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autore: Autore: a cura di Roberto Parmeggiani

1. Sei fuori?Il tempo libero delle persone con disabilità tra diritto e possibilità

a cura di Sandra Negri, educatrice, e Roberto Parmeggiani, educatore e scrittore

“Sei fuori” è un’espressione gergale che si utilizza per apostrofare una persona che si comporta in modo strano, uscendo un po’ dall’agire che definiamo normale oppure per mettere in discussione ciò che qualcuno sta cercando di farci credere, magari esagerando un racconto. Sei fuori, d’altro canto, indica lo stare in uno spazio aperto, visibile e non nascosto. Ecco, è da questi significati che prende il titolo la monografia che vi presentiamo.
Ci siamo chiesti molte volte cosa si dovesse intendere con l’espressione tempo libero per le persone con disabilità. È un diritto che va garantito? È uno spazio personale che va, al massimo, sostenuto? Si tratta di qualcosa di superfluo rispetto a ciò che è necessario come il lavoro o l’assistenza sanitaria? È un compito che spetta alle amministrazioni, alle famiglie, ai dipartimenti socio-educativi e/o al mondo cooperativo e associativo?
Attraverso i contributi raccolti abbiamo cercato di trovare alcune risposte a queste domande dando largo spazio al racconto di esperienze, personali e di gruppo, mettendo al centro il tentativo di delineare un’ipotesi progettuale. Perché è attraverso la messa in pratica di azioni concrete che si può produrre un progresso reale, inteso come la maggior crescita possibile di inclusione a partire dal benessere di tutti. Un ambiente inclusivo, infatti, è migliore per tutti.
Sei fuori, quindi, come un invito alla scoperta di nuovi spazi, fisici e relazionali, in cui potersi sperimentare il più liberamente possibile.
Sei fuori, come rischio da correre per colorare i contesti anche con immagini non consuete, con modalità di azione e relazione, inizialmente destabilizzanti, ma piene di possibili sorprese.
Sei fuori, a dimostrazione che solo certe cose è possibile realizzarle quando si pensa in grande e non ci si ferma di fronte agli sguardi dubbiosi di chi pensa che non ce la si farà mai.
Sei fuori? Sì, sono fuori e ci sto benissimo!

Frida vista da Frida

L’arte e gli artisti sono entrati a far parte, in modo inaspettato e piacevole, del nostro contesto lavorativo, offrendoci la possibilità di indagare e osservare la realtà da un nuovo punto di vista, attraverso i loro occhi, le loro opere e la loro vita.
Un piccolo viaggio incontro all’arte, dove mèta e destinazione si confondono!

“Ma sebbene sapesse che stava per morire, non aveva smesso di lottare per la vita.
Perché altrimenti, la morte fu costretta a sorprenderla rubandole il respiro nel sonno?”.
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni 2001, p. 292)

Mi chiamo Frida, “pace” in tedesco.
Un nome ma non un destino. Di pace, infatti, ne ho conosciuta poca.
Mio padre era di origine tedesca. Mia madre messicana.
Sono figlia, sorella, sposa e amante.
Sono una pittrice o almeno lo sono diventata, forse per necessità, forse per destino, forse per occasione.

“Non mi era mai capitato di pensare alla pittura fino a  quando, nel 1926, mi ritrovai a letto per via di un incidente automobilistico. Ero maledettamente annoiata, lì a letto dentro un busto di gesso, così decisi di fare qualcosa. Rubai degli olii a mio padre e, visto che non potevo stare seduta, mia madre mi fece confezionare una tavolozza speciale. Fu così che cominciai a dipingere.”
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni, 2001, p. 49)

L’incidente, 17 settembre 1925.
“Fu una collisione strana, non violenta, ma piuttosto silenziosa, lenta, e provocò ferite a tutti. A me più che a tutti gli altri… è una bugia che ci si renda conto dello shock, è una bugia che si pianga. Io non ho pianto. Io non ho avuto lacrime. L’urto ci catapultò in avanti e uno corrimano mi trafisse nello stesso modo in cui una spada trafigge il toro.”
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni, 2001, p. 40)

La colonna vertebrale mi si spezzò in tre punti, mi si spezzò anche l’osso del collo e la terza e quarta costola. Undici fratture alla gamba sinistra e il piede destro si schiacciò. Perfino la zona pelvica si ruppe in tre parti.
Quando ripenso a quei momenti, non penso a uno spartiacque che divide un prima e un dopo, penso, piuttosto, a un tunnel, certamente buio, che unisce, il prima con il dopo.
Una frattura che non divide ma che completa, che, come in un puzzle, ricompone i pezzi per consegnare anche a me stessa una nuova Frida.
Dolorosa. Piena.
Come uno squarcio che svela.
Che ha svelato anche a me stessa qualcosa a cui non avevo mai pensato. Una proposta.
“Ho iniziato a dipingere a dodici anni mentre ero convalescente da un incidente automobilistico che mi costrinse a letto per circa un anno. Ho sempre lavorato sotto l’impulso spontaneo dei miei sentimenti. Non ho frequentato nessuna scuola, non sono stata influenzata da nessuno; dal mio lavoro non mi sono mai aspettata altro che la soddisfazione che mi dava il fatto stesso di dipingere ed esprimere quello che non avrei potuto esprimere in un altro modo.
Ho dipinto ritratti, composizioni di figure e anche quadri il cui paesaggio e la natura morta avevano la parte più importante. Sono riuscita a trovare una modalità espressiva personale  senza che nessun pregiudizio mi forzasse a farlo. Per dieci anni il mio lavoro è consistito nell’eliminare tutto quello che non nasceva dalle motivazioni interne che mi spingevano a dipingere.
Dato che i miei soggetti sono sempre stati le mie sensazioni, i miei stati d’animo e le reazioni profonde che a mano a mano la vita suscitava in me, ho spesso oggettivato tutto questo in autoritratti, che erano quanto di più sincero e reale potessi fare per esprimere i miei sentimenti e le mie sensazioni.”
(M. Zamora, Frida kahlo – Lettere appassionate, Milano, Abscondita, 2002, p.100)

Autoritratto.
Anzi autoritratti.
Dipingo me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio.
Racconto me stessa , quindi, la mia sofferenza, racconto la sofferenza.
Non sono una persona infelice, ripiegata sul mio dolore, alla ricerca della pietà degli altri.
Sono una persona consapevole, imprigionata in busti di diversi materiali ma, allo stesso tempo, libera.
Aver guadagnato una fisicità tanto limitante mi ha offerto un punto di vista alquanto personale.
Sono libera perché, a dispetto dei tanti impedimenti che mi circondano, a dispetto della sofferenza, a dispetto dei tanti motivi che avrei avuto per vivere una vita al ribasso ho scelto la pienezza, forse, persino la felicità.
Non quella classica, probabilmente, quella a cui tutti pensano.
Ho amato e sono stata profondamente amata.
Sono stata tradita e ho tradito, per amore.
Ho viaggiato e ho vissuto in alcune delle città più belle del mondo.
Ho avuto passioni. Politiche, fisiche, culturali.
Ho desiderato, raccontato, lottato, sperato.
Ho avuto successo come artista.
Infine, sopra ogni cosa ho avuto ali per volare che hanno sostituito i miei piedi malandati.
Guardate bene, non lo dico con fare sdolcinato, lo dico perché lo sperimento, ogni giorno, nella mia carne.
Non vivo di nonostante… nonostante l’incidente, nonostante le continue operazioni, nonostante i tradimenti, nonostante la morte.
Preferisco vivere a partire da… a partire dall’incidente, a partire dalle continue operazioni, a partire dai tradimenti, a partire dalla morte. Non vittima ma vincitrice.
Cambio di prospettiva.
Con il passare del tempo ho trasformato anche il mio modo di adornarmi, arricchendo di particolari e colori il mio aspetto. Desideravo affermare il mio amore per la vita non come illusione ma basato sulla consapevolezza del dolore e della morte.
Consapevole, anche della mia tristezza, ho cercato sempre di pensare alle possibilità che mi circondavano e non alle mancanze. Le esperienze come punto di partenza, come ispirazione per raccontare, esprimere la complessità della vita.
“La mia pittura porta dentro di sé un messaggio di dolore… Pittura completata dalla vita. Ho perso tre bambini… I quadri hanno sostituito tutto questo. Credo che il lavoro sia la cosa migliore.”
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni, 2001, p. 107)

