Il lavoro che debilita l’uomo
- Autore: Stefano Toschi
- Anno e numero: 2016/6 (monografia su gioco, disabilità, inclusione)
di Stefano Toschi
Ultimamente le notizie di maltrattamenti a persone disabili o anziane che avvengono nelle case di cura o centri diurni sono diventate quasi all’ordine del giorno. Il lavoro di cura, d’altra parte, non è e non è mai stato un lavoro come un altro. Lavorare con e per le persone fragili ha tante e tali implicazioni umane, relazionali, personali che non trova paragoni con nessun’altra professione. Non a caso, si colloca fra gli impieghi con il più alto rischio di burn out e di pressoché inevitabili ripercussioni sulla psiche e la sfera personale del lavoratore. Confrontandomi sull’argomento con alcuni amici che lavorano in strutture residenziali e analizzando i recenti fatti di cronaca, ho cercato una spiegazione al crescente fenomeno dei maltrattamenti, pur essendo difficile trovarne una univoca. Ritengo che parte della responsabilità possa essere attribuita alla crisi valoriale della nostra società, causa e contemporaneamente conseguenza della imponente crisi economica che stiamo attraversando. Laddove la logica produttivista ha avuto la meglio, il lavoro è stato mercificato ed è stato mercificato anche il lavoratore, nel suo tempo dedicato alla professione, ma anche nel suo tempo libero, il lavoro di cura è diventato sempre di più una non-scelta. Oggi, lavoratori domestici, badanti, colf, assistenti alla persona ci si improvvisa, magari avendo alle spalle qualche corso teorico pratico, finanche qualche titolo, ma certamente non una reale vocazione all’impegno sociale e per il prossimo. Tanti disoccupati senza alcun interesse o capacità relazionale adatta a questo tipo di lavoro si sono riciclati perché si tratta di un servizio in cui la richiesta resta sempre alta. Sicuramente, almeno in parte, questa situazione è da imputare alla crisi economica, che ha richiamato in questo ambito professionale l’interesse (di puro sostentamento materiale) di tante persone che non avrebbero mai pensato, altrimenti, di potersi e volersi mettere al servizio delle persone con deficit. In un circolo vizioso di insoddisfazione lavorativa, personale e socio-economica, la situazione va a discapito prima di tutto degli assistiti. Il lavoro di cura, inoltre, ha un impatto economico spesso insostenibile sulle famiglie. Una badante convivente costa circa 1200, 1300 euro al mese (più contributi) a una famiglia, cui si aggiungono il valore del vitto e dell’alloggio. Le rette delle case di cura e di riposo, per lo meno a Bologna, arrivano ai 3500, 4000 euro al mese. Per l’assunzione di una collaboratrice familiare, peraltro, non è prevista alcuna compartecipazione alla spesa da parte dei servizi di welfare pubblici o del Servizio Sanitario Nazionale: si possono detrarre solo i contributi Inps, pratica che mira a disincentivare il lavoro nero, ma non incide significativamente sull’esborso di cui l’assistito deve farsi carico. Questo fa sì che le famiglie tentino di trovare strade alternative, a discapito, fra le altre cose, della professionalità delle persone a cui ci si rivolge. I corsi da OSS costano molto, poiché sottostanno a rigidi regolamenti; Infermieristica è diventata una vera e propria laurea: la richiesta economica di questi professionisti, naturalmente, è aumentata proporzionalmente al riconoscimento sociale che ne è conseguito e all’aumentare delle spese che lo specializzando ha dovuto sostenere per conseguire il titolo. Sempre di più, dunque, le famiglie hanno cercato di applicare l’arte dell’arrangiarsi, cercando strade alternative e affidandosi (e affidando i propri cari) a dubbi personaggi senza titoli e requisiti idonei.
