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autore: Autore: di Massimiliano Rubbi

La densa leggerezza dell’integrazione: l’esperienza con pazienti psichici della compagnia tedesca Theater Sycorax

Dal Woyzeck a spettacoli originali molto particolari, come Sehnsuchtsschwimmer (“Nuotatore nella nostalgia”) ambientato in un aeroporto, o Am Anderen Ende ist der Himmel (“Dall’altra parte c’è il cielo”) con un campo di allenamento competitivo che richiama la vita. Con 15 anni di attività alle spalle, Theater Sycorax, con sede a Münster (Nord Reno-Westfalia), è una delle compagnie teatrali che lavorano con pazienti psichiatrici più affermate e al contempo più innovative del panorama tedesco. Abbiamo intervistato Manfred Kerklau, uno dei due direttori artistici della compagnia.

Come è nato Theater Sycorax, e da quali motivazioni?
Theater Sycorax è stato fondato nel 1996 da Paula Artkamp, attrice e regista con una forte esperienza nel teatro “off”. La motivazione per avviare una produzione con persone con un background psichiatrico era basata sul desiderio di fare esperienze artistiche differenti e di offrire uno spazio per questo gruppo dove potessero occuparsi della propria creatività in un contesto non psichiatrico.
Paula Artkamp entrò in contatto con diversi ospedali psichiatrici e altre istituzioni per trovare partecipanti per questo lavoro teatrale, ma c’era grande scetticismo e avversione, così come la sensazione che fare teatro potesse non essere un buon consiglio per persone con disordini psichiatrici. Solo un’organizzazione socio-psichiatrica sostenne il progetto. Un operatore sociale accompagnava le prime prove, ma gli attori si opposero, perché durante il loro lavoro artistico non volevano essere osservati da un punto di vista terapeutico.
Dopo 14 anni di lavoro teatrale di successo, con molte esibizioni, oggi Theater Sycorax è ben avviato. A volte terapisti spediscono clienti al gruppo, e ci sono anche istituzioni che apprezzano il lavoro del teatro.
La prima produzione del teatro fu un libero adattamento di La Tempesta di W. Shakespeare. Da questo deriva il nome del gruppo (Sicorace è la strega che governava l’isola di Prospero e diede alla luce suo figlio, Calibano).
Con l’avvio del secondo progetto la guida artistica fu assunta dalla squadra composta da Paula Artkamp e Manfred Kerklau. Fino a ora abbiamo rappresentato 15 produzioni teatrali in co-direzione. La dimensione del cast dei diversi progetti teatrali andava da 7 a 17 persone. Alcune sono ancora con noi dall’inizio, ma la nostra idea è di aprire il gruppo a nuovi partecipanti per ogni nuovo progetto. Fino a ora, oltre 50 persone hanno partecipato a uno o più progetti.

Le compagnie teatrali che lavorano con persone che hanno disordini psichiatrici sembrano dover trovare un continuo equilibrio tra esigenze estetiche di sensibilizzazione sociale e terapeutiche. Se siete d’accordo con questa idea, quale equilibirio avete trovato nella vostra attività?
Il nostro lavoro si concentra sull’arte e sul potenziale delle abilità creative degli attori. Non stiamo lavorando terapeuticamente. Comunque, i principi del nostro lavoro sono nel cercare le forze e i talenti degli attori: la conferma, la comunicazione positiva e la promozione di uno spazio sicuro dove alle “cose da pazzi” è consentito di essere espresse artisticamente.
Oltre a ciò facciamo molto lavoro sul corpo: esercizi per la percezione del proprio corpo, dello spazio e del gruppo, allenamento della concentrazione e della voce e altro.

Come dite nel vostro sito web, “il segreto di essere selvaggi e diversi così come artisticamente controllati rimane”. Come gestite le esigenze speciali di ogni membro della vostra compagnia insieme all’esigenza “da regista” di controllo e ordine prima del e sul palco?
Il nostro lavoro teatrale offre uno spazio aperto con regole formali e sociali chiare per sviluppare la propria creatività. Questo approccio positivo e l’accettazione di ogni persona crea un’atmosfera affidabile per riunioni sociali oltre che per il lavoro artistico.
Nelle nostre produzioni il lavoro d’insieme è molto importante. Passiamo molto tempo nell’allenamento sul lavoro corale, sul gruppo che sostiene il protagonista della scena. In ensemble ci si prende cura l’uno dell’altro, sul palco si deve dimostrare il proprio valore insieme. Questo dà molta sensibilizzazione sociale a ognuno.
Durante il processo di lavoro c’è un sacco di input strutturato su un livello formale. Attraverso tutto quell’input e i compiti per eseguire la parte artistica (testo, connessione del testo, movimenti concreti del corpo, posizione sul palco, ecc.) gli attori non hanno possibilità di scivolare o perdersi dentro i loro mondi interiori.
Con una direzione artistica chiara ed esplicita cerchiamo di attuare il principio del sostegno personale a livello personale. Tutti i membri dell’ensemble sono integrati nello sviluppo delle scene teatrali e del lavoro artistico.

Molti degli spettacoli più recenti nel vostro repertorio sembrano trattare questioni esistenziali ma con un tono grottesco o apertamente comico. Questo approccio è il frutto di una direzione specifica quando allestite una nuova rappresentazione?
Il testo o il tema per una nuova rappresentazione viene dato dalle guide artistiche con un chiaro interesse per temi essenziali, ma le rappresentazioni teatrali si sviluppano in un processo aperto, in un senso di “work in progress”. Usando molta improvvisazione e partendo dalle possibilità e abilità degli attori, la rappresentazione teatrale si sviluppa e cambia durante le prove. Certo ci sono sempre alti e bassi, eccitazione e divertimento ma anche sopportazione e dedizione. Nel nostro lavoro cerchiamo di mantenere una leggerezza nella messa in scena di scene forti, drammatiche e profonde.

Come pensate che l’inclinazione di molte compagnie teatrali che lavorano con pazienti psichici a portare avanti un teatro di ricerca e di avanguardia incida sul loro riconoscimento, sia nell’ambiente teatrale che tra il pubblico?
Considerando le restrizioni specifiche degli attori da un lato, e dall’altro le loro esperienze individuali e straordinarie, cerchiamo di creare una forte autenticità e una “densità atmosferica” sul palco – la qualità propria di Theater Sycorax. Ciò si ottiene, tra le altre cose, attraverso il costante allenamento di gruppo e attori.
Non sappiamo se questo sia orientato all’avanguardia o alla ricerca. Cerchiamo di offrire agli attori forme di espressione, per riflettere qualcosa delle loro esperienze sul loro mondo interiore. Questo è un compito speciale, trovare queste forme e offrire prospettive bizzarre.

Avete aneddoti riferiti alla preparazione o all’interpretazione delle rappresentazioni che esprimano lo spirito del lavoro di Theater Sycorax?
Una volta avevamo una prova costumi e ricevemmo una telefonata da un’attrice – diceva che non poteva venire, perché era all’ospedale psichiatrico, ma sarebbe venuta il giorno dopo. Finimmo la prova costumi senza di lei e ci mettemmo d’accordo che lei sarebbe potuta venire alla prima e alle rappresentazioni successive andandola a prendere all’ospedale e riportandola direttamente dopo le rappresentazioni.
Spesso abbiamo avuto come ritorno il fatto che i professionisti psichiatrici riuscivano a malapena a riconoscere i loro pazienti quando li vedevano esibirsi sul palco.
Gli attori guadagnano molta autostima dal lavoro. Quando un attore iniziò, i suoi genitori lo accompagnavano in macchina alle prove, perché era molto dipendente da loro. Da allora, si è trasferito in un appartamento proprio e vive una vita mobile e indipendente.

Per informazioni:
www.theatersycorax.de

Uniti per la diversità. Le attività dell’Intergruppo della Disabilità al Parlamento Europeo

Nell’uscita di marzo 2005 di “HP-Accaparlante”, avevamo tentato di accendere i riflettori su un’istituzione comunitaria poco nota: l’Intergruppo della Disabilità presso il Parlamento Europeo, nel quale europarlamentari di diverse nazionalità e appartenenze politiche lavorano fianco a fianco per la promozione dei diritti e il miglioramento delle condizioni di vita delle persone con disabilità. L’Intergruppo, istituito nel 1980 (tra i primi in assoluto del Parlamento Europeo), ha la segreteria presso l’European Disability Forum, l’organizzazione indipendente rappresentativa delle persone con disabilità e delle loro associazioni a livello europeo, allo scopo di garantire una stretta interfaccia tra rappresentanti e rappresentati.
Sei anni fa, anche grazie alle interviste concesse dai due membri italiani Marta Vincenzi (oggi Sindaco di Genova) e Antonio De Poli, erano emerse alcune caratteristiche dell’Intergruppo: lo spirito di collaborazione tra membri di diverse nazioni e gruppi parlamentari (a differenza di quanto avviene nelle commissioni), l’esempio della battaglia vinta nel 2001 dal presidente Richard Howitt in materia di accessibilità degli autobus urbani, l’impegno allora in corso per una direttiva “orizzontale” contro la discriminazione.
In questi anni, molto è cambiato, e non solo perché le nuove elezioni dell’Europarlamento hanno imposto di rinnovare la composizione dell’Intergruppo: le bocciature sulla Costituzione Europea da parte dei cittadini di Francia e Paesi Bassi nel maggio/giugno 2005 hanno imposto uno stop alle politiche di integrazione continentale e avviato un loro ripensamento, che non può dirsi concluso dal Trattato di Lisbona del 2007; la crisi economica iniziata nel 2008 sta mettendo a repentaglio la stabilità finanziaria di diversi Paesi membri, e in discussione la tenuta dell’Euro; con le elezioni del 2009 si è rafforzata nel Parlamento Europeo la componente euroscettica o apertamente nazionalista, talora con venature di estrema destra (si pensi al British National Party). Recentemente, la Commissione Europea ha approvato la Strategia Europea sulla Disabilità 2010-2020, che definisce il quadro per le azioni in materia in questo decennio. Come si sta muovendo il nuovo Intergruppo della Disabilità in questo contesto non semplice? Abbiamo cercato di fare il punto con l’aiuto, anche questa volta, di due membri italiani dell’Intergruppo di differente appartenenza politica: Debora Serracchiani (PD – Gruppo Socialisti & Democratici) e Claudio Morganti (Lega Nord – Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia), che è anche uno dei vicepresidenti dell’Intergruppo.

Un presidente non comune, un’azione condivisa
Il nuovo Intergruppo della Disabilità si compone di 98 europarlamentari – in calo, va segnalato, rispetto ai 111 della precedente legislatura, ma sempre l’intergruppo europeo più popoloso. Dal momento che l’adesione è volontaria e legata a un particolare interesse per la tematica, ci si potrebbe attendere che i gruppi più numerosi siano quelli dei Paesi più avanzati in materia di integrazione sociale delle persone con disabilità, ma il quadro risulta più complesso: la nazione con il gruppo più nutrito è l’Ungheria con ben 14 europarlamentari (oltre la metà di tutta la rappresentanza a Strasburgo!), seguita dal Regno Unito con 13, dalla Grecia con 12 e dall’Italia con 10 – si segnalano anche i soli 2 rappresentanti per la Francia e la totale assenza di un rilevante “nuovo Stato membro” come la Polonia.
Alla presidenza dell’Intergruppo è stato eletto per acclamazione Adam Kosa, giovane europarlamentare ungherese che, insieme al collega francese Philippe Juvin, è il primo membro sordomuto nella storia del Parlamento Europeo. Kosa, avvocato 36enne e Presidente del FESZT, il Consiglio Nazionale ungherese delle organizzazioni di persone disabili, ha tenuto il 15 luglio 2009 il primo intervento in linguaggio dei segni che l’Europarlamento abbia mai ospitato, e continua a battersi per un più esteso riconoscimento delle lingue dei segni in Europa.
I parlamentari europei che fanno parte dell’Intergruppo sembrano più uniti dalla propria sensibilità per il tema della disabilità che divisi dalle differenti appartenenze politiche e nazionali: Morganti rileva che “i membri che lo compongono hanno tutti uno spiccato interesse per la materia, e cercano di agire al meglio, indipendentemente da condizionamenti vari, per cercare di essere il più possibile utili alla causa che hanno a cuore”. Al contempo, l’attività dell’Intergruppo dipende molto dall’impegno (e dagli impegni) dei suoi membri, e dall’altro dalle capacità di stimolo degli altri organi comunitari – è sempre Morganti ad affermare che “siamo soggetti anche a un maggiore o minore coinvolgimento a seconda della Presidenza UE di turno, e questo non ci agevola molto, poiché ci sono presidenze molto attive e altre un po’ più lassiste (come purtroppo quella ungherese del primo semestre 2011)”.

Le vie all’integrazione
Su quali linee si sta muovendo la legislazione dell’Unione Europea cui l’Intergruppo sta fornendo importanti contributi? Da un lato, rimangono al centro i concetti tradizionali di “accessibilità” e “non-discriminazione”: la Strategia Europea sulla Disabilità 2010-2020 si dichiara “incentrata sull’eliminazione delle barriere” in 8 ambiti. Ad esempio, parlando di diritto alla mobilità (tema al centro delle campagne dell’European Disability Forum nel 2011), Serracchiani segnala che “ci sarà prima uno studio che identificherà le barriere che limitano le persone a mobilità ridotta nell’uso di mezzi di trasporto o nell’accesso ai servizi pubblici. Lo studio fornirà le basi per lo sviluppo di una nuova legge europea sugli standard di accessibilità”. L’obiettivo finale in questo senso può essere lo “statuto dell’Unione sulla disabilità” che secondo Serracchiani è stato concordato tra Presidente dell’Intergruppo e Presidente del Parlamento Europeo, e che porterà a incontri biennali tra gli organismi dell’Unione per analizzare le sfide che rimangono da raggiungere per le persone disabili, o in altro senso una “Legge Europea sulla Disabilità” che stabilisca in tutti i campi gli standard minimi di accessibilità.
In altre attività degli organismi europei emerge tuttavia una linea guida sottilmente differente, implicitamente descritta da Morganti quando afferma: “vado molto fiero del fatto che oramai, in ogni discussione e provvedimento relativo al Bilancio dell’Unione europea, si faccia riferimento e si tenga conto delle necessità e peculiarità delle persone con disabilità: era un
impegno che mi ero assunto in qualità di vice-presidente dell’Intergruppo e Membro
effettivo della Commissione Bilancio del Parlamento europeo, e devo dire che ciò sta
funzionando”. Le esigenze delle persone con disabilità non sono quindi, almeno in alcuni casi, oggetto di norme e indicazioni specifiche, quanto integrate nella legislazione relativa a tutti gli ambiti che possono incidere su di esse – a partire, appunto, dalla destinazione delle risorse economiche comunitarie.
La differenza tra questi due approcci può apparire molto sottile, e probabilmente spesso lo è; un esempio può tuttavia essere significativo. In un’interrogazione alla Commissione Europea del 4 febbraio 2011 sul tema del diritto al lavoro, Morganti rileva “un drastico calo dell’occupazione delle persone con disabilità, nonché una scarsissima attività ispettiva e di controllo per valutare il rispetto delle regole in materia”, e chiede alla Commissione interventi più incisivi e dati sull’inserimento lavorativo nei diversi Stati europei. La risposta del Commissario Viviane Reding del 6 aprile conferma che “per le persone disabili la situazione del mercato del lavoro è sfavorevole in molti Stati membri e non è migliorata negli ultimi anni”, e rinvia a una serie di azioni proposte nelll’allegato alla Strategia 2010-2020. È però possibile chiedersi (e su questa rivista la domanda è già stata posta) se sia più efficace proporre iniziative specifiche sull’occupazione delle persone con disabilità, o piuttosto tentare di incidere sull’intero mercato del lavoro, per renderlo più accogliente (anche) per chi, essendo in situazione di handicap nel contesto di partenza, cerca di inserirvisi o di rimanervi.

Il piano nazionale e quello culturale
Un vincolo inevitabile all’efficacia delle attività dell’Intergruppo è legato al suo innestarsi in un processo decisionale europeo che, anche a causa delle battute di arresto all’integrazione prima citate, si rivela poco incisivo. Morganti non esita ad asserire che “l’Europa è per antonomasia il luogo del compromesso estremo, e quindi quasi tutte le decisioni si cerca di prenderle col massimo consenso possibile, magari a volte a scapito di una maggiore incidenza”. Forse ancor più rilevante è il fatto che le scelte adottate a livello europeo si traducono in provvedimenti concreti solo una volta recepite da leggi nazionali: è sempre Morganti a ricordare, a proposito della Strategia 2010-2020, che “in numerosi ambiti si dovrà agire seguendo il cosiddetto ‘metodo di coordinamento aperto’, ovvero che all’Unione europea spetta solamente la gestione e appunto il coordinamento delle politiche, e quindi sta ai diversi Stati membri implementarle nel migliore dei modi”. È pur vero che “il legiferare europeo ed italiano vengono necessariamente a contatto nell’implementazione delle norme comunitarie, e quindi i due processi diciamo che si fondono e si completano”, ma i meccanismi istituzionali attualmente in vigore rischiano di annullare o rallentare molto quel “traino virtuoso” con cui l’Europa potrebbe promuovere le migliori prassi nei vari Paesi, in materia di condizioni di vita delle persone con disabilità, elevandole a standard da rispettare in tutto il territorio dell’Unione – invece, secondo Serracchiani, “anche in questo, come in quasi tutti gli altri ambiti, la molteplicità degli ordinamenti e delle tradizioni dei vari Stati si riflette in una pletora di diversità”.
Anche per queste ragioni, l’esito dell’azione politica a livello europeo (e dello stimolo a essa portato dall’Intergruppo) va rilevato non solo nella definizione di regole giuridiche a favore delle persone disabili, quanto nella promozione di una cultura realmente e diffusamente inclusiva. Le differenze a livello europeo sono ancora marcate: se Morganti nota che a Bruxelles “molto è stato fatto per agevolare al meglio la vita delle persone disabili” in materia di mezzi di trasporto pubblici o di rispetto degli scivoli per carrozzine, Serracchiani avverte che “è sufficiente fare caso al numero di carrozzine che si vedono in strada per dedurne la maggiore o minore accessibilità di una società ai disabili: in Italia ne vediamo pochissime”. La concentrazione su un orizzonte culturale di lungo periodo non costituisce uno scarico di responsabilità per gli europarlamentari, ed anzi impone loro un impegno ancor maggiore perché mirato a cambiamenti profondi e duraturi, in un intreccio complesso con le diverse realtà sociali così espresso da Serracchiani: “la scuola è la madre dei grandi cambiamenti di lungo termine. Le campagne di sensibilizzazione sono certo utili, ma solo una radicata cultura dell’integrazione e del rispetto può modificare la vita dei disabili. In questo la politica ha una grandissima responsabilità, perché ci deve credere e investire, anche se forse non c’è consenso immediato”.

Disability Intergroup
Secretariat: Janina Arsenjeva
c/o European Disability Forum
Rue du Commerce 39-41, B-1000 Bruxelles, Belgio
Tel. +32.2.2824602
Cell. +32.473.983489
Fax +32.2.2824609
E-mail: janina.arsenjeva@edf-feph.org
www.edf-feph.org/Page_Generale.asp?DocID=18390

On. Debora Serracchiani
Parlamento Europeo – Bât. Altiero Spinelli 15G269
Rue Wiertz 60, B-1047 Bruxelles, Belgio
Tel. +32.2.2845531
Fax +32.2.2849531
E-mail: debora.serracchiani@europarl.europa.eu

On. Claudio Morganti
Parlamento Europeo – Bât. Altiero Spinelli 07H255
Rue Wiertz 60, B-1047 Bruxelles, Belgio
Tel. +32.2.2845121
Fax +32.2.2849121
E-mail: claudio.morganti@europarl.europa.eu

Verso una pedagogia dei fratelli? Spunti per una ricerca “all’europea” sui siblings

La prima cosa che colpisce nella ricerca sui siblings (fratelli/sorelle) delle persone con disabilità è la sua esiguità temporale e quantitativa. Se sappiamo molto dell’impatto che una prima informazione di disabilità o una patologia degenerativa in un bambino hanno sui suoi genitori, ben più in ombra rimane la reazione dei suoi fratelli o sorelle, e ancor meno conosciamo il rapporto che si sviluppa tra gli stessi bambini divenuti adulti – per non parlare degli effetti che sortisce nella persona con disabilità l’avere siblings e la relazione con loro. Tuttavia, una diagnosi di disabilità modifica (non necessariamente “sconvolge”) la situazione familiare nel suo complesso, e mentre i genitori hanno generalmente a disposizione una rete di supporto preesistente o attivata all’insorgere della patologia, che va a innestarsi sulle risorse di resilienza psicologica di un adulto, i fratelli e sorelle rischiano di restare soli con i loro contrastanti sentimenti. Solo gli ultimi anni hanno visto sorgere un certo fermento di attenzione e di ricerca sulle condizioni dei siblings di persone con disabilità: la ragione dominante va forse individuata nel fatto che l’allungamento delle speranze di vita e la deistituzionalizzazione prospettano a fratelli e sorelle (laddove esistono) un ruolo futuro di fornitori primari di cura nel “dopo di noi genitori”. Tuttavia, un interesse alle relazioni tra fratelli solo come “prossimi nella lista d’attesa” per la cura, nel contesto di quella che è stata chiamata “la servitù debitoria delle famiglie”, non è accettabile se non come stimolo iniziale a un’attenzione comunque da approfondire.

