Il 4 e 5 ottobre scorsi, l’Università di Sheffield (Regno Unito) ha ospitato un seminario sul “trasferimento di tecnologia” per le tecnologie assistive promosso da AAATE – Association for the Advancement of Assistive Technology, un’organizzazione paneuropea indipendente con sede in Danimarca e che conta oltre 250 membri, nata per promuovere e diffondere la conoscenza relativa alle tecnologie assistive.

 Il tema del seminario, “il modello sociale per il trasferimento di tecnologia nelle tecnologie assistive”, sottolineava come la ricerca tecnologica che porta alla produzione di ausili non possa essere mossa da motivazioni e logiche endogene, in quanto “lo sviluppo di tecnologie assistive è qualcosa che deve essere guidato dall’obiettivo di realizzare una società inclusiva – e quindi ci sono questioni morali, finanziarie, commerciali e scientifiche da comprendere e gestire”. Principale organizzatore del convegno è stato KT-EQUAL, un consorzio di ricercatori britannici operanti nell’ambito del miglioramento della qualità della vita per persone anziane e disabili; KT-EQUAL ha raccolto l’eredità del precedente progetto SPARC – Strategic Promotion of Ageing Research Capacity, conclusosi nel 2008, il cui scopo era “garantire che le persone anziane traggano benefici dai progressi della scienza e della tecnologia”, promuovendo in particolare il rapporto tra laboratori di ricerca, decisori delle politiche sociali e operatori per gli anziani.

I documenti del convegno non sono ancora stati pubblicati mentre scriviamo, ma le pubblicazioni prodotte negli scorsi anni tanto da AAATE e dai suoi membri (tra cui spicca il SIVA – Servizio Informazione e Valutazione Ausili della Fondazione Don Gnocchi di Milano) quanto da KT-EQUAL, e dal suo predecessore SPARC, consentono di tracciare alcune linee del dibattito socio-culturale che, al di là degli aspetti più strettamente tecnici, anima oggi la ricerca in materia di ausili – un settore che in Europa fattura, secondo le stime, circa 30 miliardi di Euro.
Il (reale) coinvolgimento dell’utente 
Una delle esigenze più vivamente affermate nella fase di ricerca e sviluppo delle tecnologie assistive è il coinvolgimento dell’utente, a partire da un momento quanto più precoce possibile nel processo che porta alla produzione di un ausilio. Lo scollamento tra le logiche di ideazione/realizzazione e i bisogni reali dell’utenza, come è facilmente intuibile, aumenta il rischio che il prodotto finale non incroci la domanda attesa, o comunque abbia un ciclo di sfruttamento commerciale molto breve prima di divenire abandonware – sia quanto a produzione generale, sia nel caso singolo dell’utente finale che rinuncia a utilizzare l’ausilio, di cui pure dispone, perché non risponde alle sue esigenze.
I problemi sorgono quando il principio “coinvolgere l’utente” deve essere tradotto in prassi operative, a partire dal primo scoglio ben sintetizzato dal titolo di un seminario organizzato da KT-EQUAL nel gennaio 2010: “Chi è l’utente?”. Date le caratteristiche del mercato delle tecnologie assistive, infatti, non ci si può limitare a considerare il beneficiario finale: c’è una serie di figure di mediazione il cui coinvolgimento è altrettanto decisivo per evitare un esito di abbandono dell’ausilio. Riprendendo un esempio citato nel medesimo seminario, una nuova applicazione di telemedicina per il monitoraggio del diabete ha come utenti non solo i malati, ma anche operatori sociali, infermieri, medici di medicina generale, familiari, e su un piano più esteso associazioni di malati, uffici del servizio sanitario, centri specializzati negli ausili, farmacie, ecc. Tutti questi stakeholders rivestono un ruolo nel determinare il successo o il fallimento dell’applicazione, e pertanto tutti dovrebbero essere consultati durante il suo sviluppo.
