse bisogno di aiuto nell’assistenza di un figlio disabile, che non conoscono la differenza fra una disabilità motoria, cognitiva e sensoriale, che propugnano un approccio medico nei confronti dell’handicap, quando il vero malato è solo il contesto sociale che rende tali le persone con deficit. Sono i medesimi individui che stabiliscono che, per legge, si diventa anziani a 65 anni, anche se si è disabili, perciò, al fatidico compleanno si passa dalla gestione dell’Asl competente a quella del servizio anziani. Così, a 65 anni, la persona con deficit cognitivo, anche grave, si ritrova a giocare a tombola insieme a tanti arzilli vecchietti, anche se, magari, non sa nemmeno contare fino a dieci o è sordo e non sente quando chiamano i numeri. E si arriva a rimpiangere persino l’attività di infilare perline per ore al centro diurno, per sviluppare le capacità di discernimento e riconoscimento di operazioni manuali semplici (e vorrei capire chi ha stabilito che infilare microscopiche perline in un filo trasparente è una operazione semplice). Tutto questo scandalizzarsi del sorgere di gruppi a derisione dei ragazzi Down fa seguito a problemi reali e quotidiani che sono ben più gravi di uno sparuto manipolo di bulletti che perde tempo a creare pagine sciocche sui social network. Forse bisognerebbe cominciare dall’imparare a non dare del tu a tutti i disabili indistintamente. Si potrebbe iniziare ad evitare di trattare i disabili fisici e sensoriali come se avessero anche deficit cognitivi, di lasciare il peso di tante, gravi situazioni solo sulle spalle delle famiglie, di costruire barriere architettoniche nei modi più sconsiderati, di pensare che un disabile non possa avere alcuna autonomia, di mettere le carrozzine nei cinema sempre in prima fila. Persino i sostenitori delle “classi miste” si stanno ricredendo. Dopo tante campagne in nome dell’integrazione, si comincia a capire che, forse, un bambino disabile si sente più realizzato e meno frustrato quando si trova fra coetanei nella sua stessa condizione di deficit. Solo a parità di condizioni di partenza, si possono apprezzare e vedere valorizzati i propri talenti. Questa è la vera non-discriminazione: permettere anche ai disabili di essere considerati diversi, senza timore, nel farlo, di passare per “politicamente scorretti”. Per uscire da tutti questi luoghi comuni è davvero necessaria una seconda navigazione e forse anche una terza per continuare la ricerca. L’errore più grave è quello di dare qualcosa per scontato e non cercare più.

 

Beati noi – Un lavoro che vale doppio

Prima, serve/i. Poi, colf, termine inventato dal sen. Giovanni Bersani come acronimo di collaboratrici/ori familiari. Oggi, badanti. Quasi tutte donne, perché il lavoro di cura è pressoché sempre sulle spalle delle donne, in tutte le società e le culture. Le badanti sono coloro che badano. Come il mandriano bada il bestiame… perché nelle versioni di latino e greco del liceo “badare” si trova per lo più riferito a questo. Delle persone ci si prende cura, non si “badano”. Questo verbo non prevede una reciprocità dell’azione, ma nemmeno una vera e propria attività, perché badare una persona letteralmente significa vegliarla, prestarle attenzione. “Bada!” è un ammonimento che significa “Stai attento!”, ma ancora una volta non c’è reciprocità. Invece la badante non dovrebbe semplicemente stare attenta a una persona, tanto meno se questa, come nel mio caso, non è un anziano, bensì un adulto con handicap bisognoso di cure ben più ampie del cambio pannolone – preparazione brodino – pastiglina serale – messa a letto. Da quando è mancata mia mamma, di “badanti” ne sono passati/e in casa mia una quantità indefinita. Ma, sempre, il filo conduttore è stata la reciprocità e lo scambio. Non solo prestazione d’opera – salario, come in un qualsiasi altro rapporto di lavoro subordinato. Sono stati due bisogni a cercarsi e a unirsi. Il mio, di assistenza continua. Il loro… di una casa, di uno stipendio, di una nuova opportunità di vita, spesso lontano da casa, di un lavoro, cui in Italia si lega inscindibilmente la permanenza sul territorio per gli stranieri. Purtroppo molti di loro avevano delle carenze. Per lo meno, delle incompatibilità con i miei bisogni. Tante delle loro caratteristiche o esperienze mi hanno fatto pensare. Ho conosciuto Paesi e culture così lontane e diverse da non averle neppure sentite nominare prima. Ho incontrato fedi diverse e mi sono stupito di quante analogie avevano col mio credo. Mi sono sentito dire da un giovane africano che qua in Italia rinneghiamo la fede che abbiamo insegnato loro ad avere, quasi come se volessimo significare che a loro abbiamo trasmesso i residui delle nostre credenze che per noi non sono più tali. Così come in Africa arrivano i nostri abiti dismessi, i farmaci avanzati e spesso scaduti, gli occhiali fuori moda, così abbiamo dato loro una religione di cui noi stessi non abbiamo più rispetto. Ora sono loro a insegnare a noi la fede, la speranza, la carità. Ho imparato che, se fuggi dal tuo Paese perché perseguitato, per avere asilo politico altrove devi rinnegare la tua identità. Ho capito che se non possiedi i documenti e il permesso di soggiorno, non sei nemmeno considerato una persona. Ho appreso la necessità che chi mi assiste parli la mia stessa lingua o, almeno, la capisca. La comunicazione è fondamentale nello scambio assistenziale. Se io non posso far comprendere i miei bisogni, a causa delle difficoltà linguistiche, la cura di me non potrà essere adeguata. L’aspetto che più mi ha fatto riflettere di questa considerazione è il fatto che io sono un convinto assertore delle infinite possibilità delle forme alternative di comunicazione, specie di tutte quelle non verbali. Tuttavia, ho compreso che comunicare un pensiero, una riflessione, uno stato d’animo o, in generale, qualcosa di totalmente teorico è differente dal comunicare una necessità fisica. Non solo: anche nella comunicazione per così dire alternativa, è comunque necessario che chi riceve la comunicazione comprenda la lingua di chi la emette. Non importa come vengono comunicati i bisogni, ma è necessario che vengano compresi. Poi, magari, la persona anziana non ha particolari esigenze da comunicare, spesso è demente o si accontenta di avere qualcuno che ascolti i racconti di epoche passate e di anni lontani, senza che necessariamente vi sia interazione. Ma io ho bisogno di qualcosa in più di un cambio e una minestrina, in caso contrario il mio deficit fisico si trasformerebbe in un deficit di relazioni umane paritarie, in una mancanza di qualcosa che va oltre una difficoltà materiale e si trasforma in un vuoto morale. Questo trovarsi di due bisogni complementari deve poter comprendere la scelta, da parte di entrambi. Spesso, la burocrazia, insieme alla necessità, fanno passare in secondo piano la scelta. Quando una professione prevede la relazione umana in maniera così predominante come avviene per il lavoro di cura, anche il lavoratore deve poter scegliere il suo datore di lavoro. Non a caso, il contratto di lavoro domestico ha due caratteristiche significative. La prima, che è tendenzialmente a tempo indeterminato. Questo è un buon segno del non voler porre limiti di tempo fin da subito a un lavoro legato così strettamente ai bisogni di un’altra persona, che non ha una “data di scadenza” come oggi, purtroppo, quasi tutte le professioni hanno. La seconda, che per il licenziamento del lavoratore non occorre la “giusta causa”. Insomma, non è necessario che il lavoratore domestico abbia tutte le caratteristiche più negative che di solito inducono il datore di lavoro al licenziamento. Semplicemente, due persone, prima ancora che due bisogni, si devono trovare. Nessuno dei due può imporre all’altro di piacergli, sebbene si possano imporre regolamenti lavorativi, ritmi, abitudini, convivenza. Anche il periodo di prova è sufficientemente lungo per far sì che le incompatibilità risaltino. Inoltre, ho notato che spesso mi sono trovato meglio con persone di culture tanto lontane dalla mia che con altre provenienti dal quartiere accanto. Ho imparato che l’essere amici con qualcuno non comporta il fatto che lo scambio di amorosi sensi che sussiste fra le due anime implichi un eguale scambio di cure e assistenza materiale. Ho capito che persone piacevolissime, in grado di offrirmi impareggiabili momenti di elevazione spirituale, non sono adatte a offrirmi similari momenti di basso aiuto sostanziale. Per contro, assistenti abilissimi non hanno saputo regalarmi più di uno stiracchiato saluto, subito seguito da un’accurata igiene personale che mai ha previsto la benché minima conversazione. Quest’ultimo aspetto mi ha indotto a pensare che forse il rapporto di lavoro che intercorre fra due persone esclude di per sé la sincerità del rapporto umano. In fondo, lo scambio è del tutto materiale. Ma può valere anche per il lavoro di cura? Da filosofo, questa esperienza mi ha fatto pensare al concetto di cura di sé in Foucault. Il precetto di prendersi cura di se stessi era, per i Greci, uno dei principi basilari della vita sociale e personale. Per noi, oggi, il concetto si è, in sostanza, sdoppiato. Il prendersi cura di sé inteso come il porre attenzione al proprio corpo, al proprio aspetto, è considerato in contrapposizione al concetto più apollineo, per usare un termine nietzschiano, del coltivare adeguatamente la propria interiorità. Il precetto delfico “conosci te stesso” è stato posto in primo piano dalla nostra tradizione filosofica, come se fosse in netto contrasto con la possibilità, contemplata, invece, dagli antichi, di conciliare le due cose, anzi, di considerarle strettamente connesse. Si pensi al concetto greco di kalokagathia, che fa corrispondere la bellezza esteriore alla bontà d’animo. Mi è venuto spontaneo, pertanto, chiedermi se non avevano forse ragione i Greci. In fondo, se io non mi prendo cura del mio corpo, che ha dei deficit, e se non sopperisco a tali mancanze con aiuti esterni, come potrei prendermi cura della mia anima? Allora, forse, il lavoro di cura ha qualche responsabilità in più del menage igiene – somministrazione pasti e farmaci – messa a letto. Forse, dobbiamo prendere coscienza che siamo “nani sulle spalle di giganti”, come diceva Bernardo di Chartres riferendosi agli antichi, e arrenderci al fatto che la cura di sé passa a uguale velocità dal corpo e dallo spirito. Il corpo non è solo la prigione dell’anima, come sosteneva Platone, ma anche ciò che permette all’anima di stare ben piantata su questa terra. Dunque, chi cura il mio corpo è colui che mi permette di avere cura della mia anima, di dedicarmi al mio otium filosofico senza preoccupazioni materiali. Insomma, bisogna che il mio “badante” abbia un aumento…

