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Cento proiettili per un uovo

Bambini dell’ex Jugoslavia e del Kosovo

 

Ha una scheggia piantata nel cervello,
portate pietà a vostro fratello.
Io sono il parto della guerra.
Io sono il senza nome, casa e terra.
Tra dentro e fuori hanno schiantato
il nesso, la lingua comune
hanno strappato.

Testo di Franco Marcoaldi per il brano “Terra comune” di Fabio Vacchi

Zlata Filipovic, Diario di Zlata, Rizzoli, Milano, 1994

2 settembre 1991 – 19 ottobre 1993, Sarajevo. In questi due anni la vita di Zlata cambia completamente. E, come la sua, cambia per sempre la vita di migliaia e migliaia di persone in tutta la ex Jugoslavia. Il diario raccoglie le confidenze di una bambina come tante altre. Di una bambina che vorrebbe vivere una vita normale, andare a scuola e in vacanza, giocare. Solo che non può. Perché vive in una città che viene distrutta giorno dopo giorno da una guerra di cui lei non capisce le ragioni: “…mi sforzo in continuazione di capire cosa sia questa stupida politica (…) mi pare che questi politici parlino di serbi, croati e musulmani (…). Fra i miei compagni di scuola, fra i nostri amici, nella nostra famiglia, ci sono serbi, croati e musulmani. E’ un gruppo molto eterogeneo, e io non ho mai saputo chi fosse serbo, croato o musulmano. Adesso, però, la politica si è immischiata in queste cose. Ha messo una “s” sui serbi, una “m” sui musulmani e una “c” sui croati, li vuole separare. E per scrivere queste lettere ha utilizzato la peggiore delle matite, quella più sinistra, la matita della guerra, che semina solo dolore e morte. Perchè la politica ci rende infelici, ci vuole separare, quando noi sappiamo distinguere da soli i buoni dai cattivi? E fra i buoni ci sono i serbi, i croati e i musulmani, così come ce ne sono tra i cattivi.” (p. 91) Agli adulti di oggi è stato messo tra le mani, quando erano ragazzini, un altro diario, quello di Anna Frank che li ha aiutati a capire qualcosa di quello che era successo negli anni della seconda guerra mondiale e del nazismo. Li ha aiutati anche, crediamo, a crescere con la convinzione che bisogna fare di tutto perché vicende come quella di Anna non si ripetano. Ai ragazzi di oggi, nello stesso modo, consegniamo il diario di Zlata.

Christobel Mattingley, Asmir di Sarajevo, Junior + 10, Mondadori, Milano, 1994

Sono tutti veri i personaggi che popolano questo romanzo scritto, dopo averli conosciuti nel loro esilio viennese, da una delle più note autrici australiane per ragazzi. Asmir con gli zii, la mamma e il fratellino riesce a rifugiarsi in Austria, dopo un periodo in cui vive a Belgrado. Il libro racconta la loro fuga e aiuta, con molta semplicità, a capire come ci si sente lontani da casa, in un paese di cui non si conosce la lingua e in cui è difficile ricostruirsi una vita. L’assurdità di questa guerra, come di tutte le altre, si riassume bene in questa frase di Milan, uno dei protagonisti: “A Sarajevo un uovo costa dieci volte di più di un proiettile. E per ogni uovo ci sono cento proiettili”. (p. 70)

Nenad Velickovic, Diario di Maja, Editori Riuniti, Roma, 1995

“Io mi chiamo Maja. (…) Scrivo perché non mi resta altro da fare. Non andiamo a scuola, non guardiamo la televisione, non ci allontaniamo dai rifugi. Non possiamo uscire perché sopra c’è la guerra. (…) Probabilmente (questa guerra) si fa come tutte le altre guerre per la conquista dei territori e per i saccheggi. Ma perché stiano bombardando una città di mezzo milione di abitanti dalla mattina alla sera dalle montagne vicine, a questa domanda non ho nessun “probabilmente”. Per quale motivo qualcuno (nel nostro caso l’artiglieria serba) distrugge le case, incendia le biblioteche, abbatte i minareti e i pioppi intorno? Perché questa primavera invece di ciliegie i bambini raccolgono schegge di granate e le barattano come se fossero figurine?” (p. 11-12) Un romanzo molto particolare, adatto ai ragazzi più grandi perché, con una scrittura ironica e disincantata, descrive la guerra, la situazione di Sarajevo e dei suoi abitanti, in modo quasi caricaturale, tanto che si potrebbe pensare che là non succedeva poi niente di grave. Ricordano un po’ i personaggi dei film di Kusturica, infatti, i parenti di Maja e le persone che le ruotano attorno, ma il sorriso resta solo sulle labbra e dietro le parole si può intravedere la tragedia di un popolo e di una città.

Hermann, Sarajevo tango, Eura editoriale, Roma, 1997

Mosso dall’indignazione e dalla rabbia per l’impossibilità di aiutare l’amico Ervin, bloccato a Sarajevo con moglie e figli, l’autore disegna d’impulso questo fumetto. La storia è completamente inventata ma lo sfondo in cui si muovono i personaggi è quello delle rovine di Sarajevo e della disperazione della sua gente. Era arrabbiato Hermann quando disegnava e non ha risparmiato nessuno, dai militari serbi ai cecchini della domenica, dalle potenze internazionali fino all’Onu dove Boutros Ghali danza improbabili tanghi mentre vengono diffuse le sue generiche dichiarazioni. E’ chiaramente un’immagine sbilanciata ma che dice bene le ipocrisie del mondo occidentale e l’assurdità di tutte le guerre. E per farlo utilizza un mezzo, il fumetto, di sicuro gradimento fra i ragazzi.