Sia chiaro, non dipingo per provocare dolore nello spettatore ma, certamente, provo la necessità di rendere cosciente chi mi guarda della sofferenza che vivo. Che ognuno di noi vive. Della solitudine che si sperimenta di fronte alla sofferenza, indipendentemente da quante persone ti vivono accanto, da quanto amore ti viene riversato, di quanta cura ricevi. Il dolore e la sofferenza sono una battaglia che si affronta in prima persona, senza filtri. Il mio campo di battaglia sono state le tele, un luogo di incontro tra il dentro e il fuori di me stessa e del mondo.
Ne è un esempio palese il dipinto “Le due Frida”.
L’ho dipinto dopo il divorzio da Diego, una delle esperienze più difficili della mia vita.
Ci amavamo ancora, infatti poi ritorneremo insieme, ma in quel momento mi resi conto che per lui era molto meglio lasciarmi.
Il dipinto racconta molto più di un buon libro.
Due Frida, una accanto all’altra, il cuore esposto, uno spezzato e l’altro intero, due me stessa che dicono, da una parte, la mia grande solitudine e, dall’altra, la forza che mi ha sempre sostenuto, la capacità, innata, di trovare nutrimento in me stessa, nelle esperienze, nelle relazioni.
Fuori e dentro, pieno e vuoto, autonomia e dipendenza, dolce e amara, gentile come una carezza e dura come una caduta.
Amata e amante!
Ho visto persino realizzarsi il sogno di una mostra nel mio paese, ho rischiato di non restare qui abbastanza a lungo ma alla fine ce l’ho fatta. Arrivata con il mio letto ho potuto godere di tale soddisfazione e, mascherata come al solito, ho messo di nuovo al centro me stessa, il dentro e il fuori. 

Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai indietro
Frida.

L’Arsenale della Speranza: quando un luogo diventa un maestro

Il mio cane mi insegna ogni giorno che il processo di apprendimento non finisce mai. Ogni giorno ci sono cose che deve ripetere, riprovare, atteggiamenti da correggere, lezioni da imparare e novità da scoprire.
Ovviamente, ciò non vale solo per lui ma anche per gli esseri umani.
Perché il processo di apprendimento abbia successo è necessario un atteggiamento di umiltà, rispetto, fiducia e disponibilità nei confronti di chi riveste il ruolo di insegnante.
È altrettanto vero, però, che chi impara ha bisogno di maestri saggi e autorevoli che sappiano in che modo condividere ciò che sanno e, soprattutto, aiutare a imparare dalle esperienze.
Quindi maestri non padroni.
Maestri non tiranni.
Maestri non giudici.
Mentre mi auguro che di maestri così si riempia l’Italia, volgo lo sguardo della memoria al passato e realizzo che i maestri non sono solo le persone ma anche i luoghi.
Ci sono luoghi infatti che non sono solo luoghi.
Ci sono luoghi che sono vita, costruiti con i mattoni della storia, con il cemento dei sogni e con il sudore delle speranze di tanti.
Ci sono luoghi che sono vivi, perché donano una vita nuova a chi vi entra.
Alcuni di questi luoghi sono anche riusciti a modificare la loro destinazione in modo radicale.
Pochi, però, sono quelli che da luoghi di dolore e sofferenza, si sono trasformati in luoghi di pace e speranza; da luoghi di reclusione a luoghi di integrazione.
Uno di questi è l’Arsenale della Speranza di San Paolo in Brasile.
Un luogo che è, indubbiamente, anche un maestro.
Si legge sul loro sito [traduzione dell’autore]: “L’Arsenale ha la sua sede negli edifici che ospitavano l’Hospedaria dos Imigrantes, un insieme di edifici destinati, a partire dal 1886, ad accogliere gli immigrati appena arrivati a San Paolo. Dopo un viaggio estenuante, gli immigrati rimanevano nell’Ospiteria dove dormivano, ricevevano pasti, visite mediche e venivano selezionati per lavorare nelle piantagioni di caffè. Questo servizio durò fino agli anni ’70.
Oggi, quindi, l’Hospedaria dos Imigrantes di San Paolo continua custodendo la storia dell’immigrazione, mantenendo viva la memoria della città. In questo spazio, l’Arsenale della Speranza essendo una ‘casa che accoglie’ mette insieme tanto le antiche installazioni dell’Ospiteria, quanto l’accoglienza delle persone di passaggio, che anche oggi arrivano con i loro pesi, le loro sofferenze e i loro progetti… qui possono incontrare una speranza.
L’Arsenale della Speranza è quindi una ‘casa che accoglie’, fondata da Ernesto Olivero e dal Vescovo Luciano Mendes de Almeida nel 1996 e tutti i giorni offre accoglienza a 1150 uomini che si trovano in situazione di difficoltà a causa, nella maggior parte delle volte, della mancanza di lavoro, casa, alimentazione, salute e famiglia. Chi entra in questa casa riceve un’accoglienza dignitosa e, soprattutto, l’opportunità di trasformare la propria condizione di vita”.
Un luogo, appunto, che per scelta diventa maestro.
Che offre la possibilità di imparare un nuovo modo di vivere, non solo a parole, ma con gesti concreti che permettono di superare stereotipi e paure e, una volta riempito la zaino con un po’ di vettovaglie, riprendere il cammino di una nuova vita.
Perché tutto ciò avvenga, a chi entra all’Arsenale viene data una nuova possibilità attraverso l’offerta di un posto letto, biancheria per l’igiene personale e una mensa interna che sforna buonissimi pasti, rigenerando in questo modo il fisico e la salute.
Oltre a questo vengono organizzati corsi di alfabetizzazione (è presente una biblioteca molto fornita), di informatica e di avviamento al lavoro perché la nuova possibilità di riscatto sia reale e possibile.
Un luogo che ama, con l’amore di chi educa, offrendo gli strumenti per ri-costruirsi, ri-generarsi, ri-provare a vivere.
Tra le tante iniziative messe in campo dall’Arsenale, una delle più interessanti è la Foresta che Cresce, un progetto semplicissimo ma di grandissimo impatto sociale, che permette nel concreto di lavorare sull’integrazione.
Queste le parole del manifesto che presenta l’iniziativa:
“Noi giovani vogliamo essere una foresta che cresce e non più alberi che cadono, perché siamo stanchi di veder cadere tanti nostri amici, vittime della violenza, del crimine, delle droghe e della mancanza di sogni e prospettive. È questo il grido che viene da tanti giovani brasiliani, coscienti della società in cui vivono e che si impegnano per la pace, la giustizia e la solidarietà…
Giovani di età e di spirito, diocesi, gruppi di giovani, scuole, università, chiese e ogni altra organizzazione interessata, sono invitati a promuovere azioni di solidarietà concreta per rispondere alle necessità più urgenti nell’ambito della propria realtà, comunità, quartiere… (es. Campagne di raccolta di alimenti, vestiti, medicine; aiuti per le vittime delle catastrofi naturali; donazioni di sangue; visite alle carceri minorili, agli ospizi, ecc.).
L’idea è di unire gli sforzi di tutti, giovani, uomini e donne di buona volontà, che non vogliono abituarsi al rumore dei tanti “alberi” che cadono e che scelgono la speranza, partendo da gesti possibili e necessari di solidarietà e giustizia…
Se il rumore di tanti giovani che cadono è una tragedia, la nostra speranza è che il suono forte di tanti giovani che producono, raccolgono, aiutano e distribuiscono, possa motivare tanti altri giovani a essere alberi sani della Foresta che cresce”.
Decine di azioni di solidarietà sono state messe in atto da giovani, scuole, parrocchie, gruppi di vario tipo ma anche dalle persone accolte presso l’Arsenale, uomini provenienti da diverse zone del Brasile, senza fissa dimora, che sono stati coinvolti in vari modi per il recupero di aree del quartiere in cui si trova l’Arsenale.
Un modo concreto per cambiare i punti di vista, sia quello delle persone che vivono nel quartiere sia di coloro che vivono all’Arsenale.
Chi vive nel quartiere riceve un servizio di grande utilità sociale: pulizia delle strade e di giardini pubblici, tinteggiatura di scuole o ricoveri per anziani, tutte azioni che passano un’immagine diversa dei senza tetto, un’immagine di assunzione di responsabilità e di cura dell’ambiente in cui vivono, diversamente dallo stereotipo di violenza, paura e menefreghismo che grava su loro.
Qualcosa, però, succede anche per chi l’azione la mette in atto. Si confrontano, infatti, con un’immagine diversa di loro stessi, portano a termine un progetto, finiscono qualcosa che iniziano e solo con le loro forze e prendendosi cura di qualcosa si prendono cura anche della loro vita.
Ecco allora come un luogo si trasforma in maestro.
Un maestro, ovviamente, fatto delle persone che ci vivono, che sanno accogliere le storie di chi passa senza rinchiuderle o nasconderle, ma condividendole con la società che li circonda, provocando un processo di integrazione che elimina stereotipi e offre occasioni di riscatto.