Va notato che una rete così ampia propone una contraddizione di principio a chi voglia interagire con essa: per il successo della ricerca occorrerebbe identificare dal principio ogni interlocutore rilevante, per coinvolgerlo sin dalle prime fasi di ideazione, ma al contempo sarebbe opportuno mantenersi aperti all’inclusione di ulteriori soggetti la cui importanza emergesse nelle fasi successive – a costo di rivedere sulla base dei loro input scelte già compiute. Inoltre, nulla garantisce che le indicazioni pervenute dai vari nodi di questa rete siano univoche: per esempio, si può supporre che utenti finali e operatori possiedano livelli diversi di competenza tecnologica (anche se non necessariamente maggiore nei cosiddetti “specialisti”), e quindi esprimano esigenze differenti quanto al grado di tecnologia e alla user-friendliness da incorporare nel prodotto finale, ma anche utenti diversi nella stessa posizione tenderanno ad avere un’immagine differente del proprio “ausilio ideale”. A questa già imponente diversità si deve aggiungere il fatto che non tutti i bisogni sono chiaramente percepiti dall’utente: altre esigenze ugualmente rilevanti devono piuttosto essere “elicitate”, o fatte emergere in base a test effettivi di funzionamento del prototipo di ausilio. Tutte queste considerazioni portano il coinvolgimento dell’utente piuttosto lontano dalle modalità standardizzate e impersonali della ricerca di mercato, per richiedere piuttosto un rapporto diretto e continuativo con un panel di utenti, che sia al tempo stesso consolidato (in un esempio citato, un gruppo di “amici critici” da consultare regolarmente) e non completamente statico nel tempo (per evitare che le risultanze risentano troppo di idiosincrasie ed esperienze passate, invalidandone il carattere di “esito campione”).
Gestire la complessità che si è appena descritta ha un costo, e richiede competenze sociologiche distinte tanto da quelle dei ricercatori scientifici quanto da quelle degli addetti al marketing. C’è quindi il rischio che, a fronte della necessità di minimizzare le spese di ricerca e sviluppo esterne al “core business”, tutto questo sforzo sia semplicemente abbandonato in quanto economicamente insostenibile; per questo, un altro elemento su cui si insiste è l’esigenza di riaffermare costantemente come il coinvolgimento dell’utente sia fattore cruciale per la qualità dei risultati finali della ricerca. Ciò si traduce nell’importanza del produrre documentazione sempre più ricca e precisa sugli effetti positivi che l’inclusione dell’utenza nel processo di ricerca e sviluppo svolge per l’appetibilità commerciale dei prodotti (e, al contrario, sul costo della mancata inclusione), documentazione che però deve avere carattere pubblicistico e non accademico: “Quando si producono risultati di ricerca per gente occupata, è importante tenere a mente che i loro messaggi chiave devono essere accessibili a qualcuno che ha cinque minuti liberi sulla banchina di una stazione […] La ricerca dovrebbe essere citabile, chiara e concisa, basata su prove, qualitativa e applicabile alle attuali prassi di lavoro, con raccomandazioni attuabili per adattarsi alle prassi e procedure attuali”.
In sintesi, occorre passare da un “modello lineare” a un “modello interattivo” di conoscenza, un cambiamento culturale ed epistemologico che richiede tempo – e anche, per chi fa ricerca, la cessione di una parte degli aspetti di potere connessi al “sapere specialistico”. È anche per questo motivo che “c’è ancora molta strada da fare prima che la partecipazione degli utenti diventi un aspetto comune nel processo decisionale”.
 
Mercato di massa e adattamenti personalizzati 
Un’altra tematica decisiva nella discussione sulle tecnologie assistive attiene alla relazione tra prodotti disponibili al mercato di massa, e quindi anche, ma non solo, alle fasce di utenza con esigenze particolari, e prodotti (o loro adattamenti) specifici e tendenzialmente rivolti a bisogni personalizzati. La distinzione esiste da sempre, ma una riflessione su di essa si impone nel momento in cui i suoi confini si vanno continuamente spostando, a causa di due dinamiche concomitanti.
