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autore: Autore: Stefano Toschi

Parole extrachiare

di Stefano Toschi

Il tema dell’immigrazione è sempre più in primo piano nel nostro Paese. Esso porta con sé tante implicazioni, sociali, economiche, nel mondo del lavoro, ma, spostando il focus dell’attenzione solo ed esclusivamente sulle persone, vorrei affrontare un argomento che finora è stato poco trattato: il rapporto tra immigrazione e disabilità. Già una decina di anni fa, l’Associazione Beati noi commissionò una ricerca su questa tematica, allora del tutto all’avanguardia.
Emerse, tuttavia, come l’argomento risultasse scarsamente trattato per il fatto che difficilmente il fenomeno migratorio avrebbe potuto riguardare, all’epoca, adulti con disabilità. I pochi anni trascorsi, però, a oggi paiono ormai un’era geologica perché nel frattempo sono cambiate tantissime cose. I migranti non sono più solo giovani uomini in età da lavoro, ma intere famiglie, con anziani a carico (e, si sa, senectus ipsa morbus est) o con bambini piccoli al seguito, sempre più spesso bambini che nascono in Italia. Per i bambini con disabilità si cercano cure migliori nel nostro Paese. Quasi sempre i piccoli sono vittime del pregiudizio e dell’ignoranza nella propria terra d’origine: albini, epilettici, schizofrenici, paralitici, ogni deficit più o meno grave è visto come una maledizione per tutta la comunità, come una caratteristica demoniaca. Il soggetto che manifesta deficit e la sua famiglia, invece di essere accolti e aiutati, vengono spesso allontanati ed emarginati. Non che nella nostra, occidentalissima società le cose vadano molto meglio: tuttavia, per lo meno, il welfare state all’europea rende praticabile un certo tipo di assistenza pubblica. Negli anni mi è capitato di incontrare diversi ragazzi di origine straniera con deficit e le loro mamme. Sì, perché, nella quasi totalità dei casi sono le donne, a qualsiasi categoria sociale appartengano, a farsi carico dell’impegnativo lavoro di cura della prole. Vuoi per reazioni di paura, di rifiuto, vuoi per reale incapacità o per mancanza di fiducia nella società che li accoglie, i padri, spesso, si defilano di fronte a queste difficoltà. Emerge, allora, tutta la forza d’animo di queste madri che combattono per la salute e il benessere dei propri figli. In queste situazioni di doppia fragilità si evidenziano con chiarezza tutte le caratteristiche più significative della condizione di disabilità. Prima di tutto il pregiudizio: la disabilità è vissuta non come una caratteristica dell’individuo, mal che vada come una malattia, ma come risultato dell’essere malvoluti dagli dei, o l’essere oggetto di una maledizione, di un malocchio, di una volontà ultraterrena o, peggio, come il risultato di una colpa compiuta dai genitori, più spesso dalla madre, o come una punizione per l’intera comunità. Da ciò deriva l’isolamento della persona e della famiglia, che non sono sostenuti da una rete solidale, ma abbandonati a se stessi.
L’immigrazione in terra straniera comporta necessariamente il venir meno delle reti solidali di parentela o vicinanza, mettendo a nudo in maniera estremamente evidente la situazione di solitudine che la presenza del deficit porta con sé. Spesso, poi, l’ignoranza di alcune peculiarità antropologiche da parte dei medici, la cattiva comprensione della lingua e l’incapacità di comunicare appieno dall’altra parte rendono molto difficile formulare le diagnosi, facendo perdere tempo prezioso per salvare il salvabile.
Mi raccontò una volta una mamma di come al suo bambino appena nato non fosse stata riconosciuta
in tempo una sofferenza fetale, che se solo fosse stata curata tempestivamente non avrebbe portato con sé danni irreversibili. La neomamma, nordafricana, denunciò ai medici il colorito scuro del suo neonato, ma essi la apostrofarono dicendole che era troppo apprensiva come ogni puerpera e che se suo
figlio era scuro lo doveva, ovviamente, alle proprie origini. La mamma, tuttavia, aveva giustamente rico-
nosciuto che non si trattava di un colorito normale, ma fu l’ignoranza a parlare per quei medici. D’altro canto, le scarse conoscenze linguistiche portano, talvolta, i genitori a non essere in grado di spiegare
correttamente i disturbi e i sintomi manifestati dai loro figli: anche questo rallenta le diagnosi in modo significativo. Da ciò emerge l’importanza della comunicazione, verbale o meno, di fronte alla disabilità, ma anche l’importanza dell’insegnamento della lingua come primo, fondamentale veicolo di integrazione. Ci sono dolori così forti, di fronte alle difficoltà di un figlio, che se, oltretutto, non sai comunicare, non sai come affrontare, non riesci a spiegare, si amplificano a dismisura. Per non parlare di quando il figlio con disabilità nasce proprio nel Paese in cui si è scelto di trasferirsi. Ogni progetto migratorio implica che il Paese di destinazione sia visto come la soluzione, se non a tutti, a gran parte dei propri problemi. Ci si immagina che, trasferendosi, si andrà a stare meglio. Qualora, invece, ci si trovi di fronte alla nascita di un figlio con qualche difficoltà, si vive la situazione come una sorta di doppio tradimento. Si parte per stare meglio e ci si trova ad affrontare una difficoltà non prevista, qualcosa che non dovrebbe mai accadere nell’Eldorado immaginato. Ecco che la presa di coscienza diventa ancora più complessa.
Per non parlare di chi incontra la condizione di disabilità sul lavoro: le morti bianche, altro tema “caldo” dei nostri giorni, gli incidenti sul lavoro, sono tristemente numerosi, specie fra i cittadini immigrati, dal momento che ad essi, più di frequente, viene richiesto di lavorare in situazioni di pericolo, senza adeguati sistemi di sicurezza, spesso in nero, senza garanzie né tutele, per pochi soldi. Si tratta di una vera e propria piaga sociale, difficile da combattere, ma che richiede una grandissima dose di attenzione e impegno da parte dei nostri governanti. Per contro, di fronte a situazioni di duplice difficoltà, si riscoprono o si creano legami sociali insperati, fra immigrati, ma anche fra italiani e non, magari accomunati proprio dalla necessità di assistere un familiare, di lottare per lui. Le reti sociali si consolidano proprio in risposta a questi ostacoli, quasi sempre intorno a qualcuno che trova la forza di reagire. Talvolta sono la fede e la religione a fornire risposte e la capacità, se non di andare avanti, di accettare la situazione. Il conforto lo si trova, talvolta, nelle cose e nelle persone più insperate. La speranza, insieme alla fede, sono un motore di vita e di senso degli accadimenti di essa. Una speranza che, a volte, si fa molto concreta: ad esempio, si ripone fiducia nei progressi della medicina, coltivando la speranza che possa trovare soluzioni adeguate. A volte una diagnosi clinica, per quanto terribile, contiene in sé un germe di speranza, nascosto nella consapevolezza che no, non ci si stava sbagliando sui sintomi di un figlio, che davvero ha qualcosa che non va, che non è colpa sua, che si tratta di una malattia, di un deficit, con un nome proprio, non di un capriccio. Spesso, chiamare le cose col proprio nome aiuta non solo a guardare in faccia la realtà e ad acquisirne consapevolezza, ma anche a poterle affrontare con una sicurezza nuova, quella di chi conosce il nemico da combattere. Anche per questo mi batto da sempre perché la disabilità abbia un nome e un cognome. A ognuno il suo, senza generalizzazioni. Essere ipovedenti o spastici non è equivalente, non si tratta di deficit della stessa natura. Chiamare le cose col loro nome significa conoscerle. Anche la parola extracomunitari proprio perché è generica provoca incomprensioni e pregiudizi. Non si dovrebbe parlare di disabili extracomunitari, ma di quel ragazzo marocchino spastico o di quell’uomo filippino non vedente. Parlare chiaramente e non in modo generico è un grande passo avanti verso la vera accoglienza.

Una normale diversità

di Stefano Toschi

Recentemente si è ricominciato a parlare di quello che può essere definito sfruttamento dell’immagine
delle persone con deficit, a partire dal caso di una concorrente della trasmissione televisiva Grande Fratello, che è rimasta priva di un braccio a seguito di un incidente. La ragazza in questione, tuttavia, è una bellissima ex modella che, grazie anche all’amore di una famiglia molto presente, è riuscita a superare il trauma senza eccessivi strascichi. Ancora, pochi giorni fa, in occasione della Giornata Mondiale dell’Autismo, è uscito in Italia il libro di un ragazzo giapponese con disturbi dello spettro autistico, Naoki, oggi 21enne, che pubblicò il libro nel suo Paese ben 8 anni fa.
Il prof. Carlo Hanau, grande esperto di tale patologia, ha invitato i lettori a evitare questa sorta di mistificazione della persona con autismo, presentata spesso, nella letteratura e nel cinema, da Rain man
in poi, come geniale, con difficoltà di comunicazione e a rientrare negli schemi, ma per un eccesso di sensibilità e intelligenza. Questa visione dell’handicap produce, come prima conseguenza, l’insorgere, nei genitori dei soggetti con disturbi dello spettro autistico, di false speranze che, inevitabilmente, crollano nella disillusione prodotta dalla realtà quotidiana.
Di fronte a questi esempi recenti, mi sono sorti diversi dubbi. Solitamente, nei miei scritti esorto alla valorizzazione dei talenti, talvolta nascosti o poco convenzionali, delle persone con deficit. Invito ad an-
dare oltre le apparenze dell’handicap e a trovare le diverse abilità di chi ha difficoltà estremamente trasparenti ma, quasi sempre, virtù più difficili da scoprire. Molte volte ho sollecitato la ricerca della differenza come ricchezza ma, di fronte a questi fatti, ma è sorta qualche perplessità. Da sempre la società tende a sfruttare e spettacolarizzare un certo tipo di diversità, dalla donna baffuta del circo, all’esposizione di “mostri” (letteralmente, “prodigi”) e “scherzi di natura” per solleticare la curiosità ignorante prima di quella scientifica. Oggi, tuttavia, la spettacolarizzazione del diverso ha preso la piega dello sfruttamento più che della reale volontà di considerare la persona con deficit esattamente come tutte le altre.
La ragazza del Grande Fratello potrebbe diventare emblema di coraggio e forza di volontà nel superare un trauma, un esempio positivo per tanti ragazzi sanissimi che, dopo un incidente, vedono la loro vita cambiare drasticamente da un giorno all’altro, fra mille difficoltà. Questa ragazza, però, sarebbe stata
selezionata per la trasmissione anche se avesse avuto entrambe le braccia? Chiederselo è legittimo e la risposta potrebbe essere deludente. Certamente si potrebbe dire che, allora, anche la bellezza può diventare un espediente per farsi notare, che lo sfruttamento dell’immagine, specie femminile, passa da una lunga serie di dettagli anatomici che vanno ben oltre l’assenza di un braccio. Tuttavia, siamo sicuri
che noi portatori sani di deficit puntiamo a essere strumentalizzati come la modella discinta sul calendario? Non credo sia questa l’uguaglianza alla quale dobbiamo ambire.
Anche la parità di genere, in questo senso, è un falso mito. La donna è diversa dall’uomo per natura, così come ognuno di noi è diverso dall’altro. La donna è accogliente, non a caso il lavoro di cura, familiare o professionale, ricade quasi sempre su di essa.
Non credo che la parità passi dalle quote rosa (“devo favorirti perché da sola non riesci a emergere”), dalle donne che fanno gli stessi lavori, per qualità e quantità, degli uomini, perché poi, a casa, è difficile che l’uomo si affianchi o si sostituisca alla compagna nel lavoro domestico o familiare.
So di dire una cosa politicamente scorretta, ma, piaccia o no, le differenze sono quelle che hanno permesso all’umanità di sopravvivere fino a oggi. I ruoli esistono in natura non sono convenzioni sociali.
Certamente, per il genitore di un ragazzo con disturbi dello spettro autistico potrà essere estremamente
foriero di speranze osservare come certe tecniche di comunicazione riescano ad aumentare le capacità di relazione del figlio e con il figlio. Ma ingenerare aspettative troppo alte, così come può essere dannoso per lo sviluppo equilibrato di un adolescente del tutto normale, così può risultare estremamente pericoloso per il genitore di un ragazzo con deficit.
Proporre standard e modelli troppo alti e idealizzati genera insicurezza e senso di inadeguatezza in qualsiasi adolescente, oggi sempre più spesso caricato dalla famiglia di aspettative che derivano, probabilmente, da un certo senso di riscatto sociale. La vera serenità dei soggetti coinvolti passa dalla piena accettazione della persona, con deficit o meno, indipendentemente da quali siano i suoi talenti o i suoi punti deboli. Poi, certamente, i genitori della ragazza del Grande Fratello hanno ogni motivo per essere orgogliosi del modo in cui la loro figlia ha affrontato la sua disgrazia. Anche averne fatto un punto di forza può essere considerato un modo corretto di valorizzare la propria condizione. Questo, però, finisce dove comincia la strumentalizzazione. Su qualsiasi ricorrenza di pagine internet lei non è mai definita solo “Valentina del Grande Fratello”, ma sempre “la ragazza senza un braccio del Grande Fratello”. Ecco, io non voglio essere “Stefano in carrozzina” o “Stefano lo spastico”, perché a nessuno verrebbe mai in mente di dire, che so, “Marco il deambulante”. Se il mio biglietto da visita deve passare dalla mia carrozzina o dal mio handicap, c’è qualcosa che non va.
Ho letto recentemente della direttrice di un giornale che doveva inviare un proprio giornalista a intervistare un personaggio politico. I due non si conoscevano e lei, affinché l’intervistato riconoscesse l’intervistatore, glielo descrisse evidenziando alcune caratteristiche fisiche: alto, magro, moro, con gli occhiali. I due non si trovarono subito e il giornalista chiamò la direttrice per chiederle come lo aveva descritto alla persona da intervistare. Ascoltata la descrizione, un po’ vaga, le chiese, sconcertato: “Ma gli hai detto che sono nero?”. No, non glielo aveva detto. Non le era proprio venuto in mente. Ecco, questa è la vera integrazione, la vera parità, la libertà di non essere identificato da una caratteristica che, in qualche modo, mi rende diverso. Anch’io voglio essere Stefano moro, magro, di altezza media, non Stefano in carrozzina. Anche se… sempre evviva per la carrozzina: come farei a muovermi senza e, soprattutto, a farmi felicemente scarrozzare in giro?

