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Frida vista da Frida

L’arte e gli artisti sono entrati a far parte, in modo inaspettato e piacevole, del nostro contesto lavorativo, offrendoci la possibilità di indagare e osservare la realtà da un nuovo punto di vista, attraverso i loro occhi, le loro opere e la loro vita.
Un piccolo viaggio incontro all’arte, dove mèta e destinazione si confondono!

“Ma sebbene sapesse che stava per morire, non aveva smesso di lottare per la vita.
Perché altrimenti, la morte fu costretta a sorprenderla rubandole il respiro nel sonno?”.
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni 2001, p. 292)

Mi chiamo Frida, “pace” in tedesco.
Un nome ma non un destino. Di pace, infatti, ne ho conosciuta poca.
Mio padre era di origine tedesca. Mia madre messicana.
Sono figlia, sorella, sposa e amante.
Sono una pittrice o almeno lo sono diventata, forse per necessità, forse per destino, forse per occasione.

“Non mi era mai capitato di pensare alla pittura fino a  quando, nel 1926, mi ritrovai a letto per via di un incidente automobilistico. Ero maledettamente annoiata, lì a letto dentro un busto di gesso, così decisi di fare qualcosa. Rubai degli olii a mio padre e, visto che non potevo stare seduta, mia madre mi fece confezionare una tavolozza speciale. Fu così che cominciai a dipingere.”
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni, 2001, p. 49)

L’incidente, 17 settembre 1925.
“Fu una collisione strana, non violenta, ma piuttosto silenziosa, lenta, e provocò ferite a tutti. A me più che a tutti gli altri… è una bugia che ci si renda conto dello shock, è una bugia che si pianga. Io non ho pianto. Io non ho avuto lacrime. L’urto ci catapultò in avanti e uno corrimano mi trafisse nello stesso modo in cui una spada trafigge il toro.”
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni, 2001, p. 40)

La colonna vertebrale mi si spezzò in tre punti, mi si spezzò anche l’osso del collo e la terza e quarta costola. Undici fratture alla gamba sinistra e il piede destro si schiacciò. Perfino la zona pelvica si ruppe in tre parti.
Quando ripenso a quei momenti, non penso a uno spartiacque che divide un prima e un dopo, penso, piuttosto, a un tunnel, certamente buio, che unisce, il prima con il dopo.
Una frattura che non divide ma che completa, che, come in un puzzle, ricompone i pezzi per consegnare anche a me stessa una nuova Frida.
Dolorosa. Piena.
Come uno squarcio che svela.
Che ha svelato anche a me stessa qualcosa a cui non avevo mai pensato. Una proposta.
“Ho iniziato a dipingere a dodici anni mentre ero convalescente da un incidente automobilistico che mi costrinse a letto per circa un anno. Ho sempre lavorato sotto l’impulso spontaneo dei miei sentimenti. Non ho frequentato nessuna scuola, non sono stata influenzata da nessuno; dal mio lavoro non mi sono mai aspettata altro che la soddisfazione che mi dava il fatto stesso di dipingere ed esprimere quello che non avrei potuto esprimere in un altro modo.
Ho dipinto ritratti, composizioni di figure e anche quadri il cui paesaggio e la natura morta avevano la parte più importante. Sono riuscita a trovare una modalità espressiva personale  senza che nessun pregiudizio mi forzasse a farlo. Per dieci anni il mio lavoro è consistito nell’eliminare tutto quello che non nasceva dalle motivazioni interne che mi spingevano a dipingere.
Dato che i miei soggetti sono sempre stati le mie sensazioni, i miei stati d’animo e le reazioni profonde che a mano a mano la vita suscitava in me, ho spesso oggettivato tutto questo in autoritratti, che erano quanto di più sincero e reale potessi fare per esprimere i miei sentimenti e le mie sensazioni.”
(M. Zamora, Frida kahlo – Lettere appassionate, Milano, Abscondita, 2002, p.100)

