Skip to main content

Lettere al direttore – Risponde Claudio Imprudente

 
Ciao! Ti leggo sempre, quindi mi sembra di conoscerti, spero non ti dispiaccia se ti do del tu (non mi sembri un tipo che si formalizza). Ti scrivo per chiederti un’opinione su un tema che mi sta molto a cuore. Ho fatto la visita per l’invalidità civile e risulto parzialmente invalida al lavoro. IN-VALIDO cioè non valido.

Invece io sono validissima! È vero, ho qualche difficoltà, ma faccio il mio lavoro molto bene, molto meglio dei cosiddetti “normodotati”. Non trovo giusto essere definita così. Non mi piacciono nemmeno altri termini come “disabile” (= non abile). Conosco una giovane mamma con la sclerosi multipla, non è meno abile, è abilissima a crescere suo figlio e lottare con la malattia. Anche portatore di handicap lo trovo inappropriato, per fortuna io sto abbastanza bene ma facendo terapie ho avuto il privilegio di conoscere persone che apparentemente avevano dei limiti fisici davvero gravi ma che non si fermavano di fronte a niente, mentre conosco tantissime persone che fisicamente stanno bene, ma si costruiscono da soli una serie di barriere nella loro mente, creandosi problemi inesistenti e rimanendo imprigionati nelle loro vedute ristrette, nei loro angusti schemi mentali.
Quante persone si rovinano la vita perché si sentono vittime di ingiustizie che sono solo immaginarie (quante liti tra colleghi o tra vicini di casa!), o invidiando chi secondo loro ha più soldi, più successo, vestiti più belli, e quindi non fanno niente se non per un tornaconto personale. Ora va di moda anche il termine “diversamente abile”, ma siamo come dicevo prima, siamo abili allo stesso modo, e poi la parola “diverso” sta assumendo sempre di più una connotazione negativa, con associazioni mentali pericolose (ad esempio straniero=criminale, anziano=inutile, ecc.), infatti anche chi è definito “diversamente abile” è ritenuto inferiore. Siamo tutti diversi gli uni dagli altri, non capisco perché debbano esserci delle parole per distinguerci.
D’altra parte mi rendo conto che almeno per la burocrazia servano delle parole per definire alcune categorie, ma mi chiedo: se quelle esistenti sono scorrette non possiamo inventarne una nuova, più appropriata e meno degradante di quelle esistenti? Se inventano un nuovo telefonino, o creano un nuovo paio di scarpe, subito si inventa un nome favoloso per quello che è solo un oggetto. Le persone non valgono più di un telefonino? Non sono l’unica a pensarla così, infatti in questi giorni è in atto una lodevole iniziativa da parte di alcuni gruppi di giornalisti che chiedono l’abolizione di parole discriminanti come “clandestino”. Tu sei molto conosciuto e stimato, mi farebbe piacere se ti rendessi portavoce di chi chiede solo di dare il giusto peso alle parole, nella speranza che sia il primo passo per abbattere tante barriere.
xxx
 
Cara xxx,
grazie per la lettera. No, non mi formalizzo e accetto volentieri il tuo “tu” amicale.
Come puoi immaginare sono pienamente d’accordo con quello che dici, e sono (da sempre) l’ultimo a trascurare l’importanza delle parole (anche perché di quelle il mio lavoro vive). Poco fa, in relazione a un fatto televisivo, all’interno di un ragionamento più ampio, ho scritto[1]: “Ora, non voglio insistere troppo su questioni nominali, ma credo sia pacifico che la televisione abbia un enorme potere di influenzare e, cosa forse peggiore, che non dia la possibilità di una risposta esterna immediata; lo spettatore è per certi versi passivo di fronte al flusso di immagini e suoni. […] Credo sia quasi scontato che un programma così pensato e realizzato come il Grande Fratello punti molto, per la sua stessa sopravvivenza, a creare situazioni esasperate (non solo nel senso del litigio), in cui l’insulto è uno degli strumenti privilegiati di relazione e confronto ed è garanzia del mantenimento di tempi, diciamo così, televisivi. È il programma che lo richiede e, indubbiamente, è anche il pubblico a casa ad aspettarselo. Pubblico che, in larga parte, è un pubblico giovanile, per cui più sensibile al tipo di educazione che il mezzo televisivo può veicolare. Ecco che la parola, le espressioni assumono una portata diversa, perché è il contesto stesso a determinare in parte il loro peso. Le parole non sono svincolate dall’esperienza, non hanno quasi mai un significato ‘in sé’. Né lo stesso potere, se pronunciate in situazioni diverse. Ecco, quindi, che la televisione ha, o dovrebbe avere, una percezione più fine delle sue responsabilità. […] L’utilizzo apparentemente innocuo di alcuni termini si rivela per quello che è (una scelta del senso che si vuole comunicare) e descrive in modo vivido la società che ne fa uso”. L’utilizzo di un termine piuttosto che un altro sottintende sempre o contribuisce a formare e rafforzare un (il) pensiero. È un meccanismo reale, effettivo e per questo potenzialmente rischioso.
Ho affrontato spesso l’argomento, vedrai che mi capiterà di scriverne ancora, e poi ancora, e poi ancora… Termino con alcune parole scritte da una collega che affronta la questione in modo anche ironico[2]. Non è proprio aderente a quello che scrivi tu, ma credo che ne condividerai i principi e le ragioni: “Spesso, non si può negarlo, l’espressione diversamente abile funziona, e alle persone che non si trovano a contatto con la disabilità, o a volte anche alle stesse famiglie di persone disabili, apre un mondo fatto di possibilità anziché di negazioni. A volte, però, si tratta di una mera espressione di facciata. È politically correct, anzi è di moda, è trendy. E, nello stesso tempo, è vuota di significati, oppure, ancora peggio, resta ancorata alla cultura del passato, perché indica una persona con deficit, ma non sempre modifica gli aggettivi legati a quella persona. E quindi capita che chi usa ‘diversamente abile’ continui a guardare le persone disabili come dei marziani, provi disgusto vedendole imboccare da altri, non sappia come relazionarsi a loro, se non con un dislivello asimmetrico. […] Allora preferisco chi usa ancora ‘handicappato’, ma lo fa in modo genuino, ruspante, senza ambiguità e sedimenti culturali, solo per indicare una situazione di diversità e che poi accetta la disabilità nella sua concretezza. […] Preferisco ‘handicappato’ se non si porta dietro nulla, piuttosto che ‘diversamente abile’ se questa espressione fa pensare ancora ‘poverino’. Quanto vorrei che non ci fosse bisogno di termini più ‘giusti’ per cambiare la mentalità comune; sarebbe bello cambiarla anche stando sui termini sgradevoli”.
 