Animalismo o anti-umanismo?

Di Stefano Toschi

La Regione Abruzzo ha approvato di recente una legge che prevede che tutti i comuni costieri si dotino di un tratto di arenile dedicato ai bagnanti con cane al seguito. Una legge per cui gli animali domestici avranno diritto ad accedere alla spiaggia e fare anche il bagno,“mentre”, dice Ferrante, presidente dell’associazione “Carrozzine Determinate”,“gli esseri umani, quelli titolari dei diritti inviolabili, come le persone con disabilità, non hanno alcun diritto di godere della spiaggia e del mare”.
Questa è una piccola notizia, una notizia apparentemente marginale che, però, rivela una mentalità che ha cause e conseguenze molto più importanti. La battaglia animalista è sempre più forte: basti pensare, ad esempio, a Berlusconi che, nelle ultime elezioni, ha puntato molto sui voti dei proprietari di cani e gatti e sull’immagine affettuosa del suo cane Dudù. Pure il Professor Monti, per raccogliere voti, si fece intervistare con cagnolino al seguito, per intenerire l’elettorato e dare un’idea più “umana” di sé. Questa equiparazione tra diritti umani e diritti animali svela la mancanza di una gerarchia di valori per cui l’uomo non è più al primo posto del Creato, ma viene paragonato agli altri esseri viventi. Non si tratta di negare i diritti animali, ma di ritornare a un’idea non egualitaria per cui la vita umana viene prima delle altre forme di vita. Certamente, l’uomo fa parte della natura e la deve conservare e rispettare, ma non è un animale tra gli altri animali: è un essere che possiede il logos, come dice Aristotele, e questo lo pone un piano sopra gli altri. Come leggiamo nel libro della Genesi, Dio dà ad Adamo la possibilità di servirsi del creato, animali compresi, per le proprie necessità. Questo perché Adamo è dotato di parola, cosa che gli permette di “dare il nome alle cose”: solo chiamando le cose col proprio nome, si può dire di conoscerle. Oggi, l’animalismo ha preso il posto dell’“umanismo”, con tutte le contraddizioni che derivano da quella che, spesso, non è una convinzione radicata e consapevole (dunque del tutto rispettabile), ma derivata da una superficiale adesione a una moda del “politicamente corretto”. A Pasqua non si deve mangiare l’agnello, ma mangiare vitello e maialino o puledro durante l’anno non sembra turbare altrettanto le coscienze. Persino al Papa sono state messe in bocca parole animaliste che non ha mai pronunciato. Un esempio inquietante di questo sconvolgimento di valori è rappresentato dalla storia di Caterina Simonsen: una giovane affetta da cinque diverse patologie molto gravi, che qualche mese fa aveva postato su Facebook una foto che la riprendeva con un foglio in mano che riportava la scritta: “Io, Caterina S., ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale. Senza la ricerca sarei morta a nove anni. Mi avete regalato un futuro”. Le risposte che le sono giunte dagli animalisti sono state feroci e spietate. Qualche esempio: “Per me puoi morire pure tu domani, non sacrificherei nemmeno il mio pesce rosso per te”,“Magari fosse morta a nove anni, un essere vivente di m… in meno e più animali su questo pianeta”. In tutto trenta auguri di morte e oltre cinquecento offese di vario tipo. Peraltro Caterina studia, quando la malattia glielo consente, nientemeno che veterinaria. Possiede cani, gatti, furetti e dedica tutte le sue energie residue alla salvaguardia degli animali e della natura. Questo è un caso estremo, ma esprime un sentimento molto diffuso per cui l’amore per gli animali viene prima di qualsiasi altra considerazione. Un altro esempio di questa mentalità, forse meno eclatante ma ugualmente significativa, è rappresentato dalla grande diffusione delle diete vegetariane o vegane che escludono la carne, non tanto per motivi di salute, quanto piuttosto per motivi etici. Qualche tempo fa, ho sentito un’intervista a una persona convertita alla dieta vegana che diceva che adesso può chiedersi “che cosa mangiare” e non “chi mangiare”, quasi che gli animali fossero persone. Nessuno mette in discussione che bisogna avere rispetto anche per gli animali, che devono essere allevati in modo naturale e non costretti a vivere in condizioni orribili, ma questo non implica la necessità di non cibarsi anche di carne animale. I diritti degli animali dovrebbero essere compresi in una concezione che veda l’uomo al vertice dell’evoluzione, come in effetti è anche da un punto di vista scientifico.
Ancora, pochi mesi fa ha fatto scalpore la storia della giraffa uccisa in uno zoo, davanti a una scolaresca. Sicuramente si è trattato di un’immagine diseducativa e alquanto deprecabile. Però, ogni giorno, davanti agli occhi dei nostri ragazzi, vengono uccisi bambini, uomini e donne innocenti; la televisione tra- smette immagini di violenza di ogni tipo, per non parlare della strage degli innocenti che è rappresentata, oggi, dalla piaga dell’aborto (e lo scrivo consapevole di urtare la sensibilità di qualcuno e di attirarmi le critiche dei detrattori, ma, si sa, sono filosofo e, dunque, al servizio della verità). La giornalista di Rai Tre Costanza Miriano, interpellata sul tema, ha detto cose molto sagge: “Oggi è pieno di persone che si dicono cristiane e poi scopri che sono vegetariane. Se a Pasqua incontri qualcuno che si rifiuta di mangiare l’agnello, tu cosa gli dici? Gli dico che se vuole essere vegetariano faccia pure, ma Gesù la carne la mangiava, Dio ce l’ha data per nutrirci e non possiamo essere più sapienti di Dio. Gli direi anche che, certo, è bene non maltrattare gli animali per il gusto di farlo, ma mangiarli è perfettamente nel disegno di Dio, mentre nessuno si preoccupa dei bambini uccisi quando stanno al sicuro sotto il cuore della loro mamma. Un vegetariano che non sia antiabortista è ridicolo”. E anche che abbia la macchina, aggiungo io. Nessuno si strappa le vesti per queste barbare uccisioni di esseri umani, ma i giornali hanno parlato per settimane della povera giraffa (che poi, certo, anche a me dispiace sia morta, poverina). Io sono cattolico e la mia religione è tutta “carne e sangue”: dai miracoli di Gesù, all’ultima cena, al suo sacrificio, al costante richiamo simbolico all’agnello, a quello che scrivono San Paolo e, persino, l’“amico degli animali” San Francesco.
Ormai il vegetarianesimo non è più un semplice pensiero alimentar-salutista (nel qual caso sarebbe del tutto rispettabile e, magari, fa pure bene davvero!); il problema è che non è più una semplice questione di salute, ma è diventata una vera e propria filosofia, anzi, una religione. Ma questa filosofia non è innocua, non è senza conseguenze sull’uomo. Certo, come in ogni cosa, anche nel consumo della carne ci vuole moderazione. Gli allevamenti inquinano, troppa carne fa male, spesso è imbottita di ormoni e antibiotici, costa pure cara. Non c’è dubbio. La moderazione alimentare, però, non deve diventare un credo. Oggi si possono scaricare dalle tasse le spese mediche del veterinario per il proprio canarino, ma non si possono detrarre, ad esempio, le spese di istruzione per i figli. Siamo una Nazione sempre più vecchia e meno prolifica. Non so dire se sia colpa della mancanza di servizi adeguati per sostenere le famiglie, se sia colpa di una generazione egoista, se sia colpa del fatto che abbiamo cresciuto figli troppo coccolati e protetti. Fatto sta che, sia per paura, sia per egoismo, piano piano abbiamo sostituito i figli con i cagnolini. Questi ultimi sono vezzeggiati e coccolati. Lo ha detto, di recente, anche Papa Francesco: “Forse è più comodo avere un cagnolino, due gatti, e l’amore va ai due gatti e al cagnolino”. È anche meno dispendioso, aggiungo io. Meno foriero di responsabilità, ansie, impegno a lungo termine. È per questo che, presto, saremo una Nazione vecchia e senza speranza. Persino gli antichi si facevano beffe di coloro che vezzeggiavano l’animale domestico quasi fosse un bambino: chissà cosa penserebbero, oggi, di noi, vedendo certe scene, vedendo quei bambini affamati con pance enormi e occhi lucidi e quei cagnolini col vestito griffato. Certo, si è più moderni se si è letto Tiziano Terzani, piuttosto che se si è letto Matteo, 15. Per questo, Matteo, 15 lo citerò io: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”