Una casa per volare

Bruna è un’amica del Centro Documentazione Handicap di Bologna.
Un paio di anni fa ci ha telefonato ed è venuta a conoscerci, voleva parlare con Claudio Imprudente per avere un confronto e invitarci ad andare a trovarla in Africa. Ricordo molto bene quel giorno.
Seguiva di un paio di settimane un nostro viaggio a Belgrado, dove ci eravamo recati per parlare di de-istituzionalizzazione e integrazione.
Fu molto interessante perché, mentre raccontavamo a Bruna del grande passo che la Serbia stava facendo decidendo di chiudere gli istituti e perseguire quindi una reale integrazione, lei ci riportò con i piedi per terra con questa frase: “Magari avessimo degli istituti in Tanzania!”.
Una volta ancora, la vita ci mostrava che ha molte più sfumature di quelle che noi immaginiamo e, mescolando le carte in tavola, rivelava che, ciò che da una parte può sembrare un limite all’integrazione e alla dignità personale, da un’altra è una risorsa e uno strumento per accrescere l’accoglienza e l’accettazione.
Ecco allora che il rapporto instaurato con Bruna e l’associazione Nyumba Ali, assume importanza in quanto portatrice di un nuovo punto di vista, di quel caos buono che, mostrando altre sfaccettature della realtà, porta a una visione più completa della vita.
Ma conosciamo un po’ meglio, attraverso il sito e alcune e-mail che ci ha inviato, Bruna e la sua associazione.
“Il nome della nostra Associazione indica il legame tra la realtà italiana e quella tanzaniana. ‘Nyumba’ in kiswahili significa ‘casa’, mentre ‘Ali’ è parola italiana: una casa con le ali, quindi, per far volare in sicurezza anche chi ha solo un sorriso col quale affrontare la vita.
Abbiamo realizzato una casa perché crediamo che la garanzia di cibo, letti e assistenza sia indispensabile, ma vogliamo anche favorire lo sviluppo delle potenzialità rimaste inespresse e il riappropriarsi della dignità di persona, insegnare a leggere, a scrivere, a disegnare, ad avere libertà di espressione”.
L’Associazione nasce dall’intuizione e dalla volontà di Bruna e Lucio “di trascorrere l’ultima parte della loro giovinezza dedicandosi ai più diseredati dei diseredati, alle bambine handicappate di un Paese in cui il valore e i diritti dei bambini, anche maschi, sono in genere misconosciuti.
Nasce così nel 2006, dopo alcuni anni di gestazione, la casa per volare… In poco tempo la famiglia si è allargata, è stato assunto personale locale, che stiamo preparando in modo adeguato. Uno degli obiettivi è infatti quello di rendere in futuro la gestione della casa indipendente dalla presenza dei volontari stranieri dell’Associazione e di convogliare attenzione e opere dei locali sul problema dei bambini con handicap”.
La vita di una casa è fatta soprattutto di storie, quelle delle persone che la abitano e che portano Bruna e i suoi compagni di avventura a incontrare ogni giorno le difficoltà ma anche le speranze di un paese come l’Africa. Attraverso le e-mail che ci inviano da Iringa, anche noi ci sentiamo abitanti di quella casa, conviventi di un mondo che ci appartiene anche se distante.
“Venerdì si presenta al cancello Rosamunda, sorella di Ageni, gonna e maglietta pulite, ai piedi una valigetta tutta rotta. Come la sorella, ha terminato la scuola primaria… È partita dal villaggio per andare a Mbeya, città dove vivono degli zii presso i quali starà presumibilmente per molti anni. Deve prendere la corriera, ma non sa dove andare e non ha il numero di telefono dello zio. Il cervello elabora rapidamente soluzioni che si riveleranno tutte inadeguate. Ageni però ha il numero di cellulare dello zio. Rosamunda non capisce la telefonata, sempre con gli occhi a terra e bisbigli incomprensibili. Interviene Ageni, parla con lo zio e il programma è chiarissimo: Rosamunda deve andare all’incrocio con la strada che porta al villaggio natio, fermarsi a dormire a casa di un certo Focas e l’indomani prendere il bus per Mbeya. E come raggiungerà il villaggio?
Guardo questo piccolo scricciolo spaurito e so che non sarò capace di mandarla via, io vedo una bimba di 13 anni, gli altri una donna capace di badare a se stessa e ai fratelli. Carico la tribù in auto e parto per l’incrocio fatidico, durante la strada Rosamunda parla in continuazione con la sorella, entrambe ridono e si raccontano storie sui fratelli. Raggiungiamo l’incrocio: tre baracche, una adibita a spaccio d’alcool, donne e uomini che ci tempestano di domande, ma Focas dov’è? Racconti di abusi, storie di bambine sfruttate affollano la mia mente. L’affido a una donna (il vecchio vizio di credere che le donne siano sempre migliori), cincischio sotto sguardi che non so interpretare e finalmente arriva Focas, berretto giallo calato a coprire la fronte, oddio non mi fido! Telefoniamo allo zio, lo facciamo parlare con Focas, mi riprendo, saluto tutti e salgo in macchina, ma prima devo pagare il tributo al villaggio: portare in città due “professori” della scuola. Ageni è tranquilla e mi racconta tutti i pettegolezzi della sorella. Che abisso tra Rosamunda che attraversa da sola la Tanzania, sbattuta tra un Focas e l’altro e le nostre tredicenni. Sabato Ageni ha telefonato agli zii, Rosamunda era giunta sana e salva”.
“Sono finalmente stati pubblicati i risultati degli esami dell’ultimo anno della primaria: Ageni è stata promossa e accettata in una delle tre scuole statali che aveva indicato come scelta. Per precauzione l’avevamo iscritta in una scuola privata e aveva già passato l’esame d’ammissione, ma ora che c’è la possibilità di una scuola pubblica semigratuita pensiamo che si debba tentare, domani andremo a visitarla e a prendere tutte le istruzioni del caso… Confesso di temere l’ingresso di Ageni nella secondaria, so che non riuscirò a tacere quando l’insegnante di matematica sosterrà che l’area del triangolo isoscele si trova moltiplicando lato per lato e poi dividendo per due, so che mi verrà mal di fegato, so che non accetterò definizioni sbagliate e l’uso del bastone come prassi didattica quotidiana, so che non riuscirò a fingere rispetto per gli insegnanti, so che combinerò dei guai”.
“Ageni ha superato l’esame di settima e conquistato il diritto di frequentare una secondaria tra quelle da lei indicate: a pagamento solo la divisa e una modesta tassa scolastica. L’istituto pubblico cui è stata assegnata, però, è irraggiungibile sia con la carrozzina sia con il fuoristrada; è tra le carceri e l’ospedale (scelta simbolica?), giù per un dirupo che si può affrontare solo a piedi: da un lato una sbarra, che impedisce di passare davanti alle carceri, dall’altro lo steccato dell’ospedale con un piccolo cancello pedonale.
Perché Ageni ha indicato una scuola irraggiungibile?
Perché l’hanno scelta i compagni, perché è una scuola nuova, perché non c’è un perché.
Bisogna chiedere un cambio d’istituto, senza possibilità di scelta, l’ennesima decisione da prendere in tempi rapidi e senza informazioni: quale scuola? Lontana? Quali e quante barriere? Qualità?Alla fine abbiamo scelto il certo al posto dell’incerto.
Ricordate che Ageni aveva superato l’esame per entrare in una scuola privata? L’abbiamo iscritta lì e solo dopo l’iscrizione abbiamo capito che era molto felice di frequentare quella scuola, prima non aveva mostrato alcun gradimento o desiderio. A settembre, quando l’ho accompagnata a parlare con la preside, mi ha tenuto il muso tutto il giorno, refrattaria, come sempre, a qualsiasi nostro tentativo di comprendere. Ora vivo più serenamente perché ho capito che, anche senza la mia interpretazione, umor nero, silenzi e musi lunghi se ne andranno.
Dopo un notevole salasso economico, la scuola è iniziata e per ora tutto procede bene, molto bene. Ieri Ageni è tornata a casa con un sacco pieno di saponette, matite, penne, quaderni, frutto di una colletta tra tutte le studentesse. È il primo, concreto, gesto d’aiuto che riceviamo da quando siamo qui. Ageni era felice e noi con lei: sapone, penne, quaderni, colletta sono un importante segnale.
Abbiamo scritto una lettera di ringraziamento e ci gustiamo la gioia di ricevere un dono, dopo anni di richieste di tutti i tipi”.“Sahele è un bimbo Down, è venuto da noi l’anno scorso, incontenibile e ingestibile perché la mamma gli lascia fare qualunque cosa purché stia buono. La richiesta: vivere in casa nostra ma l’obiettivo della madre non era l’inserimento, era liberarsi di lui per tutto il giorno e forse per la vita intera. E così Sahele spesso non veniva accompagnato a scuola e la madre, a intervalli regolari piombava a casa nostra con richieste di tutti i tipi. Sahele, come altri bambini, non è amato dalla madre. Dopo varie ricerche abbiamo trovato una scuola-collegio statale per bambini con disabilità mentale e visiva, siamo andati più volte a visitare il centro e ogni volta abbiamo trovato una situazione che in Italia farebbe urlare di protesta, ma che qua è più che accettabile.
Abbiamo caricato in auto Sahele, la mamma, un materasso, un bidone, una zanzariera e siamo andati per il colloquio con lo psicologo che, scoperto che la donna bianca avrebbe pagato la retta, ha accettato l’iscrizione.
E il miracolo: nella scuola-collegio statale si entra senza materasso e senza pagare nulla, solo pochi spiccioli per il barbiere e il sapone! Non è possibile, Lucio e io ci siamo guardati in attesa della richiesta di soldi sotto forma subliminale, niente! Gratuiti persino quaderni, penne e righello, senza il quale non si può imparare nulla.
La mamma se ne va senza salutare e Sahele piange disperato, la mamma lo accompagna in bagno, chiude la porta e se ne va. Siamo ritornati con il materasso e una mamma che sembrava contenta di non avere più un peso da portare.
Per Sahele è iniziata una nuova fase, non sappiamo se meglio o peggio, ma speriamo possa imparare a fare piccoli lavoretti.
Ho sempre creduto nell’istruzione, nella formazione, ho sempre pensato che la scuola sia necessaria come la Costituzione e da quando vivo a Iringa sono ancora più convinta che il senso critico, la curiosità, la conoscenza siano le fondamenta dello sviluppo, qualunque cosa questa parola abusata significhi.
Un abbraccio
Bruna”.

