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L’individuo e il gruppo

L’individuo e il gruppo
“In una fredda giornata di inverno un gruppo di porcospini si rifugia in una grotta e per proteggersi dal freddo si stringono vicini. Ben presto

 

però sentono le spine reciproche e il dolore li costringe ad allontanarsi l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li porta di nuovo ad avvicinarsi si pungono di nuovo. Ripetono più volte questi tentativi, sballottati avanti e indietro tra due mali, finchè non trovano quella moderata distanza reciproca che rappresenta la migliore posizione, quella giusta distanza che consente loro di scaldarsi e nello stesso tempo di non fari male reciprocamente”.

 

(Consuelo Casula, I porcospini di Schopenhauer. Come progettare e condurre un gruppo di formazione di adulti, Milano, FrancoAngeli, 1997)

Un gioco di equilibrio
Un gruppo di lavoro non è mai dato. Occorre intenzionalmente ricercare i modi e i tempi per favorire il passaggio dal gruppo inteso come dimensione naturale dell’esistenza, al gruppo come strumento dell’operare educativo e scolastico. La costituzione di un gruppo è un percorso che passa attraverso alcune fasi dove primario è il gioco di rapporti fra la dimensione soggettiva, ciò che l’individuo porta come suo peso specifico, e la dimensione collettiva. Nella fase iniziale, di costituzione formale del gruppo, la dimensione soggettiva prevalente è l’insicurezza, data dall’essere di fronte al non conosciuto e alle richieste di cambiamento reciproco dentro cui il singolo si sente immerso. Le reazioni principali sono di natura diversa e vanno dal “superattivismo”, esemplificato dal riempire il tempo di parole, riempire lo spazio con il movimento del proprio corpo e da molte altre situazioni che spesso le figure educative descrivono nel raccontare l’inizio di un anno scolastico o di una nuova attività. Così come frequente è il richiamo a situazioni di passività, “bambini che si confondono con il muro, che non si espongono, che non parlano”. Al di là di situazioni difficili, che in alcuni casi arrivano alla patologia, è davvero frequente che molte persone reagiscano alle situazioni nuove con un atteggiamento di sospensione di ogni intervento, una sorta di strategia “passiva” per prendere confidenza e poter osservare. In questa fase iniziale di costituzione del gruppo i sentimenti e i bisogni prioritari sono individuali, le azioni fanno riferimento in maggior parte allo scambio di informazioni. Comincia poi a delinearsi una fase di identificazione con il gruppo. Questa fase è caratterizzata da un atteggiamento di apertura ai rapporti e costruzione di relazioni. Si tende a stabilire rapporti interpersonali ritenuti affidabili. Il gruppo valuta le proprie risorse umane interne: si esce dall’ ”anonimato”. E’ una fase in cui si pongono le premesse per riuscire ad essere qualcosa di più e di diverso dalla somma dei singoli, ad elaborare fondendo i propri apporti. Si parla, in effetti, del passaggio ad una vera e propria fase di fusione, in cui la dimensione soggettiva che prevale è la tensione al confronto. La natura del confronto dipende dall’andamento delle fasi precedenti: si può andare dal confronto emulativo al conflitto competitivo.Le attività possono ora fare capo anche alla valutazione e alla presa di decisione: aumenta la consapevolezza che nel momento decisionale sono in gioco i contenuti più che i rapporti. Quando l’evoluzione del percorso è scorrevole e sorretta da motivazione e strumentazione adeguate si realizza la fase di efficacia produttiva. La dimensione presente è il senso di appartenenza al gruppo percepito come centro di riferimento gratificante. L’appartenenza ha infatti come oggetto prevalente il gruppo nel suo complesso e non i rapporti personali privilegiati. In questo senso il gruppo diventa capace di produrre attività progettuali complesse.