Beati noi – Persona diversamente comunic-abile

Della recente vicenda di Eluana Englaro, la giovane in stato vegetativo permanente dal 1992 in seguito a un incidente, colpisce una cosa, fra le tante. Per lei, ora, il padre chiede l’eutanasia, da procurarsi per mezzo della sospensione del nutrimento che le viene somministrato per via parenterale. Sembra che la causa del dibattimento sulla liceità dell’indurle la morte sia un difetto di comunicazione, in vari sensi.

Prima di tutto, la legge si è a lungo interrogata se fosse legittima la richiesta di eutanasia, considerando il fatto che la ragazza, prima dell’incidente, non aveva comunicato in forma verificabile e certa la volontà di porre fine alla sua vita, se mai si fosse dato il caso del coma irreversibile. Il padre, per contro, sostiene che, invece, tale volontà gli fosse stata comunicata proprio dalla stessa Eluana, in occasione di un caso analogo capitato a un amico. Ma ben più grave è il fatto che l’impossibilità di comunicare in modo “canonico” della ragazza sia da molti considerata la prova principale del suo declassamento da “persona” a “oggetto inanimato”. La ragazza non solo non si nutre autonomamente, non è in grado di muoversi, né di provvedere a se stessa: il deficit fondamentale è quello comunicativo. Chi le sta vicino, tuttavia, riferisce di come, impercettibilmente, ella avverta che qualcuno si sta prendendo cura di lei, che qualcuno le parla, le si avvicina. In ogni caso, fa riflettere il giudizio restrittivo di “comunicazione” che viene dato nel considerare la vicenda. Sono tanti i deficit comunicativi possibili, e questo avviene su due livelli. Nel primo, le persone comunicano fra loro in modo del tutto “normale”, ma non si capiscono. Nel secondo, c’è qualche ostacolo fisico o psichico alla comunicazione. Per il primo caso, si può ricordare una frase molto significativa di Pirandello, in Sei personaggi in cerca d’autore: “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose, ciascuno un suo mondo di cose. E come possiamo intenderci, signore, se nelle cose che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me, mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci, ma non ci intendiamo mai”. Quando comunichiamo, in qualunque modo lo facciamo, l’aspetto più rilevante è lo scambio con altri individui. Chiaramente, durante questa transazione di contenuti, qualcuno può andare perso, la possibilità del fraintendimento è molto alta, ma anche questa è una ricchezza della comunicazione. Lo scambio arricchisce, anche e soprattutto quando ci si deve sforzare e ingegnare per farsi comprendere dall’altro. Questo è un bisogno primario e fondamentale per l’uomo. Solo se io individuo una parola per identificare un oggetto, potrò portare sempre con me quell’oggetto e farlo conoscere a tutti, anche a quelli che lo avranno visto solo attraverso le mie parole. Una volta posseduto il vocabolo che identifica una cosa, io possiedo quella cosa, la conosco. E se una cosa la ho, la posso dare agli altri. Se l’altro percepirà lo stesso oggetto in modo differente, questa diversità sarà una ricchezza per entrambi, non una limitazione alla comunicazione. L’uomo ha bisogno di comunicare perché non basta a se stesso: ha bisogno dello scambio con l’altro, necessita di lasciare qualcosa alle generazioni a venire, desidera diffondere il sapere e le conoscenze. Tutto ciò è insito nella natura umana, ma basti pensare che la comunicazione è un bisogno fondamentale persino degli animali. Quando comunichiamo non vogliamo soltanto dire delle cose, vogliamo essenzialmente donare ad altre persone qualcosa che ci appartiene. Spesso, la verità delle cose sembra cambiare a seconda di come vengono trasmesse. Sicuramente non la verità ontologica né quella logica, ma la potenza di una comunicazione indirizza il pensiero di chi la percepisce. Oggi la comunicazione è fondamentale, interessa più il “come” si comunica un concetto del “cosa” si sta trasmettendo. Oggi, la comunicazione viene percepita come un’arte che possa convincere l’altro di qualcosa. Invece, la comunicazione dovrebbe essere uno scambio di conoscenze. Nella sua forma più elementare, il linguaggio verbale, ciò è particolarmente evidente, perché le parole, le lingue, i termini, nascono proprio a questo scopo. Ma anche a un simile livello basilare, la comunicazione presenta difficoltà notevolissime. Si pensi alla varietà immensa delle lingue parlate, antiche, moderne, artificiali, ecc. Già secoli fa la Bibbia si interrogava sui motivi delle differenze linguistiche, spiegandole con l’immagine della torre di Babele. I filosofi si sono interrogati e hanno ricercato la lingua perfetta, quella che tutti potessero capire, dai linguaggi matematici formati da numeri, a quelli simbolici, a esperimenti quali l’Esperanto. Per secoli, il latino è stata un po’ una lingua universale, oggi è l’inglese che tenta di prenderne il posto, ma finora i tentativi di diffusione di un linguaggio che sia realmente e totalmente globale sono falliti: infatti, per essere tale, un linguaggio dovrebbe far scomparire tutti gli altri, sostituendoli, non affiancandoli.
Tuttavia, tornando al nostro secondo punto, non tutti hanno la capacità fisica o psichica di comunicare attraverso il linguaggio. O meglio, non tutti hanno la possibilità di farlo attraverso un linguaggio verbale. Non per questo la comunicazione deve avere meno valore o essere meno efficace. Non per questo, chi comunica in modi insoliti non deve essere ascoltato. Sono tantissime, oggi, anche grazie ai progressi della tecnologia, le forme alternative di comunicazione. Si pensi al linguaggio dei segni, che permette alle persone non udenti di capire e farsi capire perfettamente, al metodo della lavagnetta di plexiglas trasparente con le lettere, al metodo per immagini Bliss, ecc. A volte, grazie ad ausili informatici sempre più raffinati, basta un battito di ciglia per trasformare un pensiero in una parola. Nel mio caso, per esempio, la comunicazione avviene in maniera verbale, ma, da parte mia, in modo molto più lento e difficoltoso del normale. Pertanto, chi mi ascolta potrebbe anche reagire perdendo la pazienza, smettendo di ascoltare. Invece, quasi sempre mi capita che la lentezza con cui parlo catturi più facilmente l’attenzione, perché permette agli ascoltatori di capire ogni singola parola, di avere il tempo di ripensare a tutti i concetti che sto esprimendo, eventualmente di scriversi tutto il discorso senza rischiare che le idee fondamentali vadano perse fra gli appunti e i riassunti. Lo sforzo di attenzione che richiede il fatto di seguire il mio discorso viene premiato dalla completezza del risultato della trasmissione verbale. Dunque, la “comunic-abilità” ha tante forme quante sono le persone.