L’esperienza di Bruna, come quella di tutti coloro che vivono realtà di confine, ci porta a confrontare la realtà e l’ideale. Scopriamo così che l’ideale senza la realtà diventa illusione ma la realtà senza l’ideale diventa disperazione. Ecco allora che Bruna, Lucio e la loro Nyumba Ali sono esempio, per tutti noi, di una realtà che vola sulle ali dell’ideale, quello di permettere a tutti una vita dignitosa e integrata.

Una chiacchierata con gli animatori del Progetto Calamaio

Il Progetto Calamaio è rivolto ai bambini e ai ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado e parte dalla nostra esperienza personale, dall’accettazione della nostra diversità, dalla consapevolezza di come noi ci mettiamo in relazione con gli altri, dal nostro percorso individuale di crescita personale come individui, persone con disabilità, professionisti dell’educazione e formazione.
Tutto ciò è assolutamente necessario per poter parlare di diversità e di accettazione di sé come si può evincere dalle parole di Tiziana e Lorella, due animatrici del progetto.

I primi giorni che frequentavo il Calamaio, già avevo accettato la mia situazione di non poter camminare da sola. Però ogni tanto mi veniva in mente e allora mi rattristavo. Poi uno dei primi giorni Sandra mi ha detto che per poter andare nelle scuole bisognava fare un percorso di accettazione di sé.
La prima volta che entrai in classe ero molto timorosa perché non accettavo in nessun modo che i bambini mi facessero delle domande riguardo il mio aspetto fisico, lo trovavo imbarazzante. Per la persona disabile all’inizio andare nelle classi è difficile, è stato traumatico per me, perché i bambini mi facevano e mi fanno notare come cammino, fanno delle osservazioni legate al mio aspetto fisico e al mio parlare lentamente e all’inizio stavo male perché non lo volevo accettare, ma con il passar del tempo e con l’aiuto degli educatori ho superato il mio imbarazzo e la mia difficoltà. È necessario fare questo passaggio per andare a lavorare nelle classi perché vogliamo fare capire che le persone disabili sono e vogliono essere parte attiva nella società, ma per fare questo dobbiamo prima essere consapevoli noi disabili del nostro deficit e accettarlo. Solo questo permette di andare in classe e parlare liberamente di handicap e integrazione e non solo nelle scuole, ma nella vita in generale.
Lavorare al Progetto Calamaio significa far parte di un mondo sempre aperto ai cambiamenti e alle novità, dice Tatiana sottolineando una peculiarità del progetto stesso, quella di potersi riadattare, rimodellare e di essere versatili a seconda delle situazioni, dei gruppi con cui veniamo a contatto e delle loro richieste formative.
Non solo questo però: il nostro obiettivo, infatti, è anche quello di far emergere le capacità personali (sulle incapacità c’è fin troppa attenzione), dare spazio alle proprie passioni e metterle a disposizione in campo lavorativo e non solo.
Le prime volte che sono andata nelle scuole come animatrice, racconta Stefania M., avevo un po’ paura soprattutto a causa del mio deficit e della mia difficoltà a farmi capire. Nonostante questo riesco lo stesso a fare il mio lavoro, perché con il Progetto Calamaio anche chi ha delle difficoltà può lavorare. Questo lavoro mi ha aiutato ad aprirmi di più e a esprimere le mie idee senza paura. Inoltre le cose che ho imparato qui e che mi hanno permesso di crescere – come la fiducia in me stessa, la soddisfazione del poter realizzare qualcosa in autonomia – posso portarle anche in altri ambiti, aiutando così altre persone a superare le loro paure con l’arricchimento della mia esperienza. Tiziana aggiunge che andare nelle scuole mi rende talmente contenta che provo una gioia talmente tanto forte e talmente tanto grande da provare un senso di commozione e tutte le mattine quando ci sono gli incontri mi dico: che bello, vado dai miei bambini. Che non è vero che sono i miei bambini, però provo un senso di gioia e di tenerezza che mi porta alla commozione.

