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Sport agevoli – Oggi gioco anch’io!

Per dieci anni sono stato responsabile di un progetto, denominato “L’Ottavo Giorno”, che aveva come scopo primario quello di integrare nella società soggetti disabili giovani e adulti attraverso il divertimento. Il mio compito era quello di organizzare il tempo libero di una trentina di soggetti in situazione di handicap proponendo loro attività ludiche di vario tipo.

Tra le tante attività c’erano anche quelle sportive. Collaborando con altri operatori di progetti simili della provincia di Reggio Emilia, è nato “Sportissimo”: un weekend di gare sportive che comprendevano discipline che spaziavano dal calcetto all’atletica.
Nella giornata dell’atletica gareggiavano solo gli atleti disabili dove i volontari normodotati fungevano da giudici. Nel torneo di calcetto invece le squadre erano miste, cioè composte sia da disabili che da normodotati. Si giocava con le regole standard: se la palla va fuori è rimessa laterale, se va in rete è goal. Però ce n’era una non scritta che stava sempre lì e che ogni anno vedevo aleggiare nell’aria: l’importante è che i disabili si divertano e che facciano bella figura. Cosa voleva dire questo? Voleva dire che i volontari si facevano scartare apposta o si facevano fare goal facendosi passare la palla sotto alle gambe? Se un volontario faceva goal veniva fischiato o deriso. Tutti atteggiamenti che facevo molta fatica a digerire e accettare e puntualmente rientravo a casa sconsolato senza essermi divertito, cercando di dare un senso ai miei pensieri che non trovavano una soluzione. Poi alla fine mi dicevo: “Ma sì dai, l’importante è che i ragazzi disabili si siano divertiti”.
Non avevo la forza per cambiare, dentro di me, questo stato di fatto. Forse perché mancava qualcosa a cui non riuscivo dare un nome.
Tutto questo succedeva finché non ho incontrato Andrea Margini (collega e allenatore della squadra giovanile di basket in carrozzina di Reggio Emilia) che ho conosciuto in occasione di un convegno organizzato dal Centro Documentazione Handicap di Bologna. Sul suo camper abbiamo preparato l’intervento che dovevamo tenere assieme al convegno dal titolo “La disabilità non va in fuori gioco” (titolo preso in prestito dal mio collega e amico Luca Baldassarre).
Dopo un paio di ore trascorse insieme, ascoltando le sue parole e visionando i suoi filmati di baskin, piano piano si fecero largo nella mia mente due parole che andavo ricercando da tanto tempo: regole e ruolo.
Le regole precise in base alle capacità motorie che permettono a ogni giocatore di avere un ruolo ben preciso che si carica di un significato ben preciso ma anche di emozioni e responsabilità.
Regole e ruoli adeguati consentono di dare responsabilità a tutti i partecipanti al gioco, sia disabili che normodotati, e di cancellare quell’atteggiamento assistenziale che i volontari tenevano nei confronti dei giocatori disabili durante il torneo di calcetto descritto sopra.
Uscito dal quel camper un’altra domanda mi assediava: ma il gioco-sport è veramente integrazione? E quando uno sport è veramente integrazione? Esemplificando: se io, che sono normodotato, mi trovo in un campetto da basket e ci sono solo ragazzi in carrozzina che stanno giocando a pallacanestro, io per poter giocare insieme a loro devo sedermi in carrozzina? E se non mi metto seduto non gioco?
Un giorno di primavera, osservando i miei tre figli che giocavano con i loro amici ho trovato anche questa risposta amletica. Mi ero accorto che ogni tanto qualche bambino era escluso perché le regole del gioco non erano adatte al suo essere e alle sue capacità motorie e si fermava a guardare gli altri o, peggio, delle volte tornava a casa arrabbiato. Vedendo queste scene la mia idea si confermava sempre di più: il gioco e lo sport non integrano… anzi! Le difficoltà dei bambini e adulti, sia motorie che emozionali (tensione, stress, frustrazione nel non riuscire) sono veicolo di esclusione.
Non me ne facevo una ragione, dovevo provare a cambiare questa idea che si era instillata dentro di me.