Adriana Pedron Pulvirenti, I bambini di Hans, Città Nuova, Roma, 2000

E’ dedicata ai bambini, soprattutto ai bambini che vivono nei paesi in guerra questa fiaba che cerca di non far dimenticare la speranza, raccontando di Hans, soldato mercenario che, fra gli spari dei cecchini e le rovine dell’ex Jugoslavia, porta in salvo più bambini che può. E anche se la fiaba ha un lieto fine, come vuole la fantasia, ben più concrete e reali sono le descrizioni dei bambini dispersi e abbandonati a se stessi in una città fantasma. E’ l’autrice stessa che ci dice com’è nato questo libro: “Turbata dalla guerra nella ex Jugoslavia, dopo aver letto un articolo sul Corriere della Sera, rimasi colpita dalla figura di Heinz, un mercenario morto in Bosnia nel giugno 1993. Scrissi d’impulso il primo e l’ultimo capitolo della storia; mi rifiutavo di accettare la sconfitta del giovane mercenario che riassumeva in sé quella di molti altri giovani. (…) Non ho fatto nomi né individuato responsabilità, né mi sono schierata da una parte o dall’altra, perché la sofferenza, specie quella dei bambini, è di tutti. Ho preferito la speranza, perchè credo nel “giorno dopo”. (pp. 99-100)

Luigi Garlando, La vita è una bomba!, Battello a vapore serie arancio, Piemme, Casale Monferrato, 2001

Milan ha otto anni, ha perso a Sarajevo tutto quello che un bambino ha bisogno di avere per crescere: i genitori, gli amici, il suo paese e una gamba. Vive a Milano dove gli hanno messo un arto artificiale. Potrebbe essere una storia straziante e senza speranza e invece fin dalle prime pagine si viene catturati dalla voglia di vivere e dalla fiducia in un futuro migliore. Milan, con un espediente narrativo indovinato, ci racconta contemporaneamente della sua vita a Milano, della sua vita di prima della guerra e anche della guerra e di quello che può aver significato per lui e più in generale per i bambini. E allora lasciamo a Milan la parola: “Ma che razza di partita è questa se Marko Grobovic, che lavorava nel forno del mio papà vecchio da una vita, poi ci ha bruciato la macchina? Che partita è, se la mia mamma vecchia ha cucito gratis un bellissimo vestito da prima Comunione per la figlia della signora Kostulic, che piangeva perché non aveva i soldi, e adesso la signora Kostulic, quando passa mia mamma sputa per terra? Mamma una volta le ha detto: “ Risparmi la saliva, signora, presto ci toglieranno l’acqua!” Che razza di partita è questa, signor arbitro, se degli uomini con uno straccio in testa e coltellacci al fianco hanno preso a pugni e a calci il dottor Juric, e Radovan Topic che era lì non ha mosso un dito? Io ero sicuro che si metteva a parlare delle vedove di Sarajevo, invece ha detto solo: “Milan, torna a casa. Un consiglio, dottore: guarisci solo quelli del tuo sangue”. Il dottor Juric, il nostro portiere gli ha risposto che il sangue che esce dalle ferite ha tutto lo stesso colore. Io non sono andato a casa, ma ho bagnato il fazzoletto nella fontana e l’ho portato al dottor Juric. Che razza di partita è se i tuoi compagni improvvisamente ti giocano contro, e improvvisamente tu non puoi più giocare con loro? Che partita è se vado da Goran con la canna da pesca e lui mi dice: “Non so perché, Milan, ma non puoi più venire a casa mia?” (pp. 31-33)

Arianna Papini, Jovan non sa di Vlora, Fatatrac, Firenze, 2001

Bellissime illustrazioni accompagnano questo breve libro: la storia di due bambini e della guerra nel Kosovo. Jovan e Vlora, senza sapere l’uno dell’altra, hanno sogni comuni, “la stessa memoria. Ricorderanno il vento, la sera fresca e i pomi rossi sotto il sole d’estate. Sogneranno il fuoco e la paura, il viaggio e le farfalle di plastica e pietra che con ali grandi hanno protetto la loro storia piccola dai falchi infuocati della notte”. Pur non essendo un testo facile, può essere presentato ai bambini un po’ più grandi perché con grande poesia sa trasmettere i sentimenti che nella realtà tanti bambini, non solo dei Balcani, hanno provato e provano tuttora.

Emanuela Nava, Ciliegie e bombe, Supergru, Giunti, Firenze, 2002

Quando abbiamo chiuso questo libro ci è rimasto un dubbio: sarà vera la storia di Dragan? C’è qualcosa di stonato in questo libro che si dichiara adatto a ragazzini di 9/11 anni ma che poi indulge troppo sulla fantasia e su situazioni assolutamente irrealistiche che non aiutano, forse neanche i più piccoli, a capire e a partecipare a queste vicende. Un’occasione sprecata per raccontare come i piccoli e i ragazzi dell’ex Jugoslavia hanno vissuto durante la guerra e cosa può aver significato per loro essere trasferiti in Italia.

Gaye Hicylmaz, Il sorriso strappato, Buena vista, Milano, 2002

Nina vive con il nonno sulle montagne sopra Sarajevo da cui è dovuta scappare dopo aver perso i genitori. Anche da qui dovrà scappare per raggiungere l’Inghilterra e l’unica persona che, forse, potrà prendersi cura di lei. E noi seguiamo Nina in questo viaggio drammatico, pericoloso e disperatamente solitario che tanti piccoli hanno intrapreso alla ricerca di una salvezza non sempre certa.




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