Di seguito un elenco degli strumenti che sono nati dall’esperienza e poi diventati anche il nostro specifico metodo di lavoro.
la nostra esperienza messa a disposizione dei bambini e del loro desiderio di sapere e di conoscere, infatti, sottolinea Stefania M., con il Progetto Calamaio si possono scoprire le proprie capacità e la voglia di raccontarsi (cosa che non è da tutti!). E qui al Calamaio posso mettere in campo tutte le mie capacità, cosa che prima non accadeva perché ero sempre seguita da qualcuno;
le emozioni che nascono dall’incontro fra noi e i ragazzi, le nostre e le loro (paura, gioia, difficoltà, imbarazzo, felicità per il superamento della difficoltà, ecc): Penso che l’effetto sorpresa durante il primo incontro sia una geniale trovata, aggiunge Mattias, perché vedo con i miei occhi che si ottiene un rapporto di pieno coinvolgimento tra noi disabili e i bambini; ritengo infatti che sia giusto non informare i bambini dell’arrivo in classe di persone disabili perché così facendo possiamo constatare la sincerità delle loro emozioni e di conseguenza lavorarci sopra. Riguardo a me penso che questo sia un discorso molto importante perché noi andiamo a intervenire prima che i bimbi mettano in atto i loro schemi mentali e si chiudano con le imposizioni e le restrizioni imposte da una società che ci vuole tutti sullo stesso standard, belli e perfetti. Inoltre apprezzo moltissimo il fatto che le menti dei bimbi siano un po’ come lenzuola pulite, candide, pronte da macchiare con il nostro ormai famoso inchiostro;
il contatto fisico fra noi e i bambini che si realizza nei giochi e nelle attività, scelte appositamente per accorciare le distanze fra noi e loro – attraverso il contatto avviene un incontro più intimo e diretto – e per abbattere lo stereotipo legato al fatto che il corpo del disabile è fragile e “intoccabile”. Attraverso quei giochi noi ci divertiamo moltissimo insieme ai bambini e il divertimento prende velocemente il posto del timore. Non solo nei bambini ma anche, come spiega Susanna, una collega disabile da poco entrata a far parte del nostro gruppo, in noi: Sono contenta di svolgere questa attività all’interno del Progetto Calamaio perché spero di poter cambiare (anche di poco) la mentalità di certe persone riguardo alla disabilità. Mi piacerebbe provare ad abbattere, anche se forse è un obiettivo un po’ ambizioso, certe formalità, certi pregiudizi, certi stereotipi, certi “non puoi” di troppo. In particolare mi dà fastidio essere considerata da molti come una bambola di cristallo fragilissima, solo perché sono magra e ho qualche articolazione dolente. Non ho ancora fatto esperienza nelle scuole ma mi piacerebbe molto perché questo mi permetterebbe di avere un contatto fisico con i bambini, cosa che difficilmente riesco a ottenere con gli adulti;
la creatività come pensiero divergente: se il problema è nuovo deve essere nuova la risposta. E la risposta la possiamo inventare noi attraverso la nostra intelligenza creativa.
Un elemento altrettanto importante, e in strettissima relazione con la creatività, dice Mario Fulgaro, è la fantasia (non certo la mia, ma quella dei bambini). Fare leva sulla loro fantasia agevola ogni mio incontro. Quindi cerco di dare quanto più è possibile adito a tutto ciò che mi viene trasmesso, e in base a questo cerco di sviluppare un canale di relazione. “Conduco e mi faccio condurre” potrebbe essere lo slogan di ogni mio incontro, così da rendere il più consono possibile a chi mi sta di fronte, il mio linguaggio e il mio modo di pormi. È sempre la fantasia che aiuta a solleticare e ad accrescere la curiosità dei bambini di fronte a tutto ciò che appare loro diverso. La curiosità, a sua volta, spinge a piccoli passi chiunque ad affrontare ciò che lo circonda. È una sorta di “mettersi in gioco” con tutto il proprio modo di essere e tutto il bagaglio di conoscenze acquisite e ancora da acquisire. Questo favorisce un interscambio di emozioni e sensazioni arricchenti e condivise. La conoscenza di chi ci sta accanto abbatte ogni barriera pregiudiziale facilitando ogni forma di dialogo, di scherzo e di gioco;
il gioco, la musica, i racconti sono strumenti per noi indispensabili per parlare lo stesso linguaggio dei bambini, per creare un clima piacevole e divertente, per favorire un contesto di relazioni e di creatività e, proprio come scrive Tatiana, in modo tale che attraverso il divertimento possano dimenticarsi per un attimo dei nostri deficit, apprezzandoci come persone capaci di educarli e regalar loro momenti piacevoli.
Il nostro obiettivo, continua Stefania M., è quello di raccontare ai bambini la nostra vita e tentare di avvicinarli a un mondo a loro sconosciuto attraverso il gioco. Questo lavoro non è da tutti: quando ho iniziato non avrei mai creduto di poter lavorare in questo modo.
Chiudiamo con le parole di Mario, riassunto del nostro stile ma anche obiettivo che dobbiamo continuare a perseguire: il gioco è lo strumento migliore per insegnare senza annoiare, per imparare senza dimenticare, per apprendere per poi far apprendere ad altri.

La posta del cuore secondo David Grossman

Professionisti del giornalismo, soubrette più o meno incapaci, donne, uomini, preti e psicologi, cantanti e politici hanno reso la posta del cuore una delle rubriche più presenti e più lette della stampa nazionale (e non solo), facendola diventare un importante strumento di assistenza sociale, di sostegno e di consiglio, uno spazio virtuale nel quale riversare le proprie pene d’amore e trovare consiglio.
Chi non ha avuto, in adolescenza come in età adulta, l’istinto di mettersi lì e raccontare i propri dilemmi d’amore a una persona più o meno sconosciuta?
In questo, infatti, sta il segreto della longevità della posta del cuore: la non conoscenza tra chi scrive e chi legge. Questo elemento permette a chi scrive di non avere remore, di raccontare tutto, di fare dichiarazioni che mai avrebbe fatto, di piangere o esaltarsi senza vergogne; permette invece a chi legge di offrire un punto di vista non pregiudiziale, né in positivo né in negativo, di dare consigli spassionati e offrire un’opinione senza peli sulla lingua.
Spero quindi non si offenda David Grossman – lo scrittore contemporaneo che stimo di più – se mi permetto di paragonare e un po’ trasformare il suo Che tu sia per me il coltello in una sorta di lunga posta del cuore.

Myriam,
tu non mi conosci e, quando ti scrivo, sembra anche a me di non conoscermi. A dire il vero ho cercato di non scrivere, sono già due giorni che ci provo, ma adesso mi sono arreso. Ti ho vista l’altro ieri al raduno del liceo. Tu non mi hai notato, stavo in disparte, forse non potevi vedermi. Qualcuno ha pronunciato il tuo nome e alcuni ragazzi ti hanno chiamata “professoressa”. Eri con un uomo alto, probabilmente tuo marito. È tutto quello che so di te, ed è forse già troppo. Non spaventarti, non voglio incontrarti e interferire nella tua vita. Vorrei piuttosto che tu accettassi di ricevere delle lettere da me (ogni tanto) scrivendo. Non che la mia vita sia così interessante (non lo è, e non mi lamento), ma mi piacerebbe darti qualcosa che altrimenti non saprei a chi dare. Intendo qualcosa che non immaginavo si potesse dare a un estraneo. Inutile dire che questo non comporta obblighi da parte tua, non devi fare nulla (sono quasi certo che non mi risponderai).