Ogni persona è un mondo
Non esiste, quindi, un gruppo omogeneo. Un contesto di gruppo sarà percepito da chi ne fa parte come adeguato quanto più i singoli appartenenti si sentiranno rispettati e valorizzati sia per ciò che li connota come persona a tutto tondo (carattere, stili, storia…) che per l’apporto che sono in grado di dare all’elaborazione e alle nuove scoperte del gruppo. Ogni situazione di vita reale, ma vale anche per le situazioni sperimentali gestite in laboratorio, ci mette a contatto sia con l’eterogeneità dei componenti che con la loro eterocronia. Questo aspetto sembra interessante soprattutto in rapporto al profilo eterocronico della persona che ha un deficit o vive una situazione di difficoltà. Il termine eterocronia, che è stato elaborato da un gruppo di ricerca, nell’ambito della psicologia sperimentale, guidato da Renè Zazzo, non è nuovo nella storia educativa. Risale infatti alla fine del ‘700, ed è legato dapprima alle vicende del dott. Itard e dell’ ”enfant sauvage" ritrovato nei boschi dell’Aveyron, in Francia, e subito dopo alle intuizioni, tradotte poi in indicazioni operative, del dott. Seguin e al suo lavoro svolto con gli "idioti" all’interno degli istituti. E’ l’etimologia stessa della parola composita eteros cronia a suggerirne il suo significato: diversi tempi. Il concetto di eterocronia è infatti utilizzato per definirne i diversi tempi di sviluppo che esistono nella stessa persona. E’ una sottolineatura ulteriore nella concezione del gruppo come dimensione che poggia sulle specificità ed originalità di chi ne fa parte. Nella scuola ampio spazio, soprattutto nella fascia dell’obbligo, viene riservato all’accoglienza e al lavoro sulla persona. Più complesso e per certi aspetti più lacunoso, è il tentativo di coinvolgimento attivo nel percorso di appropriazione del proprio apprendimento di tutti gli allievi, anche di quelli che convivono con un deficit o esprimono forti disagi e difficoltà. Soprattutto verso questi ultimi si è indirizzata da molti anni la ricerca di strategie di individualizzazione. Il rischio di considerale come prerogativa degli allievi “difficili” è stato presente nel quadro attuale delle esperienze scolastiche. Concettualmente molto si è fatto e si va facendo per spostare l’attenzione da categorie speciali di allievi ai bisogni educativi che ogni persona in fase di apprendimento esprime in termini propri. La caratteristiche individuali dello studente (abilità, conoscenze, stili cognitivi, atteggiamenti, emozioni, stili di attribuzione) sono sicuramente un aspetto fondamentale dell’apprendimento e dello studio. Possono infatti facilitarlo o, al contrario, ostacolarlo, ma in ogni caso rendono personale e specifico il processo di elaborazione e costruzione della conoscenza, e di questo l’insegnante deve tener conto. Sembra centrale, allora, riprendere il concetto di individualizzazione e legarlo strettamente all’idea di responsabilità. Individualizzare l’apprendimento significa predisporre un contesto educativo che rende possibile il massimo di responsabilizzazione, per ogni persona coinvolta, nel disegnare il proprio percorso formativo. Facendo i conti con le proprie capacità ma anche con le aree di debolezza, con ciò che si presenta come punto di forza e ciò che invece esprime criticità e mancanza. L’individualizzazione dell’apprendimento per i bambini e le bambini disabili rifugge dall’ipotizzare strade separate dal gruppo classe, è un’ occasione per pensare in modo mirato a nuove occasioni di integrazioni, ad un modo di vivere l’integrazione nella classe e nella scuola che tenga insieme le identità differenti che questa comunità di sapere costituiscono. “Sotto questo aspetto, la grande sfida dell’integrazione oggi passa attraverso i tentativi di costruire, all’interno e all’esterno del piano educativo individualizzato, dei percorsi che rendano significativa ed efficace la permanenza dell’alunno disabile dentro il suo gruppo classe, a vantaggio dello stesso alunno, come anche a vantaggio dei suoi compagni”.