La solitudine dei numeri
La ricerca sui siblings di persone con disabilità ha preso il via circa 30 anni fa, prevalentemente in ambito nordamericano e australiano, concentrandosi sulle fratrie in età evolutiva, e basandosi fino a pochissimi anni fa sull’assunto implicito che la presenza di un bambino disabile avesse un effetto negativo sullo sviluppo degli altri membri della fratria – si può dire che in discussione fosse il “quanto” e il “come”, non il “se”. Sul finire del XX secolo, a questo filone “psicopatologico” di ricerca si è affiancata una diversa concezione: la disabilità come “fattore di stress”, e l’avere un fratello/sorella con disabilità come “problema” rispetto a cui il bambino e la famiglia possono attivare diverse strategie di soluzione – risorse di un “fare fronte” la cui analisi diventa il centro della ricerca, portando spesso a concludere che, almeno nei contesti familiari che la diagnosi di disabilità non distrugge, la presenza di un sibling con disabilità non incide sullo sviluppo psicologico di fratelli o sorelle normodotati. Solo negli ultimissimi anni si sono affermati studi che considerano la persona con disabilità come “persona” (e membro di una famiglia) prima e più che come “fattore”, e su questa base propongono un’analisi bidirezionale – non solo cosa significa l’ingresso della disabilità in famiglia per gli altri membri, ma come la persona con disabilità risente del rapporto con fratelli e sorelle.
Queste variazioni del paradigma di ricerca si connettono da un lato alla transizione dal modello medico a quello sociale della disabilità, e dall’altro all’affermarsi di approcci come la “psicologia positiva”, a loro volta difficilmente scindibili da una mutata percezione sociale (nelle società occidentali) del deficit, sempre meno associato allo stigma; è questo processo che consente a diversi studi dal 2000 in poi di affermare che per una famiglia “avere un bambino [o un fratello] con ritardo mentale non è necessariamente facile, ma conduce a una vita più piena e ricca”.
Un excursus così rapido non rende naturalmente giustizia alla complessità dei presupposti e degli esiti delle ricerche; tuttavia, sono spesso le ricerche stesse a pervenire a risultati così semplificati, circoscrivendo in partenza il proprio oggetto al punto da sottovalutare le molteplici dinamiche che incidono sulla relazione tra siblings. Anche senza spingersi ad affermare che “i problemi dei siblings delle persone con disabilità intellettive e dello sviluppo sono da concepire come una regolazione tra un individuo e il suo contesto socio-culturale”, è evidente che sulle relazioni entro la fratria influiscono fattori esterni, come la comunità di vita e un sistema istituzionale di welfare che possono fornire o meno sostegno alla famiglia, e a un livello più ampio le caratteristiche della cultura sociale di riferimento (dal grado di discriminazione e segregazione dell’handicap alle aspettative sul ruolo di cura tra fratelli alle differenti età). Numerosi però anche gli elementi interni alla fratria o alla famiglia che possono determinare la relazione: tra i più rilevanti, il genere, le differenze di età tra fratelli, il loro ordine di nascita, la condizione socio-economica della famiglia, o il grado stesso di “genitorialità differenziale” (la maggiore cura che i genitori tendono a dedicare al figlio con disabilità a danno di quelli normodotati), spesso rilevata dagli studi come “problema” inerente alle fratrie con membri disabili ma che può esistere, per differenti motivi, in qualunque famiglia.
La maggioranza delle ricerche si propone di governare questa complessità individuando, in parallelo al gruppo di fratrie analizzate in cui uno dei componenti sia disabile, un gruppo di controllo composto da siblings normodotati, omogeneo per quanto possibile al primo. Ciò che viene messo in dubbio da alcuni contributi più recenti è proprio la validità di tale metodologia: all’atto pratico, vengono individuate entro una comunità alcune famiglie in cui è presente una persona con una determinata disabilità, quelle che tra esse accettano di aderire alla ricerca costituiscono il gruppo di analisi, e viene costruito un gruppo di controllo che ricalchi il gruppo di analisi secondo una variabile, in genere legata all’età e al genere (e a volte anche all’ordine di nascita tra i siblings). In questo modo, oltre a costituire necessariamente campioni numericamente piccoli che limitano in partenza la generalizzabilità delle conclusioni, diventa molto difficile capire se le differenze (o, come si è visto per la ricerca più recente, le identità) tra i due gruppi siano legate alla disabilità, individuata sin dalle premesse di ricerca come fattore decisivo, oppure ad altri aspetti che incidono sulle dinamiche relazionali. Zelinda Stoneman osserva che “è possibile che alcuni degli effetti negativi attribuiti alla cura tra siblings in studi passati in realtà fossero causati da tensioni pervasive nell’infanzia associate alla povertà”, e più in generale che “le differenze tra gruppi di siblings non possono essere attribuite alla presenza di un bambino con disabilità se i siblings o le loro famiglie differiscono in altre direzioni che potrebbero essere plausibilmente responsabili delle differenze tra gruppi”.
Un metodo che sacrifica il riconoscimento della complessità sull’altare di un’obiettività da laboratorio sembra dunque responsabile di esiti che si riducono a definire la presenza di un sibling con disabilità come “è peggio”, “no, è uguale”, “anzi, in realtà è meglio”, quando in realtà “i siblings ‘medi’ sono una creazione statistica e probabilmente esistono solo sui tabulati dei computer”; come sostengono Hodapp, Glidden e Kaiser, “finora, la maggior parte dei ricercatori si sono chiesti se i siblings di bambini con disabilità differiscano dai siblings di bambini che si sviluppano tipicamente, ma anche altre domande sono pertinenti”. Pochi studiano come si evolvono le relazioni tra siblings nel corso della vita, dall’infanzia all’età adulta, con i relativi mutamenti delle necessità di cura, oppure quali differenze si riscontrano in base al tipo di disabilità: dall’incrocio di queste due dimensioni, ad esempio, uno studio di Seltzer, Greenberg, Orsmond e Lounds rileva che la diagnosi precoce del ritardo mentale induce una relazione “calda” tra siblings che costituirà in età adulta un fattore di reciproco benessere e faciliterà l’assunzione della cura da parte del fratello o sorella normodotato, mentre il disagio mentale, diagnosticato in genere in età adolescenziale o adulta, impone all’inverso – per indurre uno stesso esito di benessere – la capacità di distacco tra i siblings. Nella prospettiva di un maggior rispetto della complessità, ancor più cruciale potrebbe essere la strada delle analisi comparative tra nazioni, o anche tra gruppi socio-culturali dello stesso Paese, in modo da individuare l’impatto dei fattori culturali sulle relazioni tra siblings e superare l’attuale prevalenza di studi su famiglie occidentali della classe media. La ricerca sembra invece catturata in una “inerzia scientifica” per cui, nelle parole di Stoneman, “continuare a porsi le stesse domande nello stesso modo promette poco per l’avanzamento della nostra conoscenza futura”.

Da oggetti a soggetti
La ricerca sui siblings si trova dunque di fronte alla necessità di adottare una serie di correttivi metodologici, in gran parte già individuati dai ricercatori stessi: una più accurata definizione del tipo e del grado di disabilità oggetto di studio (in modo da “districare quali caratteristiche della relazione siano comuni tra tutti i siblings di persone con disabilità dello sviluppo e quali siano specifiche di certe condizioni o diagnosi”), l’avvio di indagini comparative tra differenti contesti sociali, lo studio dell’evoluzione delle relazioni tra i siblings dalla nascita alla vecchiaia. In una prospettiva di analisi quantitativa, questi correttivi sono così riassunti da Stoneman: “le risposte a importanti domande relative alle caratteristiche dei bambini e alle traiettorie di sviluppo dei siblings saranno possibili solo quando ampi studi multi-sito di siblings forniranno sufficiente potenza statistica per iniziare ad affrontare queste complesse, ma importanti domande”.
Questo progresso metodologico, pur necessario, lascia tuttavia inevasa una diversa esigenza, che pure emerge, di coinvolgere le famiglie (e quindi le fratrie) non più come “oggetti” di ricerca, ma come “soggetti” attivi della stessa – un coinvolgimento che comporterebbe non soltanto il miglioramento di metodi e obiettivi di ricerca, bensì una loro ridiscussione generale, orientando l’attenzione da un lato alle peculiarità dei singoli casi, e dall’altro alle potenziali ricadute operative degli esiti raggiunti. Come scrive Sue Swenson, “gli scienziati e i filosofi (e chi elargisce sussidi) hanno, come ha evidenziato John Dewey, una preferenza per la sicurezza e la certezza teorica; per unità, permanenza e universali, piuttosto che pluralità, cambiamento e particolari. Le famiglie – genitori, nonni, siblings – hanno bisogno che ricercatori e finanziatori riesaminino queste preferenze; pensino in modi nuovi alle agende di ricerca che ci aiuteranno a scoprire cosa funziona, e quando, e per chi, dal nostro punto di vista come famiglie […] Per dare forma alla politica, abbiamo bisogno di ricerca che sia progettata per misurare l’impatto di vari interventi nella vita delle famiglie, cosicché sostegni dignitosi ma non prodighi possano essere autorizzati, finanziati e amministrati”.
In questa riprogettazione della ricerca, l’approccio teorico più utile cui fare riferimento sembra quello della “pedagogia dei genitori” proposto da Riziero Zucchi. La valorizzazione delle specificità di ogni situazione familiare e di ogni scelta educativa, il forte orientamento pragmatico che predilige problemi e soluzioni concrete rispetto a una conoscenza astratta e generale, l’inversione dei ruoli (di potere) usuali che pone gli specialisti in ascolto dei familiari in una collaborazione di esperienze, la centralità di narrazione e formazione sono tutti aspetti fondativi della pedagogia dei genitori che possono ben inserirsi nel tentativo di dare basi diverse alla ricerca sui siblings. Ne potrebbe dunque nascere una “pedagogia dei fratelli”, particolarmente adatta a studiare le relazioni tra siblings adulti ma pensabile anche per le fratrie di bambini, in cui l’elemento pedagogico dominante nel rapporto genitori-figli possa “stemperarsi” in considerazione del carattere più paritario e al contempo (o forse proprio in virtù di questo) più complesso della relazione tra fratelli. Un approccio centrato su ascolto della narrazione e valorizzazione delle competenze, per inciso, contribuirebbe a ridurre uno dei rischi più spesso paventati dalle famiglie e dai siblings di persone con disabilità: la medicalizzazione forzata della loro condizione, fondata sulla concezione della “famiglia con disabilità” come “entità sociale disfunzionale”, da sottoporre a controllo nel momento stesso in cui le si fornisce aiuto e supporto.
La contrapposizione tra “pedagogia dei fratelli” e “ricerca tradizionale” ha valore più analitico che sostanziale: una ricerca fondata sull’attenzione alle narrazioni particolari mantiene comunque l’obiettivo di indurre generalizzazioni applicabili anche in altri casi, così come gli studi più rigorosamente quantitativi si fondano sulla raccolta e l’analisi di dati presso le famiglie, ciò che implica una negoziazione con loro e spesso la trasposizione in schemi di descrizioni discorsive. Con ancor maggiore cautela va proposto un parallelo tra questa dicotomia e le tradizioni di ricerca rispettivamente anglosassone ed europea, con la prima più orientata a esiti misurabili e generali e la seconda più aperta a risultati qualitativi (e disponibile a evidenziare i limiti della sua validità scientifica). Ciononostante, difficile non notare che una dimensione europea sarebbe molto indicata per lo sviluppo di questa linea di ricerca, soprattutto perché consentirebbe di avviare l’analisi comparativa tra nazioni, di cui si diceva, in un ambito che combina un’affinità che rende meglio confrontabili le nazioni e una diversità di sistemi di welfare e contesti socio-culturali che rende più proficuo questo confronto. Colpisce quindi ancor di più che a oggi non risultino conclusi né avviati progetti di ricerca finanziati dalla UE o da altri soggetti che si propongano di indagare la condizione dei siblings di persone con disabilità a livello continentale, nemmeno come elemento di ricerche più generali sulle famiglie di persone con disabilità – a maggior ragione nell’area del mondo più soggetta all’invecchiamento della popolazione e dunque alla centralità futura di queste relazioni (va invece notato a margine che sembra affermarsi a livello comunitario, sia pure lentamente, la sensibilità per il coinvolgimento di famiglie e associazioni rappresentative nella definizione della ricerca sulla disabilità lato sensu).
Nella strada ancora da tracciare verso una possibile “pedagogia dei fratelli”, un punto di passaggio può essere la crescente attenzione della ricerca su tema della “qualità della vita” delle famiglie che includono un membro con disabilità. Su tale tema si concentra l’unica ricerca transnazionale nell’ambito di cui siamo a conoscenza, la Family Quality of Life Project Survey (FQoLS), guidata da due centri e due università del Canada e che coinvolge famiglie in 20 Paesi, tra cui l’Italia e altre 8 nazioni europee, in un progetto avviato nel 1997 e tuttora in corso, e del quale sono in via di pubblicazione alcuni risultati, seppure non specifiamente sul tema dei siblings. Ai principali fornitori di cura nelle famiglie che accettano di essere intervistate viene sottoposta una serie di domande su diversi ambiti della vita familiare, dalla salute al benessere finanziario, dall’uso del tempo libero al supporto dai servizi e dalla comunità. Quel che conta da un punto di vista metodologico è che la “qualità della vita” è un elemento percepito più che oggettivo, e ogni membro della famiglia, siblings inclusi, può percepirlo in modo assai diverso dagli altri familiari. Di conseguenza, analizzare la qualità della vita riportata dai siblings di persone con disabilità, tanto nelle loro famiglie di origine e convivenza quanto nelle diverse configurazioni possibili durante la vita adulta, può essere considerato un importante approccio di transizione per arrivare a una vera e propria attenzione sulla “narrazione della relazione” tra i siblings stessi.
Una ricerca che coinvolga attivamente le fratrie secondo questo approccio impone comunque almeno due avvertenze. In primo luogo, viene regolarmente evidenziato che, in forme diverse in base ai contesti familiari e alle età, il fratello o sorella normodotato assume spesso un “ruolo dominante” di cura e insegnamento nei confronti del sibling con disabilità, una responsabilità più forte di quella vissuta dai coetanei e che può quindi diventare un fattore di stress o isolamento: “fratelli e sorelle affermano di frequente che le responsabilità di accudimento dovrebbero essere limitate. A punti diversi nella loro vita, fratelli e sorelle possono sentire troppa pressione, a volte autoimposta – particolarmente in situazioni come la scuola in cui il genitore non è disponibile – e altre volte in base alle attese dei loro genitori. I genitori dovrebbero essere incoraggiati a ricordare che i fratelli e le sorelle sono in primo luogo bambini e non sostituti dei genitori nella famiglia”. Se la pedagogia dei genitori è in primo luogo “pedagogia della responsabilità”, questa concezione del sibling come “genitore in seconda” può risultarne rinforzata, specie se, come detto, la competenza pedagogica deve essere valorizzata nei confronti di specialisti esterni; diventa quindi molto importante l’adattamento degli strumenti proposti dalla pedagogia dei genitori in una forma che dia voce ai siblings, e alla loro espressione di un punto di vista in genere alquanto diverso da quello dei loro genitori, senza costringerli in un ruolo che non possono avere da bambini, non vogliono avere da adolescenti, non hanno in ogni caso da adulti.
Più sottile e insidiosa appare una seconda problematica, insita in una ricerca che non intenda limitarsi a osservare neutralmente il “fenomeno siblings”, ma a incidere in modo attivo e pragmatico sul benessere delle fratrie nelle loro differenti età di sviluppo: come definire appunto il loro benessere? O, a essere più precisi, come definirlo in modo univoco e non viziato dai contrastanti interessi in gioco? Stoneman osserva che “non possiamo condurre ricerca che aiuti le famiglie a socializzare relazioni positive fra siblings se, come ricercatori, non sappiamo quali siano queste relazioni ottimali fra siblings. Le relazioni familiari sono pesantemente gravide di valori. Possiamo essere d’accordo sul fatto che la depressione dei siblings o l’aggressione aperta tra loro sia indesiderabile. Altri esiti per i siblings sono meno chiari. Come società, abbiamo un interesse finanziario acquisito nel socializzare i bambini a svilupparsi in adulti che siano disposti a fornire cura per tutta la vita ai loro siblings con disabilità dopo che i loro genitori abbiano abbandonato questo ruolo. I genitori spesso condividono questo obiettivo. Molti adulti con disabilità, tuttavia, vogliono vite autodeterminate che non siano controllate da genitori o siblings come surrogati dei genitori. Sembra plausibile che i processi che sostengono esiti autodeterminati desiderati dalle persone che si autorappresentano siano diversi dai processi che socializzano i siblings ad assumere ruoli genitoriali e a impegnarsi nell’accudimento permanente. Di chi è la visione giusta sugli esiti desiderati per i siblings?”. Le stesse ragioni che rendono socialmente rilevante la ricerca sui siblings, e lo stesso orientamento pragmatico che rende socialmente opportuno porre i familiari come soggetti attivi e integrare il loro sapere con quello degli specialisti, portano in evidenza l’alternativa assiologica tra la promozione della vita indipendente e quella della cura su base familiare – alternativa il cui scioglimento è probabilmente impossibile in via generale, e che anche riferita ai singoli casi viene fortemente determinata proprio dalle stesse variabili di contesto personale, familiare e socio-culturale che la ricerca intende indagare nella loro specificità. Questo nodo irrisolto non va comunque interpretato come un cortocircuito metodologico, quanto come un avvertimento a considerare con attenzione e prudenza la complessità delle relazioni tra siblings e della loro evoluzione: un avvertimento che, a ben vedere, si estende dalla ricerca a tutti gli ambiti non accademici del discorso sull’handicap (famiglie, gruppi di auto-mutuo aiuto, associazioni di rappresentanza, servizi assistenziali…) con cui tale ricerca deve sempre più entrare in dialogo.

Si ringraziano Giulio Iraci, Flavia Luchino e Marco Bertelli (CREA) per i preziosi suggerimenti.

Ausili in movimento: la ricerca per le tecnologie assistive di fronte a una complessità crescente

Il 4 e 5 ottobre scorsi, l’Università di Sheffield (Regno Unito) ha ospitato un seminario sul “trasferimento di tecnologia” per le tecnologie assistive promosso da AAATE – Association for the Advancement of Assistive Technology, un’organizzazione paneuropea indipendente con sede in Danimarca e che conta oltre 250 membri, nata per promuovere e diffondere la conoscenza relativa alle tecnologie assistive.
Il tema del seminario, “il modello sociale per il trasferimento di tecnologia nelle tecnologie assistive”, sottolineava come la ricerca tecnologica che porta alla produzione di ausili non possa essere mossa da motivazioni e logiche endogene, in quanto “lo sviluppo di tecnologie assistive è qualcosa che deve essere guidato dall’obiettivo di realizzare una società inclusiva – e quindi ci sono questioni morali, finanziarie, commerciali e scientifiche da comprendere e gestire”. Principale organizzatore del convegno è stato KT-EQUAL, un consorzio di ricercatori britannici operanti nell’ambito del miglioramento della qualità della vita per persone anziane e disabili; KT-EQUAL ha raccolto l’eredità del precedente progetto SPARC – Strategic Promotion of Ageing Research Capacity, conclusosi nel 2008, il cui scopo era “garantire che le persone anziane traggano benefici dai progressi della scienza e della tecnologia”, promuovendo in particolare il rapporto tra laboratori di ricerca, decisori delle politiche sociali e operatori per gli anziani.
I documenti del convegno non sono ancora stati pubblicati mentre scriviamo, ma le pubblicazioni prodotte negli scorsi anni tanto da AAATE e dai suoi membri (tra cui spicca il SIVA – Servizio Informazione e Valutazione Ausili della Fondazione Don Gnocchi di Milano) quanto da KT-EQUAL, e dal suo predecessore SPARC, consentono di tracciare alcune linee del dibattito socio-culturale che, al di là degli aspetti più strettamente tecnici, anima oggi la ricerca in materia di ausili – un settore che in Europa fattura, secondo le stime, circa 30 miliardi di Euro.