Come afferma nel suo articolo Roberto Bortone pubblicato su “Agora Vox” del 19 marzo 2016, i casi di maltrattamenti accadono in una casa di riposo, spesso di provincia, in cui gli anziani vengono maltrattati, picchiati, umiliati. Anziani fragili e malati che non hanno più gli strumenti per difendersi, per cui i figli si sentono sollevati dai doveri dell’accudimento, ritenendo di avere già fatto abbastanza per loro sistemandoli nella struttura e, magari, andando ogni tanto a trovarli. In genere si trovano sempre sul web video che testimoniano quanto accaduto, girati dalle telecamere nascoste della Polizia che indaga a seguito delle segnalazioni. A volte le immagini diffuse sul web si confondono nella nostra mente, perché i casi ormai sono tanti, troppi. Ma a rileggerli tutti assieme il quadro che se ne trae è fosco, terribile. E pone delle domande. Nelle cronache locali e nazionali gli esempi si sprecano. 2013 a Terni: anziani maltrattati, picchiati e torturati in casa di riposo. Poi Nepi, in provincia di Viterbo. Ci sono i casi di un anziano caduto dalle scale con la carrozzina e di una dentiera scambiata per mesi a Mantova. Nel 2014 in Molise sono stati arrestati un medico e alcuni infermieri per maltrattamenti.
Un altro caso eclatante a Prato, dove oltre alle violenze avvenivano furti ai danni degli anziani ricoverati.
Nel 2015 a Palermo sono state chiuse due case di riposo dove gli anziani venivano legati alle sedie e picchiati. È successo ancora a Nuoro, Genova, Anzio e poi a Salerno. Si scrive, ogni volta, un copione già visto, fatto di qualche perplessità dei parenti, una soffiata, una denuncia, lunghe indagini, telecamere nascoste a documentare le brutalità e poi gli arresti. Fino ad arrivare agli episodi eclatanti di questo inizio d’anno: a quello di Roma, dove è stata scoperta una casa di cura lager in cui gli anziani venivano regolarmente picchiati e costretti a prendere medicinali scaduti. Oppure alle immagini choc di Vercelli, che documentano le violenze su anziani e disabili terminate con 18 arresti e la chiusura della struttura. Da ultimo, i due episodi che hanno sconvolto la provincia di Parma: gli anziani venivano sedati e costretti a rimanere immobili a letto. In un’altra struttura, erano addirittura costretti a mangiare sul pavimento e insultati dagli infermieri. Solo negli ultimi due anni sono decine i casi scoperti. Per non parlare di un altro triste caso (tra i tanti) di cronaca che ha per protagonista, questa volta, un’infermiera operante in un ospedale pubblico, condannata per avere effettuato iniezioni di potassio come personale forma di eutanasia su alcuni anziani pazienti. Ormai la diffusione di una mentalità che monetizza qualsiasi cosa, anche il valore delle persone, induce a considerare anziani e disabili fardelli di cui sbarazzarsi il prima possibile, accompagnando, quando non facilitando, la loro dipartita.
In tutti i servizi giornalistici televisivi in cui si parla di casi di maltrattamenti viene usata la parola lager per indicare la struttura residenziale nella quale avvengono. Mi sono interrogato sul senso di questo paragone, al di là dello slogan giornalistico e, confrontandomi con alcuni amici, mi sono sentito rispondere che il termine mira a paragonare la condizione degli operatori a quella delle SS che lavoravano nei campi di concentramento e di sterminio, in quanto entrambi rappresentano l’ultimo anello della catena, gli esecutori di ordini che vengono dall’alto. A me questo paragone non convince, prima di tutto perché vige per ciascuno di noi il principio di autodeterminazione per cui la responsabilità delle proprie azioni deve essere considerata sempre personale. Non a caso, la difesa di Adolf Eichmann (uno dei principali responsabili operativi dello sterminio degli ebrei) al processo per genocidio e crimini contro l’umanità subito nel 1961 in Israele e reso noto ai più dal-
la filosofa Hannah Arendt, ovvero “eseguivo degli ordini”, è diventata tristemente nota come “l’incarnazione dell’assoluta banalità del male”. Anche se può essere vero che gli operatori sono soggetti a turni di lavoro molto duri e faticosi con una paga sicuramente inadeguata, e che sono abbandonati a se stessi, non avendo quasi nessun supporto psicologico, tuttavia essi non ricevono certamente l’ordine di torturare e di uccidere, ma di prendersi cura dei propri assistiti, non fosse altro perché sono proprio questi ultimi la fonte di guadagno della casa di cura in questione. Quindi secondo me il paragone tra le case di cura dove avvengono i maltrattamenti e i lager è più da ricercare nella spersonalizzazione degli ospiti che in un caso come nell’altro li riduce a puri e semplici numeri su cui si può infierire. Sicuramente è vero che il sistema di assistenza ai malati, agli anziani e ai disabili, così come è concepito dal nostro welfare, può dirsi esso stesso malato, ma ciò non toglie la responsabilità individuale del singolo operatore che, come qualsiasi altro lavoratore, è chiamato a svolgere al meglio i propri compiti. Pensando alla mia vita, posso dire che, da quando è morto mio padre, ho sempre avuto bisogno di qualche operatore, dapprima soltanto qualche ora, poi dalla morte di mia madre, per tutta la giornata e per la notte.