Autoritratto.
Anzi autoritratti.
Dipingo me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio.
Racconto me stessa , quindi, la mia sofferenza, racconto la sofferenza.
Non sono una persona infelice, ripiegata sul mio dolore, alla ricerca della pietà degli altri.
Sono una persona consapevole, imprigionata in busti di diversi materiali ma, allo stesso tempo, libera.
Aver guadagnato una fisicità tanto limitante mi ha offerto un punto di vista alquanto personale.
Sono libera perché, a dispetto dei tanti impedimenti che mi circondano, a dispetto della sofferenza, a dispetto dei tanti motivi che avrei avuto per vivere una vita al ribasso ho scelto la pienezza, forse, persino la felicità.
Non quella classica, probabilmente, quella a cui tutti pensano.
Ho amato e sono stata profondamente amata.
Sono stata tradita e ho tradito, per amore.
Ho viaggiato e ho vissuto in alcune delle città più belle del mondo.
Ho avuto passioni. Politiche, fisiche, culturali.
Ho desiderato, raccontato, lottato, sperato.
Ho avuto successo come artista.
Infine, sopra ogni cosa ho avuto ali per volare che hanno sostituito i miei piedi malandati.
Guardate bene, non lo dico con fare sdolcinato, lo dico perché lo sperimento, ogni giorno, nella mia carne.
Non vivo di nonostante… nonostante l’incidente, nonostante le continue operazioni, nonostante i tradimenti, nonostante la morte.
Preferisco vivere a partire da… a partire dall’incidente, a partire dalle continue operazioni, a partire dai tradimenti, a partire dalla morte. Non vittima ma vincitrice.
Cambio di prospettiva.
Con il passare del tempo ho trasformato anche il mio modo di adornarmi, arricchendo di particolari e colori il mio aspetto. Desideravo affermare il mio amore per la vita non come illusione ma basato sulla consapevolezza del dolore e della morte.
Consapevole, anche della mia tristezza, ho cercato sempre di pensare alle possibilità che mi circondavano e non alle mancanze. Le esperienze come punto di partenza, come ispirazione per raccontare, esprimere la complessità della vita.
“La mia pittura porta dentro di sé un messaggio di dolore… Pittura completata dalla vita. Ho perso tre bambini… I quadri hanno sostituito tutto questo. Credo che il lavoro sia la cosa migliore.”
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni, 2001, p. 107)

Sia chiaro, non dipingo per provocare dolore nello spettatore ma, certamente, provo la necessità di rendere cosciente chi mi guarda della sofferenza che vivo. Che ognuno di noi vive. Della solitudine che si sperimenta di fronte alla sofferenza, indipendentemente da quante persone ti vivono accanto, da quanto amore ti viene riversato, di quanta cura ricevi. Il dolore e la sofferenza sono una battaglia che si affronta in prima persona, senza filtri. Il mio campo di battaglia sono state le tele, un luogo di incontro tra il dentro e il fuori di me stessa e del mondo.
Ne è un esempio palese il dipinto “Le due Frida”.
L’ho dipinto dopo il divorzio da Diego, una delle esperienze più difficili della mia vita.
Ci amavamo ancora, infatti poi ritorneremo insieme, ma in quel momento mi resi conto che per lui era molto meglio lasciarmi.
Il dipinto racconta molto più di un buon libro.
Due Frida, una accanto all’altra, il cuore esposto, uno spezzato e l’altro intero, due me stessa che dicono, da una parte, la mia grande solitudine e, dall’altra, la forza che mi ha sempre sostenuto, la capacità, innata, di trovare nutrimento in me stessa, nelle esperienze, nelle relazioni.
Fuori e dentro, pieno e vuoto, autonomia e dipendenza, dolce e amara, gentile come una carezza e dura come una caduta.
Amata e amante!
Ho visto persino realizzarsi il sogno di una mostra nel mio paese, ho rischiato di non restare qui abbastanza a lungo ma alla fine ce l’ho fatta. Arrivata con il mio letto ho potuto godere di tale soddisfazione e, mascherata come al solito, ho messo di nuovo al centro me stessa, il dentro e il fuori. 

Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai indietro
Frida.



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