La condizione di handicap ha a che fare con l’ironia per sua natura. Si pensi alla famosa ironia socratica. Socrate finge ignoranza con il suo interlocutore, per indurlo a enunciare la sua teoria, che verrà prontamente confutata dal filosofo. Una persona disabile, spesso, riesce a fare la stessa cosa. Di fronte alla sua “trasparenza”, l’interlocutore è nudo, proprio come il sofista di turno davanti a Socrate. Solo che il disabile non finge. È chi gli sta di fronte che, talvolta, gli attribuisce un’ignoranza che non ha, ma questo trasferimento di non-conoscenza produce lo stesso risultato di una fictio socratica. L’interlocutore è comunque indifeso di fronte all’handicap, deve rapportarsi con un mondo che non conosce, enuncia la sua teoria e viene confutato. Anche l’ironia romantica è ben incarnata nella persona con deficit. Quest’ultima ha più a che fare con la contraddizione, con il senso dell’assurdo che desta il riso. Allora è ironica una mente superiore intrappolata in un corpo immobile o mal funzionante, apparente contraddizione per noi uomini occidentali condizionati dalla cultura classica della calocagathia, l’ideale greco secondo cui chi è bello è anche buono e chi è brutto è cattivo, perché il corpo è specchio dell’anima. I Greci hanno avuto innegabili pregi, primo fra tutti “inventare” la filosofia, ma hanno anche complicato non poco la vita alle persone con deficit. Io sono filosofo e sono disabile… ironia della sorte! Anche la sorte secondo noi è ironica. Non a caso non c’è concetto più “pagano” della sorte. Anche questa è un’idea greca. L’ironia non è solo sovvertimento del significato delle parole, ma anche distacco. Prendere la vita con ironia è sinonimo di dimostrare un certo distacco dalle cose del mondo. Se hai un handicap, sei quasi obbligato a distaccarti un po’ dalle cose del mondo, che non possono avere lo stesso peso che per un “normodotato qualsiasi”. La società in genere ha un certo ritegno nel fare ironia che coinvolga un soggetto disabile, quando spesso è proprio chi ha un deficit che ironizza sulla sua condizione. Anche il fatto di percepire come sbagliato l’umorismo nei confronti dei disabili è, in fondo, discriminazione. Devono essere loro stessi che ironizzano sulla loro condizione, perché se osa farlo qualcun altro non è politicamente corretto. David Anzalone, che è spastico, ha scritto un libro dal titolo Handicappato e carogna (Milano, Mondadori, 2008) e fatto degli spettacoli in cui ironizza sulla sua disabilità. Ci sono cose che chi non ha a che fare con i disabili nella loro quotidianità, probabilmente, non può capire. L’autore guarda “da spettatore” le difficoltà con cui si confronta ogni giorno, per questo motivo riesce a vederne il lato ironico. Credo che una persona per così dire “normale”, se si trovasse ad affrontare nel quotidiano gli stessi problemi, non riuscirebbe a vederne il lato che fa sorridere. Anche molti disabili dubito che riescano a prendere le loro esperienze di vita con ironia. Invece è la loro stessa natura che regala alle persone con deficit una marcia in più, perché riescono naturalmente a fare quello che Socrate cercava artificiosamente di ottenere. Infatti, la persona con deficit può apparire meno dotata di quello che è realmente. Socrate fingeva di non capire per ottenere le risposte che cercava. Invece, ad esempio, nel mio caso, io al contrario mi devo ingegnare per far comprendere all’interlocutore che capisco quello che mi sta dicendo e che ho l’uso dell’intelletto anche se non posso muovermi autonomamente. Personalmente trovo molto ironico che in tanti pensino, quando mi incontrano, che io sia anche ritardato mentale solo perché ho difficoltà nei movimenti e nell’espressione. A me sfugge quale relazione ci sia fra le due cose, ma evidentemente i più, di primo impatto, pensano questo, per uno strano collegamento mentale. Così io, per indurre chi mi sta di fronte a spogliarsi di ogni barriera e a dire sinceramente ciò che pensa, non devo fingere ignoranza come Socrate: la gente pensa da sola che io lo sia. Quindi posso