Finché c’è dialogo c’è speranza

di Stefano Toschi

Nel momento storico in cui sembra mancare di più, tutti lo invocano. Nel contesto dei post, dei tweet, degli slogan a senso unico, è il dialogo il grande assente della nostra esistenza.
Come dice l’etimologia stessa, c’è un “passare attraverso” le parole che caratterizza la nostra civiltà, il nostro stare in società, la nostra necessaria vita di relazione. Per Socrate è proprio il dialogo a fornire gli strumenti per evitare di commettere errori, siano essi di logica, ma anche morali, perché c’è sempre un fondamento etico nel dialogo. Ed è proprio nei campi fondamentali della vita che esso si rende necessario: nella religione, in politica, fra cittadini e istituzioni, in famiglia, fra amici, fra generazioni, fra culture. Solo attraverso il confronto ci si arricchisce e si trova una sintesi fra le posizioni.
Nel mio caso il dialogo deve usare spesso intermediari. Infatti, non tutti riescono a comprendermi quando parlo e il mio interlocutore deve porsi in condizione di massima attenzione e ascolto. Questo aspetto, che può apparire un limite, in realtà si trasforma in una risorsa e un arricchimento reciproco. Mi capita di parlare a ragazzini in età scolare che, si sa, non sono particolarmente portati all’ascolto. Eppure, forse perché lo prendono come un gioco, forse per curiosità, le mie difficoltà di espressione li inducono a un silenzio di cui i loro stessi genitori, insegnanti ed educatori si stupiscono. Vorrei raccontare un piccolo episodio che è avvenuto mentre ero in vacanza al Villaggio senza barriere Pastor Angelicus, vicino a Tolè, sull’Appennino bolognese.
Tra i volontari che seguivano le persone con deficit c’era anche una ragazza musulmana, Chaimaa, italiana di origini marocchine. Io non faccio mistero con nessuno della mia fede. Chaimaa frequenta per amicizia un gruppo cristiano.  È  stata  l’unica a chiedere di parlare con me, in mezzo a decine di volontari cattolici, e questo mi ha ricordato l’episodio dei dieci lebbrosi ,dei quali l’unico a tornare per ringraziare Gesù era un samaritano. Era venuta anche l’anno scorso ed era rimasta colpita da un mio intervento. Così quest’anno ha deciso di parlare con me. Anche questo è un aspetto essenziale del dialogo: il meditare dentro di sé quello che un altro ci ha detto, per comunicarlo nuovamente in seguito ,per approfondire insieme. Chaimaa mi ha letto un articolo che aveva scritto sul tema della guerra e della pace. Ma soprattutto mi ha parlato della sua ricerca di Dio. Lei usava sia il nome Dio che il nome Allah, ovvero sia il nome italiano che quello arabo. Miha parlato del suo desiderio di stare da sola con Dio. Sentiva un forte bisogno di preghiera personale. Ascoltandola, mi è venuto in mente quel brano di Matteo in cui Gesù dice:“Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6,5). Con noi c’era un amico prete, don Davide, il mio accompagnatore al Villaggio senza barriere. Ha ricordato che le prime volte che dormiva in stanza con me, al mattino presto mi sentiva borbottare; solo dopo un po’ di tempo ha capito che stavo pregando. Io sono un po’ “luterano”in questo: per me la preghiera è prima di tutto personale, poi c’è la preghiera della Chiesa. Se non c’è un dialogo personale con Dio, la preghiera comunitaria rischia di diventare un alibi per non pregare sinceramente. Come dice sant’Agostino, Dio è intimior intimo meo, “più intimo della mia intimità”. Con Chaimaa ci siamo trovati pienamente d’accordo sul punto della necessità di pregare personalmente. Io le ho raccontato la mia esperienza degli esercizi spirituali ignaziani. Lei, pur non avendo mai sentito parlare di sant’Ignazio, ne è rimasta molto interessata. Ci siamo lasciati con quello che Ignazio chiama il “gusto spirituale” di una ricerca di rapporto autentico con Dio, oltre che con una nuova amicizia basata sul rispetto reciproco.
Ecco perché penso che anche il dialogo interreligioso acquisisca più senso se lo si costruisce a partire non tanto dai movimenti, dai gruppi, dai vertici, ma dalle persone. È il dialogo a due quello dell’intimità, quello in cui è meno probabile sentirsi giudicati, o minoritari. Dialogare vuol dire ascoltare e com-patire, cioè sentire le stesse cose che sente l’interlocutore, specialmente le sue gioie e le sue sofferenze. Non vuol dire dare sempre ragione all’altro o fare proprio il pensiero altrui.
L’essenza del dialogo, di qualunque natura esso sia, è l’avanzare insieme verso un obiettivo. Potrebbe essere la conoscenza reciproca, oppure quella di un principio, ma dovrebbe condurre le parti dialoganti verso una realizzazione comune: non necessariamente una sintesi, ma, almeno, la consapevolezza dell’altrui posizionamento. Possiamo dare molti nomi a ciò che ci spinge a cercare il confronto: senz’altro è l’assenza di esso che causa molte delle più comuni incomprensioni.
Il dialogo con persone con deficit può risultare più difficile. Talvolta non sono in grado di esprimersi facilmente, come nel mio caso, oppure non riescono proprio a farlo. Altre volte, hanno veicoli comunicativi diversi, il cui approccio richiede all’interlocutore un ulteriore sforzo a livello di ascolto, di attenzione, di impegno nel cercare di comprendere. Ma è proprio questo scoglio che permette un “secondo livello” di arricchimento nel confronto.
Ho tanti amici con deficit fisici così significativi da non permettere loro di esprimersi verbalmente: per anni, molti di loro sono stati ritenuti deficitari anche dal punto di vista intellettivo, solo perché nessun professionista incontrato sulla loro strada era stato in grado di ascoltarli, di osservarli realmente, con attenzione, tanto da arrivare a capire che erano perfettamente senzienti, anzi, spesso, con un’intelligenza ben sopra la media: semplicemente non erano capaci di esprimersi tramite i canali tradizionali. Oggi, senz’altro, la tecnologia viene in nostro aiuto, ma quando ero più giovane, se non fosse stata per la determinazione delle mamme e dei papà miei e di questi amici, oggi saremmo probabilmente considerati dei subdotati. Invece, è avvenuto esattamente l’opposto:ognuno di noi si è poi realizzato e affermato nella vita, secondo i propri carismi, le proprie aspirazioni e attitudini. È stato quel dialogo intimo e speciale fra un figlio e i suoi genitori che ci ha sostenuti nella nostra battaglia di riconoscimento dei rispettivi talenti; ma è sufficiente una maggiore attenzione ed empatia da parte di qualsiasi interlocutore per arrivare a comprendere fino a che punto può spingersi il dialogo con tutti coloro che incontriamo ogni giorno sulla nostra strada. Le storie che hanno da raccontareglialtrisonospessobellee interessanti:senonlosono,magarine abbiamo noi una da raccontare a loro. Pronta per essere ascoltata.

Di paresi spastiche e tiri liberi

di Stefano Toschi

C’era una volta un principe che si sentiva un fenomeno: bello, ricco, potente. Soprattutto bello. Un giorno gli fa visita una vecchina, molto brutta: in realtà è una strega. La caccia fuori dal castello, sotto la tormenta e lei, per fargli capire cosa conta davvero nella vita, lo trasforma in una bestia orrenda: solo l’amore incondizionato di una fanciulla, che saprà andare oltre le apparenze, potrà salvarlo. La bella e la bestia continua a fare scuola, tanto che, ancora oggi, ci sono trame di pellicole cinematografiche che ne copiano diligentemente la storia. È il caso di Tiro libero, un film che, avevo letto, doveva essere incentrato sulle vicende di una squadra di basket in carrozzina. Invece, il protagonista è una sorta di principe-Bestia. Uscito a settembre 2017, distribuito in qualche sala, con un discreto cast di attori italiani, racconta di un ragazzotto belloccio e arrogante, ricco di famiglia che, a seguito di un incidente automobilistico in cui ferisce gravemente una ragazza, viene condannato a tre mesi di lavori socialmente utili.
Visto che è un bravo giocatore di basket, lo “condannano” ad allenare dei ragazzini in carrozzina, scoprendo a sua volta di essere malato di distrofia muscolare e finendo per trovare l’amore della vita in una volontaria che, insieme ai ragazzini, diventeranno per lui, da seccatura preannunciata, una fonte determinante di ispirazione, tenacia e forza d’animo, anche nella malattia. Insomma, senza grande fantasia, il copione è un po’ sempre quello: la disgrazia può capitare a chiunque e i disabili sono esempio di virtù. La verità è che, pur apprezzando lo sforzo di farci percepire come esseri superiori, non lo siamo affatto. Siamo poveri peccatori come chiunque, magari con meno possibilità di fare del male a chicchessia, il che non significa meno desiderosi di farlo. Non tutti, intendiamoci: annoveriamo buoni e cattivi in pari proporzione che in qualsiasi altra categoria, dai bancari, ai calciatori, ai malati di tumore.
Una differenza fondamentale è data dall’acquisizione o meno dell’handicap nel corso della vita: è chiaro che, per chi, come me, è nato così, è più semplice.
Qualsiasi cambiamento di vita destabilizza chiunque, figuriamoci la notizia di una disgrazia. Io, che a basket non ho mai giocato, non ne posso sentire la mancanza. Indubbiamente, la nostalgia di qualcosa è una forma più grave di disperazione rispetto all’impossibilità di provarla. Per questo io evito sempre l’atteggiamento del santo o del virtuoso, anzi, rivendico il mio diritto a essere un povero peccatore, come tutti. Eh, già: vale anche il pensiero! Scherzi a parte, sarebbe sciocco negare che, appunto, le disgrazie della vita in cui chiunque di noi può incappare siano amplificate da una condizione di partenza già di svantaggio. Ad esempio, ho letto di recente di un ex assessore di un ricco comune lombardo che, per una serie di vicissitudini, si è ritrovato a vivere per strada. Da imprenditore e amministratore locale per oltre un ventennio a clochard. Il suo senso della dignità personale, peraltro, gli ha impedito per lungo tempo di chiedere aiuto a parenti e amici, e le Istituzioni, alle quali invece si era rivolto subito, avendole servite per anni, gli hanno voltato le spalle. La porta gliel’hanno aperta solo la Caritas e altre realtà locali del Terzo Settore. Racconto questa storia perché, del protagonista, mi ha colpito soprattutto il fatto che, nella sua intervista, quasi marginalmente accennasse di essere affetto da emiparesi spastica dalla nascita, raccontando di come tale condizione deficitaria di partenza avesse amplificato le difficoltà della vita di strada.
Mi ha molto turbato leggere che una persona spastica (seppure, a quanto pare, non in forma grave) potesse essere costretta a vivere per strada, anche perché, come racconta il protagonista, deve assumere costantemente farmaci e integratori molto costosi. Perdendo la residenza anagrafica (molti comuni della ricca Lombardia non ne hanno una fittizia per i clochard, come avviene, invece, a Bologna) ha perso anche il diritto all’assistenza sanitaria pubblica. Un cittadino italiano, che ha servito per anni il proprio Comune di residenza, si è ritrovato ad essere senza diritti di cittadinanza. Queste due storie, una cinematografica, una vera, mi hanno indotto, negli ultimi tempi, a riflettere molto sulla mia condizione e, più in generale, sulla concezione della disabilità nel nostro Paese. A fronte di film e romanzi che raccontano un po’ il “mito del buon disabile”, al pari del rousseauiano mito del buon selvaggio, dal quale passa il riscatto morale dell’umanità corrotta dal materialismo, ecco che un disabile vero, in carne e ossa, finisce a vivere per strada. Mi fa riflettere il fatto che la disabilità prevede costi sociali che, di solito, costituiscono il primo “taglio” a qualsiasi forma di budget pubblico: il welfare non può essere considerato solo un appesantimento dei costi perché, senza di esso, le ricadute sociali sono ben più gravi.
Quando nego la residenza al disabile che finisce senza alloggio, non faccio che aggravare i costi sanitari e creare nuovi costi. Il Terzo Settore sopperisce a molte mancanze del welfare pubblico e lo fa a prezzi più contenuti: buona cosa in ottica sussidiaria, molto meno nell’ottica della civiltà di una Nazione. Anche perché non succede quasi mai che il Terzo Settore abbia, poi, i giusti riconoscimenti per la propria opera sociale. Se una persona viene sostenuta sin dalle sue prime difficoltà e nelle cose fondamentali, difficilmente, poi, la situazione peggiorerà e diventerà una multiproblematicità da affrontare. Anche nella disabilità, chi ha maggiori possibilità economiche ha una vita migliore e più lunga: una banalità, certo, ma questa sperequazione è più grave se, a farne le spese, sono persone cui la propria condizione nega del tutto possibilità di riscatto, grazie a qualche dote personale. Se due persone normodotate nascono, a parità di requisiti individuali di intelligenza e salute, ugualmente povere e socialmente disagiate, è possibile che una delle due, o entrambe, trovino la via del riscatto sociale. Per due disabili la cosa diventa oltremodo problematica: per dire, se mia mamma mi avesse abbandonato in una struttura, probabilmente nessuno si sarebbe reso conto che le mie difficoltà di comunicazione con l’sterno non corrispondono a un’intelligenza sotto la media. Allora, insomma, rivendico volentieri la mia possibilità di essere considerato una persona cattiva, a patto che mi vengano fornite pari condizioni di partenza di chiunque altro. Senza pretendere di fare cose al di sopra dei miei limiti oggettivi (no, non voglio correre la maratona di New York), ma con la possibilità di vedere valorizzati i miei talenti, anche se, per farlo, necessito di maggiore assistenza rispetto a chiunque altro. Se un disabile viene considerato solo un costo sociale, si perde di vista il valore intrinseco della persona.
Ho conosciuto molte persone con qualche handicap lieve che si sentono un peso per la famiglia e la comunità, perché l’ambiente circostante non è in grado di valorizzarne le diverse abilità. Per contro, conosco individui che cercano ogni modo per potersi approfittare dei benefici del welfare pubblico, anche forzandone le maglie del diritto e ricorrendo ad escamotage incredibili. Per questo ritengo più che mai necessaria una svolta culturale che non dipinga la persona con handicap come un “buono sempre e comunque”, ma nemmeno come un costo pubblico. Si potrebbe cominciare chiamando le persone per nome e non per categoria di deficit e garantendo il diritto all’uguaglianza e alla ricerca della felicità, parafrasando la Costituzione degli Stati Uniti d’America.

