Per una persona con una disabilità grave che scelga di dare alla luce un figlio, i comuni dubbi legati alle proprie capacità di interpretare in modo soddisfacente il ruolo di genitore vengono amplificati dalla frequente condizione di dipendenza quotidiana dagli altri, rispetto a cui diviene problematico il “prendersi cura” del nuovo nato, e da un contesto socio-culturale che associa ancora con molte fatiche tra genitorialità e disabilità, a maggior ragione se a essere in situazione di handicap è la futura madre.
Di conseguenza, per i genitori con disabilità risulta molto opportuno un supporto specifico, di carattere operativo ma anche psicologico, che a oggi peraltro non risulta essere previsto, almeno in modo sistematico, nel nostro Paese. Da queste riflessioni è invece nato già nel
L’attività del SPPH negli anni si è concentrata soprattutto, ma non esclusivamente, sulle madri non vedenti, per le quali ha di fatto assunto un ruolo a valenza regionale e riceve richieste da molte zone della Francia. Diversi contributi scientifici scritti da o cui ha collaborato Edith Thoueille consentono di descrivere le peculiarità della madre non vedente durante la gravidanza e nel periodo perinatale, e alcune prassi adottate dal SPPH il cui interesse si estende oltre la specificità del deficit visivo.
La puericultura adattata, tra carenze e supplenze
Sin dalla sua costituzione, il servizio si è orientato alla soluzione dei problemi pratici cui una madre non vedente deve fare fronte nel proprio percorso di cura del bambino: di qui, ad esempio, la trascrizione in Braille o la registrazione audio di una parte dei testi utilizzati come guida alla genitorialità, la taratura di siringhe per somministrare medicinali non disponibili in forma galenica industriale utilizzabile, la preparazione di etichette Dymo in Braille per riconoscere le scatole di medicinali e i consigli specifici su come allestire il fasciatoio e lo spazio per il bagnetto. Attraverso una decina di sedute di
“puericultura adattata”, sia prima che dopo il parto, suggerimenti a carattere operativo vengono trasmessi e servizi concreti forniti alla donna o alla coppia, con particolare attenzione al livello di aiuto che è opportuno garantire: “non fare al posto dei genitori, ma cercare insieme la soluzione adattata alle attese di ciascuno utlizzando tutti i supporti possibili”. Nel corso degli anni, tuttavia, è emerso come le questioni pratiche non esauriscano le difficoltà cui una donna non vedente deve fare fronte nel proprio percorso verso e dopo la maternità, e si è evidenziata la necessità di un supporto psicologico specifico.
Nella letteratura clinica, un elemento determinante nella costituzione del rapporto tra madre e bambino è costituito dallo sguardo: il primo contatto tra i due elementi della “diade” si compie quando la madre vede il feto nello schermo dell’ecografia, il bambino sentito dentro di sé per tanti mesi “appare” al momento del parto, il bambino concentra il proprio sguardo sulla madre durante l’allattamento al seno e cerca il viso della madre come compensazione all’allontanamento nel periodo dello svezzamento. Nei pochi studi dedicati al caso di madri non vedenti, si è ipotizzato il rischio di evoluzioni autistiche del bambino, il cui sguardo non può essere ricambiato e guidato dalla madre. Le conclusioni di Thoueille sono differenti, ma non ignorano e anzi valorizzano la diversità che caratterizza tutto il periodo perinatale: ad esempio, la madre non vedente percepisce il movimento del feto dentro di sé in media due/tre settimane prima di quella normodotata, e dimostra una attenzione di gran lunga maggiore per le proprie sensazioni durante la gravidanza. Inoltre, quello che la visione, alla nascita e nei giorni successivi, rende un confronto immediato e traumatico tra bambino immaginario e bambino reale, nella puerpera non vedente si costruisce attraverso un’interazione sensoriale più complessa e perciò più graduale (ciò che richiederebbe di consentire alla madre una più lunga permanenza in sala parto, come “tempo di conoscenza”), e dunque con minori rischi di baby-blues o comunque un suo insorgere più lieve e tardivo. Per converso, il momento dell’ecografia risulta piuttosto frustrante, in quanto la tensione per la possibile prima diagnosi di malformazioni è accentuata dall’impossibilità non solo di vedere lo schermo, ma anche di cogliere elementi visivi capaci di temperare l’inquietudine, come le espressioni dell’ecografista (che non sempre supplisce con una più accurata descrizione verbale); inoltre, l’assenza di contatto visivo con il bambino nei primi giorni dopo il parto appare avere una risonanza emotiva negativa nel ricordo a distanza da parte della madre. A un livello descrivibile con minore precisione ma più profondo, il parto risveglia nella madre non vedente le sensazioni della propria nascita, e di conseguenza le frustrazioni legate alla menomazione, più o meno assorbite in base al vissuto familiare successivo – e non di rado per chi diventa madre oggi la cecità è stata causa di un allontanamento precoce dai genitori per consentire l’educazione in istituti specializzati.