giocare sull’effetto-confutazione con minore sforzo filosofico, sfruttando l’effetto sorpresa della dimostrazione che il mio quoziente intellettivo non è solo normale, ma credo, senza falsa modestia, anche superiore alla media. Quando capita, trovo molto ironiche le espressioni stupite delle persone che mi stanno di fronte. D’altra parte, se uno non fa almeno dell’autoironia, soprattutto se versa in una situazione di apparente difficoltà, rischia di cadere nella cultura della tragedia. Vorrei far notare ai lettori che anche la tragedia è stata inventata dai Greci. Ironia della sorte, di nuovo! Tale popolo ha inventato l’ironia e anche la tragedia. Inoltre, tutte e due le cose venivano apprezzate per l’effetto catartico. Se lo spettatore vedeva sulla scena l’omicidio di una moglie da parte di un marito, secondo gli antichi Greci questa visione purificava i suoi insani propositi di omicidio verso la propria, reale consorte, dunque non commetteva il delitto ma sfogava il suo istinto vedendolo compiere dagli attori sulla scena. Analogamente, l’ironia socratica mirava a evitare che si compissero errori di valutazione, i quali avrebbero potuto trasformarsi in azioni sbagliate. Anche Nietzsche nella sua opera La nascita della tragedia contrappone lo spirito apollineo a quello dionisiaco e individua proprio nell’avvento di Socrate la morte definitiva della cultura della tragedia greca. Infatti lo spirito apollineo, con la sua razionalità e la volontà di incatenare in schemi mentali predefiniti la realtà, decreta la morte di quel pessimismo generato dal caos che lo spirito dionisiaco portava in sé. La tragedia di Eschilo e Sofocle incarnava il perfetto equilibrio fra le due tendenze, ma con l’adventus di Socrate sulla scena filosofica, con la sua capacità di razionalizzare tutto, si andò incontro a una inevitabile decadenza. L’ironia, non a caso, è molto razionale. Non tutti sono in grado di coglierla, soprattutto se è solo una sfumatura. Si può ironizzare su cose che sono passibili di più livelli di lettura. In alcuni casi, bisogna essere molto colti per cogliere aspetti ironici in un discorso. L’umorismo e il riso, infatti, sono più legati all’istinto e di più facile comprensione. Ad esempio, nel celebre romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa, che è un capolavoro letterario soprattutto in virtù della complessità dei diversi piani di lettura, l’ironia è molto presente. Tuttavia, solo una parte dei lettori sa coglierla, perché alcuni si fermano al più basso livello di interpretazione, quello che vuole il libro come un semplice thriller a sfondo storico. Invece, il libro contiene in sé molteplici piste di lettura: medievista, critico-letteraria, semiotico-testuale, etico-religiosa, sociologica, storico-letteraria, fisica. Molti critici hanno detto che il romanzo è una narrazione di ciò che Eco non riusciva del tutto a teorizzare come semiologo. Il nome della rosa va letto dal lettore attento secondo i quattro sensi dell’allegorismo medioevale, enunciati da Dante nella lettera a Cangrande della Scala: romanzo storico e romanzo poliziesco secondo l’interpretazione letterale, romanzo a chiave sulla realtà contemporanea secondo l’interpretazione allegorica e romanzo di idee logico-filosofiche, in cui l’etica e la semiotica si fondono, secondo il livello morale. Il protagonista, non a caso, confessa nell’enigmatico finale che il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci della passione insana della verità. L’ironia dunque non è per tutti, è strumento di grande razionalità e grande complessità. Se essa può coinvolgere anche la verità, significa che può conoscerla, che può andare al cuore delle cose, come raramente accade per altre vie. Di tutte le vie razionali per conoscere la verità delle cose, quella dell’ironia mi sembra comunque la più piacevole. Pertanto, in virtù del mezzo sorriso che desta è senz’altro preferibile a pesanti disquisizioni filosofiche, come quella che io ho appena fatto in questo mio articolo.

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