 

Beati noi – Una squadra speciale

Navigando in internet mi sono imbattuto in una storia che mi ha incuriosito molto e che mi ha fatto riflettere sulla percezione che ogni persona ha dei propri limiti: è quella del Team Hoyt. Su YouTube circolava un video, di quelli con frasi a effetto che si susseguono sullo schermo sopra le immagini, con annesso sottofondo musicale strappalacrime… Ho voluto approfondire la storia dei protagonisti, al di là della realtà romanzata del video. Ho scoperto un padre e un figlio, con nomi che all’inizio mi hanno fatto sorridere: Dick e Rick. Nomi abbastanza banali, e anche la storia dell’handicap di Rick mi è sembrata altrettanto banale: nato con il cordone ombelicale stretto intorno al collo, ha subìto una paralisi cerebrale per la mancanza di ossigeno al cervello. Una storia abbastanza comune, forse, almeno fino a qualche anno fa, uno dei modi più frequenti per acquisire un deficit da parte di un bambino sano. Anche gli anni a venire sembrano segnati da una “normalità dell’handicap”: un bambino sveglio intrappolato in un corpo totalmente inattivo, i dottori che vedono Rick solo come un vegetale, che non ne riconoscono l’intelligenza, che lo condannano alla previsione di una vita da “pianta da appartamento”.
I genitori, invece, ne scrutano l’intelligenza e, qui, la mia prima sorpresa, il dettaglio che mi fa intuire che la storia del Team Hoyt merita uno sguardo più approfondito. I genitori di Rick convincono il suo medico riguardo alle sue capacità intellettive chiedendo al luminare di raccontare una barzelletta a Rick. Il medico racconta perplesso una di quelle freddure che fanno rabbrividire… e Rick ride. Ecco, ho trovato questo modo di dimostrare l’intelligenza di una persona molto poetico. La cosa assurda è che quando io mi metto a ridere, magari perché solo io ho trovato divertente qualcosa, che, per esempio, mi ha riportato alla mente un episodio simpatico, i più pensano che io rida da solo perché sono “semplice”, uno sciocco, insomma. Invece, l’ironia è una delle principali forme di intelligenza, è una delle forme verbali di più sottile e difficile comprensione. Ci sono persone per così dire “normali” che non sono dotate del minimo senso dell’umorismo. Rick, invece, dimostra al mondo la sua intelligenza ridendo a una battuta.
Una volta conclamata la sua intelligenza, finalmente i medici si decidono a trovare un modo per farlo comunicare. Attraverso uno speciale computer, a 12 anni Rick, per la prima volta, parla. Le prime parole che digita, però, non sono “ciao mamma” o cose simili, bensì… “Go Bruins!”, un incitamento per la sua squadra del cuore. Solo in quel momento, il mondo, genitori compresi, scoprono che è appassionato di sport. Anche questo fatto è abbastanza significativo. Un ragazzino di 12 anni, che fino ad allora non ha mai avuto modo di esprimersi, si racconta per la prima volta in vita sua dicendo al mondo di essere un tifoso di una certa squadra. Insomma, per un giovane segnato da un handicap così grave è abbastanza particolare riassumere il proprio sé in un atto da tifoso sfegatato di uno sport che mai potrà praticare in vita sua. Inoltre, non è facile per un ragazzo con un grave deficit, che viene accudito in tutto e per tutto, nascondere per anni un simile “segreto”, che può essere interpretato come una bella manifestazione di indipendenza e libertà del pensiero. Anche una persona come Rick, che non può nascondere nulla del suo corpo e delle sue (poche) azioni a chi lo accudisce quotidianamente, può coltivare una passione sua propria, qualcosa che, quando rivelata, è in grado di stupire tutto il suo mondo.
Con gli anni Rick, che ha evidentemente ereditato lo spirito battagliero dal padre, ex colonnello dell’esercito, ottiene anche una laurea, impresa non da poco per uno che fino a poco prima era considerato un vegetale. Ma il bello della storia viene quando Rick decide di rendere concreta e attiva la sua passione per lo sport. Un giorno, chiede al padre di partecipare, insieme, a una maratona. Chiede al padre, cioè, di correre una maratona spingendo lui sulla carrozzina. Il padre all’inizio è titubante, dal momento che è sulla quarantina e non molto allenato. Naturalmente, prevale il desiderio di rendere felice il figlio. Dick comincia così un duro allenamento. È significativo notare come il padre si alleni e cerchi di trasformare il suo corpo perché esso possa sopperire alle mancanze fisiche del figlio, quasi come se dovesse diventare forte abbastanza per tutti e due. In fondo, è come se Rick in tal modo abbia indotto anche il padre a confrontarsi con i suoi limiti fisici e a cercare di superarli. Probabilmente, il padre, durante l’allenamento, scontrandosi con le difficoltà che conseguono lo sforzo fisico e con i suoi limiti, si sarà sentito ancora più vicino al figlio, ai suoi deficit, perché avrà scoperto le proprie mancanze e compreso quanto siano “normali”. Semplicemente, nel padre esse sono visibili solo nel voler correre la maratona, nel figlio sono invece più trasparenti, più immediate, limitanti per cose meno complesse di una lunga corsa, ma non per questo meno simili. Dopo quella maratona, ne sono seguite molte altre. Anzi, sia il padre, sia il figlio hanno cercato di andare veramente oltre i loro limiti, passando addirittura dalla maratona al triathlon, dura disciplina per veri atleti che consiste in gare di corsa, nuoto e bici. Ancora più incredibile, dal triathlon sono approdati addirittura all’Ironman, disciplina solo per atleti estremamente forti e allenati che prevede le stesse discipline del triathlon, ma su distanze raddoppiate. Tale sport è così impegnativo che i pochi temerari che lo praticano si sentono davvero un gruppo, ne fanno uno stile di vita. Come dice il nome stesso, Ironman, “uomo di ferro”, coloro che lo praticano si sentono quasi superuomini, con caratteristiche di prestanza fisica ben superiori alla media. Il padre, nel raccontare le loro imprese, sempre più ardue, sempre in team, scontrandosi spesso con le diffidenze degli organizzatori e degli altri atleti, oltre a descrivere le tecniche usate per trasportare il figlio sulla bici o sul canotto, spiega come lui si senta solo due gambe e due braccia prestate al vero atleta, il figlio. Tuttavia, la cosa che più mi ha colpito è stato leggere che, al momento di correre in due questa coraggiosa maratona, il ragazzo ha detto al padre che, mentre prima si sentiva diverso, handicappato nel senso più limitante del termine, dopo la prima corsa, per la prima volta, e sempre, da allora, quando gareggiano, si è sentito davvero “normale”, forte, uguale a tutti gli altri. Questa frase ha commosso tutti, viene sempre citata dal padre come il vero motivo di gioia per lui e di sprone a tutti i sacrifici cui si sottopone per gareggiare col figlio. Tuttavia, mi ha subito fatto pensare che io, al suo posto, mi sarei sentito davvero handicappato solo nel momento in cui mi fossi messo a gareggiare con atleti forti e dal fisico perfetto, e semplicemente perché ero trasportato da un’altra persona, non certo per una conquista mia personale. Da giovane, durante le vacanze con altre persone disabili giocavo a calcio in carrozzina ma questo sport non mi ha mai convinto del tutto perché era chi mi spingeva a decidere la mia posizione in campo e dove andare quando avevo la palla tra i piedi, mentre ho sempre pensato che un giocatore è bravo quando sa muoversi con o senza palla autonomamente. Ho sempre creduto che le scuole speciali che ho frequentato nell’età dell’obbligo siano state un vero toccasana per la mia autostima e la mia crescita equilibrata. In una classe di ragazzini normodotati, il mio deficit mi sarebbe pesato molto, per quanti talenti avessi avuto e per quanti sforzi avessi fatto, sarei comunque partito in una condizione di svantaggio. Frequentando, invece, una scuola speciale, mi trovavo a partire nella stessa condizione di “trasparenza” e potenzialità dei compagni. Pertanto, nel tempo, ho avuto modo di apprezzare le differenze fra noi, di gioire dei miei successi, talvolta, ebbene sì, di sentirmi più bravo degli altri, cose che per un bambino sono indispensabili per cementare la propria autostima, figuriamoci per un bambino con limiti così evidenti. Ho imparato ad apprezzare ciò che avevo, le mie qualità, le mie capacità, perché queste hanno avuto lo spazio e il modo per risaltare adeguatamente. Per questo motivo, le parole di Rick mi hanno fatto pensare, ma esse sono anche il segno che, fortunatamente, non tutti la pensano allo stesso modo, neanche sui propri deficit e la propria autostima. Questa è una cosa molto positiva, perché chi meglio di noi può affermare che la diversità è una ricchezza?
 