Il (reale) coinvolgimento dell’utente 
Una delle esigenze più vivamente affermate nella fase di ricerca e sviluppo delle tecnologie assistive è il coinvolgimento dell’utente, a partire da un momento quanto più precoce possibile nel processo che porta alla produzione di un ausilio. Lo scollamento tra le logiche di ideazione/realizzazione e i bisogni reali dell’utenza, come è facilmente intuibile, aumenta il rischio che il prodotto finale non incroci la domanda attesa, o comunque abbia un ciclo di sfruttamento commerciale molto breve prima di divenire abandonware – sia quanto a produzione generale, sia nel caso singolo dell’utente finale che rinuncia a utilizzare l’ausilio, di cui pure dispone, perché non risponde alle sue esigenze.
I problemi sorgono quando il principio “coinvolgere l’utente” deve essere tradotto in prassi operative, a partire dal primo scoglio ben sintetizzato dal titolo di un seminario organizzato da KT-EQUAL nel gennaio 2010: “Chi è l’utente?”. Date le caratteristiche del mercato delle tecnologie assistive, infatti, non ci si può limitare a considerare il beneficiario finale: c’è una serie di figure di mediazione il cui coinvolgimento è altrettanto decisivo per evitare un esito di abbandono dell’ausilio. Riprendendo un esempio citato nel medesimo seminario, una nuova applicazione di telemedicina per il monitoraggio del diabete ha come utenti non solo i malati, ma anche operatori sociali, infermieri, medici di medicina generale, familiari, e su un piano più esteso associazioni di malati, uffici del servizio sanitario, centri specializzati negli ausili, farmacie, ecc. Tutti questi stakeholders rivestono un ruolo nel determinare il successo o il fallimento dell’applicazione, e pertanto tutti dovrebbero essere consultati durante il suo sviluppo.
Va notato che una rete così ampia propone una contraddizione di principio a chi voglia interagire con essa: per il successo della ricerca occorrerebbe identificare dal principio ogni interlocutore rilevante, per coinvolgerlo sin dalle prime fasi di ideazione, ma al contempo sarebbe opportuno mantenersi aperti all’inclusione di ulteriori soggetti la cui importanza emergesse nelle fasi successive – a costo di rivedere sulla base dei loro input scelte già compiute. Inoltre, nulla garantisce che le indicazioni pervenute dai vari nodi di questa rete siano univoche: per esempio, si può supporre che utenti finali e operatori possiedano livelli diversi di competenza tecnologica (anche se non necessariamente maggiore nei cosiddetti “specialisti”), e quindi esprimano esigenze differenti quanto al grado di tecnologia e alla user-friendliness da incorporare nel prodotto finale, ma anche utenti diversi nella stessa posizione tenderanno ad avere un’immagine differente del proprio “ausilio ideale”. A questa già imponente diversità si deve aggiungere il fatto che non tutti i bisogni sono chiaramente percepiti dall’utente: altre esigenze ugualmente rilevanti devono piuttosto essere “elicitate”, o fatte emergere in base a test effettivi di funzionamento del prototipo di ausilio. Tutte queste considerazioni portano il coinvolgimento dell’utente piuttosto lontano dalle modalità standardizzate e impersonali della ricerca di mercato, per richiedere piuttosto un rapporto diretto e continuativo con un panel di utenti, che sia al tempo stesso consolidato (in un esempio citato, un gruppo di “amici critici” da consultare regolarmente) e non completamente statico nel tempo (per evitare che le risultanze risentano troppo di idiosincrasie ed esperienze passate, invalidandone il carattere di “esito campione”).
Gestire la complessità che si è appena descritta ha un costo, e richiede competenze sociologiche distinte tanto da quelle dei ricercatori scientifici quanto da quelle degli addetti al marketing. C’è quindi il rischio che, a fronte della necessità di minimizzare le spese di ricerca e sviluppo esterne al “core business”, tutto questo sforzo sia semplicemente abbandonato in quanto economicamente insostenibile; per questo, un altro elemento su cui si insiste è l’esigenza di riaffermare costantemente come il coinvolgimento dell’utente sia fattore cruciale per la qualità dei risultati finali della ricerca. Ciò si traduce nell’importanza del produrre documentazione sempre più ricca e precisa sugli effetti positivi che l’inclusione dell’utenza nel processo di ricerca e sviluppo svolge per l’appetibilità commerciale dei prodotti (e, al contrario, sul costo della mancata inclusione), documentazione che però deve avere carattere pubblicistico e non accademico: “Quando si producono risultati di ricerca per gente occupata, è importante tenere a mente che i loro messaggi chiave devono essere accessibili a qualcuno che ha cinque minuti liberi sulla banchina di una stazione […] La ricerca dovrebbe essere citabile, chiara e concisa, basata su prove, qualitativa e applicabile alle attuali prassi di lavoro, con raccomandazioni attuabili per adattarsi alle prassi e procedure attuali”.
In sintesi, occorre passare da un “modello lineare” a un “modello interattivo” di conoscenza, un cambiamento culturale ed epistemologico che richiede tempo – e anche, per chi fa ricerca, la cessione di una parte degli aspetti di potere connessi al “sapere specialistico”. È anche per questo motivo che “c’è ancora molta strada da fare prima che la partecipazione degli utenti diventi un aspetto comune nel processo decisionale”.
Mercato di massa e adattamenti personalizzati 
Un’altra tematica decisiva nella discussione sulle tecnologie assistive attiene alla relazione tra prodotti disponibili al mercato di massa, e quindi anche, ma non solo, alle fasce di utenza con esigenze particolari, e prodotti (o loro adattamenti) specifici e tendenzialmente rivolti a bisogni personalizzati. La distinzione esiste da sempre, ma una riflessione su di essa si impone nel momento in cui i suoi confini si vanno continuamente spostando, a causa di due dinamiche concomitanti.
In primo luogo, la diffusione pervasiva delle tecnologie digitali nei processi produttivi e nelle esistenze individuali consente sempre più alle persone con disabilità di compiere le attività della propria vita quotidiana tramite prodotti di massa, soprattutto (ma non solo) nell’ambito della comunicazione personale: basta pensare alle potenzialità di uno smartphone rispetto ai cellulari di anche solo 10 anni fa, o a quelle integrate in un computer portatile rispetto alle tecnologie distinte che lo hanno preceduto. Proprio la diffusione e miniaturizzazione delle tecnologie digitali, d’altro canto, consente di ideare e realizzare “infinite” personalizzazioni degli strumenti tecnologici esistenti, in base alle necessità di input consentiti e output richiesti dalle abilità residue del soggetto – il caso della domotica, e il concetto di “casa intelligente”, ne sono forse l’esempio più rilevante. Con l’informatica si apre dunque un campo di possibilità enormi, ma non si elimina la necessità di adattamenti personalizzati, e anzi si generano due controindicazioni: l’aumento dei costi richiesti per intervenire in modo articolato su strumenti già complessi, e il rischio di un approccio “per amor di tecnologia”, che imponga funzioni avanzatissime laddove sarebbero ugualmente praticabili soluzioni low-tech (per citare Franco Bomprezzi, “se una persona disabile vuole fumare, l’ausilio che gli serve non richiede meccanismi complessi”).
Su questo quadro in vivace mutamento si innesta l’impegno per il “design universale”, ovvero l’estensione dei principi di accessibilità per le persone con disabilità (prevalentemente) fisiche e sensoriali alla progettazione e realizzazione di ogni prodotto e ambiente. Nonostante i principi condivisi di questo approccio (come la tolleranza all’errore e il contenimento dello sforzo fisico) risalgano al 1997, di fatto ancor oggi nei contesti produttivi il design universale è in genere percepito come un “optional” di qualità, legato a un “investimento aggiuntivo in termini sia di tempo che di denaro”, e anche a livello formativo i suoi principi non sono integrati nelle diverse discipline (urbanistica, design, tecnologia, ecc.), ma inquadrati come disciplina a sé stante – e nemmeno obbligatoria per operare nei settori connessi. Di conseguenza, a dispetto del fatto che l’invecchiamento della popolazione renderà sempre meno utilizzabili in tutto l’Occidente gli strumenti e ambienti di vecchia progettazione, il design universale è oggi più un obiettivo ideale che una prassi concreta. Tuttavia, anche se quel set di principi fosse realmente integrato nella progettazione di qualunque oggetto d’uso, non sarebbero meno necessari adattamenti assistivi per esigenze specifiche, cui non si possa fare fronte con una “soglia ragionevole di accessibilità” – sebbene il raggiungimento diffuso di tale soglia, e il suo graduale “innalzamento”, siano processi essenziali per una società inclusiva. Va inoltre rimarcato che il design universale si fonda spesso sul trasferimento tecnologico da applicazioni “estensive”, sviluppate per specifiche disabilità e solo in seguito commercializzate per il pubblico generale, e ciò conferma per la ricerca specificamente assistiva una funzione “dinamizzante” anche di fronte alla diffusione di buone prassi di design universale.
La ricerca per le tecnologie assistive si ritrova in sintesi il compito di ottenere sempre nuovi risultati, curando però che quelli già raggiunti si diffondano nella progettazione e produzione generale (nella quale gli elementi tecnologici hanno un peso via via crescente), e per fare questo deve instaurare un dialogo costante con tutta la filiera di soggetti coinvolti nel successo di un ausilio rispetto al suo specifico destinatario finale. Siamo abbastanza lontani dal mito dello scienziato chiuso nel suo laboratorio e chino sui propri strumenti – un mito da cui le équipes multidisciplinari dei centri di assistenza ausili già ora si discostano, ed è probabilmente questa caratteristica di multidisciplinarità che dovrà essere accentuata per rispondere alle future sfide del settore.
Informazioni e documenti su:

Sostenere la genitorialità delle donne non vedenti: l’esperienza di Parigi

Per una persona con una disabilità grave che scelga di dare alla luce un figlio, i comuni dubbi legati alle proprie capacità di interpretare in modo soddisfacente il ruolo di genitore vengono amplificati dalla frequente condizione di dipendenza quotidiana dagli altri, rispetto a cui diviene problematico il prendersi cura del nuovo nato, e da un contesto socio-culturale che associa ancora con molte fatiche tra genitorialità e disabilità, a maggior ragione se a essere in situazione di handicap è la futura madre. Di conseguenza, per i genitori con disabilità risulta molto opportuno un supporto specifico, di carattere operativo ma anche psicologico, che a oggi peraltro non risulta essere previsto, almeno in modo sistematico, nel nostro Paese. Da queste riflessioni è invece nato già nel 1987 a Parigi, all’interno dell’Institut de Puériculture de Paris, il SPPH – Service Périnatal d’aide à la parentalité des Personnes Handicapés, guidato sin dalla nascita dalla puericultrice Edith Thoueille e integrato presso il centro multidisciplinare di protezione materna e infantile del XIV arrondissement.
L’attività del SPPH negli anni si è concentrata soprattutto, ma non esclusivamente, sulle madri non vedenti, per le quali ha di fatto assunto un ruolo a valenza regionale e riceve richieste da molte zone della Francia. Diversi contributi scientifici scritti da o cui ha collaborato Edith Thoueille consentono di descrivere le peculiarità della madre non vedente durante la gravidanza e nel periodo perinatale, e alcune prassi adottate dal SPPH il cui interesse si estende oltre la specificità del deficit visivo.

La puericultura adattata, tra carenze e supplenze
Sin dalla sua costituzione, il servizio si è orientato alla soluzione dei problemi pratici cui una madre non vedente deve fare fronte nel proprio percorso di cura del bambino: di qui, ad esempio, la trascrizione in Braille o la registrazione audio di una parte dei testi utilizzati come guida alla genitorialità, la taratura di siringhe per somministrare medicinali non disponibili in forma galenica industriale utilizzabile, la preparazione di etichette Dymo in Braille per riconoscere le scatole di medicinali e i consigli specifici su come allestire il fasciatoio e lo spazio per il bagnetto. Attraverso una decina di sedute di “puericultura adattata, sia prima che dopo il parto, suggerimenti a carattere operativo vengono trasmessi e servizi concreti forniti alla donna o alla coppia, con particolare attenzione al livello di aiuto che è opportuno garantire: non fare al posto dei genitori, ma cercare insieme la soluzione adattata alle attese di ciascuno utlizzando tutti i supporti possibili. Nel corso degli anni, tuttavia, è emerso come le questioni pratiche non esauriscano le difficoltà cui una donna non vedente deve fare fronte nel proprio percorso verso e dopo la maternità, e si è evidenziata la necessità di un supporto psicologico specifico.
Nella letteratura clinica, un elemento determinante nella costituzione del rapporto tra madre e bambino è costituito dallo sguardo: il primo contatto tra i due elementi della
diade si compie quando la madre vede il feto nello schermo dell’ecografia, il bambino sentito dentro di sé per tanti mesi appare al momento del parto, il bambino concentra il proprio sguardo sulla madre durante l’allattamento al seno e cerca il viso della madre come compensazione all’allontanamento nel periodo dello svezzamento. Nei pochi studi dedicati al caso di madri non vedenti, si è ipotizzato il rischio di evoluzioni autistiche del bambino, il cui sguardo non può essere ricambiato e guidato dalla madre. Le conclusioni di Thoueille sono differenti, ma non ignorano e anzi valorizzano la diversità che caratterizza tutto il periodo perinatale: ad esempio, la madre non vedente percepisce il movimento del feto dentro di sé in media due/tre settimane prima di quella normodotata, e dimostra una attenzione di gran lunga maggiore per le proprie sensazioni durante la gravidanza. Inoltre, quello che la visione, alla nascita e nei giorni successivi, rende un confronto immediato e traumatico tra bambino immaginario e bambino reale, nella puerpera non vedente si costruisce attraverso un’interazione sensoriale più complessa e perciò più graduale (ciò che richiederebbe di consentire alla madre una più lunga permanenza in sala parto, come tempo di conoscenza), e dunque con minori rischi di baby-blues o comunque un suo insorgere più lieve e tardivo. Per converso, il momento dell’ecografia risulta piuttosto frustrante, in quanto la tensione per la possibile prima diagnosi di malformazioni è accentuata dall’impossibilità non solo di vedere lo schermo, ma anche di cogliere elementi visivi capaci di temperare l’inquietudine, come le espressioni dell’ecografista (che non sempre supplisce con una più accurata descrizione verbale); inoltre, l’assenza di contatto visivo con il bambino nei primi giorni dopo il parto appare avere una risonanza emotiva negativa nel ricordo a distanza da parte della madre. A un livello descrivibile con minore precisione ma più profondo, il parto risveglia nella madre non vedente le sensazioni della propria nascita, e di conseguenza le frustrazioni legate alla menomazione, più o meno assorbite in base al vissuto familiare successivo – e non di rado per chi diventa madre oggi la cecità è stata causa di un allontanamento precoce dai genitori per consentire l’educazione in istituti specializzati.
Le osservazioni cliniche di Thoueille, sulla base delle decine di casi analizzati in questi anni, mostrano che l’impossibilità per il bambino di trovare lo sguardo della madre non vedente lo induce sin dai primi giorni di vita ad adottare un
bilinguismo relazionale capace di ripristinare sequenze intersoggettive con la figura primaria di riferimento, senza per questo rinunciare a utilizzare tutte le proprie capacità sensoriali ed esplorative. L’esempio più chiaro di ciò si mostra quando il neonato sta osservando il viso dell’esaminatore e la madre lo chiama: anziché voltarsi verso la voce materna, come in genere avviene, il bambino allunga il braccio verso di essa mantenendo fissi gli occhi su chi lo guarda. Il bambino appare rendersi conto delle sequenze relazionali rese impossibili dall’handicap della madre e svolgere un’azione di supplenza tese a ripristinarle in forma modificata, per esempio guidando la mano e il cucchiaio e ri-orientando il volto quando viene imboccato, con un grado di aiuto crescente nel tempo insieme alle proprie capacità fisiche e interpretative e alla complessità della relazione. Tuttavia, la medesima coscienza dell’interruzione di alcuni canali relazionali consente al figlio, bambino o adolescente, di opporsi alla madre evitando di portare l’aiuto necessario per completare le sequenze intersoggettive modificate, oppure ritardandolo (ad esempio, ci si può nascondere dalla madre semplicemente tramite il silenzio). Il figlio può in ogni caso vivere l’handicap della madre in modi molto diversi, come mostra l’esempio citato da Thoueille di due fratelli adolescenti normodotati: Il più grande non sopporta l’handicap di sua madre, per cui prova vergogna. Per strada, rifiuta di apparire al suo fianco come suo figlio, cambia marciapiede e con ciò non la aiuta. Il secondo invece è molto attento, aiuta sua madre e anche di fronte ai suoi compagni considera come una superiorità avere una madre cieca che supera il proprio handicap. Per questi motivi, oltre che per le dinamiche familiari peculiari che si instaurano per la presenza di cani-guida (che sembrano vivere una depressione molto simile a quella dei fratelli maggiori all’arrivo del neonato in casa) e per il maggiore carico di lavoro di cura ricadente sul coniuge normodotato, i meccanismi di supplenza comunicativa non rendono meno necessario un supporto psicologico specifico.

La prima cosa bella
L’équipe di Edith Thoueille ha riscontrato come un momento molto importante nella costituzione della relazione tra madre e bambino, nelle prime settimane di vita, sia la
Scala di Brazelton (NBAS). Si tratta di una serie di test, ideata dall’omonimo pediatra statunitense nel 1973, con cui, nello stesso momento in cui il medico esaminatore può valutare i comportamenti del neonato in diversi ambiti psico-fisiologici, i genitori vengono accompagnati dall’esaminatore medesimo a comprendere le sue modalità comunicative e di prima esplorazione dell’ambiente circostante. È quest’ultimo l’aspetto che conta: in molti casi, durante lo svolgimento dei test, si registra un momento chiave in cui la madre scopre, a un livello emotivo prima che cognitivo, le capacità del suo bambino, superando il dualismo tra bebé immaginario e bebé reale che l’ha accompagnata sin dal parto. Si parla per questo di un effetto Brazelton che, a prescindere dalla valutazione clinica del neonato, può costituire la prima relazione efficace tra madre e bambino e assume un valore terapeutico per la diade nel suo complesso.
Dal momento che si tratta di un test largamente basato sull’osservazione visiva, Thoueille ne ha elaborato uno
svolgimento trascritto a favore delle madri non vedenti, imperniato sull’attività di un’operatrice che osserva i movimenti del bambino rilevati o attivati dall’esaminatore, e appoggiata al corpo della madre li traduce in stimoli tattili. Con un bel paragone proposto da Thoueille, la trascrittrice è come Sant’Anna nella Sacra Famiglia (Sant’Anna, la Vergine e il Bambino) di Leonardo da Vinci, ossia la figura che contiene tra le sue braccia la Vergine, che a sua volta abbraccia il bambino (che ha tra le mani un agnello, ma questo probabilmente non è pertinente al paragone). Al di là della competenza tecnica molto specifica, la trascrittrice non ha un ruolo facile, anzitutto perché il contatto fisico genera nella madre un transfert materno e una identificazione omosessuale femminile che vanno governati a partire da un’allenaza terapeutica già consolidata; inoltre, è importante che la trascrittrice e l’esaminatore, come del resto prescritto dal corretto svolgimento della scala di Brazelton, si lascino guidare dal bambino piuttosto che applicare una propria griglia di analisi predefinita, contrastando al contempo la possibile percezione ansiogena da parte dei genitori che quello in corso sia un test sull’intelligenza del bambino. L’esperienza maturata in queste trascrizioni è stata molto positiva (e può essere ripetuta più volte nei primissimi mesi di vita), al punto che da un lato Thoueille consiglia di applicarla a fini terapeutici in tutti i casi di genitorializzazione con rischi relazionali, dall’altro è stata adattata anche al contesto degli esami ecografici, che come si è detto possono creare ansia e frustrazione nella gestante non vedente.
Costruzione di professionalità all’interno di un’équipe multidisciplinare non specializzata nel lavoro sull’handicap (in quanto composta di pediatri, puericultrici ed educatrici generiche), attenzione agli aspetti relazionali e psicologici oltre e prima che alle nozioni pratiche di puericultura, capacità di conforto della madre nella costruzione del rapporto con il bambino attraverso l’indicazione delle abilità e dei canali alternativi attivabili dalla diade, senza per questo indulgere ad atteggiamenti eroici (l’handicap non viene meno, e attività come portare il bambino in carrozzina su un marciapiede rimangono irraggiungibili per una madre non vedente): gli spunti dati dal lavoro del SPPH descritto da Edith Thoueille risultano di grande interesse anche al di là del percorso specifico di accompagnamento alla maternità della donna con deficit visivo.

Una risata vi seppellirà: la comicità politicamente scorretta di Laurence Clark

Laurence ha speso anni a studiare per un dottorato di ricerca che ora ritiene abbastanza inutile dato che è passato alla commedia brillante: così si presenta Laurence Clark, che lavora come consulente in materia di disabilità ma soprattutto è uno dei comici più divertenti della scena britannica.
La sua paralisi cerebrale è il prisma da cui interpreta la realtà, sfidando i luoghi comuni sulla disabilità – basta pensare al titolo del suo ultimo spettacolo, Spastic Fantastic, che parte proprio dalla riappropriazione della parola spastico da parte di coloro a cui è rivolta come offesa. Anche la moglie di Laurence, Adele, è disabile, ed è su questa condizione di famiglia all-disabled che lo abbiamo interrogato – anche se, naturalmente, bandendo ogni compunta seriosità! 

Sia tu che tua moglie siete persone con disabilità. Avete mai vissuto problemi particolari, esterni o interni, per il vostro progetto di mettere su famiglia?
Mettere su famiglia non è proprio un progetto. Abbiamo incontrato molti atteggiamenti negativi da parte di professionisti medici, certo – di alcuni esempi parlo nell’articolo del 2005 “Niente spazio per la sedia”.  

Come pensi che la società britannica veda una persona con disabilità che sceglie di avere figli? È oggi una scelta normale, o rimangono ancora perlessità o veri e propri stigmi?
Ci sono molte percezioni negative sui genitori disabili, particolarmente intorno alla nostra abilità percepita di adempiere ai nostri ruoli come genitori. Ho trovato che le persone che hanno difficoltà a concepire un figlio possono tendere a pensare che sia ingiusto che noi possiamo avere figli e loro no. Inoltre, i “giovani badanti” [persone sotto i 18 anni che devono prendersi cura di parenti o amici disabili o malati, N.d.A ricevono un sacco di attenzione mediatica al giorno d’oggi, e c’è una percezione che le persone disabili abbiano figli allo scopo di avere qualcuno intorno che le assista.  

Vostro figlio vive il fatto di avere genitori con disabilità in modo diverso da come vivrebbe in una famiglia con singolarità meno manifeste?
Tutte le famiglie sono diverse in modi differenti. Sicuramente esporre i bambini alla diversità può soltanto essere una cosa buona, perché cresceranno più accoglienti. Perciò non penso che avere genitori disabili influisca su mio figlio in alcun modo.  

