A., donna inglese, ha perso la vista nel 1997 e ha allevato le sue figlie solo con il tatto. Assicura che è più facile di quello che ci si aspetterebbe. L’essere cieca non la rende una madre incapace, eppure la gente dà per scontato che debba essere così.
Il duro lavoro, come scelta di vita, è maggiormente auspicabile di quel che avrei mai immaginato. Ne sono diventata una sostenitrice, da quelle prime, poche ore in cui tenevo in braccio Sophia, la mia primogenita, raggomitolata nel mio avambraccio, imparando ad allattarla, fino all’ultimo “Totò cavallo” prima di colazione, con due “gentildonne” sulle mie ginocchia spossate.
Ma ho sempre saputo che essere un genitore mi avrebbe posta di fronte a diverse sfide, rispetto a madri più standard, poiché sono rimasta cieca fin dal 1997.
Nella realtà quotidiana dell’allevamento dei bambini, essere non vedenti non è, in generale, neanche lontanamente così arduo come la gente si aspetta che sia. Cambiare i pannolini non è particolarmente difficile se sei già abituata a fare tutto con il tocco delle mani. Non c’è alcun mistero. Non esploro le feci con le dita, né lascio la mia bimba un po’ sporca. Uso semplicemente una combinazione di olfatto e tatto per determinare come stia procedendo la pulizia e se vedo che sto perdendo il controllo della situazione, e la voglia di vivere, allora dieci minuti di bagno e cambio di vestiti: non si può sbagliare.
Anche dar da mangiare è fattibile, sebbene un po’ più eccitante. Nei primi giorni dello svezzamento raccoglievo una cucchiaiata di cibo con la mia mano destra posando lievemente la mia mano sinistra sulla sua spalla destra. In questo modo potevo controllare la posizione della testa e usare il pollice per monitorare l’ingresso (e specialmente l’uscita) della pappa. Non miravo direttamente alla bocca con il cucchiaio ma usavo le punte della dita per individuare la bocca e capire quanto fosse aperta. Poi veniva il passaggio fulmineo dalle cucchiaiate sospese obliquamente alla precisa somministrazione della pappa senza conficcare il cucchiaio nelle gengive, toccare il palato molle o pizzicare le labbra o la lingua.
Gestire le cose di casa è più complesso ma, di nuovo, non impossibile. Poco tempo fa, per esempio, mentre preparavo il bucato, ho colpito con un angolo del copripiumino la tazza piena d’acqua di Sophia, facendola finire per terra. Ho afferrato un rotolo di carta da cucina e così facendo ho rovesciato sul pavimento un flacone nuovo di detersivo multiuso che, benché sigillato, ha svuotato generosamente il suo contenuto sui pannelli in sughero del pavimento. Dopo aver buttato la carta da cucina sull’acqua versata, mi sono messa a ripulire il pavimento dal detersivo. Il mio nuovo cane guida, che è meravigliosamente utile e inestimabile, è arrivato subito, si è gettato nel detersivo (mandandomi nel panico) e poi, dopo aver ricevuto una sgridata, ha messo le zampe sulla carta imbevuta d’acqua per poi danzarsene via con lei. Agitata e imprecante, ho inseguito e preso il cane e la carta, mandando il primo nella stanza e l’altra nella discarica, ho asciugato il detersivo, recuperato il bucato e mi sono congratulata con me stessa per aver evitato una crisi. Irradiando perizia, sono tornata a cucinare, con mezz’ora di ritardo. Ho tagliato abilmente tre giganteschi spicchi d’aglio in un tempo da record e li ho scagliati nella padella calda… sbagliando completamente mira!
Tuttavia si possono evitare questi piccoli disastri facendo le cose con più calma e accortezza.
Ce la sto mettendo tutta per stabilire la migliore relazione con le mie figlie, affinché non si approfittino della mia cecità. Per ora ho rimproverato Sophia. Ad esempio a tavola mi dice: “Ho finito di mangiare ma non voglio che tocchi il piatto” (ovviamente perché non è vero che ha finito di mangiare). A volte invece la rimprovero per le sue lamentose digressioni con il padre: “Non lasciare che mi tocchi il polso o mi farà mettere le maniche lunghe”, e pare che funzioni.
Spero di instillare in loro la comprensione che sono in grado di individuare le malefatte con tecniche più sofisticate della mera vista.