Ad ognuno il suo mestiere

di Stefano Toschi

In questi anni abbiamo più volte trattato l’argomento del lavoro in molte sue sfaccettature. Quando si accostano i temi disabilità e lavoro, vengono subito in mente alcuni ammortizzatori sociali quali il collocamento mirato e altri provvedimenti volti a favorire l’integrazione, anche in ambito professionale, delle persone con deficit. In realtà, il più delle volte si cade in binomi non proprio in linea con il principio della realizzazione personale, del lavoro nobilitante e caratterizzante l’individuo. Si pensi al ragazzo non vedente messo a rispondere al centralino, anche quando questi è un ingegnere laureato con lode: è il caso concreto di un mio giovane amico. D’altra parte, in tempo di crisi, per “portare a casa la pagnotta” tanti giovani brillanti e normodotati si accontentano di professioni di ripiego, essendo sempre di più quelli del tutto senza lavoro e senza reddito: figuriamoci i giovani che partono da una condizione di svantaggio fisico. Il mercato del lavoro è sempre più competitivo, richiede caratteristiche psicofisiche e di resistenza alla fatica e allo stress che non sono alla portata di tutti. Eppure, il lavoro è un diritto individuale fondamentale, e sarebbe un diritto la realizzazione di sé tramite esso. Nella condizione di gravità del mio handicap non ho mai sperato di poter trovare un’occupazione adatta a me. O meglio, dopo la laurea in filosofia, conseguita grazie al supporto di mia mamma, di alcuni colleghi e alla comprensione dei docenti, avrei ambito all’insegnamento, ma le mie difficoltà di espressione avrebbero reso molto difficile, se non impossibile, la comunicazione con gli studenti. Per molto tempo il fatto di non poter lavorare mi ha posto di fronte ai miei limiti fisici con prepotenza: ritenevo di avere qualcosa da dare al prossimo, ma non trovavo il modo per esprimerlo e per sentirmi inserito in un contesto sociale che, troppo spesso, misura il valore di un individuo proprio in base alla produttività. Poi sono arrivati gli inviti ai convegni in qualità di relatore, la pubblicazione dei libri, gli articoli: ho trovato, così, il modo per comunicare quello che avevo a mia volta appreso negli anni, sia sui libri di testo, sia tramite tante esperienze di vita vissuta. Dopo alcuni anni ho avuto l’occasione di tenere un seminario all’istituto di scienze religiose Santi Vitale e Agricola, realizzando, così, l’ambizione dell’insegnamento. Ciò mi ha fatto riflettere sul fatto che, mentre a scuola, da studente, avevo potuto usufruire di un sostegno (seppur limitato), avevo potuto frequentare scuole ad hoc e godere di ausili, una volta passato dall’altra parte della cattedra la scuola pubblica non avrebbe mai previsto altrettante forme di supporto all’insegnamento, quante ne prevede per l’apprendimento. Leggevo di recente alcune statistiche sulle assenze dal luogo di lavoro delle cosiddette “categorie protette”: ritengo che esse potrebbero essere alquanto arginate se i datori di lavoro tenessero conto delle particolari esigenze di questa categoria di lavoratori. Ogni deficit è differente, perché lo è ogni individuo: a volte basterebbero correttivi minimi per limitare la necessità di tali lavoratori di assentarsi dalla propria mansione. Ad esempio, a me sarebbe bastato un supporto alla comunicazione, una sorta di “traduttore”, visto che non tutti comprendono quello che dico. Ho faticato a farlo accettare persino dove insegno, figuriamoci in una scuola statale: ho fatto ricorso al volontariato, è vero, ma dovrebbe essere un mio diritto esattamente come altri ausili fisici per altre forme di deficit. Purtroppo, facciamo i conti con risorse sempre più limitate e il fatto che la legge imponga l’assunzione di lavoratori svantaggiati, ma, poi, preveda solo un’ammenda amministrativa per chi non rispetta l’obbligo, fa sì che le aziende preferiscano pagare la multa piuttosto che farsi carico di un lavoratore con deficit, visto come un peso, invece che come una risorsa professionale. Ho posto alcune domande a un insegnante di una scuola pubblica bolognese, un istituto superiore. Federico Cinti ha un grave deficit visivo. Eppure, insegna lettere ed è molto amato dagli studenti, perfettamente integrato sia sul lavoro, sia nella società civile (è consigliere comunale di un piccolo Comune dell’hinterland bolognese, dirigente delle Acli, poeta e scrittore). Lasciamo parlare Federico: “Mi sono trovato a insegnare al liceo, come amo ripetere, un po’ per caso, perché altre erano le mie aspirazioni e diversi i miei progetti. Gli studenti sanno che non ci vedo, ma io so anche come sono gli studenti. Non mi pare, quindi, di essere trattato in modo diverso da loro rispetto agli altri per il deficit visivo; anzi, se mai hanno più accortezze per questo. Ricordo che una collega mi disse che aveva conosciuto una mamma che le aveva parlato di me: la cosa che aveva stupito la madre era che la figlia non le avesse detto che il suo professore di italiano e latino era cieco. Sì, insomma, la ragazza glielo aveva detto molti giorni dopo, perché preferiva – spero in quanto ammaliata dal mio fascino didattico – raccontarle le cose che le spiegavo. Il giudizio degli studenti è inflessibile e gioca su due parametri: essere preparati ed essere giusti. Questo è il motivo per cui voglio essere solo in classe, solo intendo dire con i ragazzi. Ho provato ad avere qualcuno, un assistente, ma cambiavano le dinamiche di gruppo e allora ho desistito. Unico apparente strappo a questa ferrea regola si consuma durante i compiti in classe: di solito faccio venire un mio ex-studente in qualità di guardiano, perché non copino. A proposito di ausili, cui accennavo prima, posso ammettere che non sempre gli strumenti a disposizione sono accessibili o pienamente accessibili, e mi riferisco al registro elettronico, alle lavagne multimediali, ai libri di testo. Esiste una specifica legislazione, ma l’applicazione della norma stenta un po’ a divenire prassi consolidata ed è per lo più disattesa. Di ciò ci sarebbe di che lamentarsi e parecchio. Col tempo ho trasformato l’inaccessibilità del registro elettronico in responsabilità degli studenti e oggi sono loro che compilano di giorno in giorno la burocrazia quotidiana, inseriscono voti e compiono tutti quei gesti di cui, in fondo, sono e devono essere responsabili. Mia resta, ovvia- mente, la supervisione, con l’aiuto di familiari, colleghi o amici che si prestano a questa sorta di volontariato improvvisato. Lo stesso discorso l’ho esteso ai libri di testo: siccome non tutte le case editrici mi forniscono i testi accessibili, molto spesso mi trovo a dover dare materiale che ho selezionato, magari alternativo a quello che hanno a disposizione. La consegna avviene nel modo più svariato, attraverso una semplice e-mail, ma ultimamente sempre più spesso attraverso i social quali WhatsApp o Facebook o sistemi di cloud come dropbox. Sono infine convinto che la scuola sia come la città: o è per tutti o si creano situazioni di svantaggio, di ghettizzazione. La scuola dovrebbe essere un laboratorio di inclusione, ma non a parole, non sulla carta, ma reale. Il mondo degli adulti è strano, non posso non ammetterlo, e spegne la creatività e la naturale propensione a confrontarsi con gli altri. Alle volte ho avuto la sensazione che il giudizio sulla buona riuscita del mio insegnamento da parte dei colleghi nascesse da questo: Federico, pur disabile, pur non vedente, è riuscito a ottenere il risultato come noi. Insomma, non valevo mai per quello che ero, ma per quello che non ero. Con i colleghi di corso non ho mai avuto problemi, probabilmente perché mi hanno visto all’opera da vicino, hanno notato i risultati in fieri, hanno avuto la cosiddetta prova provata di quel che valgo indipendentemente dalla disabilità. Oggi ho un rapporto cordiale coi colleghi, magari non con tutti, dato che pure io ho giustamente le mie preferenze e le mie simpatie. Con alcuni sono nate vere e proprie amicizie, come del resto con alcuni ex-studenti. Del resto, vi è una normalità anche nella disabilità”.