(Brano tratto da David Grossman, Che tu sia per me il coltello, Milano, Mondadori, 1999, p. 11)

Yair,
un giorno hai visto Myriam di lontano, mentre si stringeva nelle braccia, un gesto impercettibile che solo tu percepisci. Basta questo per scatenare in te un sentimento di commozione e di passione, che ti spinge a scrivere a quella donna vista solo da lontano.
Non vi conoscete, ma iniziate a scrivervi. E vi scrivete d’amore, del vostro amore.
Si sviluppa quindi un carteggio tra due sconosciuti che parlano d’amore, delle difficoltà e degli slanci del cuore, della passione e della paura.
Tu diventerai il coltello per lei e viceversa, penetrerete e taglierete fino in fondo la vostra intimità, separerete, con questo incontro, un prima da un dopo.

Scrivo così a caso, per non pensare. Per resistere alla tentazione di sfogliare le pagine e di tornare a incontrarlo. Incontrare te. Tu, tu. Dove sei ora? Come fai a non sapere che qui c’è un regalo che ti aspetta? Come hai potuto non sentirlo? Sono stata con te un’intera settimana, attraverso le parole. Decine e centinaia di pagine prima di questo foglio. Mentre scrivevo mi sentivo come un guscio di noce in balia delle onde, e adesso penso che avrei dovuto aggiungere una premessa, all’inizio del quaderno, oppure un commento alla fine. Ma cosa avrei potuto scrivere? Forse quello che ti ho detto una volta: secondo me, svelare a una persona qualcosa che non sa di se stessa è un grande dono d’amore. Il più grande.
Ho anche pensato che se tu avessi letto le tue lettere in ordine cronologico, senza le mie, dalla prima all’ultima, avresti potuto scoprire parecchie cose sul tuo conto. Non solo “negative”, come quelle che tu, spesso, ti mostri ansioso di rivelare. Così avresti potuto cominciare a considerare te stesso da un punto di vista diverso, il mio per esempio. Ma ti dirò tutto questo quando ci incontreremo a tu per tu. Ora, ti prego, non disturbare, lasciamo in pace, Yair. C’è dell’altro che voglio scrivere qui.

(Brano tratto da David Grossman, Che tu sia per me il coltello, Milano, Mondadori, 1999, p. 240)

Myriam,
le vostre lettere, messe in ordine cronologico, descrivono l’abisso delle emozioni, sia femminili che maschili, con una chiarezza immediata.
Si legge l’animo umano, diventa comprensibile a tutti, stralci d’amore che parlano la stessa lingua del cuore di noi lettori.
Come una montagna russa ci si sente lontani e poi subito vicinissimi al sentimento che esprimete, così tanto che a volte ti coglie il desiderio di chiudere il libro, per quanto ti faccia sentire nudo, svelato. Ma non puoi, perché speri che, lettera dopo lettera, questo dialogo sveli qualcosa in più di te stesso, di ciò che anche tu fatichi a comprendere.

Tu sai che sono un po’ lenta, tanto più se paragonata a te. Ma da ieri la mia mente si va schiarendo e capisco facilmente cose che prima mi sembravano complicate. Per esempio, che in nessun caso vorrei voltare le spalle a quello che c’è tra noi. Sono disposta ad aspettare quanto occorre, quanto ti occorre. Perché “quello che c’è tra noi” merita l’attesa. Anzi, c’è tempo. Così mi sembra oggi. La vita è lunga e anche un mazzetto di trenta colchici è splendido. Yair, non credo che tu sia la persona in grado di guarirmi dalle ferite interiori; ma forse, in questa fase della mia vita, non ho tanto bisogno di un medico quanto di una persona che ha una ferita simile alla mia.
(Brano tratto da David Grossman, Che tu sia per me il coltello, Milano, Mondadori, 1999, pp. 244)

Yair, Myriam
avete ferite comuni, dolori e fatiche quotidiane, insoddisfazioni e disfatte.
Ferite come radici, dalle quali trae nutrimento il vostro amore virtuale, come davanti a uno specchio riconoscete la vostra vita in quella dell’altro.
In questa terra di mezzo, nella quale ciò che non si conosce diventa conosciuto, sperato e desiderato superate le paure mantenendo una distanza di sicurezza. La corrispondenza diventa un mezzo per esprimere e raccontare la passione mantenendo uno spazio difeso dentro il quale muoversi, evitando quindi un confronto effettivo e definitivo con la realtà.
O forse no.
In fondo anche la vostra corrispondenza è reale, molto più di tante storie d’amore nelle quali viene meno proprio la comunicazione dei sentimenti più profondi, nella quale la nudità fisica va a sostituire quella dell’animo, ben più preziosa e difficile da raggiungere. Yair e Myriam, in fin dei conti siete nudi, uno di fronte all’altra, perché, lettera dopo lettera, vi siete svelati.
Una nudità però solo apparente, troppo fragile.

Sai, in quest’ultimo periodo ho pensato che abbiamo parlato sempre poco di cose che andassero al di là della nostra sfera personale. Ricordo che più di una volta, prima di sedermi a scrivere, ho deciso di raccontarti almeno una cosa che mi era accaduta nel mondo “esterno”, di portare qualcosa della “realtà” nella nostra sfera. Di ampliarla un po’. Ma credo di non esserci mai riuscita. Quello che avevo da raccontarti di noi due era sempre più forte e impellente… Ma quanto tempo, secondo te, una cosa del genere può continuare senza stimoli esterni, quotidiani e reali? E quando tempo sarebbe trascorso prima che questa intimità ci soffocasse? Pensi che qualcuno possa effettivamente vivere così per tutta la vita? (Ora, in questo momento, sento che all’interno di questa intimità potrei davvero ricominciare a respirare)
(Brano tratto da David Grossman, Che tu sia per me il coltello, Milano, Mondadori, 1999, p. 292)

Yair, Myriam
la vostra stessa intimità vi ha soffocato, un’intimità alla quale è venuto a mancare l’ossigeno, un orizzonte ampio che le permettesse di guardare altrove. Il vostro è stato un amore che ha curato e che, come ogni cura, raggiunto l’obiettivo termina, prima di provocare un’altra malattia.
Ogni posta del cuore, in effetti, come la vostra, non può essere infinita, ma deve trovare una via di uscita per trasformarsi in storia, in incontro; lasciare la carta per trovare spazio sulla terra, il sogno per incontrare la vita, la paura per l’infinito… fare in modo, come dici tu Myriam “che tutte quelle migliaia di parole diventino corpo”.
Purtroppo ciò non è successo.
L’addio, sotto la pioggia, è uno sguardo, veloce, malinconico, una fuga da questo amore troppo parlato e poco vissuto.

