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Verso un nuovo modello di lavoro e di impresa

Michela Marzano, filosofa e professore associato di filosofia morale all’Université Paris Descartes, è una delle pensatrici più importanti e innovative nello scenario europeo, ed è nota al pubblico italiano anche come editorialista di “ la Repubblica”. In Estensione del dominio della manipolazione. Dall’azienda alla vita privata (Milano, Mondadori, 2009) ha condotto una delle analisi più lucide e spietate della cultura aziendale oggi dominante, le cui contraddizioni producono alienazione individuale ed esclusione sociale.

In un mondo in cui la competizione economica richiede la qualità totale, il lavoratore con grave disabilità, che può essere impossibilitato a una produttività tecnica pari a quella dei normodotati, costituisce una sfida a un intero modello produttivo – è possibile un’integrazione in un modello diverso, l’integrazione fa soltanto parte della Responsabilità Sociale di Impresa, o ci sono altri modi di vedere questo fenomeno?
La questione è complicata, perché il lavoratore con disabilità mette in crisi completamente il modello. La concezione lavorativa dominante, estremamente utilitarista, riduce l’individuo a non essere altro che una somma di competenze, da cui dipende la sua impiegabilità – ma siccome le competenze vengono sistematicamente valutate in base a standard rigidi, tutti coloro che si allontanano da essi finiscono automaticamente con l’essere penalizzati, perché sono ciò che rinvia al “meno” rispetto a questi standard definiti in maniera rigida; il problema è quindi come fare spazio non tanto al “meno”, ma al “differente”. Secondo me uno dei problemi della società attuale, che si ritrova poi a livello del lavoro, è quello di promuovere un modello unico di individuo, in base al quale tutti devono assomigliare, e quindi ogni differenza viene automaticamente letta in termini di inferiorità, con una emarginazione crescente di tutti i diversi, in particolare di coloro che soffrono a causa della propria differenza. Per chi soffre a causa di un handicap, oltre alla differenza inerente alla condizione umana (ognuno di noi è diverso da tutti gli altri), si aggiunge una sofferenza legata a una propria differenza “che pesa”, e quindi alla penibilità della propria differenza si aggiunge lo sguardo della società che contesta, emargina e ha tendenza a rigettare tutti coloro che non corrispondono a un certo standard. Non si tratta solo di un problema a livello lavorativo, ma ha portata più generale, di un’ideologia della società, che si deve poter smontare e decostruire per permettere poi di accogliere le persone che soffrono di un handicap all’interno di un modello lavorativo che deve esso stesso cambiare.

In particolar modo in Italia, esiste il modello alternativo delle cooperative sociali tra o con lavoratori con disabilità, o comunque svantaggiati. Questo può essere realmente un modello di sviluppo o, entro il contesto attuale di mercato, copre solo nicchie marginali per definizione?

Nel modello attuale, copre delle nicchie e quindi per certi aspetti non permette alla situazione di evolvere in maniera generale. È importante che la cooperazione sociale esista come fenomeno, perché permette ad alcune realtà di sussistere, ma c’è anche la possibilità di una auto-esclusione, perché se questo modello alternativo non si integra nella società a livello più generale, il rischio è quello di farne una atipicità sociale e quindi di escludere in blocco delle “fette di realtà”. Si dovrebbe invece prendere esempio da questi tentativi, per integrarli però entro modelli più generali, non farne delle eccezioni ma analizzarli come possibilità di cambiare la struttura interna delle società o delle aziende dominanti.

Per alcuni tipi di disabilità un contesto molto strutturato di lavoro può essere quello migliore, e la presenza di margini di autonomia nello svolgimento del lavoro, che normalmente può essere un elemento di miglioramento, può risultare problematica. Come può conciliarsi questa esigenza con la richiesta di autonomia, con tutte le sue ambiguità, che la cultura aziendale propone ai lavoratori?