 
Ciao Claudio,
mi chiamo Claudia e sono un’insegnante di lettere della scuola media xxx. Ho avuto l’immenso piacere di essere presente venerdì scorso al tuo intervento e ti posso dire che mi sono sentita proprio bene: sono tornata a casa molto più leggera e ho cominciato a pensare a “che bel mondo ho visto finora”!
Nella mia classe terza ho il piacere di avere un alunno portatore di handicap, L.: è un ragazzino speciale che ha avuto la fortuna di essere inserito fra ragazzi che lo amano e lo rispettano come individuo unico e irripetibile.
L. però sta crescendo e sente dentro di lui le pulsioni di un preadolescente che manifesta apertamente.
Anche questi atteggiamenti sono compresi dai compagni che hanno imparato ad accettarli. E allora dove sta il problema? La mamma di L. vorrebbe che i compagni lo portassero con loro fuori a mangiare una pizza, al cinema, o a fare una passeggiata ma i ragazzini sono pur sempre preadolescenti e faticano a rendere partecipe L. di questi momenti.
Come si fa quindi a trovare il giusto equilibrio? Come posso aiutare questo mio alunno a crescere bene come gli altri?
Come posso aiutare questa madre che cerca l’accettazione incondizionata, come tutti gli altri genitori, di un figlio?
Ti ringrazio tanto per qualsiasi consiglio tu possa darmi e spero di risentirti presto.
Ciao Claudia
 
Cara Claudia,
grazie per avermi scritto e per essere venuta a San Giovanni.
Come saprai, la “richiesta consigli” è sempre un’operazione rischiosa, soprattutto per chi è chiamato a darne…
Il rischio più ovvio è la banalità del consiglio stesso, quello meno innocente la sua totale inefficacia.
 
Quando si esce dall’ambito scolastico, all’interno del quale magari i rapporti tra alunni funzionano benissimo, scatta spesso un “meccanismo di vergogna” da parte delle persone normodotate, in particolare se si tratta di ragazzi di quell’età (non solo, anzi, ma credo che con i ragazzi questo aspetto possa emergere in modo più evidente). Insomma, la scuola è un ambiente più protetto, per il ragazzo disabile e anche per i suoi compagni.
L’imbarazzo da parte di chi “porta fuori” la persona disabile cresce ancor di più se pensiamo che quelli sono anche gli anni in cui cominciano o si cercano approcci affettivi importanti: la presenza di una persona disabile non contribuisce a rendere l’accompagnatore molto “attraente”. Spesso subentra anche un po’ di disagio verso la persona disabile stessa, per la quale si immagina una vita affettiva e sessuale più complicata e incompleta. E allora si cerca di evitare di metterlo in situazioni (di vita) che presumiamo non abbia la capacità di gestire o con le quali pensiamo non potrà mai confrontarsi. Insomma, contano le idee che uno ha in testa e contano ancor di più quelle che gli altri (normodotati) hanno o che noi presumiamo che abbiano; e contano, ancora, le ipotesi, le immagini che abbiamo della persona con disabilità. Forzare la mano credo sia controproducente, più sensato, forse, è affrontare la questione all’interno della classe, senza vergogne e senza infingimenti. Del resto è l’unica occasione e l’unico ambiente in cui le persone potenzialmente coinvolte in questi “meccanismi” sono compresenti e hanno la possibilità di esprimersi, criticarsi, ecc. in presenza di persone coscienti e consapevoli (come te).
Non lascerei gestire o affrontare la cosa alla sola famiglia: il rischio? Che la soluzione sia, come spesso, capita, il gruppo parrocchiale (senza offesa, spero tu capisca cosa intendo)… se va bene.
Lette queste parole (incerte e parziali e me ne scuso), scrivimi, cerchiamo di continuare il nostro dialogo.
Attendo tue nuove.
Un caro saluto.


[1] Cfr. “Inchiostro” rubrica di www.superabile.it del 4 febbraio 2010

[2] Cfr. V. Alpi, “Etichetta e preferenze”, pubblicato su Hp-Accaparlante,  n. 2, 2008 




naviga: