Lettere al direttore
- Autore: di Claudio Imprudente
- Anno e numero: 2016/6 (monografia su gioco, disabilità, inclusione)
Caro Claudio,
avrei alcune domande che la timidezza, durante il vostro bellissimo al nostro convegno, mi ha impedito di porvi. Una per Claudio e un’altra per Luca e Tristano!
Vorrei sapere se non ci sono momenti in cui pensi che la sfiga prevale sulla sfida e quindi non sia forte la tentazione di mollare tutto… E a chi dare la colpa di quella sfiga?
E poi mi chiedo… quale stato d’animo avete voi collaboratori dopo una giornata di lavoro con i disabili?
Grazie mille per questa serata piena di emozioni e di lezioni di vita!
Sarei grata di una vostra risposta! Martina
Ciao Martina…
Bella domanda! Hai perfettamente ragione, tante volte ho fatto fatica a reagire alla sfiga. Per usare un luogo comune anche io ti dico che tutte le esistenze non sono mai solo rose e fiori. Spesso ci si abbatte.
Ci sono delle tappe fondamentali però, che se riusciamo a portare a termine, possono aiutarci nel superare questi momenti. Acquisire consapevolezza nei propri mezzi. Costruirsi un’identità. Dopo anni ho capito che è inutile e dannoso cercare eventuali colpevoli per questa sfiga, perché non ce ne sono, ognuno è protagonista della sua esistenza. “Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima”, diceva Nelson Mandela, un leitmotiv che è sempre rimasto con me.
Questa convinzione è necessaria nella costruzione della propria identità, anche per liberarsi da inutili sensi di colpa.
Credo che ci sia una domanda fondamentale nel percorso di accettazione dei nostri limiti, della consapevolezza di noi stessi. Domanda che tutti si sono fatti, giovani e anziani, disabili e normodotati… “Perché proprio a me?”.
Mi è subito venuto in mente il passo del vangelo di Giovanni “Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare.” (cap. 9, ver. 2-4)
La mia prima considerazione è sulla domanda, dunque sulla causa, sugli eventuali colpevoli della cecità dell’uomo. A Gesù viene praticamente chiesto se il deficit derivi dalla colpa/peccato di qualcuno. La colpa non è di nessuno, risponde, spostando l’attenzione sul senso più che sulla causa. Questa è la parte che reputo più interessante.
Un gesto creativo ed educativo evidente che evita di dare responsabilità oggettive e si concentra sul contesto più che sulla persona. Questo passaggio è stato decisivo nella mia esperienza.
Il concetto è ampio e generale e va applicato non solo nell’esperienza delle persone con disabilità ma quando si ha consapevolezza dei propri limiti e delle proprie qualità.
Per quanto riguarda invece lo sforzo di una lunga giornata di lavoro… Direi che vale per tutti i lavori! Tristano e Luca hanno scelto questo mestiere, che a volte può comportare fatica, rabbia e frustrazione ma che se fatto con passione può riempirti di soddisfazioni e orgoglio. Anzi, come sottolinea spesso Luca al Centro Documentazione Handicap, la soddisfazione che porta un lavoro ben fatto può eliminare qualsiasi stress o fatica. Un abbraccio dai bolognesi.
Claudio, Luca e Tristano e buona vita!
Carissimo Claudio
sono la mamma di Matteo un ragazzo di 18 anni affetto da encefalopatia epilettica (sindrome di Lennox-Gastaut), il quale frequenta non senza poche difficoltà la seconda superiore di Agraria. L’inclusione per lui sembra un miraggio visto che ama abbracciare i compagni e questo è motivo
di disturbo a vista degli insegnanti. Viste le crisi epilettiche poi non può frequentare la palestra, la serra interna è altro motivo di divieto. Allora io mi chiedo: non può un disabile sognare e vivere libero da pregiudizi?
Cordiali saluti, Giancarla
Cara Giancarla,
grazie per avermi scritto e scusa se rispondo solo ora.
Mi confronto spesso con dei genitori come lei, ognuno con la propria esperienza, ognuno con la propria difficoltà…
Quello che accomuna tutte queste esperienze deve necessariamente essere la forza e la speranza come dici tu di costruire un mondo libero da pregiudizi. Di lavoro ce n’è tanto da fare…
Valorizzare le qualità di Matteo comporterà delle difficoltà, ma è la strada da intraprendere. Quegli stessi abbracci ai compagni che in quel contesto scolastico sono considerati un limite, in altri contesti, dai laboratori alle discipline sportive accessibili, possono diventare risorse.
Alcuni anni fa scrissi un articolo, la storia di un soldatino di plastica con un difetto di fabbrica, con una gamba fatta male. Un soldatino che non riusciva a fare quello che facevano gli altri…
Io da bambino, mentre giocavo, lo osservavo… In un attimo eravate disposti, in posizione… ma notavo qualcosa di diverso in te. Continuavo a metterti in piedi, in condizione di combattere. Ma tu continuavi a cadere. Solo allora ho capito.
Avevi un difetto di fabbrica e non potevi rimanere in piedi”.
Proprio come me.
La prima cosa che ho pensato, caro Jack, questo il nome del soldatino nella mia fervida fantasia da pre-adolescente, è stata che la tua disabilità portava la pace. Tu potevi essere tante cose, ma sicuramente non saresti mai stato un eroico condottiero.
Avevo due possibilità per te, potevo eliminarti, farti fare il ruolo del morto oppure creare, costruirti un contesto dove potevi valorizzare le tue qualità.
Non sto parlando solo di voi soldatini, sto parlando dell’intero mondo della disabilità. Possiamo considerarci morti, invisibili, vegetali. Oppure possiamo collaborare per creare una realtà, un contesto dove poter esaltare le potenzialità e metterle a disposizione nostra e degli altri.
Come potevo valorizzare le tue qualità da soldatino disabile?
Da bravo marine dovevi mettere le tue capacità a disposizione della tua squadra, così ti ho sdraiato con il tuo mitragliatore che puntava un po’ alla rinfusa.
Ma non era quello l’importante. Importava cosa vedevi dalla tua prospettiva, cosa potevi sentire.
Ti immaginavo così, vicino al suolo, ad ascoltare il rumore e gli odori dei nemici, i passi degli invasori avvicinarsi alla base… Dalla tua visuale potevi vedere gli spostamenti dei tuoi compagni, avere una visione ampia delle cose e avere la situazione sotto controllo.
Siamo alle solite. Guardare il mondo da un’altra prospettiva rimane la carta vincente per costruire una cultura di pace. Cultura di pace che in fondo non è altro che il rispetto e la valorizzazione delle diversità, dell’alterità, poiché la disabilità è disarmante.
Un abbraccio e buona vita
Claudio Imprudente
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