Le osservazioni cliniche di Thoueille, sulla base delle decine di casi analizzati in questi anni, mostrano che l’impossibilità per il bambino di trovare lo sguardo della madre non vedente lo induce sin dai primi giorni di vita ad adottare un “bilinguismo relazionale” capace di ripristinare sequenze intersoggettive con la figura primaria di riferimento, senza per questo rinunciare a utilizzare tutte le proprie capacità sensoriali ed esplorative. L’esempio più chiaro di ciò si mostra quando il neonato sta osservando il viso dell’esaminatore e la madre lo chiama: anziché voltarsi verso la voce materna, come in genere avviene, il bambino allunga il braccio verso di essa mantenendo fissi gli occhi su chi lo guarda. Il bambino appare rendersi conto delle sequenze relazionali rese impossibili dall’handicap della madre e svolgere un’azione di supplenza tese a ripristinarle in forma modificata, per esempio guidando la mano e il cucchiaio e ri-orientando il volto quando viene imboccato, con un grado di aiuto crescente nel tempo insieme alle proprie capacità fisiche e interpretative e alla complessità della relazione. Tuttavia, la medesima coscienza dell’interruzione di alcuni canali relazionali consente al figlio, bambino o adolescente, di opporsi alla madre evitando di portare l’aiuto necessario per completare le sequenze intersoggettive modificate, oppure ritardandolo (ad esempio, ci si può nascondere dalla madre semplicemente tramite il silenzio). Il figlio può in ogni caso vivere l’handicap della madre in modi molto diversi, come mostra l’esempio citato da Thoueille di due fratelli adolescenti normodotati: “Il più grande non sopporta l’handicap di sua madre, per cui prova vergogna. Per strada, rifiuta di apparire al suo fianco come suo figlio, cambia marciapiede e con ciò non la aiuta. Il secondo invece è molto attento, aiuta sua madre e anche di fronte ai suoi compagni considera come una superiorità avere una madre cieca che supera il proprio handicap”. Per questi motivi, oltre che per le dinamiche familiari peculiari che si instaurano per la presenza di cani-guida (che sembrano vivere una depressione molto simile a quella dei fratelli maggiori all’arrivo del neonato in casa) e per il maggiore carico di lavoro di cura ricadente sul coniuge normodotato, i meccanismi di supplenza comunicativa non rendono meno necessario un supporto psicologico specifico.
“La prima cosa bella”
L’équipe di Edith Thoueille ha riscontrato come un momento molto importante nella costituzione della relazione tra madre e bambino, nelle prime settimane di vita, sia la “Scala di Brazelton” (NBAS). Si tratta di una serie di test, ideata dall’omonimo pediatra statunitense nel 1973, con cui, nello stesso momento in cui il medico esaminatore può valutare i comportamenti del neonato in diversi ambiti psico-fisiologici, i genitori vengono accompagnati dall’esaminatore medesimo a comprendere le sue modalità comunicative e di prima esplorazione dell’ambiente circostante. È quest’ultimo l’aspetto che conta: in molti casi, durante lo svolgimento dei test, si registra un “momento chiave” in cui la madre scopre, a un livello emotivo prima che cognitivo, le capacità del suo bambino, superando il dualismo tra bebé immaginario e bebé reale che l’ha accompagnata sin dal parto. Si parla per questo di un “effetto Brazelton” che, a prescindere dalla valutazione clinica del neonato, può costituire la prima relazione efficace tra madre e bambino e assume un valore terapeutico per la diade nel suo complesso.
Dal momento che si tratta di un test largamente basato sull’osservazione visiva, Thoueille ne ha elaborato uno “svolgimento trascritto” a favore delle madri non vedenti, imperniato sull’attività di un’operatrice che osserva i movimenti del bambino rilevati o attivati dall’esaminatore, e appoggiata al corpo della madre li traduce in stimoli tattili. Con un bel paragone proposto da Thoueille, la trascrittrice è come Sant’Anna nella Sacra Famiglia (Sant’Anna,
Costruzione di professionalità all’interno di un’équipe multidisciplinare non specializzata nel lavoro sull’handicap (in quanto composta di pediatri, puericultrici ed educatrici “generiche”), attenzione agli aspetti relazionali e psicologici oltre e prima che alle nozioni pratiche di puericultura, capacità di conforto della madre nella costruzione del rapporto con il bambino attraverso l’indicazione delle abilità e dei canali alternativi attivabili dalla diade, senza per questo indulgere ad atteggiamenti “eroici” (l’handicap non viene meno, e attività come portare il bambino in carrozzina su un marciapiede rimangono irraggiungibili per una madre non vedente): gli spunti dati dal lavoro del SPPH descritto da Edith Thoueille risultano di grande interesse anche al di là del percorso specifico di accompagnamento alla maternità della donna con deficit visivo.