Credo che uno dei nodi stia nel significato stesso che si dà al termine “autonomia”. L’autonomia non si oppone sistematicamente e necessariamente alla dipendenza, non è l’indipendenza totale; si è autonomi quando si ha la possibilità di portare avanti un proprio progetto, sempre nella consapevolezza che questo progetto ci lega agli altri e che siamo tutti interconnessi. Il problema è che progressivamente, in questi ultimi venti anni, si è voluto fare dell’autonomia una forma di indipendenza, come sinonimo di “non dipendo da niente e da nessuno”, e quindi ogni realtà in cui si mettono in evidenza le dipendenze reciproche e intersoggettive viene automaticamente classificata come “anti-autonoma”. Ora, io non credo che ci sia un’opposizione tra l’autonomia dell’individuo e la dipendenza: tutti dipendiamo almeno in parte dagli altri, senza perdere la nostra autonomia morale. Quando amiamo una persona, ad esempio, la nostra gioia dipende anche dal modo in cui questa persona accetta e ricambia il nostro amore. È per questo che una persona che presenta un certo tipo di disabilità e che dipende, per poter compiere mansioni o svolgere ruoli nella propria vita, anche dagli altri, non è automaticamente “non-autonomo”: può esserlo da un punto di vista fisico, ma l’autonomia è un concetto morale, è ciò che permette di diventare attori della propria vita, e quando lo si diventa si può anche domandare aiuto agli altri – anzi, è spesso domandando aiuto all’altro che si è consapevoli dei propri limiti e quindi ancor più consapevoli della propria autonomia e della propria soggettività. Si tratta quindi secondo me di ridefinire lo stesso concetto di autonomia, non opponendolo a quello di dipendenza, e cercare di mostrare come anche compiere delle operazioni ripetitive non tocca l’autonomia individuale: ci si può appoggiare sugli altri senza per questo essere “agenti non-autonomi”.

Molto importante per una buona integrazione della persona disabile nel contesto lavorativo appare la costituzione di reti informali tra i lavoratori dello stesso ufficio o reparto. Fino a che punto possono queste reti restare indipendenti dal management, o viceversa può essere la direzione aziendale stessa a promuoverle, anche per svuotarle di ogni possibile contenuto oppositivo (lo “spirito di fabbrica” di alcuni decenni fa)?

Tutto può essere recuperato, ma quello che mi sembra importante è proprio il concetto di rete. Il modello del management che critico è quello che distrugge ogni forma di rete, formale o informale, per concentrarsi sull’individuo isolato da tutti gli altri, e dunque molto più debole e fragile, con lo scopo di rompere ogni forma di solidarietà. Queste reti, anche quando sono informali, possono permettere di ricreare una forma di solidarietà, anche se poi, perché questa solidarietà possa diventare veramente un argine rispetto a un management che destabilizza, bisogna che da informali le reti possano progressivamente diventare formali, e quindi essere riconosciute come un contropotere. D’altronde, è solo nel momento in cui ci sono poteri e contropoteri che si può permettere a una società nel suo insieme di svilupparsi.

Un ruolo fondamentale per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità va attribuito ai decisori aziendali come persone – e in questo un grande impatto ha avuto il contatto che queste persone hanno avuto, grazie all’integrazione scolastica avviata negli anni ’70, con compagni in situazione di handicap prima ghettizzati, creando una sensibilità che può portare a inserimenti anche oltre i vincoli imposti dalla legge. È possibile che questi operatori si ritaglino uno spazio di autonomia rispetto a culture aziendali che, mirando alla massimizzazione dei profitti, tendono a vedere questi inserimenti lavorativi come costi?