Beati noi – C’è poco da… ridere!

La condizione di handicap ha a che fare con l’ironia per sua natura. Si pensi alla famosa ironia socratica. Socrate finge ignoranza con il suo interlocutore, per indurlo a enunciare la sua teoria, che verrà prontamente confutata dal filosofo. Una persona disabile, spesso, riesce a fare la stessa cosa. Di fronte alla sua “trasparenza”, l’interlocutore è nudo, proprio come il sofista di turno davanti a Socrate. Solo che il disabile non finge. È chi gli sta di fronte che, talvolta, gli attribuisce un’ignoranza che non ha, ma questo trasferimento di non-conoscenza produce lo stesso risultato di una fictio socratica. L’interlocutore è comunque indifeso di fronte all’handicap, deve rapportarsi con un mondo che non conosce, enuncia la sua teoria e viene confutato. Anche l’ironia romantica è ben incarnata nella persona con deficit. Quest’ultima ha più a che fare con la contraddizione, con il senso dell’assurdo che desta il riso. Allora è ironica una mente superiore intrappolata in un corpo immobile o mal funzionante, apparente contraddizione per noi uomini occidentali condizionati dalla cultura classica della calocagathia, l’ideale greco secondo cui chi è bello è anche buono e chi è brutto è cattivo, perché il corpo è specchio dell’anima. I Greci hanno avuto innegabili pregi, primo fra tutti “inventare” la filosofia, ma hanno anche complicato non poco la vita alle persone con deficit. Io sono filosofo e sono disabile… ironia della sorte! Anche la sorte secondo noi è ironica. Non a caso non c’è concetto più “pagano” della sorte. Anche questa è un’idea greca. L’ironia non è solo sovvertimento del significato delle parole, ma anche distacco. Prendere la vita con ironia è sinonimo di dimostrare un certo distacco dalle cose del mondo. Se hai un handicap, sei quasi obbligato a distaccarti un po’ dalle cose del mondo, che non possono avere lo stesso peso che per un “normodotato qualsiasi”. La società in genere ha un certo ritegno nel fare ironia che coinvolga un soggetto disabile, quando spesso è proprio chi ha un deficit che ironizza sulla sua condizione. Anche il fatto di percepire come sbagliato l’umorismo nei confronti dei disabili è, in fondo, discriminazione. Devono essere loro stessi che ironizzano sulla loro condizione, perché se osa farlo qualcun altro non è politicamente corretto. David Anzalone, che è spastico, ha scritto un libro dal titolo Handicappato e carogna (Milano, Mondadori, 2008) e fatto degli spettacoli in cui ironizza sulla sua disabilità. Ci sono cose che chi non ha a che fare con i disabili nella loro quotidianità, probabilmente, non può capire. L’autore guarda “da spettatore” le difficoltà con cui si confronta ogni giorno, per questo motivo riesce a vederne il lato ironico. Credo che una persona per così dire “normale”, se si trovasse ad affrontare nel quotidiano gli stessi problemi, non riuscirebbe a vederne il lato che fa sorridere. Anche molti disabili dubito che riescano a prendere le loro esperienze di vita con ironia. Invece è la loro stessa natura che regala alle persone con deficit una marcia in più, perché riescono naturalmente a fare quello che Socrate cercava artificiosamente di ottenere. Infatti, la persona con deficit può apparire meno dotata di quello che è realmente. Socrate fingeva di non capire per ottenere le risposte che cercava. Invece, ad esempio, nel mio caso, io al contrario mi devo ingegnare per far comprendere all’interlocutore che capisco quello che mi sta dicendo e che ho l’uso dell’intelletto anche se non posso muovermi autonomamente. Personalmente trovo molto ironico che in tanti pensino, quando mi incontrano, che io sia anche ritardato mentale solo perché ho difficoltà nei movimenti e nell’espressione. A me sfugge quale relazione ci sia fra le due cose, ma evidentemente i più, di primo impatto, pensano questo, per uno strano collegamento mentale. Così io, per indurre chi mi sta di fronte a spogliarsi di ogni barriera e a dire sinceramente ciò che pensa, non devo fingere ignoranza come Socrate: la gente pensa da sola che io lo sia. Quindi posso giocare sull’effetto-confutazione con minore sforzo filosofico, sfruttando l’effetto sorpresa della dimostrazione che il mio quoziente intellettivo non è solo normale, ma credo, senza falsa modestia, anche superiore alla media. Quando capita, trovo molto ironiche le espressioni stupite delle persone che mi stanno di fronte. D’altra parte, se uno non fa almeno dell’autoironia, soprattutto se versa in una situazione di apparente difficoltà, rischia di cadere nella cultura della tragedia. Vorrei far notare ai lettori che anche la tragedia è stata inventata dai Greci. Ironia della sorte, di nuovo! Tale popolo ha inventato l’ironia e anche la tragedia. Inoltre, tutte e due le cose venivano apprezzate per l’effetto catartico. Se lo spettatore vedeva sulla scena l’omicidio di una moglie da parte di un marito, secondo gli antichi Greci questa visione purificava i suoi insani propositi di omicidio verso la propria, reale consorte, dunque non commetteva il delitto ma sfogava il suo istinto vedendolo compiere dagli attori sulla scena. Analogamente, l’ironia socratica mirava a evitare che si compissero errori di valutazione, i quali avrebbero potuto trasformarsi in azioni sbagliate. Anche Nietzsche nella sua opera La nascita della tragedia contrappone lo spirito apollineo a quello dionisiaco e individua proprio nell’avvento di Socrate la morte definitiva della cultura della tragedia greca. Infatti lo spirito apollineo, con la sua razionalità e la volontà di incatenare in schemi mentali predefiniti la realtà, decreta la morte di quel pessimismo generato dal caos che lo spirito dionisiaco portava in sé. La tragedia di Eschilo e Sofocle incarnava il perfetto equilibrio fra le due tendenze, ma con l’adventus di Socrate sulla scena filosofica, con la sua capacità di razionalizzare tutto, si andò incontro a una inevitabile decadenza. L’ironia, non a caso, è molto razionale. Non tutti sono in grado di coglierla, soprattutto se è solo una sfumatura. Si può ironizzare su cose che sono passibili di più livelli di lettura. In alcuni casi, bisogna essere molto colti per cogliere aspetti ironici in un discorso. L’umorismo e il riso, infatti, sono più legati all’istinto e di più facile comprensione. Ad esempio, nel celebre romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa, che è un capolavoro letterario soprattutto in virtù della complessità dei diversi piani di lettura, l’ironia è molto presente. Tuttavia, solo una parte dei lettori sa coglierla, perché alcuni si fermano al più basso livello di interpretazione, quello che vuole il libro come un semplice thriller a sfondo storico. Invece, il libro contiene in sé molteplici piste di lettura: medievista, critico-letteraria, semiotico-testuale, etico-religiosa, sociologica, storico-letteraria, fisica. Molti critici hanno detto che il romanzo è una narrazione di ciò che Eco non riusciva del tutto a teorizzare come semiologo. Il nome della rosa va letto dal lettore attento secondo i quattro sensi dell’allegorismo medioevale, enunciati da Dante nella lettera a Cangrande della Scala: romanzo storico e romanzo poliziesco secondo l’interpretazione letterale, romanzo a chiave sulla realtà contemporanea secondo l’interpretazione allegorica e romanzo di idee logico-filosofiche, in cui l’etica e la semiotica si fondono, secondo il livello morale. Il protagonista, non a caso, confessa nell’enigmatico finale che il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci della passione insana della verità. L’ironia dunque non è per tutti, è strumento di grande razionalità e grande complessità. Se essa può coinvolgere anche la verità, significa che può conoscerla, che può andare al cuore delle cose, come raramente accade per altre vie. Di tutte le vie razionali per conoscere la verità delle cose, quella dell’ironia mi sembra comunque la più piacevole. Pertanto, in virtù del mezzo sorriso che desta è senz’altro preferibile a pesanti disquisizioni filosofiche, come quella che io ho appena fatto in questo mio articolo.