La forza di gravità del cielo

Lo Spazio Calamaio, negli ultimi numeri, ha ospitato diverse esperienze che, in modi diversi, presentassero elementi comuni con la filosofia che sta alla base del Progetto Calamaio.
Come spesso accade, sono le esperienze stesse che ci vengono a cercare, per contaminarci e farsi contaminare, in linea con lo stile calamaio: macchiare e farsi macchiare o, meglio, dare il proprio inchiostro e farne entrare altro, mescolarsi e arricchirsi.
Proprio secondo questa filosofia, mi sono iscritto e ho partecipato ad alcuni laboratori organizzati a Bologna.
Ogni anno infatti, il Teatro Testoni Ragazzi, propone, all’interno di “Visioni di Futuro, Visioni di Teatro – Festival internazionale di teatro e cultura per la prima infanzia”, una serie di laboratori per insegnanti ed educatori, momenti di formazione su tecniche e contenuti legati a esperienze teatrali: non per diventare attori, bensì pensati per arricchire il bagaglio culturale e la professionalità dei partecipanti. In altri termini, proposti per riempire il proprio personale calamaio con altri tipi di inchiostro, che mischiandosi a quello esistente, provocherà una trasformazione, un’evoluzione, una crescita e, quindi, un nuovo modo di macchiare.
“La voce e la sua espressione”, condotto da Germana Giannini (insegnante e performer, si occupa di ricerche antropologiche sull’uso della voce con la finalità di generare un contatto autentico con la dimensione del canto) è stato uno dei laboratori a cui ho partecipato.
Premetto che io e il canto siamo stati per anni acerrimi nemici. Fin da bambino, infatti, il mio desiderio di cantare si è scontrato con una voce a dir poco sgradevole, fatto che però non mi ha impedito di continuare a gracchiare, allenando nel tempo le mie corde vocali fino ad arrivare a emettere un suono accettabile.
Nonostante questo, non posso evitare un certo imbarazzo nel cantare davanti ad altri… Se a questo si aggiunge il fatto che in un gruppo di 20 persone, eravamo solo due uomini, potete facilmente immaginare quanto fossi a mio agio nel partecipare al laboratorio.
Non mi lascio comunque prendere dal panico, anzi vivo il tutto come una bella sfida da affrontare.
Germana inizia spendendo due parole sul significato del laboratorio, del canto e della voce. Il canto non è frutto dello sforzo dei muscoli della gola, bensì è la vibrazione del respiro in tutto il corpo, respiro che, appoggiandosi alla struttura ossea e infilandosi nei vari anfratti definisce i confini del luogo interiore, dello spazio nel quale la voce assume forma prima di uscire. Attraverso la chiarezza della poesia, dice Germana: “È l’oscurità interna al corpo che permette alla luce della voce di risplendere, suggerendo la configurazione del proprio intimo spazio che si lascia intuire senza che chi ascolta debba sforzarsi di capire. L’anima pone nell’oscurità il suo nascondiglio. La voce lo illumina”.
Radicarsi a terra, sentirsi ancorati al suolo e riconoscere il nostro legame con il basso, con la terra che, parallelamente, ci permette anche di sentire l’attrazione verso l’alto, quella forza di gravità del cielo che permette di sviluppare la voce, lungo il nostro strumento-corpo, dal basso all’alto e viceversa. Ecco allora che il laboratorio ci porta a far viaggiare la voce dal bacino agli zigomi, dalla A alla E, dall’espressione di un suono grave a uno acuto. Un percorso che coinvolge tutto il corpo, diverse sfumature della voce, vari movimenti e differenti posture. Un percorso spiegato e guidato, che dalla terra ci ha portato al cielo, dall’imbarazzo ci ha portato alla condivisione, alla libertà che solo un gruppo accogliente può darti.
Il gruppo!
Soggetto importantissimo in questo laboratorio, significante e significato del lavoro svolto.
Significante in quanto spazio, confine-canale, dentro il quale il gesto vocale collettivo si esprime e si trasforma diventando liberante.
Significato in quanto grazie a esso il gesto vocale si realizza pienamente. È il noi che diventa il vero canale espressivo. Ed è il centro del cerchio il vero noi, non il cerchio stesso.
Parole importanti per sottolineare il valore aggiunto del gruppo, come luogo di confronto, di crescita e di comunione. Come spazio nel quale essere e diventare, dare e ricevere, riempire e riempirsi. Luogo nel quale la specificità di ognuno viene valorizzata e resa funzionale al risultato finale, alla creazione del gruppo stesso.
Come nel canto, così in ogni relazione educativa.
Mi viene allora spontaneo un paragone tra ciò che succede tra voce e gruppo, come spiegato sopra, e il concetto di inclusione.
Questo termine si pone in continuità con quello di integrazione, portando una differenziazione più a livello linguistico che di significato. Anche se, approfondendo proprio il significato, l’inclusione porta a fare un passo in avanti sottolineando il fatto che l’inserimento di una persona con caratteristiche specifiche, all’interno di un contesto, può e deve portare a ricadute favorevoli a tutto il contesto. Ancora, il contesto di inserimento viene connesso ad altri contesti, in un processo ecosistemico, che provoca quindi ricadute positive in modo contaminante.
Ecco allora che, secondo questa logica, il canto – e tutte le attività che, coinvolgendo la persona come singolo, la portano a entrare in un determinato contesto – non è solo strumento di inclusione, bensì strumento per imparare l’inclusione.
La didattica scolastica, l’allenamento sportivo, il laboratorio al centro giovanile e perfino il luogo di lavoro, sono sicuramente spazi nei quali è possibile praticare l’inclusione, come intesa sopra, ma sono altresì strumenti utili per insegnare cos’è l’inclusione.
In questi luoghi, infatti, al di là della presenza o meno di persone con disabilità, lo stile relazionale può essere comunque inclusivo, cioè può tener conto delle caratteristiche speciali di ognuno. Il contesto diventerebbe quindi uno dei soggetti dell’ecosistema, provocando un circolo vizioso di apprendimento di modalità relazionali inclusive. L’esperienza fatta rimarrebbe come una macchia di inchiostro che, non solo fungerebbe da memoria, ma porterebbe a macchiare a sua volta altri contesti, altre persone, altre idee.
Un sistema aperto, pronto a scambiare, a ricevere, mischiare i propri inchiostri.
Tornando al canto, un gruppo nel quale la voce di ognuno possa esprimersi, anzi nel quale il gruppo stesso sia fondato sull’idea che l’espressione di ognuno sia necessaria per il raggiungimento degli obiettivi e per il massimo benessere di tutti.
Il laboratorio finisce, tre ore trascorse velocemente, tra esercizi, emozioni e inclusione.
Di cosa ho riempito il mio calamaio?
Sicuramente della forza di gravità del cielo.
Cioè dell’idea che c’è un altro punto di vista, altre direzioni. Abituati a pensare e conoscere solo la forza di gravità che ti tiene ancorato al suolo, facciamo fatica a scorgere intorno a noi altre forze, che possono venirci in aiuto. Come quella del cielo, per l’appunto. Direte che mentre una è reale e scientificamente provata, l’altra non esiste. Direte che la prima ti stabilizza mentre la seconda ti destabilizzerebbe. Direte che una ti permette la profondità, mentre con l’altra corri il rischio di avere sempre la testa tra le nuvole.
Beh, io dico che una è reale e scientificamente provata, l’altra invece esiste in quanto desiderio, capacità di scorgere altri orizzonti, di alzare lo sguardo e puntare in alto. Dico che la prima stabilizza mentre la seconda destabilizza: che male c’è? L’equilibrio è ricerca, non è una situazione statica, è il continuo inseguire il punto di sospensione che ti permette di non cadere… Allora un po’ di destabilizzazione aiuta a non dare nulla per scontato. Dico anche che una ti permette la profondità, mentre con l’altra puoi volare, spaziare all’infinito, sognare, sperare, creare e credere ad altri modi possibili. Non c’è contrapposizione quindi, bensì complementarietà.
Ecco di cosa ho riempito il mio calamaio, di questo nuovo atteggiamento, di queste complementarietà: realtà e desiderio, stabilità e destabilizzazione, profondità e infinito.

Spazio Calamaio – Un gioco che si può trasformare in qualcosa di più: capire

A cura di Roberto Parmeggiani

3 marzo 2008 – lunedì
“Cosa c’è in quello scatolone?”
“Mah non lo so, è arrivato venerdì…”
“Beh adesso lo apro”

“Ahhhh… ma è il libro!”