In primo luogo, la diffusione pervasiva delle tecnologie digitali nei processi produttivi e nelle esistenze individuali consente sempre più alle persone con disabilità di compiere le attività della propria vita quotidiana tramite prodotti di massa, soprattutto (ma non solo) nell’ambito della comunicazione personale: basta pensare alle potenzialità di uno smartphone rispetto ai cellulari di anche solo 10 anni fa, o a quelle integrate in un computer portatile rispetto alle tecnologie distinte che lo hanno preceduto. Proprio la diffusione e miniaturizzazione delle tecnologie digitali, d’altro canto, consente di ideare e realizzare “infinite” personalizzazioni degli strumenti tecnologici esistenti, in base alle necessità di input consentiti e output richiesti dalle abilità residue del soggetto – il caso della domotica, e il concetto di “casa intelligente”, ne sono forse l’esempio più rilevante. Con l’informatica si apre dunque un campo di possibilità enormi, ma non si elimina la necessità di adattamenti personalizzati, e anzi si generano due controindicazioni: l’aumento dei costi richiesti per intervenire in modo articolato su strumenti già complessi, e il rischio di un approccio “per amor di tecnologia”, che imponga funzioni avanzatissime laddove sarebbero ugualmente praticabili soluzioni low-tech (per citare Franco Bomprezzi, “se una persona disabile vuole fumare, l’ausilio che gli serve non richiede meccanismi complessi”).
Su questo quadro in vivace mutamento si innesta l’impegno per il “design universale”, ovvero l’estensione dei principi di accessibilità per le persone con disabilità (prevalentemente) fisiche e sensoriali alla progettazione e realizzazione di ogni prodotto e ambiente. Nonostante i principi condivisi di questo approccio (come la tolleranza all’errore e il contenimento dello sforzo fisico) risalgano al 1997, di fatto ancor oggi nei contesti produttivi il design universale è in genere percepito come un “optional” di qualità, legato a un “investimento aggiuntivo in termini sia di tempo che di denaro”, e anche a livello formativo i suoi principi non sono integrati nelle diverse discipline (urbanistica, design, tecnologia, ecc.), ma inquadrati come disciplina a sé stante – e nemmeno obbligatoria per operare nei settori connessi. Di conseguenza, a dispetto del fatto che l’invecchiamento della popolazione renderà sempre meno utilizzabili in tutto l’Occidente gli strumenti e ambienti di vecchia progettazione, il design universale è oggi più un obiettivo ideale che una prassi concreta. Tuttavia, anche se quel set di principi fosse realmente integrato nella progettazione di qualunque oggetto d’uso, non sarebbero meno necessari adattamenti assistivi per esigenze specifiche, cui non si possa fare fronte con una “soglia ragionevole di accessibilità” – sebbene il raggiungimento diffuso di tale soglia, e il suo graduale “innalzamento”, siano processi essenziali per una società inclusiva. Va inoltre rimarcato che il design universale si fonda spesso sul trasferimento tecnologico da applicazioni “estensive”, sviluppate per specifiche disabilità e solo in seguito commercializzate per il pubblico generale, e ciò conferma per la ricerca specificamente assistiva una funzione “dinamizzante” anche di fronte alla diffusione di buone prassi di design universale.
La ricerca per le tecnologie assistive si ritrova in sintesi il compito di ottenere sempre nuovi risultati, curando però che quelli già raggiunti si diffondano nella progettazione e produzione generale (nella quale gli elementi tecnologici hanno un peso via via crescente), e per fare questo deve instaurare un dialogo costante con tutta la filiera di soggetti coinvolti nel successo di un ausilio rispetto al suo specifico destinatario finale. Siamo abbastanza lontani dal mito dello scienziato chiuso nel suo laboratorio e chino sui propri strumenti – un mito da cui le équipes multidisciplinari dei centri di assistenza ausili già ora si discostano, ed è probabilmente questa caratteristica di multidisciplinarità che dovrà essere accentuata per rispondere alle future sfide del settore.
 
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