Beati noi – Le mie prigioni

Da qualche mese ormai mi reco in carcere una volta alla settimana. I miei 25 lettori si staranno già interrogando sui reati che può avere commesso uno in carrozzina. Ebbene, seppure ultimamente in effetti con la mia automobile attrezzata e dotata di tutti i contrassegni possibili stia prendendo un bel po’ di multe (e non si capisce perché), in carcere non ci sono finito per qualche malefatta, ma per fare volontariato. Ancora i miei 25 lettori avranno sgranato gli occhi. Come? Un disabile fa volontariato? Di solito sono i cosiddetti normodotati che fanno volontariato con i disabili… o no? Ebbene, io faccio volontariato. Spesso lo faccio con gli amici che vengono a trovarmi, offro consulenza e consigli psicologici per 5 cent, come Lucy dei Peanuts. Adesso, però, ho allargato i miei orizzonti fra le mura del carcere. Come possono allargare gli orizzonti delle mura e delle sbarre alle finestre? Altra domanda che almeno uno dei 25 lettori si starà ponendo. Ebbene, io vado in carcere a parlare di libertà. Un disabile che parla di libertà in un carcere. Quasi scandaloso. Invece, i disabili e i carcerati hanno qualcosa in comune. Ovvero, la mancanza di libertà. Mi correggo, la mancanza di autonomia. Libertà e autonomia sono due cose diverse. Nei suoi Four Essays on Liberty, il filosofo Isaiah Berlin definisce la celeberrima distinzione fra libertà positiva e negativa, libertà di e libertà da. Al carcerato mancano entrambe, se si considera l’aspetto materiale della libertà e non quello morale (libertà di pensiero, di parola, religiosa, ecc.). Il disabile, invece, non è privo di libertà da, perché non è vincolato da sbarre. Ma è privo, spesso, della libertà di. Il disabile dipende in molte cose, talvolta in tutte, da qualcun altro. Non è la carrozzina che tiene prigioniero il disabile, perché essa non è paragonabile alle sbarre, anzi, di frequente è uno strumento di libertà, permette di spostarsi, di fare cose che, altrimenti, non sarebbero possibili. Ma la libertà di, la libertà positiva, quindi la più importante, come il termine suggerisce, non ce l’ha nessuno dei due. Questa è ciò che indicavo sopra con la parola “autonomia”. Dal greco, autos e nomos, la possibilità di darsi delle regole da sé, di gestirsi in modo libero e non vincolato. Una persona con handicap le regole non se le può dare da solo. Mangia quando gli altri preparano il cibo per lui, spesso deve essere anche imboccato, si lava quando qualcuno lo aiuta, dorme quando c’è chi lo adagia nel letto. Naturalmente, può imporsi tutte le regole morali che vuole, ma non quelle materiali. Anche sulle regole morali, però, ci sarebbe da discutere. Il disabile, spesso, non è libero nemmeno di peccare. Meno male che vale anche il pensiero, verrebbe da dire. Altrimenti, i portatori di deficit sarebbero tutti santi. Per verità, molti credono che lo siano davvero. Racconto sempre l’aneddoto delle due vecchine che, al santuario di Sant’Antonio da Padova, strofinarono il fazzoletto candido su di me invece che sulla reliquia del Santo, sperando che io intercedessi in modo ugualmente efficace per ottenere loro le grazie. Se avessi tanto credito presso il Padreterno, ne approfitterei diversamente. In ogni caso, dicevo, non siamo liberi neppure di peccare, di sbagliare. Invece, chi è in carcere ha approfittato troppo della libertà di sbagliare che gli era stata data. Sia i disabili, sia i carcerati, naturalmente, mantengono tutta la loro libertà interiore. Talvolta, tuttavia, nemmeno il pensiero è libero, anche se a prima vista dovrebbe esserlo più di ogni altra cosa. I condizionamenti, interni ed esterni, sono tanti. Le sbarre, come la carrozzina, possono influenzare anche il modo di pensare. Così come, talvolta, i pensieri che portano a commettere i reati possono essere stati condizionati da circostanze esterne. Inoltre, il disabile, spesso, è nato così. Carcerati, invece, non si nasce. Chi ha conosciuto gli sterminati spazi leopardiani difficilmente si adatta alla costrizione della detenzione. I rei, però, hanno potuto scegliere, i disabili no. La detenzione ha fine, la disabilità no. Quasi tutti i carcerati possono immaginare il momento in cui riacquisteranno la libertà. Potranno riabbracciare i familiari, tornare alla loro vita. Avranno la possibilità di non commettere di nuovo gli errori che li hanno portati alla detenzione. Una certa cultura, ormai fortunatamente quasi scomparsa, voleva che anche i disabili si ritrovassero in una simile condizione a causa di una qualche colpa. Ma non una colpa attribuibile a loro stessi, naturalmente, bensì ai genitori, alla famiglia, agli avi. Colpe dei padri che ricadono sui figli. Il massimo dell’ingiustizia. Eppure, secondo molti, l’handicap era una punizione divina, una possibilità di purificazione ed espiazione in nome di tutta l’ascendenza. Se dal punto di vista scientifico alcuni deficit sono perfettamente spiegabili, altri meno, dal punto di vista morale e teologico l’handicap rimane un grande mistero, un’incarnazione del dolore e della piccolezza dell’uomo. Il teologo Vito Mancuso ha scritto sull’argomento un libro intero, dal titolo emblematico Il dolore innocente. Se si è avvertito nel XXI secolo il bisogno di dare alle stampe siffatta opera, significa che, forse, il dubbio, qualcuno, ancora lo aveva.
La mancanza di autonomia dei carcerati e dei disabili, dunque, ha radici totalmente diverse. Per i primi è conseguenza di una colpa evidente, per i secondi è un “dolore innocente”. Tuttavia, forse è più dolorosa per i primi. Per questi, infatti, è un “dolore colpevole”.
Tale esperienza di confronto è stata per me totalmente nuova. Io sono abituato a parlare di fronte a platee che, spesso, condividono poco con me, che al massimo possono pormi qualche domanda alla fine del mio intervento, o meglio, della lettura di esso da parte di un mio collaboratore. Invece, quella che ho seguito in carcere è una vera e propria classe, da cui mi sono recato una volta alla settimana per un anno intero, condividendo, dialogando, confrontando, scambiando esperienze e opinioni. Ho sentito la responsabilità di accompagnare i miei allievi in un percorso che non si esaurisse in una lezione frontale di filosofia. Quello che ho insegnato ai miei discenti è per lo meno pari a quello che io ho appreso da loro. Forse, la cosa più importante che ho capito riguarda il fatto che la condizione di disabilità, come quella di recluso, riguarda tutti, non solo i portatori di handicap e i carcerati. Tutti manchiamo di libertà, perché la natura umana ha dei limiti ben precisi in sé connaturati, che rendono l’uomo un essere imperfetto. Tutti, dunque, possono riconoscere le proprie prigioni, talvolta superarne lo spazio angusto, talvolta, semplicemente, accettarle.