Devo affermare che non ho mai avuto problemi di maltrattamenti fisici o psicologici, anche perché, vivendo a casa mia, con mia sorella che abita al piano di sopra con la sua famiglia, con molti amici che mi vengono a trovare quotidianamente, non sono mai stato abbandonato a me stesso. Tuttavia, non è stato sempre facile gestire i rapporti professionali con queste persone, soprattutto perché essi erano inevitabilmente intersecati con un rapporto umano e personale che si sovrapponeva al rapporto di lavoro.
Quando, poi, si aggiunge la convivenza, che è difficile persino per gli amici o per le coppie, il rapporto professionale diviene talvolta quasi marginale in confronto all’aspetto relazionale. L’unico episodio davvero spiacevole si è verificato quando ho dovuto comunicare a un mio assistente che, per organizzarmi durante la malattia e il conseguente decesso di mia madre, avrei dovuto fare a meno del suo lavoro, perché mi offriva una disponibilità oraria limitata, mentre io, a quel punto, avevo bisogno di una presenza ben più costante. Lui si è sentito tradito ed è arrivato a insultarmi e a minacciare me e mia madre, sul letto di morte, gettandoci in uno stato di tale prostrazione psicologica da impormi di dirgli di non venire più da un giorno all’altro, rinunciando al preavviso di legge. Questo dopo anni di collaborazione e dopo avere condiviso con lui una parte per me assai significativa della mia esistenza, coltivando un rapporto di vera amicizia anche con le rispettive famiglie, arrivando a farmi capire come, invece, per lui io fossi stato solo lavoro e una fonte di sostentamento materiale.
A parte il mio caso, il problema dei maltrattamenti nelle strutture pubbliche è sempre più grave e diffuso sia in Italia, sia all’estero. Come arginare questa deriva? O, per lo meno, il fenomeno dei maltrattamenti? Non ho ricette miracolose. Penso che aumentare i controlli con le telecamere non sia una soluzione, per lo meno non sufficiente, anche se aiuta a scoprire i casi e a punire i colpevoli, perché è comunque una soluzione a valle che può combattere i sintomi ma non le cause del problema. La questione andrebbe affrontata a monte, quanto meno al momento della selezione del personale, valutandone la consapevolezza che non si tratta di svolgere un lavoro come gli altri, ma una attività di grande responsabilità, in cui c’è bisogno di qualcosa di più di due braccia e due gambe robuste. Si potrebbe parlare, piuttosto, di animo e coscienza robuste, ma sono parole fuori moda, che, tuttavia, almeno in questo lavoro dovrebbero avere ancora un senso, se comprese nel loro giusto significato.
naviga:
Ricerca libera
Argomenti
Associazione “Centro Documentazione Handicap” – Cooperativa “Accaparlante” – via Pirandello 24, 40127 Bologna. Tel: 051-641.50.05 Cell: 349-248.10.02