La tua comicità affronta i cliché sulla disabilità, e in particolare il “politicamente corretto” a questo proposito. Come reagisce il pubblico al tuo stile?
Tutti i buoni comici sfidano lo status quo, perciò perché dovrei essere diverso? Affrontare cliché e stereotipi a me sembra essere il modo logico per fare comicità da comico disabile. Il pubblico tipicamente reagisce a questo ridendo!

 Nella tua carriera ci sono esplicite polemiche con Cherie Blair [che, a quanto si dice, lo ha infelicemente definito sit-down comedian] e il comico Jim Davidson. Pensi siano stati eventi fortuiti, o cè in effetti un entourage di classe dirigente con cui ci si deve ancora scontrare?
Non cè cosa come la cattiva pubblicità! 

Fino a che punto pensi che le politiche pubbliche da un lato, e gli atteggiamenti sociali dallaltro, incidano sulla condizione delle persone con disabilità? E come i comici possono avere un ruolo in questo processo – se credi che ne debbano avere uno?
La politica e gli atteggiamenti sociali hanno un enorme impatto sulle possibilità di vita delle persone disabili, perché le società si basano in genere sui bisogni e le opinioni delle persone non disabili. Ciò significa che le politiche sociali hanno bisogno di tenere conto dei bisogni addizionali delle persone disabili allo scopo di assicurare che esse ottengano le stesse opportunità di chiunque altro. I comici hanno sempre giocato un ruolo nel mettere in luce e sfidare situazioni ingiuste, per cui non vedo perché questo non dovrebbe essere vero anche per i problemi delle persone disabili. 

Niente spazio per “La Sedia”
di Laurence Clark
(traduzione di Massimiliano Rubbi)
Quasi un anno fa, io e mia moglie Adele camminavamo lungo la navata al nostro matrimonio al suono di “Baby I Love You” dei Ramones. Al tempo non potevo sognare quanto profetica quella canzone sarebbe stata!
Io e Adele abbiamo la stessa menomazione – paralisi cerebrale. Penso che entrambi fossimo stati condizionati dal presupposto onnipervasivo della società che la disabilità e la riproduzione umana non si combinano. Così quando decidemmo di cominciare a provare ad avere un bambino, entrambi automaticamente presupponemmo che avremmo avuto bisogno di qualche genere di trattamento di fertilità. In realtà prenotammo perfino un appuntamento alla clinica, che successivamente dovemmo annullare una volta scoperto che Adele era già incinta.
Suppongo che a questo punto dovrei far notare che, al contrario di quanto rivendico nel mio pezzo comico solista, questo bambino in realtà è stato programmato. Vedete, normalmente racconto questa storia sull’andare in luna di miele e scoprire all’aeroporto che avevamo dimenticato le pillole contraccettive di Adele. Al momento il farmacista dell’aeroporto rifiutò di servirci, citando il fatto che non era un “farmacista per la disabilità”(qualunque cosa sia uno di essi!). Mentre ciò avvenne davvero, non contribuì al nostro concepimento perché alla fine trovammo un altro farmacista disposto a servirci.
Proprio come probabilmente ogni altro uomo al mondo, ero insicuro sulla mia abilità di concepire perché non avevo mai davvero provato a farlo prima. In realtà, era qualcosa che fino a quel momento avevo attivamente evitato. La mia paura particolare scaturiva dalla biologia del biennio delle superiori, dove mi avevano insegnato che i testicoli sono situati fuori dal corpo al fine di mantenerli freschi, e così aiutare la produzione di sperma. Ora, come utilizzatore di carrozzina, passo molta parte del giorno seduto. Secondo la mia logica, questo doveva alzare la temperatura dei miei testicoli di qualche grado e potenzialmente danneggiava la mia abilità di concepire. Comunque, con il beneficio del senno di poi, questo era piuttosto chiaramente un carico di coglionate!
Ma se ero sorpreso da quanto rapidamente avevamo concepito un bambino, il resto del mondo sembrava ugualmente sbalordito che ci fossimo proprio riusciti. A volte quando diciamo alle persone che siamo in dolce attesa, si possono vedere le rotelle girare nella loro testa mentre pensano: “Come diavolo ci sono riusciti allora?”. È come se stessero intrecciando mentalmente i nostri corpi in qualche genere di bizzarra posizione del Kamasutra!
Dopo poco tempo, una giovane donna dietro la cassa a Boots [catena di farmacie inglese, ndt] disse a Adele senza pensarci: “Non sapevo che persone come voi potessero avere bambini!”. Per compensare, il negozio diede a Adele il suo acquisto di vitamine gratis, benché in qualche modo questo sembrasse un misero risarcimento per la ferita ai suoi sentimenti.
Allo stesso modo, la maggioranza del personale infermieristico al nostro ospedale locale sembra lottare con l’idea di due genitori disabili. Alla sua ultima visita a Adele è stata data una spaziosa stanza laterale invece di andare in corsia, al fine di darmi più spazio come utilizzatore di carrozzina quando andavo in visita. Un’infermiera era particolarmente irritata da questo“ragionevole adattamento”. Mentre ero lì, lei disse a Adele che lei veramente avrebbe dovuto essere nella corsia principale, ma non c’era spazio per “La Sedia”(intendendo me!). Spero solo che la successiva discussione accesa le farà pensare con più attenzione a come si riferisce alle persone – in particolare in loro presenza!
Dopo lunghe discussioni sui nomi dei bambini, alla fine siamo venuti a un compromesso essendo d’accordo che Adele potesse scegliere il nome della femmina e io avrei scelto quello del maschio. Da allora abbiamo scoperto che avremo un bambino, il che significa che realizzerò il mio desiderio di chiamarlo come la persona che più ammiro al mondo – l’attore e grande versatile eccentrico britannico Tom Baker! Adoro dire ai nostri amici come chi sarà chiamato Tom, perché fa sprofondare di vergogna mia moglie!
Benché raramente esposto, un altro pensiero che attraversa la mente delle persone quando diciamo loro la nostra buona notizia è: “Tom erediterà la nostra menomazione?”. I dottori dell’ospedale ci hanno chiesto diverse volte se la paralisi cerebrale sia ereditaria. Ci hanno chiamati “irresponsabili” per il rifiuto di fare i test dell’amniocentesi per scoprire potenziali menomazioni, nonostante il fatto che tali test non siano accurati e aumentino le possibilità di aborto spontaneo. Non riescono a concepire perché la prospettiva di portare un’altra vita disabile nel mondo non sia un problema per noi.
Suppongo che simili atteggiamenti non siano sorprendenti quando, oggigiorno, fa fatica a passare un giorno senza una notizia sul suicidio assistito per alleviare la nostra“sofferenza”, o su dottori che provano a staccare la spina ad ancora un altro neonato disabile. Credo che simili storie dimostrino in modo inquietante quanto poco le nostre vite siano valutate dalla società di oggi. Ecco perché sono stato orgoglioso di offrire una voce al programma della BBC Newsnightsulla disuguaglianza nell’attuale legge sull’aborto per i neonati con menomazioni, che include le opinioni delle persone disabili così come quelle dei professionisti medici.
Vedete, mi piacerebbe che nostro figlio Tom crescesse in un mondo dove le vite delle persone disabili sono valutate alla pari. Tristemente penso che siamo molto lontani dal raggiungere un sogno simile.

Per informazioni:
www.laurenceclark.co.uk

10. Verso un nuovo modello di lavoro e di impresa

Michela Marzano, filosofa e professore associato di filosofia morale all’Université Paris Descartes, è una delle pensatrici più importanti e innovative nello scenario europeo, ed è nota al pubblico italiano anche come editorialista di “ la Repubblica”. In Estensione del dominio della manipolazione. Dall’azienda alla vita privata (Milano, Mondadori, 2009) ha condotto una delle analisi più lucide e spietate della cultura aziendale oggi dominante, le cui contraddizioni producono alienazione individuale ed esclusione sociale.

In un mondo in cui la competizione economica richiede la qualità totale, il lavoratore con grave disabilità, che può essere impossibilitato a una produttività tecnica pari a quella dei normodotati, costituisce una sfida a un intero modello produttivo – è possibile un’integrazione in un modello diverso, l’integrazione fa soltanto parte della Responsabilità Sociale di Impresa, o ci sono altri modi di vedere questo fenomeno?
La questione è complicata, perché il lavoratore con disabilità mette in crisi completamente il modello. La concezione lavorativa dominante, estremamente utilitarista, riduce l’individuo a non essere altro che una somma di competenze, da cui dipende la sua impiegabilità – ma siccome le competenze vengono sistematicamente valutate in base a standard rigidi, tutti coloro che si allontanano da essi finiscono automaticamente con l’essere penalizzati, perché sono ciò che rinvia al “meno” rispetto a questi standard definiti in maniera rigida; il problema è quindi come fare spazio non tanto al “meno”, ma al “differente”. Secondo me uno dei problemi della società attuale, che si ritrova poi a livello del lavoro, è quello di promuovere un modello unico di individuo, in base al quale tutti devono assomigliare, e quindi ogni differenza viene automaticamente letta in termini di inferiorità, con una emarginazione crescente di tutti i diversi, in particolare di coloro che soffrono a causa della propria differenza. Per chi soffre a causa di un handicap, oltre alla differenza inerente alla condizione umana (ognuno di noi è diverso da tutti gli altri), si aggiunge una sofferenza legata a una propria differenza “che pesa”, e quindi alla penibilità della propria differenza si aggiunge lo sguardo della società che contesta, emargina e ha tendenza a rigettare tutti coloro che non corrispondono a un certo standard. Non si tratta solo di un problema a livello lavorativo, ma ha portata più generale, di un’ideologia della società, che si deve poter smontare e decostruire per permettere poi di accogliere le persone che soffrono di un handicap all’interno di un modello lavorativo che deve esso stesso cambiare.

In particolar modo in Italia, esiste il modello alternativo delle cooperative sociali tra o con lavoratori con disabilità, o comunque svantaggiati. Questo può essere realmente un modello di sviluppo o, entro il contesto attuale di mercato, copre solo nicchie marginali per definizione?

Nel modello attuale, copre delle nicchie e quindi per certi aspetti non permette alla situazione di evolvere in maniera generale. È importante che la cooperazione sociale esista come fenomeno, perché permette ad alcune realtà di sussistere, ma c’è anche la possibilità di una auto-esclusione, perché se questo modello alternativo non si integra nella società a livello più generale, il rischio è quello di farne una atipicità sociale e quindi di escludere in blocco delle “fette di realtà”. Si dovrebbe invece prendere esempio da questi tentativi, per integrarli però entro modelli più generali, non farne delle eccezioni ma analizzarli come possibilità di cambiare la struttura interna delle società o delle aziende dominanti.

Per alcuni tipi di disabilità un contesto molto strutturato di lavoro può essere quello migliore, e la presenza di margini di autonomia nello svolgimento del lavoro, che normalmente può essere un elemento di miglioramento, può risultare problematica. Come può conciliarsi questa esigenza con la richiesta di autonomia, con tutte le sue ambiguità, che la cultura aziendale propone ai lavoratori?

Credo che uno dei nodi stia nel significato stesso che si dà al termine “autonomia”. L’autonomia non si oppone sistematicamente e necessariamente alla dipendenza, non è l’indipendenza totale; si è autonomi quando si ha la possibilità di portare avanti un proprio progetto, sempre nella consapevolezza che questo progetto ci lega agli altri e che siamo tutti interconnessi. Il problema è che progressivamente, in questi ultimi venti anni, si è voluto fare dell’autonomia una forma di indipendenza, come sinonimo di “non dipendo da niente e da nessuno”, e quindi ogni realtà in cui si mettono in evidenza le dipendenze reciproche e intersoggettive viene automaticamente classificata come “anti-autonoma”. Ora, io non credo che ci sia un’opposizione tra l’autonomia dell’individuo e la dipendenza: tutti dipendiamo almeno in parte dagli altri, senza perdere la nostra autonomia morale. Quando amiamo una persona, ad esempio, la nostra gioia dipende anche dal modo in cui questa persona accetta e ricambia il nostro amore. È per questo che una persona che presenta un certo tipo di disabilità e che dipende, per poter compiere mansioni o svolgere ruoli nella propria vita, anche dagli altri, non è automaticamente “non-autonomo”: può esserlo da un punto di vista fisico, ma l’autonomia è un concetto morale, è ciò che permette di diventare attori della propria vita, e quando lo si diventa si può anche domandare aiuto agli altri – anzi, è spesso domandando aiuto all’altro che si è consapevoli dei propri limiti e quindi ancor più consapevoli della propria autonomia e della propria soggettività. Si tratta quindi secondo me di ridefinire lo stesso concetto di autonomia, non opponendolo a quello di dipendenza, e cercare di mostrare come anche compiere delle operazioni ripetitive non tocca l’autonomia individuale: ci si può appoggiare sugli altri senza per questo essere “agenti non-autonomi”.

Molto importante per una buona integrazione della persona disabile nel contesto lavorativo appare la costituzione di reti informali tra i lavoratori dello stesso ufficio o reparto. Fino a che punto possono queste reti restare indipendenti dal management, o viceversa può essere la direzione aziendale stessa a promuoverle, anche per svuotarle di ogni possibile contenuto oppositivo (lo “spirito di fabbrica” di alcuni decenni fa)?

Tutto può essere recuperato, ma quello che mi sembra importante è proprio il concetto di rete. Il modello del management che critico è quello che distrugge ogni forma di rete, formale o informale, per concentrarsi sull’individuo isolato da tutti gli altri, e dunque molto più debole e fragile, con lo scopo di rompere ogni forma di solidarietà. Queste reti, anche quando sono informali, possono permettere di ricreare una forma di solidarietà, anche se poi, perché questa solidarietà possa diventare veramente un argine rispetto a un management che destabilizza, bisogna che da informali le reti possano progressivamente diventare formali, e quindi essere riconosciute come un contropotere. D’altronde, è solo nel momento in cui ci sono poteri e contropoteri che si può permettere a una società nel suo insieme di svilupparsi.

Un ruolo fondamentale per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità va attribuito ai decisori aziendali come persone – e in questo un grande impatto ha avuto il contatto che queste persone hanno avuto, grazie all’integrazione scolastica avviata negli anni ’70, con compagni in situazione di handicap prima ghettizzati, creando una sensibilità che può portare a inserimenti anche oltre i vincoli imposti dalla legge. È possibile che questi operatori si ritaglino uno spazio di autonomia rispetto a culture aziendali che, mirando alla massimizzazione dei profitti, tendono a vedere questi inserimenti lavorativi come costi?

Sicuramente sono anche dei costi, ma ci sono dei costi che qualunque tipo di società deve essere disposta ad accettare perché il benessere collettivo possa essere massimizzato. Anche in termini di utilità è quindi necessario prendere in conto una serie di costi, e oltre a concentrarsi sul corto termine occorre ragionare sul lungo termine, in cui questi costi vengono integrati e riassorbiti e, attraverso un clima di solidarietà e anche di collaborazione più “tranquilla” tra i vari agenti, permettono all’azienda stessa di massimizzare i propri profitti. La questione che però si pone è quella dell’educazione: è importante, perché la situazione cambi a livello generale e nelle varie aziende, fare in modo che già a livello educativo questo modello possa diffondersi, fare sì che non siano solo alcuni elementi marginali a confrontarsi con la differenza, l’handicap e la sofferenza, ma, in fondo, tutti. Deve rientrare all’interno di un modello educativo, che deve quindi evolvere, il prendere in conto e fare spazio alle differenze e alla fragilità. Questo è però sempre più difficile perché, non bisogna dimenticarlo, sempre di più anche il modello educativo e scolastico si basa e si struttura su una serie di competenze; adesso si parla anche di “scuola di competenze” – è come se il modello del management fosse stato trapiantato e stesse progressivamente trapiantandosi anche nel mondo dell’educazione. Il problema è quindi tenere ferma l’importanza di un’educazione che non si riassuma semplicemente nello sviluppo di competenze, ma che permetta effettivamente di essere a contatto con realtà diverse, in modo da poter poi, nella vita attiva e nella vita professionale, integrare ciò che si è imparato a livello scolastico.

Il fatto che la tendenza all’integrazione scolastica e al superamento dell’educazione differenziale, in cui l’Italia ha fatto da apripista a tutta l’Europa, non “passi” nelle culture aziendali che sono rimaste alquanto distanti da essa, e anzi si registri nell’educazione stessa un regresso, ad esempio costruendo portafogli di competenze molto rigidi e rifiutando i rallentamenti nel passo di apprendimento legati all’unità del gruppo-classe, può essere considerato un fallimento dell’educazione inclusiva?

Direi che è un fallimento nel senso che il modello non è stato spinto fino in fondo, non si è generalizzato realmente nell’educazione, per cui è fallito nella misura in cui non è stato provato in tutte le strutture educative. In fondo è un fenomeno piuttosto marginale: sono poche le classi in cui sono presenti bambini con forti handicap. Io credo che il modello si debba generalizzare a livello educativo, per poter in seguito passare anche a livello lavorativo, anche se per questo è importante la consapevolezza della necessità di superare il corto termine, ancora una volta, per valutare le strategie a lungo termine.

La crisi finanziaria tra 2008 e 2009 si è spostata nell’economia reale e nel lavoro, e oggi vediamo, come nel caso della Grecia, che le prassi della finanza non sono cambiate rispetto a prima della crisi. Ci sono prospettive di maggiore ottimismo per un modello di lavoro e di impresa diverso da quello che abbiamo visto negli ultimi vent’anni?
Purtroppo, è come se non si riuscisse a tirare tutte le conseguenze di questa crisi. È vero che la finanza ha ricominciato a funzionare esattamente come funzionava prima, senza voler rendersi conto delle conseguenze catastrofiche del fatto di avere dimenticato la realtà in quanto tale. Non si tratta tanto di essere ottimisti o pessimisti: io credo che il modello dell’economia finanziaria, con poi un impatto sull’economia reale, così come lo si conosce non può continuare. Per forza di cose si sarà costretti a un cambiamento, perché il fatto che la crisi a livello economico sia ancora forte e non si riesca a uscirne è la prova che questo modello in qualche modo deve essere cambiato. Però, perché le cose cambino, c’è bisogno di tempo; per cui, anche se la constatazione che si può fare oggi, rispetto alla situazione di fatto, è piuttosto negativa, non per questo non mi sento di essere ottimista, e credo che pian piano questo modello cambierà.

Lei vede quindi un cambiamento graduale e non traumatico, per una spinta o dall’alto, con una politica che riprenda il proprio primato, o dal basso, con qualche forma di “sommovimento popolare”?

Io lo vedo semplicemente progressivo, perché qualunque cambiamento traumatico non può che implicare conseguenze ancora più traumatiche. Questo però è un punto di vista molto soggettivo: io credo che le cose si possono e si devono cambiare, ma progressivamente, perché ogni strappo, che venga dall’alto o dal basso, lo si paga poi caro.

9. Civilizzare l’economia paga

Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna, è uno degli economisti italiani di maggiore prestigio a livello internazionale; particolare importanza
riveste la sua opera in materia di analisi economica del terzo settore. Dal 2007 è presidente dell’Agenzia per le Onlus.

La crisi in corso sta mettendo a rischio la posizione occupazionale di molti lavoratori. È riscontrabile una differenza tra impresa sociale e mondo profit nella capacità di reggere questo urto, anche in riferimento ai lavoratori svantaggiati?
Bisogna dire le cose come stanno: la crisi occupazionale attuale non è conseguenza ultima della crisi finanziaria, ma della terza rivoluzione industriale, che ha cominciato a produrre effetti da circa 20 anni a questa parte. Quello che la crisi finanziaria ha fatto è accelerare questo fenomeno e magnificarlo, ma essa non ne è la causa. È importante chiarire questo errore comune, perché quando fra alcuni mesi la crisi sarà superata, il problema occupazionale non sarà risolto, e anzi potrà essere aggravato. La terza rivoluzione industriale è legata alle nuove tecnologie info-telematiche, le quali hanno modificato il rapporto tra aumento della produzione e aumento dell’occupazione riscontrato nella storia economica almeno negli ultimi due secoli; ora le imprese possono aumentare la produzione senza creare nuovi posti di lavoro, un fenomeno noto come jobless growth che riscontriamo anche nei dati italiani dei primi mesi del 2010. In questa situazione, c’è differenza tra imprese sociali e profit, ed è proprio qui il punto: in una situazione di jobless growth abbiamo necessità di aumentare la percentuale di imprese sociali presenti nell’economia, se vogliamo risolvere il problema della disoccupazione. Quindi, mentre alcuni decenni fa si poteva fare a meno delle imprese sociali perché le imprese capitaliste assorbivano il lavoro, oggi le prime sono indispensabili. Questa è la grossa novità, eppure nessuno ne parla mai neppure nel mondo del non profit, e si continua a far credere che il non profit serva solo a produrre un po’ di assistenza e di conforto, mentre oggi ne abbiamo bisogno di fronte a imprese profit che non assumeranno più dello stretto necessario. E ciò perché mentre le imprese profit devono competere sui mercati globali e difendersi dalla concorrenza dei Paesi emergenti come la Cina, le imprese sociali non hanno questo problema di competizione globale e non sono quindi portate a sostituire lavoro con capitale fisso (macchine). In conclusione, dobbiamo attrezzarci per capire che d’ora in poi per andare verso la piena occupazione non c’è nessuna alternativa al potenziamento dell’impresa sociale, e chi dice il contrario sbaglia: se noi anche aumentiamo la quota di mercato delle imprese profit, ad esempio con aiuti statali e incentivi di vari tipi, non c’è nessuna garanzia che queste imprese aumentino l’occupazione. In Italia la FIAT ha avuto incentivi e aiuti finanziari di ogni sorta dallo Stato, e adesso dovrà chiudere gli impianti di Termini Imerese, e poi magari altri, ma non perché sia “cattiva” come dicono i moralisti, quanto perché se non fa così non può reggere la competizione globale. Una volta compreso razionalmente il fenomeno, la soluzione è irrobustire, con misure di policy che ancora non si vogliono prendere in Italia, il comparto delle imprese sociali.