 

Beati noi – Mostruosamente… meravigliosi

Recentemente è apparsa sui giornali la notizia di due bambine indiane nate con caratteristiche fisiche a dir poco particolari. La prima è dotata di quattro braccia e quattro gambe, la seconda di due facce. Trattasi, con ogni probabilità, di due casi di gemelli siamesi, che non si sono correttamente separati durante la gestazione. Le bambine sono nate in India, la cui religione dominante, quella induista, è ricca di rappresentazioni di divinità a più braccia, o a più teste, come appunto sono raffigurate le divinità della triade Trimurti (Brahma, Shiva, Vishnu). Pertanto, queste creature sono state considerate dei veri e propri prodigi della natura, di origine divina, da mostrare alla venerazione del popolo. Alcuni giornali le hanno paragonate ai tanti “mostri” della letteratura, soprattutto antica, scherzi di natura che, in epoche e Paesi lontani, venivano fatti esibire nei circhi o studiati scientificamente o divinizzati.
Il concetto di “mostro”, dal latino monstrum, prodigio, da mostrare, appunto, nasce nell’età classica. I Greci consideravano “diverso” tutto ciò che, semplicemente era straniero, pertanto favoleggiavano di esseri mostruosi che abitavano ai confini della terra. Aristotele considerava mostri tutte le donne, in quanto devianti dalla normalità e dalla perfezione che è di genere maschile. Varrone spiegava che il termine “mostro” deriva da “mostrare”, poiché i mostri sarebbero appunto dei segnali di qualcosa che sta per avvenire, dei messaggi particolari della Natura.
Nell’Ottocento, lo studio dei mostri diviene una vera e propria disciplina, detta teratologia, da teratos, mostro. Infatti, dopo la fase Settecentesca in cui si fa largo il mito del “buon selvaggio”, nell’Ottocento, con la riscoperta del gusto classico nell’arte e nella letteratura, l’esotico torna a essere concepito non più come buono perché innocente e allo stato di natura, ma come diverso, come altro da noi. Tornano in auge quegli esseri fantastici come i cinocefali, i lemmi, i centauri, prodotto della fantasia dei Greci, che vedevano come “barbaro” tutto ciò che era straniero. Nell’Ottocento si formerà anche un gusto particolare per l’esibizione dei mostri, non solo nei circhi, ma anche in vere e proprie collezioni naturalistiche (a Bologna abbiamo l’esempio di quella di Ulisse Aldrovandi), ricche di “scherzi della natura”, spesso bufale costruite ad arte, talvolta, invece semplici fossili, che non venivano considerati reperti di ere passate, bensì strane opere d’arte che la natura produceva così com’erano, in un modo a noi sconosciuto. Questa curiosità quasi morbosa per il diverso darà vita a fantasiose esibizioni e a teorie fisiognomiche come quelle lombrosiane, che nelle deformità (o, più semplicemente, nei tratti somatici), pretendevano di leggere l’animo di un individuo.
In epoca più recente sono stati scienziati e teologi a porsi delle domande al riguardo. La natura sbaglia? Fa scherzi? O è Dio stesso che permette la nascita di siffatte deformità? Oppure, siamo noi a vederle come tali, perchè l’homo sapiens deve avere sempre tutto sotto controllo? La tradizione cristiana, nella sua iconografia, rappresenta il mostruoso come manifestazione del male ma anche, al contrario, ne offre una visione quale simbolo del mistero della Natura, dell’imperscrutabilità di Dio. Per quanto riguarda gli scienziati, invece, se nel Rinascimento il mostruoso era la prova empirica dell’esistenza di un ordine straordinario, non riducibile all’ordine naturale, per gli scienziati moderni è fondamentale trovare una spiegazione per le difformità: ogni eccezione viene ricondotta a una regola conosciuta, affinché nulla possa sfuggire a un ordine stabilito. Lo straordinario è quindi rifiutato, quasi a voler negare l’intervento creatore di Dio: la scienza positivista non ammette miracoli da nessuno né da Dio né, tantomeno, dalla Natura.
Come si va cercando una risposta al problema della coesistenza del male e di Dio (la cosiddetta teodicea: si Deus est, unde malum?), così la scienza e la teologia oggi si interrogano anche sulle possibilità di convivenza dell’handicap, delle mancanze fisiche e intellettuali, delle deformità, con l’idea della creazione divina. Tant’è che proprio delle religiose furono chiamate ad accudire i malati mentali ospiti del Cottolengo a Torino. La particolare riservatezza delle Piccole Sorelle nei confronti dei drammi umani dei loro ospiti portò alla leggenda secondo cui al Cottolengo erano rinchiusi dei mostri talmente deformi da dover essere protetti dagli sguardi morbosi del mondo esterno. Si diceva che le donne incinte non dovessero incontrare uno di questi “scherzi della natura”, se no avrebbero partorito un bambino a loro simile. Sicuramente, in questo ospedale erano ricoverate persone con particolari patologie e gravi handicap che a volte preferivano sottrarsi spontaneamente agli occhi del mondo e agli sguardi stupiti delle persone. Soprattutto dopo la guerra alcuni soldati si nascondevano lì per non recare altro dolore ai familiari, preferendo farsi credere morti, piuttosto che mostrarsi ridotti a tronchi umani. Tuttavia, questa sorta di “leggenda metropolitana” ha da sempre suscitato una forte curiosità.
Oggi è l’India a riprendere il suo ruolo di terra misteriosa e piena di fascino. Questo Paese rappresenta da sempre, per noi occidentali, l’ignoto, l’esotico, proprio per la sua distanza, non solo geografica, ma anche per tradizioni e cultura. Una bimba nata con una grave malformazione diventa per la madre un segno divino e viene immortalata da tv e giornali. I genitori non l’hanno fatta conoscere al mondo né per esibizionismo né per analisi scientifica, ma perché l’hanno creduta un dono per l’umanità intera. Questo è un esempio di integrazione del diverso, al punto che la bambina è stata vista come una divinità. Per contro si pensi al caso, abbastanza recente, di quei genitori inglesi che hanno sottoposto a vari interventi di chirurgia estetica la figlia affetta da sindrome di Down, correggendone così i tratti più tipici, come gli occhi allungati o la lingua un po’ sporgente, perché si potesse meglio integrare nella società. Insomma, un tentativo di nascondere la sua diversità agli occhi del mondo. Eppure c’è chi esibisce in tv, ancora oggi, come ai tempi dei fenomeni da circo, la propria o l’altrui diversità (recente è la messa in onda dello Show dei Record in televisione, con uomini altissimi, bassissimi, con varie stranezze fisiche) e, addirittura, esiste chi si crea delle diversità per distinguersi e affermare la propria personalità e unicità. Si pensi a quelli che si fanno tatuare tutto il corpo o si fanno plastiche al viso per assomigliare ad animali, davvero riducendosi come quei “mostri”, quegli “scherzi di natura” studiati con curiosità in tutte le epoche.
I mostri possono essere tali “di natura” o “di cultura” ma ciò che li crea è solo quest’ultima. Per dirla con il celebre pittore Francisco Goya, “il sonno della ragione genera mostri”. Ecco perché i mostri non possono più essere considerati tali: le deformità non dipendono dal destino cieco. L’uomo è chiamato a elevarsi, per poter guardare tutto da un altro punto di vista. Infatti ciò che da vicino sembra mostruoso, dall’alto, nell’insieme della bellezza e della varietà del creato, fa parte semplicemente dell’armonia del tutto. Per esempio, un quadro dipinto con la tecnica del puntinismo, da vicino appare come un insieme di tanti puntini colorati, separati fra loro e senza apparente motivo per quella particolare dislocazione nella tela. Ma se uno si allontana e osserva il quadro da una certa distanza, la prospettiva cambia totalmente: tutti quei puntini di colori differenti si uniscono per formare la bellezza dell’opera d’arte. Così è nel mondo: ciò che ci sembra male, o mostruoso, è tale solo per noi, che lo guardiamo troppo da vicino, da una prospettiva limitata. Questa osservazione delle “stranezze” del mondo, però, porta a meravigliarsene. Come dice Aristotele, non c’è bene maggiore della meraviglia: essa è alla base della filosofia, dell’interrogarsi dell’uomo e, quindi, della scoperta di cose nuove, del progresso dell’umanità. Se l’uomo non si ponesse domande, sarebbe alla stregua degli altri animali. E se non cercasse risposte a queste domande, non ci sarebbe il progresso. Ecco perché l’uomo è un essere mostruosamente… meraviglioso!