Una noia (non) mortale

di Stefano Toschi

Recentemente è comparsa sul sito “Superabile” la notizia di una ragazza canadese, diciassettenne, che, essendo stata per sei mesi costretta a letto dopo il trapianto di un rene, si è inventata una “valigetta anti-noia”, che ha poi messo in produzione e venduto. Questa notizia mi ha incuriosito e mi ha fatto riflettere.
La noia – o meglio, la paura di annoiarsi – è, a mio avviso, una delle più gravi malattie del nostro tempo, almeno nel mondo occidentale. La noia – o la paura di essa – porta soprattutto i ragazzi, ma non solo, a commettere gesti assurdi, che comportano il rischio di morire, come è capitato a un ragazzino che, per un gioco stupido, per cui voleva fare un selfie con un treno in corsa, è finito per esserne travolto e ucciso. Oppure quelli che, “per noia”, rapinano o massacrano persone deboli.
La paura di annoiarsi può spingere persino al suicidio. Quando ho letto la notizia della valigetta, erano passati pochi giorni dal suicidio di dj Fabo e mi è venuto spontaneo collegare i due fatti.
A mio parere dj Fabo ha deciso di togliersi la vita non tanto per il dolore fisico, quanto perché, dopo due anni e mezzo di immobilità e cecità, non poteva più sopportare una vita così vuota: come cantava Franco Califano, per lui “tutto il resto è noia, no non ho detto gioia, ma noia, noia, noia”. Per lui il cambiamento era stato radicale e non è stato aiutato ad accettarlo e ad accettarsi per come era diventato. Nella sua intervista al programma televisivo “Le Iene”, dj Fabo sosteneva che per lui il dolore causato dalle contrazioni era insopportabile, tanto da spingerlo a desiderare la morte: io capisco che, per una persona non abituata al dolore, il dolore stesso può risultare insopportabile. Per me, che è da una vita che convivo con le contrazioni, esse fanno parte del mio vissuto. Quando ho le contrazioni chiedo al mio operatore di cambiarmi la posizione, non di togliermi la vita.
Ma la cosa che mi ha colpito di più, quando ho visto l’intervista, è stata la camera di dj Fabo tappezzata di foto della sua vita prima dell’incidente – e la sua compagna che spiegava che per lui la vita si è fermata in quel momento, come se in quasi tre anni non avesse più avuto nessun altro interesse vitale che potesse riportarlo ad aver voglia di vivere. Sembra quasi che non sia stato aiutato a cercare nuovi interessi che potessero sostituire quelli che non poteva più avere.
Questa mia impressione è stata rafforzata dalla lettura di un altro articolo apparso online su “Il Foglio” del primo marzo, in cui si dice che dj Fabo, dopo l’incidente, nonostante fosse stimolato a uscire di casa e a intraprendere nuove attività compatibili con la sua situazione, si era sempre rifiutato.
Io sono stato educato ad avere molti interessi, sia a livello intellettuale, sia a livello di socializzazione e posso garantire che la vita di una persona disabile non è affatto noiosa, anzi: proprio i problemi inevitabilmente connessi alle varie forme di disabilità, le sfide, le gioie e le soddisfazioni che ogni giorno incontro non mi permettono di annoiarmi. Mia madre diceva con ironia: “in questa casa non ci si annoia mai”. Come aveva ragione!
Il punto è che un po’ di noia può anche fare bene, perché è proprio nei momenti di vuoto che possiamo trovare l’ispirazione per risolvere i nostri problemi. In una vita troppo piena, con scadenze serrate e non prorogabili, non c’è il tempo per fermarsi a riflettere, per fare il punto della situazione e capire dove si vuole andare. La noia serve a liberare la mente, stimolando attenzione e creatività. I momenti di noia ci spingono a prendere in considerazione tutto ciò che abbiamo a portata di mano, per poi scegliere a cosa dedicarci. Nei periodi in cui crediamo di essere annoiati, il nostro cervello rielabora i pensieri inconsci per poi portarli all’attenzione della coscienza.
Sono diversi i pedagogisti che rivendicano per i bambini il “diritto alla noia”: in questi momenti, il bambino può essere se stesso e libero di sperimentare nuovi percorsi. Già per gli antichi, l’otium produceva l’arte e la letteratura ed era un momento essenziale di creatività nella vita delle persone di cultura. Il problema della “noia imposta” da circostanze esterne, dunque, non dovrebbe essere percepito – o fatto percepire – come un limite, ma come un’opportunità. Riempire vuoti a tutti i costi produce, spesso, un effetto contrario, un senso di solitudine e di abbandono.
La Noia di Moravia, così come La Nausea di Sartre, due capisaldi dell’esistenzialismo, ci spiegano l’inadeguatezza dei protagonisti di fronte ai cambiamenti della società, che fa perdere loro il rapporto con la propria identità. Come diceva una professoressa di Filosofia del liceo, la noia è sempre “colpa nostra”: il filosofo non può annoiarsi, perché basta a se stesso.
Certo, non è possibile che ognuno raggiunga un grado così alto di autoconsapevolezza. Tuttavia, siamo di fronte a un esercizio che tutti dovremmo praticare. Non a caso, i due romanzi citati sono figli di quell’esistenzialismo frutto di una perdita di fiducia in tutti i valori e che tenta, senza riuscirvi, di andare oltre il disperato nichilismo che ne deriva.
Ai giorni nostri, le cose non sono molto differenti. I giovani hanno tutto, eppure non hanno niente. Non sono in grado di superare quella noia tipica di chi non ha o non ha mai avuto ambizioni, aspirazioni, sogni, motivi per cui lottare. Per questo motivo, sperimentano spesso sostanze psicotrope, per evadere da una realtà cui non riescono ad appassionarsi. Genitori lasciati a se stessi nel loro difficile compito educativo, privi di reti familiari e sociali, pensano di compensare la noia dei figli riempiendoli di attività o, dove le finanze lo permettono, di regali, per sopperire a ben altre carenze affettive e relazionali. Quando tutto è lecito, consentito, ottenibile, tutto è noioso, facile, inutile. La sfida dell’esistenza non dovrebbe permettere la noia, soprattutto oggi, che le occasioni non mancano di certo.
Uno dei grandi “peccati capitali” del nostro tempo, che è l’accidia, deriva proprio dalla noia. Restiamo immobili di fronte al male, anche quando non lo compiamo direttamente, perché svuotati nell’incapacità di agire. Per questo, ognuno di noi dovrebbe sentirsi responsabile di quanto di male e di terribile accade oggi nel mondo: non per esserne artefice diretto, ma perché, nel nostro piccolo, non facciamo nulla per cambiare le cose. Basterebbe cominciare dalla nostra famiglia, dagli amici, dal vicinato: è più semplice, invece, nascondere la testa sotto la sabbia.
Questa è una conseguenza diretta della noia esistenziale che ci troviamo a combattere ogni giorno, che ci fa perdere di vista valori fondamentali della nostra humanitas, ci causa indifferenza verso i valori e verso la vita stessa, tanto da provare la “noia di vivere”, così tante volte analizzata dai filosofi. Come diceva Bergson, la noia è una forma di misura del tempo. Nella nostra cultura, sempre più legata al “qui ed ora” al “cogliere l’attimo”, il rigetto della noia è sempre più legato a una dimensione limitata e modesta di esistenze mediocri, bruciate prima possibile, senza prospettive. Per questo, vorrei essere d’esempio a tanti giovani annoiati dalla vita, a tanti disabili stanchi della propria condizione: la noia è una condizione che dipende solo da noi.
Non lasciamo sole queste persone annoiate della vita: diamo loro un motivo per sentirsi parte di un disegno più grande di loro, regaliamo loro la consapevolezza che ciascuno è importante.

Su Sofia Rocks, la web serie che propone altri sguardi

di Stefano Toschi

Beati noi
Spesso, navigando sul web in cerca delle ultime notizie dal sociale o dal variegato mondo della disabilità, riesco ad andare oltre i soliti volti noti (e le solite “carrozzine note”!) e mi imbatto in persone altrettanto interessanti, che si fanno portavoce di messaggi degni della mia attenzione. L’ultima volta, quasi per caso, mi sono imbattuto in Sofia Rocks, video blogger “su quattro ruote”, autrice di alcune puntate di una web serie in cui tocca temi legati alla disabilità.
La mia curiosità è stata attirata, inizialmente, dal nome (Sofia, per un filosofo, è sempre significativo, inoltre ho una cara amica la cui figlia si chiama allo stesso modo, ed è altrettanto… rock). Secondariamente, io sono un cultore del vivere slow, mi prodigo in elogi della lentezza (non potrei fare diversamente, visto il ritmo a cui parlo, mangio, tento di fare qualche movimento, ecc.) e il confronto con qualcuno che si dice rock già nel nome mi incuriosiva.
Sofia è una giovane donna che ha diverse cose in comune con me: bolognese d’adozione (veneta d’origine), laureata in Filosofia, è disabile da quando, a 5 mesi, a causa di un intervento al cuore andato male ha definitivamente perso l’uso delle gambe. Come spesso accade, da una conoscenza casuale si scoprono affinità con chi non si sarebbe mai aspettato di incontrare. La sua immagine, invece, è decisamente diversa dalla mia, posato intellettuale (!) di mezza età (!!!!!!!).
Sofia è decisamente grintosa: borchie, trucco nero, abiti di pelle, suona la chitarra elettrica, è vegana e campionessa di sci alpino. Nella sua presentazione, la disabilità non viene nemmeno citata: solo seguendo le puntate della web serie si evince la sua condizione. Come me, combatte per cambiare la mentalità delle persone, dei datori di lavoro, degli amministratori locali, degli insegnanti. Dai suoi brevi documentari emergono idee che condivido in pieno e altre che non mi trovano d’accordo. Condividiamo, ad esempio, la positiva esperienza da studenti di Filosofia dell’Università di Bologna. Come me, si è sentita accolta e senz’altro Sofia è stata anche aiutata dall’età. Ai miei tempi non esisteva un ufficio così efficiente per studenti disabili e molto del lavoro di aiuto e supporto lo hanno fatto, con me, i miei genitori e colleghi di studio (tuttora miei grandi amici!). Oggi mi pare tutto più “istituzionalizzato”, con i pro e i contro di ciò. Non godere di strade battute mi ha aiutato a stringere amicizie solide e durevoli, a saper apprezzare notevolmente qualità che, prima, non sapevo neppure di avere, a godermi ogni piccola conquista e a fare da precursore a tanti altri studenti gravemente disabili. Anche per Sofia, l’Università di Bologna, oltre agli esami, ai corsi di studio, alle Facoltà, offre di più: vere esperienze di vita e un trampolino di lancio verso il futuro.
Condividiamo, poi, l’importanza che attribuiamo ai traguardi, spesso modesti o scontati per i normodotati, che ci fanno sentire persone complete e “abili”, ognuno di noi con le proprie caratteristiche peculiari.
Sul tema del lavoro, condividiamo la posizione secondo cui, posta la necessità di un ambiente aperto e accogliente alle diverse abilità e datori di lavoro predisposti a valorizzare anche i dipendenti con deficit, la differenza vera la facciamo noi stessi. Non ha senso aspettare qualcuno che ci risolva i problemi: sta a noi riuscire a capire in cosa siamo abili – e diversi da chiunque altro – e saper valorizzare le differenze, mettendole a disposizione della società, degli altri, del nostro lavoro, dei colleghi. Dobbiamo essere i primi consapevoli di noi stessi: se non ci valorizziamo noi, chi lo potrà fare? L’assistenzialismo non è la via maestra per l’integrazione. A maggior ragione oggi, in un’epoca in cui la tecnologia, la tecnica, la scienza ci aiutano a semplificarci la vita, abbiamo molti meno “alibi” di una volta e non possiamo proprio più puntare al compatimento. Ora abbiamo anche molti più esempi positivi e virtuosi di persone disabili di successo, anche in campi che una volta erano primariamente preclusi, ad esempio lo sport. Superare limiti che sono tali anche per la gran parte delle persone cosiddette normali consente di raggiungere una forte autostima e andare oltre limiti che sono più psicologici e sociali che fisici.
Ho trovato molto delicato anche lo stile di trattazione dei temi dell’affettività e della sessualità per le persone disabili. L’argomento è complesso, tuttavia non riesco a condividere la sua posizione sulla figura dell’assistente sessuale. Continuo a trovare umiliante per la persona disabile ricorrere a un aiuto pagato dallo Stato invece di fare le proprie esperienze come tutti, scontrandosi con la realtà di avere le proprie sconfitte e le proprie soddisfazioni. Conosco tante persone con deficit che hanno o hanno avuto relazioni soddisfacenti, che, laddove la disabilità glielo consenta, sono diventati genitori appagati, pur fra tante difficoltà e pregiudizi. Vivere anche la sessualità come un diritto istituzionalizzato, a mio avviso, toglie importanza alla nostra sfera di humanitas nel suo complesso, relegando alla soddisfazione di un bisogno fisico ciò che costituisce, invece, la vera e profonda natura relazionale dell’uomo.
A Sofia vorrei proporre un altro tema per una prossima puntata della sua web serie: il rapporto tra disabilità e religione. Comunque la si pensi, l’ambito spirituale è importante, sia perché il volontariato cattolico svolge un ruolo fondamentale nella vita di molti disabili, sia perché  la domanda sull’esistenza di Dio e sulla sua bontà coinvolge le persone che si ritengono svantaggiate in questa vita. Leggendo la sua autobiografia mi sono trovato perfettamente d’accordo con l’affermazione che le persone disabili non sono diverse dalle altre: io direi che ogni persona è contemporaneamente diversa e uguale a tutte le altre e che la normalità non esiste o, se esiste, sta proprio in questa apparente contraddizione. Un altro aspetto che mi ha colpito del racconto della sua vita è che, pur essendo diventata disabile a causa di un errore medico, non ha mai coltivato rabbia, ma è riuscita a vedere la bellezza della sua carrozzina. Questo dimostra che la disabilità può essere vista in maniera positiva, anche da chi, suo malgrado, ne è protagonista, e non soltanto come una disgrazia che rovina la vita. Questa è anche la mia esperienza: io ci sono arrivato grazie a un lungo cammino di fede oltre che umano e mi piacerebbe confrontarmi con la giovane e grintosa Sofia su questo punto.
Insomma: la vita è bella anche con qualche deficit e tutto dipende da come ognuno di noi guarda questa prospettiva, o meglio, da come viene educato a guardarla: anche le persone che ci circondano (familiari, amici, ma anche soggetti istituzionali, colleghi, datori di lavoro, medici, vicini di casa, ecc.) giocano un ruolo fondamentale nella nostra consapevolezza di essere abili a qualcosa. La disabilità non è una questione che riguarda soltanto il singolo individuo, ma tutta la comunità in cui egli è inserito e cresce. Per questo io, come Sofia, ho dedicato la mia vita a lottare per chi non ha avuto la fortuna di avere la nostra grinta, le nostre possibilità, il nostro carattere, affinché a cambiare non sia la nostra condizione, ma gli occhi di chi ci guarda. Spero che Sofia legga questo articolo e che magari voglia iniziare un dialogo con un suo collega filosofo.