Sapete quando aspettate tanto una cosa, la desiderate, non vedete l’ora di averla tra le mani?
E poi quando arriva non ve ne rendete conto subito?
Ecco, a noi è successa la stessa cosa.
Il tanto atteso libro del Calamaio Storie di Calamai e altre creature straordinarie (Ed. Erickson, 2008) è arrivato ma prima di realizzare che era lì, chiuso dentro quello scatolone, è passato un intero week end.
Oserei dire, non a caso.
Nel senso che c’è sempre bisogno di un po’ di tempo prima di rendersi conto che un sogno è finalmente diventato realtà, che è quindi tangibile (nel caso specifico direi leggibile), che è uscito dal mondo delle idee ed è diventato fenomeno, espressione di un’esperienza il cui senso trova significato nella condivisione.
Condivisione: ecco una parola fondamentale nel nostro percorso. Se siamo qui, a festeggiare vent’anni di vita, di cultura, di conoscenza, di competenza, è proprio grazie a tutti coloro che abbiamo incontrato: bambini, ragazzi, insegnanti, educatori… Ognuno ci ha permesso di scoprire un nuovo motivo per continuare questa splendida avventura.
Fino a spingerci a scrivere questo libro che, come si legge nella presentazione, “nasce per molti motivi ma tutti, in fondo, possono essere riassunti dal desiderio di dare una forma stabile che fermi sulla pagina scritta l’esperienza del Progetto Calamaio, nato all’interno dell’Associazione Centro Documentazione Handicap di Bologna e frutto di più di vent’anni di attività di animazione, formazione e sostegno ai processi di integrazione delle persone con disabilità […] il libro si muove su più livelli che tentano di riproporre ai lettori, accanto agli obiettivi e ai contenuti del Progetto Calamaio, la ricchezza e la densità di un impegno che si fatica a tenere nei territori del professionale per l’investimento e il coinvolgimento che riempie e tocca chi lavora e vive al Centro di Documentazione.
Quest’azione di rilettura dell’esperienza non si rivolge però solo verso l’esterno; se si utilizza intenzionalmente, la scrittura diventa un’occasione utile ad aumentare la capacità di sguardo su ciò che costituisce un pezzo importante della nostra quotidianità.
La scrittura, infatti, è anche pausa riflessiva, rottura del ritmo invasivo e ripetitivo del quotidiano. Spesso è una pausa strappata coi denti, soprattutto per chi come noi, non è scrittore di mestiere. Recentemente, Franca Olivetti Manoukian ha ricordato che, per chi lavora nell’ambito sociale, scrivere è ‘trasgressivo’ rispetto ai binari del lavoro operativo che non permettono soste e sguardi pensosi. Per poter ritornare a dare al nostro fare significati e valore è necessario autorizzarsi a trovare il tempo e il modo per ripensare a ciò che occupa lo spazio, il tempo dei giorni: la scrittura può essere un mezzo per compiere l’operazione complessa di riflessione su quanto si fa e si ‘produce’.
Le parole con cui ci siamo raccontati hanno alcune caratteristiche forti, che costituiscono il taglio di questo volume e che possono guidarne la lettura.
Sono parole concrete, mettono al centro un percorso di lavoro pensato e realizzato poi nella concreta forma dell’incontro con gli altri. È il nostro sapere dell’esperienza che vogliamo condividere, con le sue possibilità e i suoi limiti.
Sono parole colorate dai toni di un’affettività vissuta e percorsa in molti dei suoi sviluppi, sono parole che cercano di dare ospitalità agli affetti. Testimonianza delle relazioni importanti non solo fra gli ‘educatori’, gli ‘utenti’ ma anche fra il gruppo Calamaio e i gruppi di bambini, ragazzi, insegnanti, genitori incontrati via via nel percorso; relazioni che compongono un tessuto.
Sono parole che legano e collegano. Come diciamo spesso, il Progetto Calamaio non è fatto solo da noi, vive ed è reso fecondo dai legami forti del gruppo ma anche dai collegamenti, dagli incontri, dalla collaborazione con altri”. (pp. 13-14)
Il libro è diviso in tre sezioni distinte ma complementari, ognuna delle quali descrive una sfaccettatura della complessiva esperienza del Calamaio. “Nella prima parte sono raccolti gli interventi e i contributi di alcuni compagni di viaggio e interlocutori per noi importanti che dal loro ruolo professionale e dal loro osservatorio approfondiscono gli snodi centrali dell’educarsi reciprocamente alla diversità e dell’acquisizione di un ruolo sociale riconosciuto per la persona disabile.
Nella seconda parte trovano spazio alcune riflessioni che si collegano direttamente ai quattro laboratori attivati durante il Convegno di novembre 2006 sui punti che determinano maggiormente lo stile e modi del fare.
La terza parte, infine, racconta il Progetto Calamaio in azione: gli strumenti, i tempi, le persone.” (p. 14)
La lettura del libro è un viaggio, è una scoperta, è un gioco.
Un gioco che, come ci ha scritto un bambino di V elementare, si può trasformare in qualcosa di più: capire! Capire che cosa, però?
Anche la risposta, come la domanda, la lasciamo a una bambina, sempre di V elementare, che ci scrive:
“Cara Stefania, la prima volta che ho visto te, Patrizia e Roberto non mi sentivo a mio agio, ma poi vi ho conosciuto meglio e allora mi sentivo benissimo. Devo dire la verità: mi sono divertita molto, ho capito tante cose. È stato bello stare con voi. Mi sentivo allegra, molto allegra, anche se tu sei disabile… Quando Roberto ci ha spiegato che vi chiamate Calamaio perché volete lasciare una macchia sui bambini che incontrate, io mi sono molto emozionata. Un bacione
P.S. sto “macchiando” anche mia madre…” (p. 137)

Tracce di creature straordinarie
“Un Progetto che voglia essere tale, non può partire sapendo già dove e come arriva. Sarebbe un finto progetto. Un Progetto autentico, vive invece di intuizioni, obiettivi e rischi. Senza rischi, un progetto non diventa Progetto”. (p. 29)
Queste parole, regalateci da Andrea Canevaro, descrivono bene questi anni passati, nei quali il progetto è diventato Progetto ma sono anche un invito a non fermarsi, a non montarsi la testa e a continuare seguendo intuizioni, identificando nuovi obiettivi e assumendosi altri rischi.
Il libro è per noi un’occasione speciale e molto emozionante sia per fare festa con tutti coloro che fanno parte della nostra storia sia per riprendere il percorso verso nuove sfide, permettendo ad altre creature straordinarie – bambini, ragazzi, insegnanti… – di lasciare altre tracce, pensieri, riflessioni, disegni, domande che permetteranno alla nostra storia di continuare e alla cultura di crescere, non come piovuta dall’alto ma costruita mattone dopo mattone dal basso, attraverso l’esperienza.
Poi sapete come succede, le tracce alimentano la curiosità, il desiderio di avventura: ci sarà qualche altro esploratore che le seguirà, qualche altro progetto che nascerà, altre avventure da raccontare, creature di cui parlare… e le storie non finiranno mai.
Esempio ne è la nascita del blog del Calamaio.
Già il termine blog – contrazione di web-log, ovvero “traccia su rete” – sembra scelto apposta per noi che di tracce ci siamo sempre occupati.
L’obiettivo del blog storiedicalamai è quello di permettere a tutti di lasciare le proprie tracce, le proprie storie, le proprie macchie perché, attraverso la condivisione, possano diventare patrimonio comune. Mi raccomando, lasciate anche voi le vostre, senza paura: la diversità è una ricchezza che vale la pena di essere spesa.
Lasciamo la conclusione all’Omino Macchino, padre dell’inchiostro e di tutte le macchie che quello sa lasciare e grande amico del Progetto Calamaio… da quando ci siamo conosciuti, non ci siamo più lasciati.
“Questi Calamai di inchiostro se ne intendono davvero tanto. E non solo di inchiostro, ma anche di macchie. Se ho capito una cosa […] è che è necessario macchiare; e in fondo cosa ha fatto il Progetto Calamaio in questi venti anni, se non spargere le sue macchie, anzi, direi, regalare le sue macchie? Mica semplice avere a disposizione macchie di questo tipo ed essere capaci di regalarne a chichessia. Bisogna trovare il “miele” giusto perché le persone capiscano la dolcezza di una macchia. Di solito, poi, le macchie sporcano e basta; queste, invece, fanno di più, perché, nel macchiare, trasformano… ma cosa? Trasformano l’immagine che le persone hanno della realtà, arricchiscono un immaginario diffuso: è un compito che richiede maneggiatori d’inchiostro abilissimi, menti ardite, spiriti liberi e divertiti, prima ancora che divertenti.” (p. 228)