 

Beati noi – Un salto di categoria

Ho seguito con vivo interesse la disputa che si è scatenata negli ultimi tempi riguardante l’ammissione o meno del giovane amputato Oscar Pistorius alle Olimpiadi di Pechino 2008. A questo atleta, nato con una grave malformazione alle gambe che non ne permetteva il corretto sviluppo, furono amputati da bambino entrambi gli arti inferiori. Fu una sofferta e coraggiosa decisione dei genitori che avrebbero potuto salvare le sue gambette malformate, costringendolo a una vita in carrozzina. Essi, invece, scelsero la rischiosa via dell’amputazione e fu proprio tale iniziativa che permise al giovane Pistorius di imparare a camminare con l’ausilio di protesi e a rendersi, in questo modo, totalmente indipendente. Non solo: fin da bambino, l’atleta praticava diversi sport, anche quelli di maggior contatto fisico, come il rugby, mostrandosi più dotato di altri ragazzi che potevano contare sull’uso di gambe “proprie”. Fu un infortunio occorsogli proprio giocando a rugby a gettare le basi per la sua futura fortuna sportiva. Costretto ad abbandonare uno sport così violento e a intraprendere un periodo di riabilitazione, il ragazzo si avvicinò all’atletica. Su consiglio di un allenatore, si dotò delle prime gambe artificiali in fibra di carbonio, una sorta di prototipo di quelle con cui siamo abituati ormai a vederlo correre oggi. Il giovane Oscar mostrò da subito un grande talento, anche se l’allenamento fu duro e difficile: adattarsi alle nuove protesi comportò all’inizio effetti collaterali quali la formazione di piaghe ed escoriazioni nel punto di innesto. Inoltre, la mancanza di piedi e polpacci penalizzava, e penalizza tutt’ora nonostante i progressi tecnici delle protesi e fisici dell’atleta, la partenza ai blocchi e la flessibilità fondamentale nelle curve.
Fin qui, la storia degli esordi. Veniamo alla cronaca recente. Il giovane si mostra sempre più dotato, sbaragliando la concorrenza nelle gare per disabili e alle Paralimpiadi. A Roma, nel 2006, chiede di misurarsi in una competizione ufficiale con atleti normodotati, ottenendo buoni risultati. La polemica esplode quando egli fa richiesta di partecipare con atleti “normali” alle Olimpiadi di Pechino 2008. Tutti i giornali riportano la notizia della battaglia di questo ragazzo talentuoso e determinato, che rivendica la possibilità di misurarsi con atleti dotati di gambe vere. La commissione chiamata a decidere su questa singolare richiesta, dopo lunga riflessione, respinge la petizione, giustificando il rifiuto con una perizia tecnica che illustra come le due leve in carbonio usate dal ragazzo per correre costituiscano addirittura un vantaggio per l’atleta, in quanto la loro flessibilità comporta migliori prestazioni nella corsa e un minor affaticamento muscolare per chi le usa.
Eccoci dunque arrivati al paradosso al centro del dibattito. Per la prima volta si sentenzia ufficialmente, con tanto di perizia tecnica, che una disabilità grave costituisce un vantaggio comparato per una persona. Tale perizia non tiene minimamente conto del fatto che le protesi, seppur forse costituiscano un vantaggio nella corsa, siano un handicap notevole alla partenza dai blocchi e nelle curve. Non si considera, inoltre, che, se il miracolo della velocità fosse contenuto nelle protesi e non nella persona che le indossa, tutti gli amputati che le usano dovrebbero registrare tempi record proprio come Pistorius. Insomma, Pistorius non è ammesso a gareggiare con atleti normodotati. Ma, discriminazione nella discriminazione, neppure gli amputati lo accettano volentieri come avversario alle Paralimpiadi. Infatti, la quasi totalità degli amputati che gareggiano nella categoria di Pistorius è priva di una sola gamba, dunque utilizza una sola protesi di carbonio. Anche questi ultimi sostengono che l’atleta ricavi un vantaggio rispetto a loro nell’avere due protesi di carbonio invece di una. Si deve inoltre considerare che il contesto sportivo in cui si sviluppa tale polemica non è certo dei più limpidi: l’atletica, ultimamente, è stata varie volte macchiata da gravi casi di doping da parte di atleti famosi, che erano considerati dai giovani un modello da imitare, mentre davano, invece, esempio di comportamenti dannosi, immorali e anti-sportivi. Eppure, ad atleti dichiaratamente dopati spesso non si toglievano le medaglie vinte, o si permetteva loro di continuare a gareggiare, pur con il legittimo sospetto che i rendimenti stranamente altalenanti fossero dovuti a ben altro che ad alti e bassi della naturale forma fisica. Insomma, non ci si accorge di casi di doping macroscopici, ma ci si rende conto facilmente dei vantaggi dati dalle protesi.
A tal proposito, riportiamo uno stralcio di un’intervista all’allenatore dell’atleta, apparsa su “Panorama”: “Che idea si è fatto della polemica sui presunti benefici che Pistorius trarrebbe dalle sue protesi?”. “Sono tutte idiozie. Ripeto, all’inizio i suoi tempi erano davvero mediocri. Ora, chi non sa di sport deve capire gli sforzi enormi che Oscar ha dovuto produrre per raggiungere i risultati attuali. In un caso come il suo, ci vogliono ore e ore di allenamento per rendere affini le protesi con il resto del corpo, in particolare i muscoli delle cosce e le anche. La chiave del suo successo sta nel modo con cui è riuscito a rendere complice nella corsa due entità corporali totalmente diverse fra loro. Se poi è riuscito a dotarsi di protesi tecnologicamente avanzate, tanto meglio…”.
Al di là di tali polemiche che si basano su aspetti meramente tecnici, la cosa che più colpisce di questo giovane è la percezione che ha di se stesso. Egli ha affermato in più occasioni di non reputarsi handicappato, bensì solo “una persona senza gambe”. Questa definizione è bellissima e significativa, perché, finalmente, l’handicap non è considerato una mancanza, un’anomalia ma una caratteristica. Al pari di chi si definisce biondo, alto, magro, così Pistorius afferma di avere, come tutti, varie qualità fisiche, fra cui quella di essere senza gambe. Non è malato, non è strano, ha solo una peculiarità che non può nascondere perché, a differenza di tanti altri deficit, che tutti abbiamo, questo è evidente, è più “trasparente”. Dunque la “scomodità” di questo personaggio non deriva dalla sua battaglia per gareggiare alle Olimpiadi ma dal suo modo di proporre la sua (non) diversità. Le persone (sia quelle cosiddette normali, sia quelle con deficit) sono abituate a catalogare chi sta loro di fronte. Si creano degli steccati, delle categorie entro cui inserire chi incontriamo nella vita di tutti i giorni. Si danno delle definizioni, partendo da ciò che, secondo noi, meglio caratterizza l’altro. Pistorius è un handicappato. Dunque, appartiene alla categoria disabili (sottocategoria: derelitti, sfortunati, anormali, meritevoli di compassione). Pertanto, dovrebbe stare in carrozzina, farsi assistere, stare a casa, al massimo diventare “abile” col computer, o nella pittura, insomma, in qualche attività in cui, come ogni tanto si sente dire in televisione, qualche povero handicappato ha ottenuto buoni risultati (certo, sempre grazie al fatto che qualcuno lo ha assistito bene). Anche gli amputati a una sola gamba non lo gradiscono come avversario. Pure questi ultimi hanno in mente delle categorie: Pistorius è comunque diverso da loro. Egli tenta di saltare al di là di questo steccato, e ciò fa paura: sconvolge gli schemi mentali solidi e ben radicati nella nostra società, va oltre il senso comune. Se un atleta normale fosse battuto da un amputato, percepirebbe una tale sconfitta come doppia. Nella mentalità corrente, un handicappato non può vincere una sfida con un normodotato, a maggior ragione se essa si gioca su un piano fisico. Lo stereotipo del disabile non lo prevede. Pertanto, una sconfitta, in questo caso, comporterebbe non solo maggiore onta e disonore ma anche l’idea di un sovvertimento delle regole, della normalità delle cose, delle etichette con cui classifichiamo il mondo e le persone. Non si può sopportare la sconfitta da parte di chi dovrebbe sentirsi appellare come “poverino”, non come “bravo”. Ecco, alle persone normali quel “poverino” non costa nulla umanamente, nessuna presa di posizione, nessun mettersi in gioco. Al contrario, quel “bravo” è innaturale. In tanti si battono oggi contro l’emarginazione dei disabili, per i loro diritti, la loro dignità. La medicina si impegna a trovare soluzioni che migliorino la qualità e la quantità della loro vita. Ma viene spontaneo chiedersi a cosa servano tutti questi sforzi se poi, quando un disabile diventa davvero protagonista, si cerca di confinarlo di nuovo nella sua categoria con un banale provvedimento burocratico, con una perizia tecnica. La pigrizia intellettuale e la limitatezza di vedute dei più si scontra con la forza di volontà di un giovane disabile, che ha trovato il coraggio di “fare il salto di categoria”, anzi, data la sua specialità, è il caso di dire che ha trovato il coraggio di “correre al di là delle categorie”.
 