Un convegno di alcuni mesi fa si intitolava “Ha senso parlare di lavoro per i disabili in un momento di crisi?”. Quale può essere una risposta?

Non solo ha senso, ma è indispensabile, perché – e qui ancora una volta bisogna andare ai fondamenti – il lavoro è prima di tutto l’attività con la quale le persone realizzano la propria identità e allargano gli spazi di libertà. Se, in prospettiva materialista, si vede il lavoro soltanto come modo per acquisire un reddito e un potere d’acquisto, allora, di fronte alla persona disabile, si proporrà di trovare il modo di trasferirle quote di reddito e tenerla fuori dall’attività lavorativa. Partendo invece dalla posizione della filosofia personalista, e vedendo nel lavoro l’attività per rendere libere tutte le persone e per affermarle, allora il ragionamento di prima cade, e occorre preoccuparsi di organizzare il processo produttivo in modo che tutti, anche la persona disabile, abbiano un lavoro, perché il lavoro le consente di realizzare se stessa; l’approccio assistenzialistico, quindi, del tipo “poverini, sono disabili, non possono lavorare, diamogli dei soldi” cade completamente. Questo è uno di quei casi in cui si vede la differenza tra chi abbraccia le posizioni del personalismo e chi sostiene l’individualismo materialista. Io rispetto chi si professa individualista, ma lo critico e lo avverso.

La fine della crisi ci consegnerà una società più capace di integrare le ragioni del lavoro e dell’inclusione nelle logiche produttive, o al contrario, dopo delocalizzazioni che delineeranno una nuova divisione del lavoro internazionale, un aumento delle diseguaglianze e una diminuzione del peso sociale dei lavoratori?

Questo è veramente un punto interrogativo. Se devo giudicare in base ai provvedimenti che sono stati presi fino ad oggi, la risposta è negativa, perché essi sono stati tutti di tipo congiunturale e non strutturale, e in secondo luogo non sono valsi a modificare il funzionamento dell’economia e i comportamenti economici delle persone – sono stati provvedimenti del tipo “spegniamo l’incendio”, e non si sono posti l’obiettivo di ricostruire la casa incendiata. Siccome io sono un ottimista, voglio sperare che d’ora in avanti i governi, e soprattutto gli organismi internazionali come il G20, vogliano prendere spunto da questa crisi per andare in questa direzione e incidere in profondità. Se però questi provvedimenti non saranno presi, è chiaro che la crisi nelle sue dimensioni finanziarie ed economiche verrà superata, ma tra 10-15 anni ritorneremo di nuovo daccapo, a un’altra crisi. E a quel punto, la colpa sarà nostra – non solo dei dirigenti politici, cui spetta la responsabilità in primis, ma anche della società civile, perché la società civile organizzata, l’associazionismo in senso lato, non fa abbastanza per chiedere con insistenza una modifica dei comportamenti economici, e sta agendo soltanto per chiedere tamponi e cerotti da mettere sulla ferita. La società civile mostra troppo opportunismo – sento io con le mie orecchie dire: “a me interessa poco di quello che verrà nel futuro, a me interessa che mi si saldi il debito, che mi si consenta quell’apertura di credito o quella possibilità”, con un comportamento miopico che spiega perché non si stiano invece prendendo provvedimenti radicali. C’è quindi una responsabilità di tutti, anche del mondo della cultura: ce n’è per tutti, in questo caso…

Non sempre le effettive realtà di impresa sociale rispettano lo spirito originario di cooperazione e pari dignità tra i lavoratori. La “deriva aziendalistica” è un accidente di singole cooperative o l’effetto di un contesto di mercato selettivo, che potrebbe diventare ancora più spietato nel dopo-crisi?

Il fatto che il mondo delle imprese sociali abbia scelto la prospettiva aziendalistica, cioè di badare alle ragioni dell’efficienza, di per sé non è un male; il problema non sta lì, ma nella separazione che si vuole continuare a tenere in vita tra efficienza e solidarietà. Fino a tempi recenti, si diceva che le imprese o le organizzazioni non profit si dovessero occupare solo della solidarietà, e le imprese capitalistiche solo dell’efficienza, e adesso ne abbiamo i risultati: le organizzazioni non profit, per aver curato solo la solidarietà e non anche l’efficienza, oggi si trovano in difficoltà e non riescono a rispettare il vincolo di bilancio, e di conseguenza arriva la selezione “aziendalistica” di cui si diceva. Tutto questo, però, è conseguenza di un errore culturale, propagandato da centri di elaborazione che fino ad anni recenti predicavano esattamente questa dicotomia tra imprese capitalistiche/efficienza e imprese non profit/solidarietà. La mia posizione, che ormai conoscono in tanti, è che hanno sbagliato tutti e due, cadendo gli uni nell’efficientismo, gli altri nell’assistenzialismo, sicché oggi abbiamo il peggiore di tutti i mali – e ne sono responsabili anche quegli studiosi, economisti e sociologi soprattutto, che fino ad anni recenti predicavano che il mondo del non profit dovesse essere un mondo di “duri e puri” che doveva occuparsi soltanto della redistribuzione del reddito, cioè della solidarietà. A suo tempo avevo polemizzato con queste posizioni, sostenute da famosi sociologi, e adesso i fatti mi stanno dando ragione, anche se allora, 10-15 anni fa, sembrava avessero partita vinta loro. Ecco perché parlo di un problema culturale, di un errore certo fatto in buona fede che però ora stiamo pagando: infatti, molte organizzazioni avevano dato retta a quei maestri di pensiero, e quando hanno cominciato a vedere che i conti non tornavano sono passate all’eccesso opposto, dalla solidarietà alla sovraefficienza, mentre ora noi dobbiamo spiegare a tutti che è possibile far marciare insieme efficienza e solidarietà.

Durante la crisi argentina del 2001-2002 si sono avuti esempi di “licenziamento dei padroni” e conversione di strutture produttive classiche in cooperative autogestite dai lavoratori, anche per imprese ad alta densità di capitale e non di lavoro. Simili esiti di trasformazione neocooperativa sono possibili anche in Europa, come risposta alla chiusura o delocalizzazione di fabbriche e uffici?

Questo fenomeno non è nato in Argentina, perché già in Italia era accaduto qualcosa di analogo a fine ’800, e negli anni ’80 negli Stati Uniti la compagnia aerea American Airlines, quando le cose andarono male, fu rilevata dai lavoratori (hostess, stewart e piloti) secondo uno schema di tipo cooperativistico; non c’è dunque nulla di nuovo nelle empresas recuperadas argentine, che hanno anzi tratto beneficio da esperienze pregresse. Io non nego che qualcosa del genere possa continuare a verificarsi, e in certe situazioni particolari può essere utile, quindi non dico che non si debba fare, però è ovvio che quella non è la soluzione ai problemi di cui stiamo parlando. Infatti, è evidente che per le imprese recuperate (in cui non vengono “licenziati i padroni”, ma subentrano altri padroni, che sono i loro lavoratori, con una proprietà condivisa di tipo cooperativo che tende a unire efficienza e solidarietà), dopo una fase di avvio iniziale della gestione dei lavoratori che può durare anche qualche anno, resta il nodo fondamentale del finanziamento – e dove vanno a prendere i soldi? Una soluzione più convincente è quella di creare una “borsa sociale”, di cui ancora non si parla abbastanza ma per cui è già stato avviato un processo e che spero nel giro di un anno possa essere messa in piedi, ossia un mercato dei capitali dedicato alle imprese non capitalistiche (sociali e cooperative), da cui esse possano attingere i capitali di cui hanno necessità per finanziare le proprie attività; il resto sono tutti rimedi in sé validi ma che durano lo spazio di un mattino.

Se l’impresa capitalistica classica si svilupperà senza creare posti di lavoro, esisterà nelle economie occidentali una domanda sufficiente per i servizi che l’impresa sociale si proporrà di offrire?
È ovvio, ma non bisogna ragionare in termini oppositivi, perché avremo sempre bisogno del settore manifatturiero, senza fare l’errore di deindustrializzare come l’Inghilterra e la Spagna, che ora ne pagano le conseguenze. Il problema non è quindi “o questo o quello”, ma “e-e”, ossia il settore manifatturiero dell’economia deve continuare a esistere, però non può aumentare allo steso tasso di crescita che si è registrato negli ultimi 30-40 anni, perché gli aumenti di produttività che il progresso tecnico garantisce devono essere utilizzati o spesi non tanto per continuare la produzione e il consumo di quella tipologia di beni, ma devono essere dirottati verso la produzione e il consumo di beni di altra natura, i beni relazionali, quali sono ad esempio i servizi alla persona. Si potrà fare? È chiaro, perché la gente si sta stufando di consumare automobili o ville; c’è un limite di saturazione al consumo dei beni manifatturieri, e la gente se ne rende sempre più conto, e c’è invece un bisogno disperato di beni relazionali, che nessuno produce al momento. Le persone preferiscono avere più soldi al mese con cui comprare l’ultimo gadget, oppure più servizi alla persona in ambito educativo, assistenziale, culturale? Al momento, questi beni li facciamo produrre alle imprese di tipo capitalistico, che di conseguenza li vendono a prezzi troppo alti, ma se noi li facessimo produrre alle cooperative o alle imprese sociali, è ovvio che i costi e i prezzi sarebbero più bassi, e la gente li comprerebbe: il segreto è tutto lì. Bisogna fare la stessa operazione che è stata fatta un secolo fa con il manifatturiero, con Henry Ford che ha abbassato i costi di produzione dell’automobile e tutti si sono messi a comprarla, mentre prima potevano permettersela solo i ricchi; lo stesso vale oggi con i beni relazionali – chi l’ha detto che l’asilo deve essere gestito da un’impresa for profit? Se lo gestisce una cooperativa sociale alla cui gestione partecipano le famiglie, i costi scendono a un livello che consentono anche alle famiglie a basso reddito di soddisfare quella domanda. Questo è il ragionamento da fare, e mi meraviglia che non si capisca come certi beni cosiddetti di lusso, che solo un 10% della popolazione poteva permettersi, siano ora alla portata di tutti. I beni relazionali sono invece prodotti oggi a prezzi troppo elevati, e poi, in maniera ipocrita, diciamo che “la gente non ha soldi per comprarli”, senza chiederci perché quei prezzi sono così elevati.

Esiste nel medio-lungo termine una capacità dell’impresa sociale di “contaminare” anche il mondo profit, e modificarne gli aspetti più “darwiniani”?

Non solo questo è possibile, ma sta già avvenendo. Ad esempio, le grandi banche italiane come Intesa Sanpaolo, Unicredit e Monte dei Paschi di Siena hanno dato vita in tempi recentissimi a banche non profit come Banca Prossima, e questo è un esempio di contaminazione. Tutto il processo che si chiama Responsabilità Sociale di Impresa, praticato dalle imprese capitalistiche oggi (non dico tutte, ma un certo numero sì), non è forse un esempio di contaminazione? Quindi, è evidente che la presenza di un nucleo di imprese sociali in un sistema ha l’effetto di contagiare anche i comportamenti degli altri, e questo sta già avvenendo – certo, non avviene ancora in maniera sufficiente per le  mie propensioni, però guardando in avanti vedo che questa sarà la traccia che verrà battuta nel prossimo futuro. E questo perché gli stessi imprenditori capitalistici hanno capito che è nel loro interesse: non perché abbiano cambiato mentalità, ma perché hanno scoperto che i profitti si fanno meglio se si umanizza l’economia. Questo è il punto: bisogna umanizzare l’economia, perché un’economia disumana alla fine diventa inefficiente – alla fine, non subito! Chi l’aveva capito 50 anni fa, prima di ogni altro, fu Adriano Olivetti, la cui grande statura sta nel fatto che era un capitalista, però aveva capito l’urgenza del processo di civilizzazione dell’economia. Sono stato nell’aprile scorso a Princeton, una delle più importanti Università negli Stati Uniti, e il titolo del convegno internazionale era Civilizing the Economy, “civilizzare l’economia”: anche gli americani stanno capendo che il modello capitalistico tradizionale fa acqua da tutte le parti e dunque non è sostenibile.

8. Il lievito della relazione tecnologica

Sergio Bellucci, esperto in comunicazioni di massa e nuove tecnologie, è tra i fondatori di Net Left, un’associazione che si occupa delle frontiere dell’innovazione tecnologica e delle libertà dell’era digitale; fa parte del Comitato Scientifico di “Sinistra Ecologia Libertà” ed è Consigliere di Amministrazione di LAit (Lazio Innovazione Tecnologica). Ha pubblicato, tra gli altri, i libri E-work. Lavoro, rete e innovazione (Roma, DeriveApprodi, 2005) e, con Marcello Cini, Lo spettro del capitale. Per una critica dell’economia della conoscenza (Torino, Codice Edizioni, 2009).

In che modo le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e il passaggio a un’economia della conoscenza possono agevolare l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità?
Le nuove tecnologie consentono cose prima quasi impensabili, cioè costruire strumenti che possono essere adattati all’individuo. Fino a quando le tecnologie sono state meccaniche, era l’individuo che doveva in qualche modo rispondere alle esigenze della macchina; in parte, oggi, questa cosa è ancora vera, ma il grado di flessibilità è molto più alto e siamo in grado di costruire delle interazioni uomo-macchina che tendono alla personalizzazione. Da questo punto di vista, è ovvio che qualunque tipo di deficit può essere ridotto drasticamente sia nell’impatto di quel deficit nella relazione con la macchina sia con l’altro da sé. Questa cosa è ancora più vera se si passa dalla produzione di merci materiali a quella che è stata chiamata “economia della conoscenza”. Mentre il grado di flessibilità che si può raggiungere attraverso le macchine, per quanto riguarda le merci materiali, può essere diciamo del 60-70%, per l’economia della conoscenza questa flessibilità può tendere alla totalità, in quanto la produzione di un contenuto è virtualizzabile in maniera quasi completa. Da questo punto di vista possiamo dire, quindi, che l’innovazione tecnologica consente gradi di parità che le vecchie tecnologie meccaniche non consentivano.

Queste nuove forme di organizzazione del processo produttivo, basate sulla gestione delle informazioni più che sullo svolgimento manuale di operazioni, possono costituire un ostacolo per lavoratori con disabilità di tipo cognitivo (che prima potevano essere adibiti a mansioni “meccaniche”) nel momento stesso in cui vengono incontro alle esigenze di quelli con deficit fisici o motori?
Questo è sicuramente un problema aperto, perché nello sviluppo dell’economia della conoscenza l’apporto qualitativo dell’individuo nel ciclo produttivo, in termini di aumento dell’informazione contenuta nella merce o nel servizio prodotti, è un dato assolutamente significativo. Ma anche qui, siccome credo che sia possibile lavorare verso elementi di personalizzazione – sempre che lo si voglia e che ci siano le risorse dedicate a sviluppare questi modelli –, è possibile sottolineare ed evidenziare le capacità cognitive, anche se ridotte, che l’individuo ha su alcuni segmenti, e portarle a un livello qualitativo utile nel ciclo produttivo. È ovvio che tutti i cicli produttivi, anche quelli automatizzati delle merci materiali, ripetitivi e senza immissione di qualità, oggi sono più facili dal punto di vista della gestione e anche meno faticosi, e quindi in qualche modo più generalizzabili.

Una modalità di lavoro in cui il contatto fianco a fianco è sempre più sostituito da un’interazione più ampia, ma virtuale, ostacola o favorisce la formazione di quei rapporti informali tra colleghi, e tra lavoratori e direzione aziendale, che possono determinare per la persona disabile la differenza tra un semplice inserimento lavorativo e un’integrazione sociale più completa?
Da questo punto di vista noi siamo in una fase di transizione che non è terminata, e chissà se e quando potrà avere un termine. Io sostengo da anni che stiamo entrando in società che definisco “mutanti”, del cambiamento perenne, e che quindi non hanno più la possibilità di essere stabilizzate in termini di modelli predefiniti, socializzabili come elementi stabili. Questo pone tanti quesiti, perché probabilmente è la prima volta nella storia della specie umana che ci si ritrova in una dinamica sociale senza più nessun elemento di stabilizzazione. Anzi, si può dire che la capacità di mutamento perenne è il cuore nuovo delle nostre società. Questo significa tanti cambiamenti, che noi possiamo semplicemente, per il momento, cominciare a registrare. È evidente che cambiano le forme relazionali: nessuno di noi è lo stesso di prima di Internet, ma siamo anche molto diversi da come eravamo con Internet 1.0 rispetto all’attuale 2.0, con i contenuti costruiti attraverso una forma relazionale, come il famoso Facebook (ma non solo quello). Cosa questo significhi in termini di trasformazione nel ciclo produttivo, lo stiamo osservando in questo momento; mi sembra di poter dire “a spanne”, ma non c’è credo ancora nessuna ricerca che possa supportare per il momento un’ipotesi o l’altra, che questa trasformazione delle forme relazionali stia modificando anche alcuni aspetti della struttura cognitiva individuale e la forma dei gruppi sociali. Dentro questo quadro di grande trasformazione e incertezza, oso intravedere qualche possibile lettura degli esiti, e mi sembra di poter dire che in queste strutture la persona disabile non dico sia avvantaggiata rispetto alla situazione precedente, ma può vedere il proprio deficit molto più sciolto e superabile, perché le forme di relazione fondamentali, come la scrittura e la voce, sono gestibili con vari tipi di interfacce, e quindi rispetto alla situazione ex ante mi sembra ci sia qualche elemento di integrazione in più.

Di fronte a tecnologie che consentono molteplici adattamenti alle esigenze personali, c’è il rischio che l’integrazione lavorativa e sociale delle persone disabili sia vista come frutto semplicemente di uno sforzo tecnico, e non anche di un lavoro culturale?
Io su questo, in genere, mi colloco nella zona dei “tecno-ottimisti”, perché credo che gli esseri umani riescano sempre a piegare lo strumento che hanno in mano a un uso sociale: l’uomo è un animale sociale, sta bene quando sta insieme agli altri e condivide con gli altri delle cose. Queste strutture tecnologiche fanno emergere costantemente forme di relazione, condivisione e superamento dei limiti precedenti, un po’ come la pasta lievita, che aumenta costantemente anche se ne leviamo dei pezzi, e il fenomeno dell’interazione sociale sta producendo una richiesta enorme di relazione. Tutto questo non significa che non ci siano problemi e rischi, in primo luogo quelli di invasione della privacy e di controllo, molto significativi anche e soprattutto sul lavoro, perché queste tecnologie possono essere utilizzate per entrare nella vita dei singoli e condizionarla, o per sconfiggere capacità di lotta che emergono nei luoghi di lavoro. Il controllo esisteva però anche prima delle tecnologie digitali, e, tra rischi e benefici, mi sembra che il lievito abbondante delle tecnologie aumenti, molto di più delle capacità di invasione della privacy, le forme di relazione e di condivisione, ciò che mi rende al momento “tecno-ottimista” e mi pare possa alludere a qualche esperimento sociale significativo in positivo. Ovviamente, come in tutte le cose, sono pronto a ricredermi se invece la piega sarà un’altra, ma mi sembra in questa fase che tutti i tentativi di mettere sotto controllo stentino ad avere effetto, facendo invece riemergere questa forma un po’ anarchica di auto-organizzazione. Certo, molte piattaforme sono prodotte da società per scopi commerciali che provano a utilizzare i nostri dati, e li utilizzano, per interessi aziendali, però quello che vedo di fondo è l’elemento fortissimo della condivisione. Per esempio, nell’aprile scorso c’è stata la crisi in Europa per le ceneri del vulcano islandese, che hanno messo in una condizione molto difficile il sistema aereo: mentre tutte le strutture, anche quelle grandissime e iper-organizzate, sono saltate e non sono state in grado di reggere l’urto, attraverso la rete si sono create spontaneamente forme di auto-organizzazione di viaggi via terra, che hanno dato risposte molto importanti al problema individuale dello spostamento, e che non avevano nessun elemento centrale di controllo, ma si auto-generavano dallo scambio di itinerari, orari e dalla condivisione delle spese. Ci sono quindi delle forme che consentono alle persone di dare e trovare risposte ai problemi in una maniera che era totalmente imprevedibile anche soltanto qualche tempo fa. Stiamo quindi entrando in una fase nuova, ma molto interessante.

7. Ci vuole tempo per creare un buon clima

Miria Michielli è la titolare dell’omonima officina meccanica, una piccola industria della zona Roveri di Bologna.

Ci può descrivere la vostra esperienza di azienda nell’integrazione di lavoratori svantaggiati?
Il ragazzo con disabilità che lavora oggi con noi era venuto qui circa 5 anni fa mandato dalla Azienda USL di Bologna – Igiene Mentale, a fare uno stage per cercare di inserirlo. Abbiamo iniziato piano piano, come bene o male si fa con tutti: non c’è un trattamento diverso, ma si cerca di conoscere la persona, e in base alla tipologia di malattia la si mette a fare dei lavori, più semplici o più complicati. Il ragazzo ha una disabilità mentale, ma riesce a svolgere il suo lavoro normalmente: lavora al trapano, fora, fresa e taglia i pezzi, e fa altri lavori più semplici, senza operare sui controlli, e si è integrato abbastanza bene. In passato ho avuto altri ragazzi con disabilità di varie tipologie, ma erano tutti in stage, e alla fine del periodo sono andati a fare altro; lì non c’era la motivazione per assumerli, ma si cercava solo di vedere come si potevano comportare in un ambiente lavorativo. Erano ancora ragazzini molto giovani, e quindi seguiti e in una fase di prova e “studio”, mentre la persona che ho attualmente ha più di 40 anni, aveva già lavorato in un’azienda, e bisognava integrarlo come assunzione.