È improbabile che io riesca a vincere le battaglie future con imposizioni del tipo “Non vai da nessuna parte vestita così”. Mi va benissimo che imparino a rispettare e valorizzare se stesse al punto da prendere loro delle decisioni assennate sull’abbigliamento e il comportamento, facendo il loro ingresso nell’adolescenza.
Ma la cosa più difficile da gestire non è il cambio di pannolini, o dar da mangiare o cucinare o lo spossante campo minato delle faccende domestiche (si possono realizzare anche le cose più complicate se uno mette da parte l’orgoglio e chiede aiuto).
No, la prova più difficile e demoralizzante che devo affrontare sono gli atteggiamenti delle altre persone nei confronti delle menomazioni in generale e dei genitori ciechi in particolare.
Non ci sono molti genitori ciechi e perciò ci marginalizzano.
La mia infermiera-consulente mi dice che può farmi avere un set gratuito di libri per bambini in 26 lingue diverse, ma non è prevista l’aggiunta del Braille, che consentirebbe a un genitore non vedente di leggere assieme a un bambino vedente. Nel Regno Unito nessuno li pubblica, anche se sarebbero relativamente facili da produrre.
Altrettanto scioccante è stato scoprire che non esistevano opuscoli informativi della Sanità in Braille o anche in formato audio o elettronico per donne in attesa e neomamme. Mi sono imbarcata nella maternità alla cieca, in ogni senso.
Eppure, di nuovo, tutto questo è insignificante rispetto al modo in cui vengo trattata dalla gente. Sconosciuti e persino amici colgono ogni opportunità per chiedere a mio marito se posso cucinare e cambiare i pannolini. La gente mi fissa senza alcun imbarazzo ogni volta che pulisco un naso o allaccio una scarpa e manifestano sorpresa che non sono all’oscuro di ciò che fanno le mie figlie quando non sono a contatto con me.
Man mano che Sophia cresce e diventa più capace, quasi si può toccare il sospetto, tra le persone, che sia la mia badante. La scorsa settimana, per esempio, il suo rispetto per il codice della strada ha suscitato l’ammirazione di un passante. Mi sono voltata a sorridergli, felice che la nostra pratica di sicurezza sulla strada fosse stata apprezzata, per poi mordermi la lingua, giacché la persona si allontanava rapidamente, a significare che aveva inteso che l’accortezza nell’attraversamento fosse a beneficio mio e non della mia figlia di tre anni.
Mi si continua a chiedere come sfamo e pulisco le mie figlie, con toni scettici che riescono appena a mascherare il sospetto che in realtà sia mio marito a occuparsi di tutto. Alcuni non vedono che le mie bambine chiamano la mamma, dando per scontato che, con una madre così, intendano dire papà (il che tuttavia, in varie occasioni, porta alla gratificante e chiarificatrice conclusione che le persone devono comunque riportarle da me, quando le grida si intensificano).
La verità è che alcuni aspetti della vita di un genitore non vedente sono proprio una faticaccia frustrante. Fare qualunque cosa è ovviamente più difficile per me di quanto lo sia per altre madri. Ma questa è l’unica vita che conosco. Non mi faccio sorprendere da difficoltà e sforzi. Sono i consueti nemici di chiunque sia determinato a non lasciare che una disabilità grave la escluda dalla vita. Ci sono però anche dei vantaggi, come il fiorente vocabolario della mia primogenita, necessario a chiarirmi cosa intenda dire, e la straordinaria gentilezza che delle bambine allevate con il tatto considerano la norma.
L’unica vera piaga è la credenza che io debba essere una donna solitaria, inadeguata, incapace di una vita attiva e di una normale vita familiare. A volte, quando parlo delle mie figlie in loro assenza, avverto una pausa momentanea, mentre decidono se è vero che sono una madre. C’è un ritrarsi, come se fossi in preda a una psicosi. Una pausa che si conclude con una querula replica: “Ma Lei non ci vede, come fa ad avere figli?”, come se non mi rendessi conto che sono cieca. Ne ho avuto conferma recentemente quando, in fuga dal caos di un sabato in famiglia, me la sono svignata di casa per un’ora di tranquillo shopping. Mentre annusavo con un po’ di senso di colpa dei profumi di marca, ho sentito una donna dire a suo figlio (senza neppure pensare di abbassare la voce) che bella cosa che avevo un cane guida, “che mi faceva compagnia”. Confesso che la mia risposta è stata alquanto incisiva.
(racconto pubblicato su www.guardian.co.uk/lifeandstyle/2009/aug/08/blind-motherhood-disability; traduzione a cura di Stefano Fait)
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