Beati noi – La vita è gioco… e i giochi aiutano a vivere

È recente la notizia della comparsa sul mercato di un bambolotto con lineamenti e caratteristiche fisiche che riproducono quelli di un neonato Down. Esso è stato messo in vendita da un’azienda che si ripropone di donare, per ogni bambola venduta, un contributo a un’associazione che si occupa delle problematiche legate a tale sindrome. Questa notizia ha dato seguito a una serie di reazioni contrastanti, alcune favorevoli, la maggior parte critiche. I detrattori sostengono che una simile iniziativa abbia il solo scopo di lucrare sulla situazione di deficit delle persone affette da sindrome di Down. In effetti, l’immissione di un nuovo giocattolo sul mercato fa sempre seguito a un’accurata valutazione economica e di marketing, quindi più che al suo valore educativo i produttori puntano a ben altro valore. Inoltre, la concorrenza oggi è spietata, dunque ci si inventa di tutto per aggiudicarsi una fetta di mercato.
Tuttavia, questa iniziativa non è del tutto una novità. Già una decina di anni fa la bambola più famosa al mondo, la Barbie, era stata prodotta nella versione in carrozzina. Non era questo però il primo passo della bambola in questione nel mondo della diversità: già da tempo esistevano Barbie multirazziali. Ciò è davvero particolare se si pensa a tutte le critiche che essa si è attirata nel corso degli anni, soprattutto da parte delle femministe, che riconoscevano in quei canoni estetici di irraggiungibile perfezione per una donna in carne e ossa un’istigazione all’omologazione, alla distorsione della realtà, ai disturbi alimentari delle giovanissime, al riferimento a modelli sbagliati, prettamente esteriori. In effetti, per una ragazzina afroamericana, per esempio, non doveva essere piacevole giocare tenendo fra le mani tale bellezza teutonica, in cui sicuramente non poteva rispecchiarsi, cosa che invece i bambini fanno normalmente quando giocano.
Il passo ulteriore si è compiuto, per l’appunto, quando è stata data la possibilità di riconoscersi nella loro bambola preferita anche alle bambine costrette in carrozzina. Giocare sempre con tali esemplari di bambole superdotate certamente non permetteva grande compartecipazione emotiva alle ragazzine con deficit: se già questo modello creava problemi alle giovanissime cosiddette normali, figurarsi a chi mai si sarebbe potuta permettere di indossare vestiti simili a quelli del guardaroba eccezionale della Barbie, o di fare lunghe cavalcate con Ken, o di compiere tutte quelle attività che, nei loro giochi, le bambine fanno svolgere alle loro bambole. Ecco invece che, con la comparsa della Barbie in carrozzina, che seguiva quelle di varie bambole impegnate nelle più diverse professioni, l’alter ego in pura plastica poteva davvero rispecchiare l’immagine esteriore di una particolare fetta di acquirenti. L’utilità di questa bambola ha scatenato diverse obiezioni, se non altro per il fatto che, di solito, si gioca con Barbie perfette proprio perché si vorrebbe essere così, si fanno vivere loro avventure che si sogna di poter davvero provare un giorno: non a caso, le bambine inventano sempre storie a lieto fine, fanno prendere alla loro bambola il the con le amiche come vedono fare alle mamme, fanno loro frequentare palestre, negozi di lusso, indossare abiti da favola, vivere appassionanti storie d’amore che immancabilmente si concludono con un bel matrimonio! Anche in tempi più moderni ciò avviene, sebbene sia mutato il modo di vivere queste avventure di fantasia. Ora i sogni delle ragazzine non vengono incarnati da una bambola di plastica, bensì da un sofisticato avatar virtuale che vive una Second Life ben più sofisticata di quella costruita dalla sola fantasia di una bambina di qualche anno fa. I doppi virtuali vivono avventure in un mondo digitale così complesso, da diventare quasi una seconda realtà, che lascia ben poco spazio all’immaginazione. Questa virtualità è frutto sì di fantasie dei protagonisti, ma tali immaginazioni vengono così ben rappresentate da questo mondo parallelo, in tutti gli aspetti, da creare vere doppie vite, in cui sfogare spesso istinti repressi nella vita reale, che possono sfociare nel patologico. Insomma, nulla a che vedere con le avventure fantastiche della Barbie, che non erano vissute come una seconda vita immaginaria, ma piuttosto auspicate dalle bambine, che si creavano non un presente alternativo, ma una speranza in un futuro da sogno.
Tutto questo per spiegare che, se anche la bambina in carrozzina poteva giocare con una bambola “normale” su cui riversare speranze e aspettative, che pure sarebbero il più delle volte andate deluse, tutt’altra cosa era far vivere avventure ugualmente da favola a una Barbie in carrozzina come lei! Sì, perché lo stesso shopping sfrenato e lo stesso matrimonio da favola, ma vissuto da una bambola nelle stesse condizioni, diventavano una speranza quasi palpabile. Molto particolare è la storia di una bambina costretta sulla carrozzina, la quale amava molto giocare con le bambole, vestirle, pettinarle, ma invidiava le amichette che potevano davvero vivere le avventure che ideavano per le loro beniamine, mentre lei, con la sua carrozzina, era molto limitata. Poi, sua mamma trovò e le regalò per un Natale la Barbie in carrozzina, appena uscita sul mercato in edizione limitata, con giunture snodabili perché potesse stare ben seduta, ma con tutte le altre caratteristiche comuni alle Barbie normali. La bambina allora si mise a giocare con la bambola, ma non facendole vivere chissà quali fantastiche avventure, bensì facendole imitare i gesti che infinite volte lei stessa aveva ripetuto nel fare le sue terapie riabilitative. Dopo alcune settimane di gioco così impostato, la bambina chiamò la mamma dicendole che era accaduto un miracolo, e le mostrò la Barbie, cui aveva raddrizzato le giunture mobili, tenuta in piedi diritta, che veniva da lei fatta camminare, correre, saltare. La bambina disse alla mamma che tutta la terapia che aveva fatto fare alla bambola era servita a farla camminare di nuovo, che le sue gambe si erano raddrizzate e stava ora ritta in piedi come tutte le altre Barbie. E davvero la bambina era felice, questo era un chiaro segnale che coltivava la speranza di riuscire un giorno, grazie alla terapia, a camminare, come era riuscita a fare con la sua Barbie.
Ecco, tutto ciò rischia di diventare una mera operazione di marketing, che banalizza l’handicap e lucra sulla disabilità. Un gioco non può certo bastare a educare alla diversità: si pensi che nelle più famose squadre di calcio buona parte dei giocatori sono di colore, ma gli ultrà sono quasi tutti razzisti convinti. Questo significa che, senza educazione, l’esempio a volte conta ben poco, ma significa anche che, come un personaggio molto famoso fa dimenticare le sue “diversità” (se è nero, cieco, malato, ecc.), perché diventa una figura familiare, così una cosa consueta per un bambino, come può essere un gioco, diminuisce se non annulla la sua percezione del diverso. Succede anche a chi ha amici disabili: se sono vere amicizie, dopo un po’, pur rimanendo presenti i bisogni fisici della persona e dunque le necessità assistenziali, l’amico non pensa più al deficit dell’altro, diventa una semplice caratteristica fisica.
Le parole “gioco” ed “educazione” hanno, nel greco, una radice comune: paidìa e paidèia. Il gioco, infatti, dovrebbe essere la principale attività dei bambini, proprio perché è l’approccio fondamentale per apprendere le cose, per capire i meccanismi complessi del mondo che li circonda. La simulazione della realtà attraverso il gioco è fondamentale per l’apprendimento, lo sviluppo delle capacità di problem solving, la comprensione del reale: giocare con i soldatini fa capire cosa significa il gioco di squadra, la fiducia nei compagni, ma anche le difficoltà della vita, la necessità di pensare strategie, espedienti, vie di fuga. Oggi al posto dei soldatini di piombo ci sono i videogiochi, sicuramente più violenti, con immagini e situazioni cruente molto realistiche, spesso inadatte a dei ragazzi (tralasciamo in questa sede l’annosa discussione sugli effetti sulla psiche dei giovani della violenza di alcuni videogiochi), ma che spesso simulano situazioni in cui è necessario adoperare tutte le proprie capacità di problem solving, di trovare strategie, di pensare velocemente alla risoluzione di problemi complessi. Queste simulazioni, del gioco virtuale come di quello reale, educano ad affrontare le situazioni più diverse della vita vera: non a caso, prima o poi, tutte le bambine giocano a fare la mamma o la sorella maggiore o la maestra delle bambole, i maschietti a fare i piloti, gli astronauti, i calciatori, ecc. Dunque, giocare a fare la mamma di una bambola con le caratteristiche proprie di chi è affetto da sindrome di Down farà sì che, da grandi, le diversità saranno un po’ più familiari e, si sa, quello che si impara da piccoli rimane nella personalità e non si dimentica più.