Giacché ho la fortuna, oltre che lavorare al Centro Documentazione Handicap, di insegnare motoria ai bambini dagli 0 ai 5 anni, per la società sportiva “Anni Magici” di Cavriago (RE), ho preso subito la palla al balzo. All’interno di una lezione avevo previsto l’attraversamento del ponte tibetano, costruito con due funi legate a un albero, una sopra all’altra, a una altezza di un metro la prima e un metro e mezzo la seconda. Dopo aver fatto sedere i bambini, ho detto loro che potevano attraversarlo come volevano, senza obbligarli ad attraversarlo in un modo standard, ma come si sentivano più sicuri. Ho visto di tutto: attraversamento in piedi, in ginocchio, appesi con gambe e mani, a testa in giù. Potrei citare tante altre lezioni dove giochi e percorsi motori erano continuamente modificati per permettere e tutti di esprimersi al meglio. Anche gli stessi materiali usati per la lezione venivano spesso utilizzati in modo diverso, in base alle abilità morie, ma soprattutto alla creatività che ogni bambino e che ognuno di noi ha. La mia lezione veniva spesso completamente stravolta e i bambini si divertivano tantissimo. Questo ha fatto sì che i bambini si portassero a casa un’esperienza positiva delle attività svolte e non negativa.
Parlando con le maestre e i genitori degli alunni, mi rendevo conto di quanto i bambini erano entusiasti del loro saper fare.
Queste esperienze ho cercato piano piano di portarle dentro le attività morie per disabili che faccio assieme ad altri colleghi (attività moria di base, atletica, calcetto all’interno delle attività de L’Ottavo Giorno-Progetto Tempo Libero Disabili) cercando di adattare gli esercizi e i giochi in base alle potenzialità dei nostri atleti. A volte invitiamo altre società che praticano altre discipline sportive (ad esempio tiro con l’arco): questo è molto utile perché alleniamo sia gli atleti sia gli istruttori ad allenare la creatività, che permette di ricercare regole, tecniche tattiche che infondono una nuova linfa all’attività. Tutto ciò permette di dare una nuova dinamicità e competitività alle attività ludiche proposte, coinvolgendo pienamente, attraverso il divertimento, sia gli atleti sia gli allenatori. Anche ai nostri atleti cerchiamo, appunto, di aumentare il loro bagaglio del “saper fare”. A volte, parlando con i miei colleghi, mi viene spontaneo, e mi piace dire, che siamo un laboratorio sportivo sperimentale dove ogni partecipante si sperimenta mettendo in gioco se stesso sia con le capacità motorie ma soprattutto con quelle emozionali, favorendo così lo sviluppo dell’autostima, cercando di accettare i propri limiti e apprezzare le proprie capacità, condividendo e rispettando le regole per permettere l’espressione di tutti.
Finalmente mi sono disintossicato da quelle idee di “assistenza” per far fare bella figura ai disabili, magari ricevendo la classica pacca sulla spalla accompagnata dalla classica frase: “Che bravi che siete, voi sì che li fate divertire!”.
Quando conduco, assieme ai miei colleghi del Centro Documentazione Handicap, i corsi di formazione per gli insegnanti, educatori, allenatori e per gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado sul tema dello sport, parto proprio da quella domanda provocatoria: “Ma lo sport integra davvero?”.
Nei nostri percorsi di formazione mettiamo gli adulti e gli studenti subito a contatto con la disabilità (poiché uno dei miei colleghi è disabile), con le sue difficoltà motorie, ma soprattutto con le difficoltà di relazione e di comunicazione che questa porta, dettate dalla non conoscenza e dal pregiudizio, visto che lo sport è sinonimo di bellezza, prestanza fisica, fama, forza e risultati.
La disabilità è tutto il contrario di questo.
Grazie alla creatività unita alla conoscenza, al divertimento, alla passione per quello che si fa, a un modo diverso di comunicare e di relazionarsi, si trovano soluzioni nuove, dove non c’è confine tra formatori e formandi perché è un continuo mettersi in gioco per entrambi; si trovano soluzioni nuove per permettere a tutti di giocare e – perché no – di fare sport integrati, dove atleti disabili e normodotati disputino un campionato insieme, dove ognuno abbia un ruolo e che questo ruolo dia delle responsabilità a chiunque per far sì che la parola assistenza non venga nemmeno pensata, ma venga cacciata e chiusa in quella parte del cervello delle parole dimenticate.
E magari grazie a questo, se mi troverò in quel campo da basket assieme ai ragazzi in carrozzina che stanno giocando, magari qualcuno griderà: “Oh dai Tristano, vieni a giocare con noi!”. Oggi gioco anch’io!

 




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