In base a quali motivazioni avete scelto di inserire un lavoratore svantaggiato nella vostra azienda anche se, avendo 8-9 dipendenti, non obbligati dalla legge? Come ha inciso su questo il fatto di essere una piccola impresa?

Anche se non avevamo l’obbligo, quando il ragazzo era qui a fare il percorso di stage abbiamo imparato a conoscerlo, lui si è sempre comportato bene e si è affezionato a noi come noi a lui. Nelle piccole aziende c’è un clima più familiare, non siamo numeri ma persone, e ognuno di noi conosce la realtà dell’altro, ci si aiuta a vicenda e si lavora insieme, ci sono anche tanti pezzi di vita di tutti: si riesce quindi a instaurare un rapporto che va oltre il lavoro, e diventa umano e di amicizia. Quindi, ci è venuto un po’ automatico fargli l’assunzione, perché ci si vuole bene e diventa una questione più di affetto. Questo anche se poi nel lavoro lui non porta grandi vantaggi, ma si fanno magari contratti adatti alla sua condizione, a noi fa piacere che lui stia qui e a lui fa piacere stare qui, quindi perché distaccarlo per poi creargli un altro disagio? Perciò, anziché fare chissà quale beneficenza in giro, a volte con un piccolo sforzo ci si può aiutare.

Nel percorso di inserimento o in fasi successive, quali aiuti o consulenze avete ricevuto dall’esterno?
Durante l’inserimento abbiamo avuto un po’ di contatti con l’Azienda USL di Bologna, ma è logico che l’inserimento è affidato molto a noi, perché siamo noi che abbiamo tutti i giorni contatto con lui, e diventiamo noi il suo punto di riferimento. A volte, nel bisogno, ci sono comunque contatti e confronti tra me e lo psicologo che lo segue per l’Igiene Mentale.

Quanto hanno agevolato, o viceversa ostacolato, il processo di inserimento le relazioni che si sono stabilite tra il nuovo lavoratore e i colleghi?
Siamo, come ripeto, un’azienda piccola, con poche persone (al massimo siamo stati 20, noi 5 soci più i dipendenti), siamo una piccola famiglia, e si instaura quindi un clima sereno. È sempre un lavoro, e quindi vorremmo tutti stare a casa, ma si viene a lavorare serenamente, non si hanno i fucili puntati, e tra i dipendenti non c’è un clima di astio o rancore, ma si va tutti molto d’accordo. Quando poi ci sono piccole incomprensioni, io come titolare entro in campo per “schiarire”, come in una famiglia quando i fratelli litigano arriva la mamma che cerca di fare da paciere. Quindi in questo inserimento, e anche negli altri casi di stage, tutti gli altri hanno accettato senza resistenze, lo capiscono anche senza dirglielo.

Si sono stabilite tra il ragazzo inserito e gli altri delle relazioni che vanno anche oltre l’orario di lavoro?
Non penso che si frequentino fuori; è capitato l’anno scorso, in un periodo di cassa integrazione per la forte crisi, che si aiutassero e si vedessero negli uffici INPS per darsi una mano l’un l’altro, ma non credo che vadano fuori al di là del rapporto di lavoro. Se capita che qualcuno fa una cena, può anche essere che lo invitino, ma tutti stanno molto qui al lavoro, e quindi alla sera preferiscono stare in famiglia o fare la loro vita, però il rapporto è ottimo con tutti.

Quali consigli si sentirebbe di dare ad altre imprese della vostra dimensione che intendano intraprendere il vostro stesso percorso?
Sicuramente bisogna avere tanta pazienza, e non pensare a questo inserimento come produttivo, perché la persona va aiutata, e non bisogna vederla attiva nel lavoro al 100%, ma trovarle un lavoro semplice in cui anche lei, con i suoi limiti, possa comunque avere delle motivazioni, senza chiedere tanto di più. Trovare il giusto ruolo nell’ambito dell’azienda quindi secondo me è fondamentale, un lavoro in cui la persona svantaggiata possa dare il meglio e l’azienda possa usufruirne; non bisogna pensare di avere persone che possano fare tutto. Bisogna anche individuare una persona dell’azienda un po’ più portata che lo segua, e difficilmente sono quelli alla produzione, che “corrono” di continuo, mentre ci vuole anche un po’ di tempo per seguire questi problemi. Nel nostro caso questa persona sono io come titolare, ma può anche essere chi lavora in ufficio o ha ruoli che lasciano un po’ di tempo da poter dedicare a questo. Infatti, la necessità di dedicare tempo non si limita all’inserimento, perché stiamo sempre parlando di persone che hanno problematiche, ma a me che sono titolare d’azienda questo tempo lo richiedono tutti, perché se uno ha un’azienda il personale va seguito a 360 gradi, se si vuole stare tutti bene. Perciò, come un giorno seguo lui, un altro giorno seguo un altro; c’è sempre qualcuno, ma fa parte del nostro lavoro creare un’azienda dove si possa stare abbastanza sereni. Credo che questo sia fondamentale, perché chi viene a lavorare serenamente dà anche di più, la motivazione fa rendere di più sul lavoro. Quindi, un datore di lavoro non lo fa per la gloria, ma penso che i ritorni ci siano sempre: ho persone che da anni lavorano con me, e così si riesce a creare un operaio di un certo tipo, che non ti abbandona perché magari c’è un’azienda che gli dà due soldi in più, c’è un rapporto di fiducia e fedeltà che in quest’ambiente vuole dire tanto.

6. Imparare da chi è meno fortunato, aspettando la ripresa

Maurizio Marchesini è amministratore delegato di Marchesini Group, grande azienda di macchine automatiche per il packaging con sede principale a Pianoro (BO) che si è distinta per le buone prassi nell’integrazione di lavoratori con disabilità. Dal giugno 2009 Marchesini è inoltre Presidente di Unindustria Bologna, l’associazione di imprese nata nel 2007 dalla fusione di Api Bologna e Confindustria Bologna.

Ci può descrivere il vostro contesto aziendale e la vostra esperienza come azienda nell’integrazione di lavoratori svantaggiati?
Siamo un’azienda a fortissima vocazione internazionale (il nostro fatturato viene per l’85% dall’export) ma ancora a conduzione sostanzialmente familiare, nonostante le nostre dimensioni siano cresciute notevolmente. All’interno delle maestranze è ancora presente la prima generazione, che però sta progressivamente andando in pensione. C’è comunque un forte desiderio da parte dei più anziani di inserire i giovani, e questa è una caratteristica tipica dei fondatori. Complessivamente il clima aziendale è molto disteso e familiare. I dirigenti hanno ordine di tenere le “porte aperte”. Ci teniamo che le persone vivano in armonia nel contesto lavorativo, visto che vi passano una parte notevole del loro tempo. Tutto ciò vale naturalmente anche nei riguardi dei lavoratori svantaggiati. Il loro inserimento, per noi, non è solo un obbligo di legge: è, piuttosto, l’opportunità di integrare nella nostra comunità lavorativa qualcuno meno fortunato, che può peraltro insegnare tanto.

Quali sono le motivazioni, sia personali che aziendali, in base a cui decidete di procedere all’inserimento di lavoratori con disabilità in azienda, e con quali criteri di massima gestite tirocini e assunzioni?

Cerchiamo, nel nostro ambito, di tradurre sul piano pratico e con comportamenti concreti un tema molto forte quale è la responsabilità sociale dell’impresa. La conduzione familiare dell’azienda ci permette di dare ancora l’impronta a determinate scelte. Ad esempio, prestiamo grande attenzione, per quanto possibile, affinché i lavoratori con disabilità che vengono inseriti alla Marchesini Group siano residenti nel territorio prossimo all’azienda: questo permette loro di raggiungere il posto di lavoro in autonomia, e di non gravare ulteriormente sulle famiglie.

Quali supporti o consulenze esterni ricevete abitualmente nella fase di inserimento lavorativo e in quella successiva al lavoro? Esistono forme di sostegno che vorreste ricevere, ma che l’attuale sistema dei servizi non fornisce?
Da alcuni anni abbiamo un confronto diretto con l’Ufficio Provinciale del Lavoro, con cui ci confrontiamo per le eventuali necessità aziendali o loro stessi ci indicano persone da valutare: e questo, possiamo assicurare, è un ottimo metodo. L’ufficio attiva delle “Borse Lavoro” che permettono sia al lavoratore che all’azienda di valutare la reale fattibilità all’inserimento lavorativo e di conseguenza all’assunzione definitiva. Per la nostra esperienza, i servizi sono presenti nella prima fase di inserimento, poi scompaiono completamente. Sarebbe utile un loro periodico monitoraggio del lavoratore soprattutto per alcuni tipi di handicap.

Come incidono sul processo di inserimento, in senso positivo o negativo, le relazioni tra colleghi? Come direzione aziendale attuate interventi su questa dimensione per facilitare l’inserimento?
Spesso chi è meno fortunato ha in realtà tantissimo da insegnare, soprattutto in fatto di integrazione e accoglienza. E noi ci teniamo a incentivare questi valori, anche e soprattutto attraverso le relazioni che si instaurano tra colleghi di lavoro. In particolare, inoltre, ogni volta che in azienda viene inserito un disabile, facciamo sì che trovi al suo fianco un responsabile (scelto naturalmente con caratteristiche idonee per svolgere questo ruolo) che ha il compito di prendersene cura.

Quali sono le strategie e i progetti che come Presidente di Unindustria Bologna ha attuato o intende attuare per facilitare i percorsi di inserimento lavorativo nelle aziende associate di persone con disabilità?
Unindustria ha sempre partecipato attivamente a tutti i “tavoli” su questo tema. E, mi preme sottolinearlo, la nostra non è mai stata una presenza passiva: siamo sempre stati attori, non spettatori, con proposte e iniziative. Penso, ad esempio, all’accordo tra associazioni imprenditoriali, sindacati e Provincia per l’assunzione di disabili da parte di cooperative sociali, alle quali poi l’azienda si rivolge per proprie commesse specifiche. O penso, altrettanto, alla quotidiana attività di consulenza alle imprese da parte dei nostri uffici, una consulenza che è generalmente orientata alla ricerca delle soluzioni più appropriate in relazione alle specificità di ogni singolo caso: dal tirocinio alla borsa lavoro, al contratto part-time, e alla stipula di apposite convenzioni con la Provincia stessa.

Nell’attuale momento di grave crisi occupazionale, come stanno reagendo le imprese associate rispetto all’obbligo e all’opportunità di questi inserimenti lavorativi – le direzioni aziendali tendono a rinviare le nuove assunzioni, o anche i tirocini di orientamento non finalizzati all’assunzione? E come vengono considerati i lavoratori con disabilità nel momento in cui una direzione aziendale deve definire il personale in esubero?
Purtroppo che la crisi ci sia, che sia pesante e che riguardi praticamente tutto il pianeta, sono tutti dati di fatto. Nel caso italiano, e in quello bolognese, ci troviamo di fronte a forti cali di fatturato, anche del 50-60 per cento per diverse aziende, e tutto ciò sta comportando un utilizzo massiccio degli ammortizzatori sociali. In queste condizioni, ahimè, è arduo parlare tout court di nuove assunzioni per chicchessia, o anche di tirocini formativi. Per quanto riguarda invece eventuali esuberi, c’è in ogni caso una norma di legge che tutela i lavoratori disabili. E noi come Unindustria Bologna, per quanto ci compete, cerchiamo, in ottemperanza alle leggi vigenti, di trovare anche nella gestione di situazioni di difficoltà quegli equilibri che le condizioni individuali meritano.

Quali consigli si sentirebbe di dare da un lato ad altre imprese analoghe alla sua, e dall’altro ad altre associazioni di imprese, per favorire un efficace sistema di inserimenti lavorativi di persone svantaggiate durante e dopo la crisi?
Auguriamoci, innanzitutto, che la ripresa giunga il più presto possibile, poiché fino a quando perdurerà la crisi sarà abbastanza difficile estrarre conigli dal cilindro. Quando la crisi sarà stata superata, invece, sono certo che riprenderemo a cercare, con la delicatezza che ogni caso particolare richiede, quelle soluzioni che consentano all’impresa e al lavoratore disabile di conoscersi, di comprendersi e di collaborare, individuando per ogni specificità la più indicata tra quelle soluzioni di cui parlavo anche più sopra, al fine di un attento e costruttivo inserimento lavorativo mirato: dalla borsa lavoro ai tirocini formativi, dal periodo di prova al contratto a tempo determinato (che può avere una durata anche di tre anni), dal part-time alle convenzioni con la Provincia. Ed è questa ricerca, tanto meticolosa quanto rispettosa appunto delle specificità, che mi sento di consigliare a tutti i colleghi.

5. L’inclusione “paga”

Leonardo Callegari, cooperatore e sociologo bolognese, è presidente di CSAPSA (Centro Studi Analisi di Psicologia e Sociologia Applicate) e AILeS (Associazione di promozione della Inclusione Lavorativa e Sociale), e ha curato la pubblicazione Aziende solidali e lavoratori disabili. Quando le strutture organizzative sono prossime alle persone.

Ci sono punti dell’esito di questa ricerca che stupiscono, o contraddicono la vostra esperienza precedente?
Punti che contraddicano quanto immaginavamo non ce ne sono, ma ci sono aspetti che possono da un lato confortare quello che già si sapeva alla luce dell’esperienza e delle prassi sul campo e della letteratura in materia, e dall’altro portare un contributo positivo all’idea che si ha in generale delle aziende. Faccio un esempio: una delle ipotesi che si ponevano all’inizio è che gli interlocutori aziendali (responsabili del personale, imprenditori, datori di lavoro) evidenziassero le competenze professionali richieste, l’adeguamento dal punto di vista prestazionale nello svolgimento dei compiti. Di fatto, così non è stato: anche da parte dei referenti aziendali, che ovviamente sono per mandato sensibili al fatto che una persona possa essere adeguata dal punto di vista produttivo-prestazionale, sono stati evidenziati soprattutto aspetti di tipo sociale-relazionale, e di conseguenza anche culturale, che agivano nel contesto facilitando l’inclusione. Tramite questi movimenti, indirettamente, vengono posti in essere una serie di adattamenti che intervengono, soprattutto nel micro-setting, anche sul piano prestazionale, dei processi produttivi e dell’organizzazione operativa nello svolgimento del compito. Questo è un aspetto che credo sia giusto segnalare, così come la smentita dell’idea che, parlando di aziende profit, si parli di luoghi dediti solo a una produzione finalizzata al profitto, senza altre considerazioni che riguardano le relazioni umane e quindi il rapporto con le persone e le compagini che vanno a costituire queste realtà, che sono dal nostro punto di vista anche e soprattutto sociali. Abbiamo invece verificato in non pochi casi – che però non delineano una prevalenza assoluta, anche perché il target di aziende interloquite era già selezionato, tramite la Provincia di Bologna, tra quelle più adempienti rispetto alla Legge 68 – che si registrano caratteristiche organizzative e di relazione interna che hanno tratti quasi cooperativistici; di converso, anche se non è emerso nella ricerca in questione che non riguardava per la nostra parte le cooperative sociali, sappiamo bene dalla nostra esperienza che soprattutto in grandi cooperative troviamo un’inversione di caratteri, con l’espressione di tratti aziendalistici o distanziamenti che ci si aspetterebbe solo nel profit. Questo è un elemento che è giusto considerare, magari con qualche amarezza visto che io sono un cooperatore, ma superando la convinzione che la cooperazione possa esprimersi con caratteristiche analoghe ovunque, quando invece vanno fatte valutazioni circostanziate.

Quanto incide l’esperienza personale dei decisori aziendali rispetto al contesto di mercato e alla cultura aziendale in cui operano (quando non sono loro a determinarla, come proprietari dell’azienda)?
Sicuramente il ruolo delle disposizioni soggettive e degli orientamenti culturali del singolo decisore è di grande importanza, e questi affondano le radici nella loro biografia personale, che abbiamo colto per tratti, anche se l’indagine non aveva degli strumenti di analisi in profondità, perché sono comunque affiorati e sono stati richiamati anche nel report. Ci sentiamo di dire che questo aspetto andrebbe approfondito, alla luce di storie di responsabili aziendali che possano ripercorrere la loro biografia e le loro precedenti esperienze familiari, scolastiche, di frequentazioni amicali, per non parlare di un impegno politico, sociale e di volontariato che è pure emerso nel corso delle interviste. La formazione acquisita e le precedenti esperienze avute nell’ambito dell’inclusione di persone disabili sono aspetti che vanno a deporre favorevolmente rispetto a una opzione di apertura; non sempre si verifica il contrario, per cui anche in aziende ultra-certificate, con le ISO ma anche con la SA8000, non è detto che dichiarazioni di mission, di valore e di orientamento certificate a livello internazionale si traducano automaticamente in comportamenti effettivi e in buone prassi inclusive dal punto di vista dell’inserimento lavorativo di persone disabili. Si verifica poi anche, e almeno tre casi particolarmente significativi sono stati registrati dalle interviste, la convergenza tra una dimensione di cultura e orientamento politico-aziendale, con certificazioni annesse, e opzioni e comportamenti dei singoli responsabili, che creano una complementarità virtuosa.

Come ha impattato la crisi nella capacità di accoglienza dei decisori aziendali da un lato, e dei gruppi di lavoro dall’altro, ad esempio nelle situazioni di esuberi di personale?
Le dinamiche di crisi e le difficoltà di mercato condizionano fortemente sia le opzioni generali aziendali che le disposizioni e le scelte dei singoli decisori, vagliate però dal filtro di una valutazione soggettiva: se la crisi non agisce in termini particolarmente devastanti su una data azienda, la sua entità percepita dipende anche da quanto la crisi venga utilizzata strumentalmente o, viceversa, possa essere messa non in primo piano. Mi spiego meglio: anche in una situazione di crisi, ci sono aziende che possono includere – non necessariamente assumere, però accogliere persone all’interno di tirocini che comunque comportano un’apertura alle diversità soggettive, e, se anche il momento non è dei più favorevoli, dove ci sono disposizioni da parte di decisori aziendali che vanno in quella direzione non è la crisi di per sé che la preclude. Scelte di questo genere possono insomma essere fatte, è anche un’interpretazione della crisi che agisce in un senso o nell’altro. Nei contesti di lavoro, tra i colleghi, non abbiamo rilevato tensioni, almeno nelle aziende con cui siamo venuti in contatto, anche se ci sono un timore diffuso e un’incertezza che non aiutano la creazione di meccanismi solidaristici. Rimane da approfondire la disposizione empatica all’interno dei gruppi di lavoro, nei confronti delle persone che presentano difficoltà soggettive e diversità personali; questo è uno degli aspetti che andrebbero maggiormente promossi, perché ovviamente non può essere imposto tramite un’azione direzionale o anche formativa, la quale non crea di per sé empatia. Nei gruppi dove si creano condizioni inclusive di tipo prossimale, con capacità supportive delle persone inserite, ciò avviene perché scattano meccanismi empatici, ovvero le persone possono rispecchiarsi: “mi potrei trovare in una condizione analoga”. La disabilità non è solo in ingresso ma può essere anche acquisita; ci sono state aziende che hanno affrontato il tema delle persone dell’area della cosiddetta normalità che si sono ritrovate disabili, e hanno cercato soluzioni non espulsive. Questo è un aspetto che, anche quando si agisce di supporto ai gruppi di lavoro per migliorarne la capacità inclusiva, va promosso e stimolato per attivare, assieme all’empatia, le capacità di supporto reciproco, e per stimolare attitudini negoziali a trovare soluzioni di mediazione, che ripartiscono all’interno del gruppo l’impegno, senza sentirsi minacciati o sovraccaricati da una presenza che può essere in alcuni casi impegnativa per le problematiche di cui si fa portatrice. Sugli effetti della crisi sui gruppi di lavoro, come detto, non abbiamo comunque avuto occasione di fare osservazioni specifiche, ma io non credo che si esca dalla crisi deprivandoci ulteriormente in termini di capacità di relazione e di inclusione, lasciando a lavorare solo quelli che “producono al massimo” senza altre considerazioni – non foss’altro, per il tipo di commitment e di investimento motivazionale: se io adesso sono un lavoratore produttivo, ma penso che se mi succede qualcosa (una malattia, o una flessione motivazionale legata a qualunque accidente di vita), nel momento in cui “non viaggio al massimo” la mia azienda mi butta fuori, probabilmente su quell’azienda io investirò poco. Io voglio crederci, forse sarà una visione un po’ romantica, ma esperti molto più accreditati di noi ne sono convinti anche dal punto di vista teorico.