Il desiderio e la creatività. Siamo uomini o animali?

di Stefano Toschi

L’argomento della sessualità è ciò che di più intimo e privato possa esserci, quindi scrivo questo articolo rispettando tutte le opinioni e le sensibilità. Da quello che ho letto documentandomi su internet, mi sembra che la figura dell’assistente sessuale abbia in se stessa delle contraddizioni piuttosto evidenti. Secondo la definizione a oggi più accreditata, “l’assistenza sessuale è una forma di accompagnamento erotico volta ad aiutare i disabili a scoprire la loro sessualità – intesa nel senso più ampio possibile – e il loro corpo in un percorso verso una maggiore autostima”, come afferma la svizzera Judith Aregger (assistente sessuale dal 2009). “Le persone con disabilità fisiche, quelle con disabilità mentali, le persone autistiche hanno bisogno di un percorso personalizzato. Perché se con i disabili fisici per comunicare è sufficiente il linguaggio, con persone affette da altre forme di disabilità serve, invece, scoprire nuove forme di comunicazione, che si declinano da individuo a individuo”. Da questa dichiarazione mi sembra che appaiano alcune contraddizioni e alcuni punti critici di tale lavoro. La prima riguarda le regole di ingaggio: infatti mentre dalla testimonianza della Aregger sembra che l’assistente sessuale dica che “Tutte le decisioni sono nelle mani del disabile, e che non ha mai forzato nessuno”, secondo la testimonianza di un’altra assistente sessuale appare un lavoro con regole ben precise che non possono e non devono essere mai trasgredite. Indica delle norme, gli accordi preliminari. Chi richiede l’assistenza va istruito: non ci saranno penetrazioni, baci, scambi di fluidi, sono io a guidare la partita. Non tutti quelli che chiedono sono accettati, bisogna selezionare al massimo, assicurarsi di non imbattersi in una patologia a rischio, bisogna mantenere il distacco sufficiente a non diventare il fulcro dell’esistenza di chi non riesce a trovare, a causa della sua disabilità, una dimensione affettiva e sessuale. Assicurarsi che ogni sì e ogni no che si decide di dire siano motivati ampiamente e pazientemente (non scordiamo che la maggior parte di queste persone non ha esperienza relazionale con l’altro sesso o ce l’ha minima) e che si mantenga il giusto equilibrio tra dolcezza e severità, insomma. Impresa non da poco.
Un altro problema che a me pare evidente è la diversità dei casi di disabilità in cui l’assistente sessuale è chiamata a operare o ad adoperarsi: infatti mentre nei casi di disabilità fisica è la persona con deficit che può chiedere l’intervento e può concordare le modalità dello stesso, nel caso di disabilità psichica chi decide se e quando fare ricorso a questo tipo di rapporto di assistenza? E in quale modalità? E con quale diritto? Ma la vera questione secondo me è un’altra, che coinvolge la dignità della persona con disabilità: perché soltanto lei avrebbe bisogno di ricorrere a questo tipo di aiuto, forse non è in grado di avere rapporti affettivi e sessuali come tutti? Siamo sicuri che sia un proprio diritto e non una forma sottile di emarginazione per i poveri handicappati che non ce la fanno neanche ad avere una storia con un’altra persona? Pensando al mio gruppetto di amici disabili ognuno di noi ha avuto i suoi innamoramenti e le sue storie. Qualcuno si è sposato, qualcuno convive, altri hanno fatto altre scelte di vita, ma nessuno di noi ha mai pensato di chiedere l’aiuto di un’assistente sessuale almeno fino a quando ha avuto la speranza di un rapporto normale. È così bello scoprire nel rapporto con l’altro la propria affettività e la propria sessualità, perché dovremmo togliere la gioia di queste scoperte a qualche persona che non si ritiene in grado di sopportare le fatiche che comporta la relazione con l’altro?
Cito a questo punto la tesi di Francesca Bellandi, una mia amica di Vicenza che si è laureata alla Cattolica di Milano, con un lavoro dal titolo: “La persona con disabilità fisica e la relazione affettiva”.
Nel terzo capitolo viene riportata la testimonianza di un ragazzo disabile che mi ha particolarmente colpito per la differenza di prospettiva che ho riscontrato tra lui e me.
Racconta N.Z.: “Caratterialmente come corteggiamento non sono un tipo da dichiarazioni in pubblico, fiori, prostrazioni e robe del genere. Se potessi sarei molto più semplice: classico giro all’aperto, una lunga chiacchierata, la birra che non guasta mai e poi da cosa nasce cosa, e sai che sono molto insistente se voglio. Peccato che per una questione di altezze non ce la faccio visto che con la carrozzina mi devono spingere, quindi lei starebbe dietro e faccio un po’ fatica a realizzare i primi contatti, braccio intorno al collo e giù di lì, il problema c’è anche se ci si siede su una panchina sono sempre frontale e mai a fianco”.
È facile notare come le problematiche che fa emergere questo ragazzo non sono problemi di portata colossale, o difficoltà che chiedono l’intervento di un super eroe. Questa testimonianza riportata dalla Bellandi mi ha colpito perché per questo ragazzo il problema è soltanto tecnico, cioè si chiede soltanto come abbracciare e baciare una eventuale partner. Mentre io al contrario mi chiedevo se una ragazza normale avrebbe potuto innamorarsi di una persona disabile come me, non mi chiedevo tecnicamente come avrei fatto perché ho sempre pensato che se c’era l’amore i problemi si potevano risolvere.
La Bellandi nel quarto paragrafo arriva a trattare precisamente il tema dell’assistente sessuale: non esistono ricette preconfezionate su come va gestita la sessualità con le persone con disabilità, tuttavia ritengo che l’esperienza di alcuni Paesi europei, dove esistono associazioni che utilizzano dei professionisti che si prestano per prestazioni sessuali, non sia la risposta adeguata e che si rifà all’idea che la sessualità è puramente un atto di sfogo. Io mi chiedo quali possano essere i benefici psichici, fisici e relazionali acquisiti dalla persona oggetto di queste prestazioni o in misura maggiore i danni che ne derivano (al disabile) dal subire un simile trattamento. Si perde completamente di vista la dimensione umana dell’atto con la supremazia dell’essere animale dell’uomo.
A novembre del 2012 è comparsa nel sito Firmiamo.it una petizione per istituire, anche nel nostro Paese, la figura dell’assistente sessuale. Lanciata da Max Ulivieri, web designer e blogger de ilfattoquotidiano.it, affetto da una grave disabilità, la proposta senza nessuna pubblicità, ha raccolto circa 5.000 firme. Non riportiamo il testo integrale, ma solo alcuni stralci.
“L’assistenza sessuale alla persona affetta da disabilità fisica o mentale nasce per permetterle di fruire di una pratica necessaria, più spesso indispensabile, al suo benessere psicofisico”.
“L’assistenza sessuale si configura come una pratica soprattutto relazionale, empatica e comunicativa. Attraverso il periodo in cui si svolgerà la sessione d’incontro tra la persona che lo richiede e l’assistente, il fulcro dell’interesse sarà nello stabilire un rapporto empatico.
Quello che l’assistente debitamente pre- parata deve riuscire a trasmettere all’altro è innanzitutto l’accettazione del suo corpo attraverso l’esplorazione manuale, l’accarezzamento, il massaggio.
Concedere un momento di profondo benessere e attenzione all’altro inteso nella sua dimensione olistica, globale”.
“La durata indicativa della sessione d’incontro è un’ora e mezza.” L’argomento è delicato e divide, continua la Bellandi. Anche in Italia si comincia a parlare soprattutto nel web di assistenza sessuale per i disabili. A rispondere all’appello in Rete sono state in maggioranza persone comuni, senza alcun handicap. Il progetto ripropone iniziative diffuse nel resto dell’Europa. Nel 2002, a Zurigo, nacque il primo progetto di uno specifico corso di formazione per assistenti sessuali per disabili, inizialmente ebbe un largo consenso e molti sostenitori, che però ben presto tornarono sui propri passi e tolsero il loro appoggio perché contrari a quella che definivano “una forma di prostituzione latente”. Il progetto fu ripreso nel 2004 dalla FaBS (Fachstelle Behinderung und Sexuali- tät) che diede inizio alla prima formazio- ne per assistenti sessuali, come percorso finale di un processo educativo molto complesso centrato sul rispetto dell’altro, sull’etica e sull’ascolto. La formazione degli assistenti sessuali per disabili è già attiva in Germania, Gran Bretagna, Olanda e paesi scandinavi.
Tutto questo vive di un errore concettuale che sta alla base del fraintendimento che ha portato a pensare questa come la possibile risposta al complesso disagio espresso da alcuni disabili nel vivere la loro sessualità. Vogliamo chiarire alcuni passaggi della petizione e analizzare gli errori concettuali.