Gli strumenti del proprio apprendimento
E’ demagogia pensare di poter fornire a tutti gli allievi la possibilità di riuscita scolastica? E’ possibile procedere all’individuazione di strategie che consentano a ciascuno di raggiungere gli obiettivi proposti all’interno della comunità scolastica? Molti autori, attraverso approcci anche estremamente differenti, hanno cercato di dare risposte a queste domande sottolineando diversi aspetti e proponendo varie piste operative. Due in particolare ci sembrano offrire spunti interessanti per coniugare i differenti stili individuali dei bambini con il lavoro collettivo all’interno del gruppo classe: Philippe Merieu e Antoine De la Garanderie. Merieu, docente di pedagogia all’Università di Lione, da molti anni segue attività di sperimentazione nelle scuole e nella formazione, nel suo libro "Lavoro di gruppo e apprendimenti individuali" trasforma gli interrogativi sopra ricordati in propositi e ne fa dei punti di forza del progetto educativo, "Passaggi obbligati per poter effettivamente entrare nel dibattito pedagogico". Sempre Merieu interrogandosi sul concetto di educabilità e passando in rassegna le differenti implicazioni e gli sviluppi che tale concetto ha avuto sottolinea come "Il postulato dell’educabilità è un presupposto da rendere attuale, tiene in conto le differenze oggettive che possono presentarsi e cerca i mezzi specifici per far progredire ognuno". Il compito dell’educatore viene così ad essere quello di gestire un progetto all’interno del quale la ricerca di strumenti atti a favorire l’apprendimento si realizza nel pieno rispetto delle identità e grazie al contributo ed alla partecipazione attiva degli allievi. Il riconoscimento delle differenze individuali, la negazione del mito del gruppo omogeneo, il rispetto delle originalità di ognuno, rappresentano i nuclei centrali anche del lavoro condotto da Antoine De la Garanderie che da molti anni si occupa dell’individuazione dei fattori concorrenti nel determinare l’insuccesso scolastico. L’autore, per elaborare le sue ipotesi teoriche, è partito da un’attenta analisi dei differenti metodi di lavoro utilizzati dagli allievi, al fine di fornire a ciascuno i mezzi indispensabili affinché possano gestire in maniera consapevole il proprio capitale pedagogico e sfruttare al meglio le proprie competenze. E’ alla luce di queste riflessioni che il concetto stesso di competenza viene ripreso e si trova ad essere scomposto in una molteplicità di abilità, di saperi che hanno bisogno di trovare precisi criteri di leggibilità e trasferibilità. Può accadere però che le competenze rimangano inespresse, soffocate da proposte che non lasciano spazio per il ricorso all’esperienza personale. Il rischio può essere allora quello di produrre una frattura insanabile, di ampliare lo scarto fra le attività scolastiche ed extrascolastiche, tra gli apprendimenti curricolari e quelli legati al vissuto quotidiano. Questo può diventare penalizzante soprattutto per i bambini in difficoltà che spesso invece possiedono delle competenze insospettate. I "so fare", le abilità dei bambini, possono diventare il punto di partenza per costruire un intervento realmente centrato sull’allievo. Come De la Garanderie sottolinea "Vi sono campi in cui gli allievi che hanno difficoltà a scuola riescono particolarmente bene"; è necessario capire il perché di questa predisposizione e studiare come poter trasferire questi risultati positivi nell’ambito scolastico. Può essere utile allora partire dalle cose che piacciono di più, ad esempio gli hobby, gli sport, i giochi con gli amici e dare al bambino la possibilità di spiegare come realizza queste attività. Per fare questo è necessario porsi in una situazione di ascolto e dialogo. Il confronto permette di prendere coscienza del proprio modo di lavorare, dei punti di forza che ne derivano e offre l’opportunità di sfruttare al meglio le proprie risorse personali. Come abbiamo visto la vita di una classe offre molti spunti ed agganci per attivare un lavoro sull’identità competente, l’età degli allievi rimanda all’impiego di strumenti che di volta in volta potranno avere caratteristiche diverse, accomunati da un duplice obiettivo :
• permettere di compiere una ricognizione sulle competenze individuali in maniera generale (scuola, extra scuola, ambienti significativi) e specifica (come ci comportiamo di fronte alla risoluzione di un compito)
• permettere una esplorazione delle condizioni per la competenza (tempi, spazi, luoghi, materiali, condizioni organizzative, motivazioni) aprendo la strada all’interrogazione delle procedure.
L’insegnamento influisce sulla qualità del processo di apprendimento quando mette in condizione l’identità competente da un lato di riconoscersi stili e procedure, dall’altro di riconoscere altre procedure e stili e di confrontarsi con essi, ampliando in tal modo le possibilità di scelta.