Quali differenze si riscontrano nell’inserimento lavorativo in aziende di diverse dimensioni e caratteristiche?
Non ci sono state a oggi indagini comparative, ma le differenze ci possono essere dal punto di vista della dimensione relazionale di maggiore o minore vicinanza o distanza, anche se vanno circostanziate alle situazioni di micro-setting; la dimensione in quanto tale rileva, perché ha un effetto di significativo condizionamento, ma non è determinante. Una grande azienda può applicare principi di organizzazione e strutturazione dei rapporti di lavoro in modo non favorevole all’inclusione fin nei singoli reparti e quindi nei luoghi più prossimi alla singola postazione, o viceversa, anche se ha una dimensione sovranazionale (come nel caso di IKEA che abbiamo intervistato), può avere una caratterizzazione a livello di reparto, ossia di micro-setting entro cui si inseriscono le persone, che mantiene connotazioni di tipo prossimale, quindi con una capacità supportiva e un’inclusività che fa leva anche sulle relazioni tra le persone. Solitamente si pensa in termini idealtipici, e anche noi siamo tra questi, che nella piccola impresa a conduzione familiare, artigiana, c’è una personalizzazione dei rapporti rispetto ai quali è più consigliabile l’inserimento di persone che hanno bisogno di avere riferimenti certi e personali, mentre in una grande azienda, dove c’è una socializzazione più rarefatta e basata su modelli posizionali e vale più il rapporto di ruolo, dovrebbero essere inserite persone che hanno già delle capacità più sviluppate in termini di “saper lavorare”, e quindi consideriamo questa dicotomia per fare degli abbinamenti di inserimento. Anche questa distinzione va però articolata e circostanziata, perché come nel caso che si citava delle “curiose inversioni” tra profit e cooperazione, altrettanto può accadere tra piccola e grande azienda, e possono esistere grandi imprese con clima informale come piccole imprese con clima autoritario. Noi abbiamo visto che ci sono aziende che coniugano la dimensione della struttura di impresa, anche sovranazionale, con caratteri di prossimità all’interno dei micro-setting, che sono poi i reparti, le zone prossimali per contiguità non solo fisica, ma soprattutto comunicativo-relazionale. Sono questi gli esempi più auspicabili per traghettare la crisi verso soluzioni meno pessimistiche; del resto, le aziende che abbiamo consultato stanno attraversando la crisi senza subire effetti devastanti, magari reinternalizzando alcune attività per non attingere in maniera massiccia alla cassa integrazione, e non è facile capire in quale rapporto di causa-effetto stiano clima/organizzazione aziendale e capacità di resistenza alla crisi. In questo senso, sarebbe interessante costruire un modello di analisi teorico di organizzazione aziendale, a partire dai sistemi socio-tecnici, tenendo conto dell’azione e retroazione tra soddisfazione delle relazioni e produttività/sviluppo aziendale. Naturalmente parliamo di modelli organizzativi non gerarchici e più partecipati e condivisi, senza per questo non avere fini di profitto come le cooperative, ma paradossalmente presentando caratteri organizzativi interni di tipo cooperativistico che risultano funzionali alla performance aziendale. Per quanto già detto, forse queste aziende non sono prevalenti, ma dimostrano che è possibile avere caratteri virtuosi capaci di dare una prospettiva di uscita dalla crisi.

Nell’esperienza che avete svolto in questi anni nel supporto alle imprese, quali sono le difficoltà più frequenti che un gruppo di lavoro incontra nell’integrazione di un nuovo collega con disabilità o svantaggiato, e come è possibile superarle con risorse esterne o interne?

Ci può essere intanto un deficit informativo rispetto alle problematiche della persona, e a come rapportarsi nel modo più adeguato con lei. Inoltre, si possono innescare dinamiche legate al modo in cui il gruppo di lavoro si rapporta con una variabile che perturba un equilibrio raggiunto, e questo comporta uno sforzo per “mettersi nei panni di”, collocarsi in un’ottica di reciprocità e trovare delle soluzioni mediate. Bisogna però avere a mente che il più delle volte – e ne abbiamo un caso recente riportato nel testo e oggetto di un intervento di supporto informativo – le persone disabili possono agire all’interno dei luoghi di lavoro come soggetti “analizzatori” di dinamiche e di problematiche, anche organizzative e relazionali, che comunque ci sarebbero, che emergano o rimangano latenti, e che vengono maggiormente evidenziate alla luce del fatto che una persona disabile viene inserita appunto in quel contesto. Da questo punto di vista, può essere un luogo comune ma è comunque vero, l’inserimento di persone disabili può aiutare le stesse organizzazioni di lavoro a migliorarsi per includere non solo i disabili, ma per tutti i lavoratori. Di conseguenza, se dovessimo consigliare noi le aziende, incontri informativi preliminari, che a volte abbiamo fatto ma che non sono richiesti frequentemente, sarebbero senz’altro utili per preparare l’inserimento lavorativo di persone in situazione di handicap o di disagio, così come l’offerta di supporti consulenziali in itinere, a fronte di determinate problematiche che possono sopravvenire, per facilitare i gruppi di lavoro ad affrontarle e gestirle con le mediazioni migliori possibili date le circostanze. In ogni caso, è importante predisporre una assistenza post-inserimento, a fronte di problematiche che possono sopravvenire anche a distanza di molti anni. Questi sono supporti che le aziende con cui siamo venuti in contatto hanno considerato positivamente e hanno richiesto, e c’è un’aspettativa in quel senso, anche se ancora non c’è una domanda generalizzata, probabilmente per un deficit informativo, e se vogliamo promozionale, per un tipo di servizio come questo – che era stato peraltro messo a disposizione dalla Provincia con un finanziamento specifico qualche anno fa, e ora rimane in forma residuale, ma non è stata fatta una campagna informativa nei confronti delle aziende che le portasse a conoscenza di questa possibilità.

Questo deficit informativo è un sintomo della distanza che permane tra operatori della mediazione e operatori aziendali?

C’è una difficoltà da parte degli operatori della mediazione nell’acquisire una maggiore e migliore conoscenza del mondo del lavoro profit, di che cosa vuol dire gestire un’azienda con criteri che non sono quelli del welfare, ma con cui occorre entrare in comunicazione e in un rapporto di collaborazione. Questo è un gap che gli operatori della mediazione devono superare, e c’è inoltre un problema a monte di endemica sottovalutazione dell’importanza di promuovere contesti aziendali, in particolare profit, oltre alle cooperative sociali, con cui già c’è un rapporto di collaborazione storica, ai fini dell’inclusione non necessariamente a fini occupazionali, ma per accogliere le persone con percorsi di stage, tirocini formativi e di transizione, che poi nel tempo possono sfociare anche in conferme assuntive. Su questo versante va fatto uno sforzo aggiuntivo di coinvolgimento organico delle imprese profit più socialmente responsabili, che ci sono più di quanto si possa immaginare, e che magari agiscono per puro spirito civico e solidale: ci sono piccole imprese che accolgono persone senza essere soggette a obbligo, perché ritengono giusto farlo, e non ne danno comunicazione perché non sono neanche consapevoli di attuare una buona prassi, e invece andrebbero pubblicamente menzionate e valorizzate, come merito distintivo, anche per fungere da volano emulativo nel tempo per altre imprese. Chiaramente parliamo di azioni di lungo corso, con mutamenti che dovrebbero avvenire sul piano culturale, prima ancora che strutturale, che richiedono impegno e i cui esiti, graduali, incerti, si possono misurare solo nel tempo. Per questo motivo credo che tale versante promozionale, comunicativo ed emulativo di buone prassi inclusive nelle aziende profit, oggi ancora sottovalutato, vada ulteriormente considerato e sviluppato con iniziative non episodiche, condivise, ancorate alle comunità di appartenenza delle persone disabili e di insediamento delle aziende ospitanti.

Quali sono gli sviluppi, a breve e lungo termine, che vi attendete e che state curando per il lavoro di ricerca e accompagnamento alle aziende?
Siamo consapevoli di essere all’inizio di un processo che, per poter avere qualche ragionevole efficacia, deve essere situato in una realtà territoriale che possa fare affidamento sulla organica disponibilità collaborativa dei principali attori istituzionali, di privato sociale e imprenditoriali costitutivi del sistema locale di welfare e di politica attiva del lavoro. Per questo motivo è nostra intenzione far confluire riflessioni e proposte, ad oggi formulate, nell’ambito della programmazione di un Piano di Zona distrettuale sensibile ai temi della responsabilità sociale di impresa e di territorio (quale ad esempio quello relativo al tavolo lavoro del Distretto dei 15 Comuni della Pianura Est bolognese), con il fine di promuovere un Patto del Lavoro locale in favore delle fasce più deboli di popolazione. In un siffatto, auspicabile, Patto del Lavoro, oggetto di un seminario che organizzeremo come CSAPSA-AILeS a fine settembre 2010, potrebbero essere messi in rete strumenti diversi di mediazione, facilitazione, incentivazione utili a coinvolgere maggiormente le imprese più eticamente orientate come partner stabili di programmi di inclusione lavorativa e sociale, oltre ad Enti e Servizi pubblici, cooperative, associazioni già tradizionalmente collaboranti.

4. Le condizioni per l’inclusione lavorativa

Tra 2009 e 2010, il Prof. Angelo Errani, docente di pedagogia speciale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna, ha coordinato la ricerca “Realizzazione professionale delle persone disabili”, con l’intento, tra l’altro, di evidenziare le condizioni che agevolano l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità in un contesto produttivo, tramite interviste ai decisori di un campione di imprese scelto in base alla capacità inclusiva dimostrata negli ultimi anni e quindi alla possibilità di evidenziare buone prassi per l’inserimento.
La ricerca è stata divisa in tre filoni in base al tipo di contesti produttivi indagati, distinguendo imprese profit, cooperative sociali ed enti pubblici, e il primo di questi tre filoni è stato affidato al presidente di CSAPSA (Centro Studi Analisi di Psicologia e Sociologia Applicate) Leonardo Callegari, anche tenendo conto dell’attività svolta da CSAPSA nel monitoraggio delle azioni facilitanti le buone prassi di responsabilità sociale di impresa per l’inclusione delle persone svantaggiate finanziate dalla Provincia di Bologna, con il concorso del Fondo Sociale Europeo, nel 2007/2008, e tuttora sovvenzionate a livello provinciale. Gli esiti di questa parte di ricerca, insieme a un quadro teorico entro cui inquadrarli, sono oggi pubblicati nel testo Aziende solidali e lavoratori disabili. Quando le strutture organizzative sono prossime alle persone, edito da AILeS nel marzo 2010 e presentato in un ciclo di tre workshop sul tema dell’inclusione lavorativa a 10 anni dalla legge 68, tenutisi a Bologna nell’aprile-maggio 2010.
Il testo parte dalla constatazione che l’inclusione sociale per ogni individuo non è mai un risultato definitivo, ma un processo dinamico, in cui la realizzazione lavorativa, che ha un peso rilevante, si compie all’interno di condizioni reali e di contesti aziendali definiti. Gli operatori dei servizi di mediazione e inserimento, al contrario, si concentrano in genere sulla valutazione funzionale della persona disabile per proporne l’inserimento in una azienda, senza tenere in sufficiente conto le caratteristiche dell’azienda a cui si propone l’“abbinamento”. Ciò è dovuto a una carenza di conoscenza, da parte degli operatori del welfare, delle logiche di gestione del mondo produttivo profit, in generale e per come ogni impresa le declina al proprio interno; la distanza che ne nasce tra i due mondi di servizio sociale e impresa porta spesso le aziende a diffidare delle proposte di inserimento lavorativo provenienti dai servizi. Tale scarto tra logiche si ricollega al più generale dilemma tra razionalità organizzativa e felicità umana evidenziato in sociologia già negli anni ’60, che però non va inteso come una contrapposizione, quanto come una necessità di reperire un equilibrio tra due esigenze in potenziale conflitto, tale da eliminare da un lato gli sprechi e dall’altro gli esiti di alienazione individuale. Un approccio del genere è del resto già acquisito dai nuovi modelli manageriali, che hanno superato il più rigido taylorismo scientifico per approdare agli studi motivazionali e agli approcci sistemici, affiancandosi all’evoluzione reale dei contesti produttivi e alle loro nuove esigenze negli ultimi decenni del XX secolo. Il contesto di lavoro viene quindi interpretato come un “sistema socio-tecnico”, in cui “c’è la tecnica, ma ci sono anche le persone”.
La ricerca distingue analiticamente, all’interno di un’impresa, “dati identificativi” più generali, “struttura organizzativa e processi decisionali” che costituiscono il macro-setting aziendale, e “struttura organizzativa e psicosociale della postazione di lavoro” che identifica il micro-setting in cui si compie concretamente l’inserimento. I contesti aziendali di conseguenza si dividono nei livelli macro (strutturale/organizzativo, entro cui si situa la cultura aziendale), intermedio/gruppale e micro (individuale), e per la riuscita dell’inserimento come vera e propria integrazione/inclusione della persona svantaggiata emerge come cruciale il livello gruppale, entro cui essa costituisce interazioni sociali ricorrenti e auspicabilmente positive.
I caratteri identificativi dei contesti lavorativi inclini all’inclusione vengono distinti in:
•    capacità di accoglienza (di inserimento nei tessuti relazionali)
•    reciprocità adattiva (assorbimento delle differenze soggettive)
•    supportività (attivazione di sostegni alle difficoltà individuali)
•    stimolazione/attivazione motivazionale (capacità di stimolare l’apprendimento e la produttività)
•    attitudine del contesto ad apprendere
•    capacità di generare identificazione e senso di appartenenza (“familiarità secondaria”).
La presenza di queste caratteristiche rende il gruppo di lavoro una Zona di Sviluppo Prossimale, entro cui la persona disabile inserita è in grado di apprendere competenze nuove ma rientranti in un orizzonte comprensibile. È inoltre a questo livello che si colloca la “funzione motivante” del gruppo, e in particolare la capacità di attivare nel nuovo inserito motivazioni non solo estrinseche (come i riconoscimenti economici), ma anche intrinseche, che spesso possono compensare un percorso scolastico non soddisfacente e, agganciandosi alla concretezza operativa, riverberarsi positivamente su tutto il gruppo di lavoro.
Le condizioni aziendali concrete facilitanti l’inclusione vengono quindi fatte rientrare nelle tre aree di macro-dimensione socio-culturale, macro-dimensione organizzativa-prestazionale e dimensione fisico-ambientale, ma tenendo conto che il contesto così analizzato va sempre abbinato alle caratteristiche della persona disabile da inserirvi, e che contesti aziendali opposti possono avere una forza inclusiva simile per soggetti con diverse caratteristiche (e viceversa). Ad esempio, un ambiente di lavoro “fordista”, che richiede la ripetizione meccanica di operazioni predefinite, solitamente poco incline a processi integrativi, può risultare più idoneo per una persona con forti limitazioni cognitive, che ha necessità di un contesto ben definito e stabile, rispetto a uno che lascia spazio a “soluzioni aperte”, le quali avrebbero per la stessa persona effetti ansiogeni.
Tra gli esiti più interessanti della ricerca, si segnala la rilevanza per il processo di inclusione da un lato di decisori aziendali “illuminati”, che non risentano di barriere culturali verso la diversità e abbiano al contrario avuto positive esperienze di conoscenza di persone disabili in ambito scolastico, familiare o amicale, e dall’altro del gruppo di lavoro, che assuma su di sé parte del ruolo di mediazione altrimenti demandato al solo tutor aziendale, consentendo cambiamenti reciprocamente adattivi tagliati sulla effettiva dimensione strutturale, operativa e prestazionale della singola azienda. Con queste condizioni, secondo la metafora proposta da Andrea Canevaro, la mediazione si compone di “pietre che affiorano su un corso d’acqua”, che consentono alla persona disabile di passare il guado dell’inserimento appoggiandosi in modo equilibrato su più punti, senza essere costretti a “salti” che espongono al rischio di bagnarsi o cadere.
Un altro elemento importante per un buon inserimento lavorativo è il possesso da parte della persona con disabilità di competenze sociali trasversali, un “saper lavorare” che si può applicare a qualunque contesto di lavoro e che riveste maggior peso di competenze tecnico-prestazionali adeguate, al punto che anche i decisori aziendali intervistati paiono interessati più alle prime che alle seconde; da questo discende, tra l’altro, l’importanza di esperienze di tirocinio formativo in azienda, anche se non orientate a una successiva assunzione.
Per migliorare i contesti lavorativi non sufficientemente inclusivi ed evitare impasse in quelli inclusivi che si trovino ad affrontare le difficoltà legate a un concreto inserimento, sono necessarie azioni differenziate a supporto delle aziende (sensibilizzazione, informazione di base e approfondita, affiancamento in situazione, consulenza tecnica per ausili e adattamenti, monitoraggio di andamento, sostegno psicologico, consulenza), che si estendano prima e oltre la fase dell’inserimento vero e proprio; in questo senso va l’attività di supporto avviata da CSAPSA, Consorzio SIC e Anastasis alcuni anni fa in provincia di Bologna, oggi mantenuta in forma ridotta con il finanziamento del Fondo Regionale Disabili.
Su un piano più generale, la cultura di educazione alla diversità appare decisiva per consentire un’inclusione che, come si è visto, non è tanto frutto di scelte dall’alto quanto di un processo complesso, che coinvolge molteplici soggetti. In specie, molto importante è il ruolo di “volano” che operatori e decisori di aziende dimostratesi capaci di inserimenti positivi possono rivestire nei confronti di altre imprese, che possono altrimenti restare all’oscuro di queste esperienze e considerare l’inserimento lavorativo di persone disabili come una sfida troppo ardua per le loro condizioni operative. Da questa riflessione nasce il progetto del logo “Azienda Solidale”, che intende riconoscere e pubblicizzare le imprese, soprattutto piccole e medie, protagoniste di buone prassi di inclusione di lavoratori svantaggiati, sulla base di un percorso di valutazione gestito da un gruppo di lavoro che unisca pubblico e privato. Il progetto è stato già avviato in Provincia di Bologna, con il conferimento del logo “Azienda Solidale 2010” a 22 imprese il 10 maggio scorso, e c’è l’intenzione di riproporlo su base annuale, con possibilità di estenderlo ad altre Province della Regione Emilia-Romagna, per valorizzare le scelte inclusive che altrimenti non troverebbero adeguata promozione a livello di forze produttive e di opinione pubblica.

3. Un modello da non toccare

Nina Daita è la responsabile dell’Ufficio nazionale Politiche per la Disabilità della CGIL.

Al di là dell’attuale congiuntura economica, che bilancio si può fare della Legge 68 a 10 anni dalla sua entrata in vigore?
Il bilancio non può essere che positivo; siamo in attesa dei nuovi dati, ma l’ultima relazione al Parlamento disponibile parlano di circa 33.000 assunzioni a tempo indeterminato nel biennio 2006-2007, e anche dove gli inserimenti non vanno a buon fine o si compiono tirocini non finalizzati all’assunzione, le persone con disabilità, comunque, riescono ad affacciarsi al mondo del lavoro, facendo esperienze che poi le agevolano nel percorso lavorativo successivo. La mia esperienza è che dove funzionano i servizi di inserimento al lavoro, la legge funziona molto bene.

Nella vostra percezione di sindacato, come ha impattato la crisi sulla condizione occupazionale delle persone con disabilità? In particolare, avete rilevato che siano state espulse per prime dai processi produttivi, o che molte aziende abbiano rinunciato ad assumere dal collocamento mirato per situazioni di crisi?
Non abbiamo dati precisi a disposizione oggi, ma per quel che ho visto le persone disabili sono le prime a essere espulse dal mondo del lavoro, sia per ragioni culturali, che ancora sussistono tra i datori di lavoro, sia perché in genere non hanno una famiglia a carico, e nella scelta tra chi mettere in esubero si tende a salvaguardare chi ha famiglia. Questa tendenza si è accentuata soprattutto nei primi sei mesi del 2010, insieme all’aumento della richiesta di esoneri, che riguarda soprattutto le piccole e medie imprese nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, mentre al Sud, dove gli inserimenti sono in numero minore, ma tendenzialmente più stabili, paradossalmente la crisi ha inciso meno.

Il mondo del lavoro che emergerà dal dopo-crisi, secondo voi, sarà più inclusivo, e quindi più aperto all’inserimento occupazionale delle persone con disabilità, o più selettivo e difficile per le loro esigenze?
È una domanda davvero difficile; noi come sindacato naturalmente promuoviamo l’inclusione in ogni campo, ma soprattutto ci teniamo a non disperdere un modello culturale di integrazione che negli ultimi 20 anni ha portato a grandi risultati, e che, appunto, come modello ha ispirato altre nazioni, come Francia e Germania – giusto ieri un mio collega sindacalista francese mi ha inviato il titolo di un giornale finanziario, “I disabili conquistano il mercato del lavoro”, e questo avviene, sulla base di una legge francese simile alla nostra, salvo la possibilità, in particolari settori di lavoro, di evitare le assunzioni con esosi contributi finalizzati alla formazione professionale delle persone con disabilità.

La nozione di “occupabilità”, e ancor più quella di flexsecurity, diffuse nelle politiche europee, prefigurano un mondo del lavoro in cui sarà difficile tutelare i singoli posti di lavoro e le persone dovranno cambiare spesso impiego. Cosa comporta questo nuovo modello per i lavoratori con disabilità?

È un problema soprattutto per le persone con disabilità intellettive, per le quali sono fondamentali l’accoglienza e la stabilità del contesto di lavoro, e che soffrono quindi ogni cambiamento sia di luogo fisico che di mansione, con la necessità di dover apprendere tutto da capo con tempi più lunghi rispetto alle altre persone e al limite il rischio di sentirsi costretto a rinunciare a lavorare – e non lo dico da una posizione ideologica, ma in base a concrete esperienze che ho incontrato. Un sistema di flexsecurity è invece più adatto per lavoratori con disabilità fisiche o motorie, salvo la necessità di avere ambienti senza barriere e di conservare o ricostruire gli adattamenti tecnici necessari, anche se in generale una persona con disabilità ha probabilmente maggiori difficoltà psicologiche rispetto a una normodotata nell’inserirsi in un nuovo ambiente di lavoro e quindi patisce di più il cambiamento frequente di impiego.