Sicuramente sono anche dei costi, ma ci sono dei costi che qualunque tipo di società deve essere disposta ad accettare perché il benessere collettivo possa essere massimizzato. Anche in termini di utilità è quindi necessario prendere in conto una serie di costi, e oltre a concentrarsi sul corto termine occorre ragionare sul lungo termine, in cui questi costi vengono integrati e riassorbiti e, attraverso un clima di solidarietà e anche di collaborazione più “tranquilla” tra i vari agenti, permettono all’azienda stessa di massimizzare i propri profitti. La questione che però si pone è quella dell’educazione: è importante, perché la situazione cambi a livello generale e nelle varie aziende, fare in modo che già a livello educativo questo modello possa diffondersi, fare sì che non siano solo alcuni elementi marginali a confrontarsi con la differenza, l’handicap e la sofferenza, ma, in fondo, tutti. Deve rientrare all’interno di un modello educativo, che deve quindi evolvere, il prendere in conto e fare spazio alle differenze e alla fragilità. Questo è però sempre più difficile perché, non bisogna dimenticarlo, sempre di più anche il modello educativo e scolastico si basa e si struttura su una serie di competenze; adesso si parla anche di “scuola di competenze” – è come se il modello del management fosse stato trapiantato e stesse progressivamente trapiantandosi anche nel mondo dell’educazione. Il problema è quindi tenere ferma l’importanza di un’educazione che non si riassuma semplicemente nello sviluppo di competenze, ma che permetta effettivamente di essere a contatto con realtà diverse, in modo da poter poi, nella vita attiva e nella vita professionale, integrare ciò che si è imparato a livello scolastico.

Il fatto che la tendenza all’integrazione scolastica e al superamento dell’educazione differenziale, in cui l’Italia ha fatto da apripista a tutta l’Europa, non “passi” nelle culture aziendali che sono rimaste alquanto distanti da essa, e anzi si registri nell’educazione stessa un regresso, ad esempio costruendo portafogli di competenze molto rigidi e rifiutando i rallentamenti nel passo di apprendimento legati all’unità del gruppo-classe, può essere considerato un fallimento dell’educazione inclusiva?

Direi che è un fallimento nel senso che il modello non è stato spinto fino in fondo, non si è generalizzato realmente nell’educazione, per cui è fallito nella misura in cui non è stato provato in tutte le strutture educative. In fondo è un fenomeno piuttosto marginale: sono poche le classi in cui sono presenti bambini con forti handicap. Io credo che il modello si debba generalizzare a livello educativo, per poter in seguito passare anche a livello lavorativo, anche se per questo è importante la consapevolezza della necessità di superare il corto termine, ancora una volta, per valutare le strategie a lungo termine.

La crisi finanziaria tra 2008 e 2009 si è spostata nell’economia reale e nel lavoro, e oggi vediamo, come nel caso della Grecia, che le prassi della finanza non sono cambiate rispetto a prima della crisi. Ci sono prospettive di maggiore ottimismo per un modello di lavoro e di impresa diverso da quello che abbiamo visto negli ultimi vent’anni?
Purtroppo, è come se non si riuscisse a tirare tutte le conseguenze di questa crisi. È vero che la finanza ha ricominciato a funzionare esattamente come funzionava prima, senza voler rendersi conto delle conseguenze catastrofiche del fatto di avere dimenticato la realtà in quanto tale. Non si tratta tanto di essere ottimisti o pessimisti: io credo che il modello dell’economia finanziaria, con poi un impatto sull’economia reale, così come lo si conosce non può continuare. Per forza di cose si sarà costretti a un cambiamento, perché il fatto che la crisi a livello economico sia ancora forte e non si riesca a uscirne è la prova che questo modello in qualche modo deve essere cambiato. Però, perché le cose cambino, c’è bisogno di tempo; per cui, anche se la constatazione che si può fare oggi, rispetto alla situazione di fatto, è piuttosto negativa, non per questo non mi sento di essere ottimista, e credo che pian piano questo modello cambierà.

Lei vede quindi un cambiamento graduale e non traumatico, per una spinta o dall’alto, con una politica che riprenda il proprio primato, o dal basso, con qualche forma di “sommovimento popolare”?

Io lo vedo semplicemente progressivo, perché qualunque cambiamento traumatico non può che implicare conseguenze ancora più traumatiche. Questo però è un punto di vista molto soggettivo: io credo che le cose si possono e si devono cambiare, ma progressivamente, perché ogni strappo, che venga dall’alto o dal basso, lo si paga poi caro.




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