Riferimenti bibliografici
P. Perticari, Insegnamento apprendimento. Reciprocità e sorpresa a scuola nel vis à vis quotidiano, Milano, Anabasi, 1995
V. Severi, Insegnamento e apprendimento in difficoltà. Ricerca e azione educativa di fronte all’insuccesso scolastico, Torino, UTET, 1995 (M. G. Berlini, A. Canevaro (a cura), Potenziali individuali di apprendimento. Le connessioni, le differenze, la ricerca partecipata, Scandicci (Fi), La Nuova Italia, 1996)

La lettura
I sentieri della comprensione
Un bambino di nome Antonio inizia a raccontare quello che ha fatto domenica scorsa, descrivendo l’immagine della partenza per una gita. Una bambina di nome Giulia racconta la sua domenica partendo dall’ora della sveglia, e procede tenendo sempre il riferimento dell’orario. I racconti sono disinvolti e felici. Un terzo bambino, che si chiama Gino, inizia la narrazione con l’evocazione della propria casa in un giorno di festa, ma il racconto è stentato, difficile da seguire sia per lui che per chi ascolta.

L’impressione è che Gino utilizzi qualcosa di non suo, di preso a prestito e di non ben padroneggiato.
Atonie De La Garanderie ha svolto ricerche sullo stile di quella che ha chiamato la “gestione mentale”, ovvero i modi di organizzare i nostri argomenti sulla base di immagini mentali evocate, oppure sulla base di concetti richiamati da parole, con un filo di memoria che ha chiamato “fonetica”, basata sull’utilizzo di parole evocate. E Gino? Forse Gino è l’esempio di chi non pensa di poter compiere una scelta, ritenendo di dover aderire a uno stile, forse ritenuto “naturale”, Perché Gino ha questa credenza? Forse si accosta più facilmente, o almeno così gli pare, ad Antonio, perché è un bambino come lui, perché sono amici, e perché vede che ha successo, perché è stato incoraggiato a prenderlo ad esempio, e per molte altre piccole ragioni.
Quasi sempre, abbiamo l’idea che uno stile sia “naturale”, e che il nostro compito sia realizzarlo. E qualche insegnante parte proprio da questa credenza, trasmettendola a chi impara. Involontariamente, può creare la stessa difficoltà in cui si dibatte Gino. Sarebbe invece importante capire che non c’è uno stile naturale, ma vi sono più stili, e che è utile cercare di capire quale sia quello più consono al singolo soggetto.
Antonie De La Garanderie indica quattro parametri sui quali l’evocazione, iconica o fonetica, può esercitarsi: la vita quotidiana, l’automatismo, ovvero ciò che facciamo senza bisogno di fermarci a riflettere prima, la logica e l’immaginario. In questi quattro parametri possiamo ritrovare l’uno o l’altro stile di gestione mentale.
Il compito di chi educa insegnando non può che partire dalla comprensione del proprio stile, che di conseguenza non sarà né vissuto né presentato come “lo” stile, assoluto perché naturale. Quindi chi insegna potrà esplorare insieme a chi impara lo stile di ciascuno, cercando di capire insieme come ciascuno compia la propria gestione mentale. Il resto sarà frutto del percorso del soggetto, e non certo di un travaso compiuto da altri e tanto meno da chi insegna.
Sembra molto appropriata, come chiusura di questa breve nota, una poesia, molto conosciuta, – e che a volte suona un tantino retorica, ma non in questo caso – di G.K. Gibran, dal titolo Parole sussurrate:

“Nessuno può rivelarci nulla,
se non ciò che già si trova
in stato di dormiveglia
nell’albeggiare della vostra conoscenza.
L’insegnante che avanza nell’ombra del tempio,
fra i suoi discepoli,
non trasmette la sua sapienza,
ma piuttosto la sua fede e la sua amorevolezza.
Se è veramente saggio, non vi introdurrà
nella casa della sapienza
ma vi accompagnerà
alla soglia della vostra mente.”

(A. Canevaro, Viaggio in terza classe, Centro Documentazione Educativa – Centro Documentazione Handicap del Comune di Modena, anno V, n.3, settembre 2000)




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