Quali modifiche ritenete di proporre alla legge 68, o in generale al sistema di inserimento lavorativo delle fasce svantaggiate, nel prossimo futuro?

La principale modifica da noi chiesta riguardava il sistema delle convenzioni con inserimento in cooperativa e commesse alla cooperativa stessa, e oggi è recepita nell’attuale articolo 12-bis, che limita questo sistema a casi ben definiti di disabilità grave. Anche alcuni decreti attuativi si potrebbero migliorare, ma come dicevo si tratta comunque di un’ottima legge, che “non va toccata” e che funziona dove i servizi funzionano, come in Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, ma anche in alcuni contesti del Sud come Taranto. Proprio per questo, l’esigenza più importante oggi è garantire una formazione efficace, e adeguatamente finanziata, agli operatori del collocamento mirato, quelli amministrativi dei Centri per l’Impiego e ancor più quelli di mediazione all’inserimento delle ASL. Infine, si potrebbero rafforzare gli incentivi economici anche per le aziende piccolissime e non soggette all’obbligo che decidano di fare assunzioni – in questo caso, ritengo giusto che sia lo Stato ad accollarsi le spese per abbattimento barriere, adattamenti e altre necessità concernenti l’inserimento lavorativo.

2. Una buona legge, un’applicazione da migliorare

Carlo Lepri, psicologo e formatore, lavora al “Centro Studi per l’integrazione lavorativa delle persone disabili” della ASL 3 Genovese. È Docente a contratto di Psicologia delle Risorse Umane presso l’Università di Genova, è uno dei “padri” della legge 68 del 1999 e uno dei massimi esperti italiani in materia di inserimento lavorativo delle persone con disabilità. Con Enrico Montobbio ha scritto Lavoro e fasce deboli: strategie e metodi per l’inserimento lavorativo di persone con difficolta cliniche o sociali, uscito in prima edizione nel 1994 (Milano, FrancoAngeli) e successivamente più volte aggiornato, e Chi sarei se potessi essere: la condizione adulta del disabile mentale (Pisa, Edizioni del Cerro, 2000).

Quale è stato il percorso culturale che ha portato dalla logica del collocamento obbligatorio, introdotto nel 1968 con la legge 482, alla legge 68/1999 e al collocamento mirato?
C’è un passaggio fondamentale tra questi due provvedimenti legislativi. La 482 corrisponde all’idea dell’invalido passivo, “di peso”, che non ha risorse, malato, per cui il lavoro diventa una forma di risarcimento che la società si propone di dare, con logica assistenziale e con una incredibile suddivisione nelle varie categorie, che corrisponde alla rincorsa da parte delle vecchie associazioni ad avere ciascuna il suo spazio, e quindi la legge viene utilizzata anche per fini sostanzialmente clientelari. C’è da aggiungere, e di questo spesso ci dimentichiamo, che la 482 vieta espressamente il collocamento lavorativo degli invalidi psichici e intellettivi, e questo elemento risente della rappresentazione dell’invalido fino a quel momento prevalente. Dai “meravigliosi” anni ’70 in poi, a seguito di tutti quei cambiamenti culturali che attraversano la società in senso molto più generale, la disabilità (o l’handicap, come allora si chiamava) smette di essere una disgrazia individuale e comincia a essere un fenomeno che ha delle ragioni sociali profonde: anzi, l’handicap è proprio l’incontro fra la persona in difficoltà e una società che è incapace di accoglierla. Questo cambia completamente la visione delle persone disabili, che anche grazie alla lotta delle associazioni cominciano a pretendere il giusto riconoscimento dei loro diritti – compreso ovviamente il diritto al lavoro, che non è più un’elemosina, ma uno strumento attraverso il quale affermare la propria identità e la propria presenza all’interno della società. Nei trent’anni tra la 482 e la 68 c’è sostanzialmente un cambio di rappresentazione sociale della persona disabile, che passa dall’essere il malato da assistere, curare, riabilitare e qualche volta da segregare, o nel caso della disabilità intellettiva il “poverino”, a una visione che si forma pian piano della persona, con i suoi diritti, i suoi limiti e le sue potenzialità. Questo passaggio diventa possibile anche perché si costruisce un sistema di servizi alla persona, nel nostro Paese in particolare, che sostiene questi processi di integrazione, dalla scuola alla formazione professionale e al lavoro. Dalla metà degli anni ’70 in poi nasce infatti nel nostro Paese un sistema di servizi di mediazione al lavoro che, nonostante la legge 482, mettono le basi per l’affermazione del principio del “collocamento mirato”. La legge 68 in qualche misura raccoglie tutti questi anni di sperimentazione, in cui la persona disabile viene “accompagnata” verso il lavoro cercando l’incontro tra le sue potenzialità, competenze e capacità, e anche i suoi limiti, e un ambiente di lavoro che deve essere da una parte accogliente, ma dall’altra deve rimanere un ambiente dentro cui la persona possa esprimersi produttivamente. In questa logica, l’azienda e la persona disabile diventano protagoniste, e l’azienda smette di essere soggetto che accoglie passivamente, muovendosi invece attivamente per modificare i propri meccanismi e la propria cultura.

Quali erano le aspettative, in termini culturali e pratici, di chi si occupava di inserimento lavorativo di persone con disabilità negli anni immediatamente precedenti e subito dopo l’approvazione della legge, e in che misura sono state soddisfatte in questi dieci anni?
Di proposte di riforma della legge 482 io credo di averne viste almeno una quindicina, quindi c’era un’aspettativa in qualche modo moderata rispetto al fatto che questa nuova legge si facesse davvero; c’è poi stata una serie di “felici concause” per cui questo provvedimento legislativo è poi andato in porto, e nel passaggio dal testo predisposto a quello approvato in dibattito parlamentare si sono persi alcuni elementi, ma la legge ha mantenuto gli aspetti fondamentali intorno ai quali si erano sviluppate le aspettative di operatori e associazioni di disabili. Credo quindi che, tutto sommato, la legge sia stata la normale evoluzione di una sperimentazione che ormai aveva ampiamente dimostrato che l’inserimento lavorativo era una pratica possibile, rispettando ovviamente alcune modalità e metodologie di lavoro. Qualche aspettativa c’era probabilmente dal punto di vista numerico, ossia che l’ingresso della legge avrebbe potuto finalmente trovare lavoro per tutti quelli che erano in attesa: questa credo fosse la speranza segreta – magari non degli operatori più attenti e scafati, perché questi sapevano bene quali sono le difficoltà oggettive nel percorso di incontro tra lavoro e disabilità, però delle associazioni e di alcuni servizi un po’ più distanti dalla pratica del lavoro sul campo sì. Una speranza che è stata parzialmente delusa, e dico “parzialmente” perché i numeri, se confrontati con la 482, sono assolutamente positivi: basta guardare l’evoluzione delle “fotografie” che danno le varie relazioni al Parlamento curate dall’ISFOL negli ultimi anni. Mi pare che la IV relazione in particolare, del 2006-2007, fotografi un trend positivo e che può essere considerato intorno a 1:15 o 1:20, ossia per ogni inserimento che si faceva con la 482, con la 68 siamo tra i 15 e i 20. Tra l’altro, con la 482 il collocamento molto spesso aveva un esito negativo in tempi abbastanza veloci, mentre con la 68 vediamo che i rientri/fallimenti sono piuttosto contenuti. Credo che i prossimi dati non saranno altrettanto positivi, ma questo non sarà da attribuire a un malfunzionamento della legge, quanto piuttosto alla grave crisi occupazionale di questo ultimo anno.

Come hanno funzionato in questi anni da un lato le prassi locali di integrazione, e dall’altro la vigilanza sul sistema degli obblighi imposti alle aziende?
Dobbiamo dire che c’è, come sempre in Italia, un’applicazione “a macchia di leopardo” della 68, che formalmente è vigente in tutto il Paese, ma in cui, in realtà, ciò che fa la differenza è come il sistema dei servizi per il collocamento e socio-sanitari riesce a costruire relazioni e strumenti di lavoro con il sistema produttivo nelle varie realtà. Laddove i Centri per l’Impiego riescono in modo non burocratico-amministrativo a recuperare rapporti con i servizi socio-sanitari, educativi e formativi del territorio, e insieme costruiscono una rete che si interfaccia con il sistema produttivo, i risultati sono secondo me eccellenti. In questo momento abbiamo una visione un po’ falsata dalla crisi economica e occupazionale che stiamo vivendo, ma se potessimo fare la tara a questo aspetto vedremmo che ci sono alcune regioni che da questo punto di vista stanno funzionando in modo veramente eccellente. Non credo quindi che il problema sia tanto una inapplicazione della legge perché “le aziende fanno le furbe”, ma che laddove la legge non viene applicata, o fa fatica a essere applicata, è perché non si costruiscono rapporti e relazioni tra chi la gestisce, quindi le Province insieme ai servizi, e le imprese. È chiaro che le imprese cercano di ottenere sempre il massimo nella relazione con l’esterno, e quindi anche rispetto all’obbligo, ma vedo che laddove c’è un rapporto non burocratico, ma di reale servizio alle imprese – andare in azienda, capire quali sono i problemi che essa pone, ragionare insieme sulle varie figure professionali che potrebbero essere inserite, e naturalmente dall’altra parte lavorare con le persone disabili per sviluppare competenze e profili professionali –, l’obbligo è ampiamente rispettato e senza neanche troppa fatica.

Con il D. Lgs. 276/2003 è stata introdotta la possibilità di assolvere l’obbligo tramite commesse a cooperative, con una esclusione del successivo inserimento diretto in azienda molto contestato all’epoca dalle associazioni di categoria. Quanto è forte oggi la tentazione di creare un mercato del lavoro duale per le persone disabili, escluse dalle aziende profit e “riversate” solo in imprese a carattere sociale?
Su questo ho un’idea abbastanza precisa: questo approccio viene da un famoso accordo rispetto al tema dell’inserimento delle persone disabili sottoscritto dalle parti sociali a Treviso nel 1996, che nasconde un grosso rischio, la costruzione di un percorso differenziato, e che però secondo me ha sempre avuto il difetto di essere un po’ “ideologico”, perché in realtà non ha mai funzionato. C’è stato uno sforzo legislativo e politico notevolissimo in tutti questi anni, dei vari governi, delle associazioni datoriali e anche di alcune associazioni cooperativiste che erano molto interessate a questo tipo di soluzione, cui però poi non ha corrisposto una effettiva attuazione di questo percorso dal punto di vista numerico. In alcune realtà l’opportunità di assolvere l’obbligo in cooperativa è stata colta secondo me nel modo giusto, facendo degli accordi molto seri e molto severi e utilizzando questo strumento per le persone che hanno davvero una disabilità così complessa e articolata che immaginare l’inserimento in un’azienda ordinaria potrebbe dare qualche elemento di preoccupazione, mentre l’inserimento in un’azienda con un’organizzazione del lavoro più semplice e ritmi produttivi meno intensi può essere invece interessante. Mi pare che se le aziende fossero state davvero interessate avrebbero probabilmente spinto di più verso questa direzione, mentre è rimasta una modalità cui nessuno ha rinunciato ma molto circoscritta, che se utilizzata con grande attenzione e serietà può anche dare qualche risposta, se invece utilizzata in modo troppo “allegro” e superficiale può creare situazioni pericolose – ma mi pare appunto che questo, per fortuna, non sia accaduto.

Nella normativa europea, la categoria di lavoratore disabile, già abbinata nella Legge 68 a orfani e vedove per causa di servizio, si sovrappone in diversi casi a quella di “lavoratore svantaggiato”, che ha una estensione piuttosto vasta (includendo ad esempio i disoccupati di lungo periodo). Per favorire il collocamento del lavoratore disabile è più opportuno mantenerne la specificità giuridica o farlo rientrare in una platea più vasta di potenziali beneficiari di agevolazioni?
La mia idea su questo è un po’ controcorrente (ha tolto “ma vi sono affezionato): la dimensione che i regolamenti europei prevedono sullo svantaggio, che mi pare comporti 13 o 14 tipologie se non di più – per cui è svantaggiato chi perde il lavoro e dopo due anni non ne ha trovato un altro, o il dirigente disoccupato –, mi pare veramente molto pericolosa come modalità di approccio. Ovviamente non voglio dire che anche per queste persone non possano essere immaginate politiche attive del lavoro che facilitino l’inserimento, ma mettere all’interno di un contenitore così ampio le persone disabili, che hanno all’origine delle loro difficoltà una menomazione, certificata tra l’altro dal punto di vista medico-legale (ad esempio, nel nostro Paese occorre avere almeno il 45% di invalidità), è discriminante, perché significa farle “correre” con altre categorie che hanno altri problemi ma anche altre potenzialità. La tendenza europea è dire: “non si fanno discriminazioni, tutti i cittadini che hanno bisogno hanno bisogno”, invece io credo che sia utile fare una discriminazione per dare una maggiore attenzione, con l’obbligo per le aziende e percorsi tutelati per le persone disabili, cui occorrono progetti e strumenti adeguati ai loro bisogni, mentre per altre categorie occorrono politiche attive meno forti, di tipo formativo o informativo o di semplice incontro tra domanda e offerta, sostegni che possono essere dati entro le normali politiche del lavoro di una amministrazione. Io quindi rimango dell’idea che debba esere chiaramente individuata la disabilità, e anche le cause bio-psico-sociali che hanno portato alla situazione di disabilità di una persona, in modo da poterla aiutare in modo specifico.

Il gruppo di lavoro sul tema della Conferenza Nazionale Disabilità di Torino nel 2009 ha evidenziato come il coinvolgimento di tutte le parti sociali nell’attuazione della normativa crei una burocratizzazione a volte eccessiva. Uno snellimento delle procedure è a suo avviso auspicabile o rischia di creare “scorciatoie” che favorirebbero svuotamenti della normativa?
Francamente non mi pare di cogliere nella mia esperienza tutta questa burocratizzazione. Il coinvolgimento delle parti sociali è comunque sempre auspicabile, ma queste si coinvolgono su un protocollo di intesa o un documento di avvio, poi le cose funzionano anche con una loro autonomia. Certamente ci possono essere amministrazioni, mi riferisco in particolare a quelle provinciali e ai loro assessorati alle politiche del lavoro che hanno il compito di gestire la 68 attraverso i Centri per l’Impiego, con atteggiamenti in alcuni casi molto burocratici, perché magari c’è la tradizione di affrontare l’inserimento lavorativo come fosse l’asfaltatura di una strada, ma in altri casi le amministrazioni utilizzano in modo molto snello gli strumenti burocratici che la legge 68 prevede, come le convenzioni o il Comitato Tecnico, un gruppo di lavoro che può essere fondato appunto in termini molto burocratici o snelli. Io non credo insomma che ci sia in generale il pericolo di una burocratizzazione, c’è nelle situazioni in cui una cultura burocratica è predominante.

Lo stesso gruppo di lavoro propone di prendere esempio dalle buone prassi locali per un’evoluzione normativa che “nel prevedere un sistema di controlli serio ed efficace, non abbia come involontaria conseguenza la penalizzazione di tutti gli attori per punire i pochi che commettono irregolarità”. C’è da attendersi in futuro una deregulation sostanziale, magari sotto l’impatto della crisi occupazionale?

Mi pare che qui ci sia un tema abbastanza importante, ossia il perseguire le aziende inadempienti, il sistema di controllo. Il sistema delle sanzioni che la legge 68 prevede, e che, secondo me molto opportunamente, sono delegate al Ministero del Lavoro – e non alle Province, che debbono solo segnalare –, è sempre stato abbastanza ambiguo. I Ministri del Lavoro che si sono succeduti hanno a mio avviso avuto sempre un atteggiamento “morbido” nei confronti delle aziende, cercando di non essere troppo punitivi e non mettere in piedi un sistema persecutorio nei confronti delle imprese. Non so se questa sia una scelta “ideologica”, ma a me interessa dire che con le punizioni non si va da nessuna parte: quello che funziona è semmai un sistema di premi nei confronti delle aziende, e ci sono molte realtà nel nostro Paese che si sono inventate sistemi premianti per le imprese che partecipano con particolare attenzione ai progetti di inserimento lavorativo. Secondo me quella è la strada, e le punizioni possono essere l’extrema ratio di fronte a situazioni smaccatamente inadempienti, ma possono partire solo dopo che a livello tecnico si sono provati tutti gli strumenti per convincere un’azienda a mettersi in regola. Ad esempio, qui a Genova abbiamo un certo numero di aziende che chiedono l’esonero dall’inserimento per una serie di motivi, in particolare la pericolosità dell’ambiente di lavoro. Se si fosse avuto un atteggiamento burocratico, si sarebbe potuto dire di sì o di no, o chiedere dei documenti cartacei, in modo più o meno punitivo. L’atteggiamento che si è scelto è stato invece di andare in ogni azienda che ha chiesto l’esonero con tecnici e operatori dell’inserimento lavorativo, fare incontri per vedere le condizioni reali e i problemi, e discuterne per capire come uscirne: in quasi tutte le aziende qualche inserimento è stato comunque fatto, perché si è visto che le situazioni non erano poi così pericolose o che le aziende avevano una rappresentazione della persona disabile non corrispondente alla realtà, e quando è stato concesso l’esonero lo si è fatto con un accordo, sulla base di una conoscenza approfondita. Le sanzioni quindi non sono l’elemento che fa vincere le persone disabili nei loro diritti; certo in situazioni estreme ci vogliono anche quelle, ma ciò che occorre veramente è che gli operatori alzino il sedere dalla sedia, vadano in azienda e si diano da fare.

Sulla base di quali linee si dovrà, o si potrà, mettere mano alla Legge 68 nel diverso mercato del lavoro del dopo-crisi?
La 68 così com’è, a parte questo momento drammatico che stiamo vivendo, complessivamente funziona abbastanza bene, ma certamente consente ampi spazi di manovra alle aziende per scegliersi le persone più idonee all’interno delle liste degli iscritti del collocamento mirato con le chiamate nominative. A questo c’è da aggiungere che, proprio perché la legge funziona, le persone si iscrivono “alla grande” al collocamento mirato, per cui per ogni persona che viene collocata ce ne sono almeno 3 o 4 nuove che si stanno iscrivendo, e l’aumento considerevole del numero degli iscritti rafforza la facilità per l’azienda nel trovare la persona disabile che risponde al meglio alle sue esigenze. Vedo quindi come problematico, anche se abbastanza inevitabile, il fatto che le persone con una disabilità più complessa rischiano di rimanere fuori dal meccanismo – e mi riferisco a persone con disabilità psichica oppure plurima, con doppia o tripla diagnosi. Io credo quindi che rispetto al problema della disabilità complessa occorrerà pensare a utilizzare strumenti nuovi, come i progetti che nel gergo dei servizi si chiamano “di tipo socio-occupazionale”. Di norma si tratta di progetti di inserimento lavorativo che non comportano l’assunzione da parte dell’azienda della persona disabile che rimane in carico al sistema dei servizi. Io credo che questi progetti, che in alcune zone del Paese vengono visti e applicati in una dimensione “assistenziale”, debbano essere “nobilitati” e forniti di un senso e di un significato, perché nella mia esperienza ho visto come essi rispondono realmente ai bisogni delle persone riuscendo a tenere in conto, allo stesso tempo, le esigenze aziendali. Naturalmente qui sorgono delicati problemi, poiché progetti di questo genere non possono essere applicati in modo generalizzato, ma debbono essere rigidamente riservati a quelle persone che altrimenti non avrebbero nessuna chance di inserimento al lavoro, e occorrerebbe anzi capire come coinvolgere di più in essi le aziende, che oggi danno semplicemente ospitalità alla persona mentre l’ente locale o i servizi danno la borsa di lavoro economica; su questi meccanismi bisognerebbe lavorare di più per trovare mediazioni che vadano incontro ai bisogni di queste persone. Si tratta di persone che hanno caratteristiche tali da non riuscire a reggere  un lavoro a tempo pieno, che si affaticano più facilmente – e magari qualche volta hanno bisogno di rimanere a casa per necessità particolari. Di questa categoria di persone sostanzialmente in tutti questi anni si è occupato il mondo della cooperazione sociale, ma io credo non si possa chiedere alle cooperative sociali di essere l’unica risposta ai bisogni di queste persone. Ma al di là della legge ciò che sarà determinante nei prossimi anni sarà il rafforzamento del sistema dei servizi a livello locale, perché  è evidente che sono vincenti quelle realtà che riescono a creare sinergie tra politiche del lavoro, politiche sociali e politiche educative. Il progetto di vita di una persona disabile dovrebbe prevedere che il suo rapporto con il lavoro possa cominciare nei tempi giusti con le esperienze di alternanza scuola/lavoro per poi proseguire, con il sostegno di servizi, attraverso gli strumenti formativi che sono oggi a disposizione per potersi concludere con l’utilizzo della legge 68. Mi sembra però che i segnali che arrivano non siano tanto quelli di uno sforzo per mantenere e potenziare il sistema dei servizi pubblici, quanto piuttosto quelli di uno smantellamento dello stato sociale. Forse sarebbe utile che qualcuno sapesse che una persona disabile inserita, oltre a vedere rispettati i suoi diritti di cittadinanza, costa, durante il suo percorso di avvicinamento al lavoro, 20 volte meno di quanto costerebbe in un circuito assistenziale.

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