Alcuni errori concettuali
Cosa vuol dire disabilità? La disabilità è una situazione di svantaggio sociale conseguente a menomazione e/o handicap intellettivo che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo normale per un dato individuo in funzione di età, sesso, fattori culturali e sociali. Una realtà individuale che, una volta socializzata,  ha delle conseguenze per l’individuo sul piano culturale, sociale, economico e ambientale.
Cos’è la sessualità? A cosa è legata? Si tratta di un aspetto dell’essere umano profondamente legato in egual misura a tutte le dimensioni dell’individuo: corporeità, dimensione psicologica, relazionale, affettiva, cognitiva e culturale.
Le difficoltà per chi vive la realtà della disabilità non sono certo dovute alla propria volontà, ma sono il frutto di una visione distorta dell’altro, voluta dalla società moderna, in cui chi non vive secondo certi canoni deve essere emarginato. Pertanto se proprio si volesse ingaggiare una battaglia sociale, i propri sforzi sarebbero da indirizzare verso l’integrazione e la tutela dei più deboli, in modo che siano gli unici privilegiati della società.
Solo così si realizzerebbe il concetto di desiderio, che va ben oltre la mancanza di qualche cosa; si concretizzerebbe la possibilità per l’uomo di ampliare le proprie capacità conoscitive ed espressive, permettendone infine l’affermazione e la valorizzazione di tutte le sue potenzialità.
Carnalità come bisogno. Ciò che, invece, gli autori della petizione vogliono far passare per desiderio è un aspetto totalmente diverso della natura umana, ovvero quello del bisogno, presentandolo come diritto a una soddisfazione in tempi brevi secondo modalità e significati prestabiliti, immutabili.
Approfittando dell’esperienza di un vuoto e l’insoddisfazione che ne consegue, tentano di strumentalizzare, con grande confusione mediatica e concettuale, tutto ciò che ruota attorno a questa mancanza, facendo passare il proprio operato per volontariato, presentandosi come paladini dei diritti dei più deboli, ottenendo anche un discreto consenso, dovuto più che altro all’ignoranza specifica dell’argomento che caratterizza l’uditorio contemporaneo. In sintesi, mentre il bisogno appartiene alla sfera biologica dell’uomo in quanto gli permette la sopravvivenza e la conservazione della specie, il desiderio rende l’uomo soggetto creativo, capace di comunicazione, unico e originale, perché inedita è la modalità di relazione di ogni persona; in altri termini propongono un modello di terapeuta che col proprio lavoro realizza la degradazione del desiderio a un’azione specifica, rendendo l’uomo un po’ meno uomo.
La Bellandi conclude con le parole di un giovane trentenne con disabilità: “I disabili (come me) sono uomini, non animali da far sfogare! Adesso le chiamano terapiste sessuali – guardate quanto amano fare del bene ai disabili: i bambini li uccidono nel grembo materno se le analisi li riconoscono tali, somministrano loro l’eutanasia se li vedono soffrire (per ora solo in Belgio?), e ora per dar loro dignità e pari diritti somministrano loro il sesso libero perché, considerati al pari delle bestie, sempre per pietà devono sfogare i loro istinti naturali. Io sono un disabile e voglio essere trattato da essere umano, ovvero la sessualità la voglio vivere con dignità all’interno di un rapporto d’amore che mi unisce a una donna nel matrimonio. Questo veleno se lo beva chi l’ha sputato, grazie”.
Pensare la mercificazione della sessualità significa pensare che l’uomo è una merce da vendere e utilizzare a proprio piacimento. La sessualità, la relazione affettiva è un prezioso dono che ciascuno deve avere la possibilità di vivere nella propria vita con dignità e rispetto di sé e dell’altro. Questo è anche il mio pensiero, il rapporto sessuale ha senso soltanto in un rapporto di coppia che comprenda tutti gli aspetti della vita.

Una questione di sguardi

di Stefano Toschi 

L’estate 2016 è stata particolarmente intensa per quanto riguarda le notizie che hanno visto protagonista la disabilitàyh  in molte delle sue forme. È stata, prima di tutto, l’estate delle Olimpiadi e, insieme, delle Paralimpiadi. Gli atleti paralimpici, in particolare gli italiani Alex Zanardi e Bebe Vio, sono stati modelli positivi per tutti, non solo per i diversamente abili. Partiti in sordina per la stampa e i telegiornali italiani, i giochi paralimpici si sono poi rivelati forieri di grandi soddisfazioni per tutti. Insomma, non è che parlare di disabilità modifichi la condizione di disagio di chi la vive, tuttavia, anche soltanto far conoscere ciò che di positivo si nasconde (a volte molto bene) dietro una carrozzina o un cromosoma in più, diminuisce quell’ignoranza generalizzata che è uno dei principali problemi con cui la persona con handicap si trova a fare i conti nella vita.
Sempre quest’estate, infatti, la cronaca ci ha regalato un caso emblematico della suddetta, disarmante ignoranza. “Per i miei figli non è un bello spettacolo vedere dalla mattina alla sera persone che soffrono su una carrozzina”. È il commento che un ospite del villaggio turistico Lido d’Abruzzo (Cico33, questo lo pseudonimo con cui firma la nota datata 1 giugno 2016) ha diffuso tramite la piattaforma web TripAdvisor, lamentandosi con i responsabili della struttura ricettiva rosetana di non averlo avvisato che, nello stesso periodo in cui sarebbe andato in vacanza con la sua famiglia, nel villaggio ci sarebbero stati anche numerosi giovani disabili. Si trattava degli ospiti giunti da tutta Italia al Rotary campus, una manifestazione in cui i club Rotary abruzzesi e molisani ospitano per una settimana di vacanza un folto gruppo di disabili con i rispettivi accompagnatori, facendosi carico di tutte le spese.
“Premetto, non per discriminare ci mancherebbe”, si legge ancora nel messaggio di Cico33, “sono persone cui purtroppo la vita ha riservato grandi sofferenze. Sarebbe bastato che la direzione mi avesse avvisato e avrei spostato la vacanza in altra data”. Al termine della nota la ciliegina finale. “Sto valutando”, si chiude il messaggio, “di intraprendere una via legale per eventuali risarcimenti”. Inevitabili le reazioni, giunte anche attraverso la stessa piattaforma web. La blogger Selvaggia Lucarelli lo ha apostrofato così dalle pagine digitali del suo sito: “Il gentile signore (anonimo, che eroe!), poverino, ha intenzione di denunciare la struttura perché c’erano troppi disabili. E poverini, i figli sono rimasti impressionati. Mica da un padre così, no, da due carrozzine”.
Nascondere ai propri figli la disabilità non può essere un messaggio positivo. Oggi, i genitori sono sempre più spesso portati a crescere i figli in un mondo tanto dorato quanto falso e superficiale: non si portano ai funerali per non traumatizzarli, non gli si mostrano certe immagini per non turbarli, non si iscrivono a quella scuola se in classe c’è un bambino disabile, gli si nasconde la vista della malattia, della vecchiaia, della povertà per non turbare la loro infanzia. Il problema è che, così facendo, si stanno crescendo adulti turbati.
La vita, inevitabilmente, non solo ci rende testimoni di queste cose, ma, purtroppo, più spesso di quanto si possa pensare, ci rende protagonisti di tali situazioni. Per questo motivo adolescenti, ragazzini, giovani adulti non sono in grado di affrontare la vita. Crescono i casi di suicidi, di disagi, di malattie nervose e psichiatriche, proprio perché la vita, a un certo punto, accade. Accade che la povertà, la malattia, la vecchiaia – che si sono sempre evitate – poi vengano a cercarti loro. Chi ha gli strumenti per tirare fuori tutta la propria forza d’animo e positività dagli eventi saprà sempre rialzarsi. Chi è cresciuto in una falsa idea di mondo non saprà affrontare la vita vera. Io metterei l’obbligo scolastico di passare alcune ore al mese con un anziano o un disabile: il volontariato, sia ben chiaro, sarebbe da parte dell’anziano o del disabile! Questo allenamento aiuterebbe i ragazzi a capire quali sono i veri valori che contano nella vita e, anche, perché no, ad apprezzare tutto ciò che possiedono, anche se non hanno il jeans firmato che desideravano tanto. Imparerebbero ad apprezzare di avere la salute, la vista, la giovinezza, tanti amici, una famiglia, delle possibilità economiche. Capirebbero che, anche in mancanza di alcune di queste cose, possono ugualmente cercare di rendere la loro vita un capolavoro.
Forse quei ragazzi disabili del villaggio turistico avrebbero potuto insegnare ai figli di Cico33 molto di più di quanto possa fare il padre. Sarebbe consolatorio pensare che Cico33 sia un caso isolato: purtroppo, invece, il suo post su TripAdvisor, in un solo giorno, ha ottenuto 1400 like, a dimostrazione che si tratta di sensazioni diffuse, in un mondo permeato di modelli estremamente negativi per i giovani, orientati esclusivamente al mito della ricchezza ottenuta senza sforzo, della perfezione fisica, della fama da 15 minuti (non importa in che modo la si raggiunge), del divertimento a tutti i costi, delle esperienze estreme, del lusso. Naturalmente il fenomeno è esteso a livello mondiale. Basti pensare che in Giappone uno squilibrato, uccidendo tantissime persone disabili, ha dichiarato che tutto è stato fatto per “liberare il mondo dai disabili”. Come si dice, uccide più la penna che la spada: il senso del post, ovvero “se non ci fossero stati i turisti disabili al Lido di Roseto, la famiglia avrebbe trascorso una magnifica vacanza”, può generare altrettanta violenza. L’unica risposta possibile a questa forma di ignoranza è costituita dall’azione, dai fatti.
Occorre dimostrare, non spiegare a parole, quanto di positivo può esserci in una persona con deficit. Diventa necessario alzare il livello, applicare l’empowerment, perché è solo a partire dalla consapevolezza della discriminazione e dell’oppressione causate dall’inadeguata organizzazione della società, che le persone con disabilità possono iniziare un percorso (individuale o sociale) di emancipazione. È necessario costruire una società che faccia capire come la diversità sia una ricchezza inestimabile della collettività. Occorre investire sulla cultura dell’inclusione, non solo su un welfare emergenziale e caritativo. Occorre che il welfare diventi generativo, che i soggetti disabili non siano concepiti solo come fruitori di un servizio, ma come portatori di benefici alla società.
Una mamma di una bambina con trisomia 21 – e una serie di patologie correlate – raccontava di come una conoscente avesse, a mo’ di battuta, sollevato la questione costi sociali della piccola: “Pensa, solo un anno e già le paghiamo la pensione!” – riferendosi a quella di invalidità.
Come spiegare a questa signora che la piccola, un giorno, le pagherà la pensione – le auguriamo che la sua non sia di invalidità? Come monetizziamo i sorrisi, gli abbracci, i progressi, le piccole conquiste che farà la bambina nella sua vita? Il bene che farà alle persone che la incontreranno? Come spieghiamo alla signora che anche la sua visita dall’oculista o dal cardiologo, le sue medicine per l’influenza, l’istruzione sua e dei suoi figli, tutto viene pagato anche dalla piccola invalida?
L’handicap in quanto svantaggio o sfortuna sta più nello sguardo di chi osserva da fuori che nel corpo del soggetto disabile: se quei clienti dell’hotel avessero visto Alex Zanardi o Bebe Vio chissà come avrebbero reagito? Magari avrebbero chiesto l’autografo o di fare un selfie con loro, perché “loro sono famosi”. Sarebbero stati onorati di essere capitati al ristorante con una celebrità, un campione paralimpico con la foto su tutti i giornali, perché questi sono i valori che permeano il modello educativo di Cico33.
La bella testimonianza di Bebe Vio conferma che l’handicap è tutto nel pregiudizio di chi non ha un deficit: anche lei, prima della meningite che l’ha colpita, ignorava totalmente il mondo della disabilità, pensava che fosse un mondo di disgraziati, poi, quando ci si è trovata dentro, ha cambiato completamente idea e addirittura adesso è felice della sua condizione. Naturalmente, non importa diventare campioni paralimpici per essere felici: anche nella disabilità occorre soltanto avere una vita serena e trovare soddisfazione nelle cose in cui la troverebbe chiunque, come una famiglia solida alle spalle, interessi, relazioni sociali, diverse abilità, conquiste e uno scopo da raggiungere davanti. Forse è un po’ questo il segreto della felicità, che vale per tutti, anche per quelli che guardano con tristezza i disabili: forse riflettono nei disabili la loro infelicità di fondo.

