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Dietro ogni “scemo” c’è un villaggio

a cura di Giulia Galbiati, insegnante

“Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole, e la luce del giorno si divide la piazza tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.
E sì, anche tu andresti a cercare
le parole sicure per farti ascoltare: per stupire mezz’ora basta un libro di storia,
io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto, continuarono gli altri fino a leggermi matto.
E senza sapere a chi dovessi la vita in un manicomio io l’ho restituita: qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c’è luce ormai nei miei pensieri, qui nella penombra ora invento parole ma rimpiango una luce, la luce del sole.
Le mie ossa regalano ancora alla vita: le regalano ancora erba fiorita.
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina;
di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia
Una morte pietosa lo strappò alla pazzia”.
(F. De André, Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio), “Non al denaro non all’amore né al cielo”, 1971).

Questa canzone di Fabrizio De André, cantore delle ipocrisie ma in prima istanza dei diversi, degli emarginati e degli esclusi, ci mette di fronte a un racconto, ma allo stesso tempo a un invito: ci racconta la difficoltà di essere noi stessi in rapporto agli altri, il bisogno di essere comunque accettati dalla comunità (il “villaggio”) che ci esclude, e la reazione di questa alla diversità dei singoli; ma ci invita anche a una riflessione, che sta a noi che ascoltiamo accettare o ignorare. Il “tu” molto poco impersonale con il quale inizia la canzone ci coinvolge direttamente, invitandoci a vestire panni che (così almeno ci sembra) non sono nostri: la prospettiva è quella di chi è, o è considerato, diverso.
Il matto della canzone si differenzia dagli altri in quanto non “riesce ad esprimersi con le parole”: in una comunità che non conosce altri mezzi di espressione se non quello razionale – il linguaggio appunto – il matto viene emarginato, isolato (anche, ci immaginiamo, letteralmente) all’interno del suo stesso ambiente.
Il bisogno di appartenere a una comunità, o più semplicemente di un contatto umano, lo spinge allora a una fatica immane (“[…] per stupire mezz’ora basta un libro di storia, io cercai di imparare la Treccani a memoria […]”), fatta però di parole altrui.
Impermeabile al suo tentativo di comunicazione rimane comunque la comunità, incapace di ascoltare, o forse non disposta a farlo.
Il matto è costretto a rimanere all’ombra, nell’ombra; ma quella che rimpiange è “la luce del sole”, la possibilità di essere se stesso, alla luce del sole, magari proprio all’interno di quella stessa comunità che lo ha respinto.
La diversità è chiaramente in ognuno di noi, che accuratamente la nascondiamo. Quando però questa diversità è evidente, perché si manifesta in qualcuno, allora nella comunità (ma anche nella società in generale) si innesca il meccanismo della paura.
Paura che è prima di tutto quella di risultare noi stessi il diverso: una protezione individualistica.
Ci mettiamo in posizione di difesa e arroccamento all’interno di un mondo protetto perché omogeneo, in cui possiamo nasconderci, confonderci e conformarci per non risultare, appunto, diversi. Ed estraniamo il diverso.
Il capro espiatorio di una società è significativamente quello a cui tutti abbiamo paura di tendere, perché questa tendenza è in potenza dentro ognuno di noi.
Chi, e soprattutto perché, può ritenersi allora esente da questa riflessione, da questa prospettiva?
Il “matto” non è in fondo anche il disabile, l’omosessuale, la donna, anche solo semplicemente il timido?
Ascoltare, nei diversi modi che esistono per farlo, chi è diverso da noi è il primo passo per includere e integrare.
Mettiamo dunque in discussione noi stessi e ascoltiamo: dietro ogni “scemo” c’è un villaggio, che non vuole ascoltare.



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