Il lavoro che debilita l’uomo

di Stefano Toschi

Ultimamente le notizie di maltrattamenti a persone disabili o anziane che avvengono nelle case di cura o centri diurni sono diventate quasi all’ordine del giorno. Il lavoro di cura, d’altra parte, non è e non è mai stato un lavoro come un altro. Lavorare con e per le persone fragili ha tante e tali implicazioni umane, relazionali, personali che non trova paragoni con nessun’altra professione. Non a caso, si colloca fra gli impieghi con il più alto rischio di burn out e di pressoché inevitabili ripercussioni sulla psiche e la sfera personale del lavoratore. Confrontandomi sull’argomento con alcuni amici che lavorano in strutture residenziali e analizzando i recenti fatti di cronaca, ho cercato una spiegazione al crescente fenomeno dei maltrattamenti, pur essendo difficile trovarne una univoca. Ritengo che parte della responsabilità possa essere attribuita alla crisi valoriale della nostra società, causa e contemporaneamente conseguenza della imponente crisi economica che stiamo attraversando. Laddove la logica produttivista ha avuto la meglio, il lavoro è stato mercificato ed è stato mercificato anche il lavoratore, nel suo tempo dedicato alla professione, ma anche nel suo tempo libero, il lavoro di cura è diventato sempre di più una non-scelta. Oggi, lavoratori domestici, badanti, colf, assistenti alla persona ci si improvvisa, magari avendo alle spalle qualche corso teorico pratico, finanche qualche titolo, ma certamente non una reale vocazione all’impegno sociale e per il prossimo. Tanti disoccupati senza alcun interesse o capacità relazionale adatta a questo tipo di lavoro si sono riciclati perché si tratta di un servizio in cui la richiesta resta sempre alta. Sicuramente, almeno in parte, questa situazione è da imputare alla crisi economica, che ha richiamato in questo ambito professionale l’interesse (di puro sostentamento materiale) di tante persone che non avrebbero mai pensato, altrimenti, di potersi e volersi mettere al servizio delle persone con deficit. In un circolo vizioso di insoddisfazione lavorativa, personale e socio-economica, la situazione va a discapito prima di tutto degli assistiti. Il lavoro di cura, inoltre, ha un impatto economico spesso insostenibile sulle famiglie. Una badante convivente costa circa 1200, 1300 euro al mese (più contributi) a una famiglia, cui si aggiungono il valore del vitto e dell’alloggio. Le rette delle case di cura e di riposo, per lo meno a Bologna, arrivano ai 3500, 4000 euro al mese. Per l’assunzione di una collaboratrice familiare, peraltro, non è prevista alcuna compartecipazione alla spesa da parte dei servizi di welfare pubblici o del Servizio Sanitario Nazionale: si possono detrarre solo i contributi Inps, pratica che mira a disincentivare il lavoro nero, ma non incide significativamente sull’esborso di cui l’assistito deve farsi carico. Questo fa sì che le famiglie tentino di trovare strade alternative, a discapito, fra le altre cose, della professionalità delle persone a cui ci si rivolge. I corsi da OSS costano molto, poiché sottostanno a rigidi regolamenti; Infermieristica è diventata una vera e propria laurea: la richiesta economica di questi professionisti, naturalmente, è aumentata proporzionalmente al riconoscimento sociale che ne è conseguito e all’aumentare delle spese che lo specializzando ha dovuto sostenere per conseguire il titolo. Sempre di più, dunque, le famiglie hanno cercato di applicare l’arte dell’arrangiarsi, cercando strade alternative e affidandosi (e affidando i propri cari) a dubbi personaggi senza titoli e requisiti idonei.
Come afferma nel suo articolo Roberto Bortone pubblicato su “Agora Vox” del 19 marzo 2016, i casi di maltrattamenti accadono in una casa di riposo, spesso di provincia, in cui gli anziani vengono maltrattati, picchiati, umiliati. Anziani fragili e malati che non hanno più gli strumenti per difendersi, per cui i figli si sentono sollevati dai doveri dell’accudimento, ritenendo di avere già fatto abbastanza per loro sistemandoli nella struttura e, magari, andando ogni tanto a trovarli. In genere si trovano sempre sul web video che testimoniano quanto accaduto, girati dalle telecamere nascoste della Polizia che indaga a seguito delle segnalazioni. A volte le immagini diffuse sul web si confondono nella nostra mente, perché i casi ormai sono tanti, troppi. Ma a rileggerli tutti assieme il quadro che se ne trae è fosco, terribile. E pone delle domande. Nelle cronache locali e nazionali gli esempi si sprecano. 2013 a Terni: anziani maltrattati, picchiati e torturati in casa di riposo. Poi Nepi, in provincia di Viterbo. Ci sono i casi di un anziano caduto dalle scale con la carrozzina e di una dentiera scambiata per mesi a Mantova. Nel 2014 in Molise sono stati arrestati un medico e alcuni infermieri per maltrattamenti.
Un altro caso eclatante a Prato, dove oltre alle violenze avvenivano furti ai danni degli anziani ricoverati.
Nel 2015 a Palermo sono state chiuse due case di riposo dove gli anziani venivano legati alle sedie e picchiati. È successo ancora a Nuoro, Genova, Anzio e poi a Salerno. Si scrive, ogni volta, un copione già visto, fatto di qualche perplessità dei parenti, una soffiata, una denuncia, lunghe indagini, telecamere nascoste a documentare le brutalità e poi gli arresti. Fino ad arrivare agli episodi eclatanti di questo inizio d’anno: a quello di Roma, dove è stata scoperta una casa di cura lager in cui gli anziani venivano regolarmente picchiati e costretti a prendere medicinali scaduti. Oppure alle immagini choc di Vercelli, che documentano le violenze su anziani e disabili terminate con 18 arresti e la chiusura della struttura. Da ultimo, i due episodi che hanno sconvolto la provincia di Parma: gli anziani venivano sedati e costretti a rimanere immobili a letto. In un’altra struttura, erano addirittura costretti a mangiare sul pavimento e insultati dagli infermieri. Solo negli ultimi due anni sono decine i casi scoperti. Per non parlare di un altro triste caso (tra i tanti) di cronaca che ha per protagonista, questa volta, un’infermiera operante in un ospedale pubblico, condannata per avere effettuato iniezioni di potassio come personale forma di eutanasia su alcuni anziani pazienti. Ormai la diffusione di una mentalità che monetizza qualsiasi cosa, anche il valore delle persone, induce a considerare anziani e disabili fardelli di cui sbarazzarsi il prima possibile, accompagnando, quando non facilitando, la loro dipartita.
In tutti i servizi giornalistici televisivi in cui si parla di casi di maltrattamenti viene usata la parola lager per indicare la struttura residenziale nella quale avvengono. Mi sono interrogato sul senso di questo paragone, al di là dello slogan giornalistico e, confrontandomi con alcuni amici, mi sono sentito rispondere che il termine mira a paragonare la condizione degli operatori a quella delle SS che lavoravano nei campi di concentramento e di sterminio, in quanto entrambi rappresentano l’ultimo anello della catena, gli esecutori di ordini che vengono dall’alto. A me questo paragone non convince, prima di tutto perché vige per ciascuno di noi il principio di autodeterminazione per cui la responsabilità delle proprie azioni deve essere considerata sempre personale. Non a caso, la difesa di Adolf Eichmann (uno dei principali responsabili operativi dello sterminio degli ebrei) al processo per genocidio e crimini contro l’umanità subito nel 1961 in Israele e reso noto ai più dal-
la filosofa Hannah Arendt, ovvero “eseguivo degli ordini”, è diventata tristemente nota come “l’incarnazione dell’assoluta banalità del male”. Anche se può essere vero che gli operatori sono soggetti a turni di lavoro molto duri e faticosi con una paga sicuramente inadeguata, e che sono abbandonati a se stessi, non avendo quasi nessun supporto psicologico, tuttavia essi non ricevono certamente l’ordine di torturare e di uccidere, ma di prendersi cura dei propri assistiti, non fosse altro perché sono proprio questi ultimi la fonte di guadagno della casa di cura in questione. Quindi secondo me il paragone tra le case di cura dove avvengono i maltrattamenti e i lager è più da ricercare nella spersonalizzazione degli ospiti che in un caso come nell’altro li riduce a puri e semplici numeri su cui si può infierire. Sicuramente è vero che il sistema di assistenza ai malati, agli anziani e ai disabili, così come è concepito dal nostro welfare, può dirsi esso stesso malato, ma ciò non toglie la responsabilità individuale del singolo operatore che, come qualsiasi altro lavoratore, è chiamato a svolgere al meglio i propri compiti. Pensando alla mia vita, posso dire che, da quando è morto mio padre, ho sempre avuto bisogno di qualche operatore, dapprima soltanto qualche ora, poi dalla morte di mia madre, per tutta la giornata e per la notte.
Devo affermare che non ho mai avuto problemi di maltrattamenti fisici o psicologici, anche perché, vivendo a casa mia, con mia sorella che abita al piano di sopra con la sua famiglia, con molti amici che mi vengono a trovare quotidianamente, non sono mai stato abbandonato a me stesso. Tuttavia, non è stato sempre facile gestire i rapporti professionali con queste persone, soprattutto perché essi erano inevitabilmente intersecati con un rapporto umano e personale che si sovrapponeva al rapporto di lavoro.
Quando, poi, si aggiunge la convivenza, che è difficile persino per gli amici o per le coppie, il rapporto professionale diviene talvolta quasi marginale in confronto all’aspetto relazionale. L’unico episodio davvero spiacevole si è verificato quando ho dovuto comunicare a un mio assistente che, per organizzarmi durante la malattia e il conseguente decesso di mia madre, avrei dovuto fare a meno del suo lavoro, perché mi offriva una disponibilità oraria limitata, mentre io, a quel punto, avevo bisogno di una presenza ben più costante. Lui si è sentito tradito ed è arrivato a insultarmi e a minacciare me e mia madre, sul letto di morte, gettandoci in uno stato di tale prostrazione psicologica da impormi di dirgli di non venire più da un giorno all’altro, rinunciando al preavviso di legge. Questo dopo anni di collaborazione e dopo avere condiviso con lui una parte per me assai significativa della mia esistenza, coltivando un rapporto di vera amicizia anche con le rispettive famiglie, arrivando a farmi capire come, invece, per lui io fossi stato solo lavoro e una fonte di sostentamento materiale.
A parte il mio caso, il problema dei maltrattamenti nelle strutture pubbliche è sempre più grave e diffuso sia in Italia, sia all’estero. Come arginare questa deriva? O, per lo meno, il fenomeno dei maltrattamenti? Non ho ricette miracolose. Penso che aumentare i controlli con le telecamere non sia una soluzione, per lo meno non sufficiente, anche se aiuta a scoprire i casi e a punire i colpevoli, perché è comunque una soluzione a valle che può combattere i sintomi ma non le cause del problema. La questione andrebbe affrontata a monte, quanto meno al momento della selezione del personale, valutandone la consapevolezza che non si tratta di svolgere un lavoro come gli altri, ma una attività di grande responsabilità, in cui c’è bisogno di qualcosa di più di due braccia e due gambe robuste. Si potrebbe parlare, piuttosto, di animo e coscienza robuste, ma sono parole fuori moda, che, tuttavia, almeno in questo lavoro dovrebbero avere ancora un senso, se comprese nel loro giusto significato.

Perché io non sono “Charlie”

Di Stefano Toschi

Giusto un anno fa ci siamo indignati per il vergognoso atto terroristico nei confronti della redazione di Charlie Hebdo, quando ancora molti di noi non sapevano nemmeno di cosa scrivesse questo giornale satirico. Pian piano, tutti abbiamo conosciuto qualche copertina di questa rivista e abbiamo capito (ovviamente non compreso) perché gli attentatori ce l’avessero tanto con i redattori. Da allora, si sono succedute vignette blasfeme che, in perfetta par condicio, colpivano un po’ tutte le religioni.
Da cristiano, confesso che anche io mi sono sentito offeso e mortificato da certe vignette di cui, tuttora, mi sfugge l’ironia. Ma una di quelle vignette, da persona con deficit, non posso proprio tollerarla. Perché, se già è offensivo colpire il credo di una persona, ancora peggio è colpire la persona in sé. Recentemente, a seguito di alcune affermazioni razziste fatte dalla politica francese Nadine Morano, la quale, storpiando De Gaulle, aveva dichiarato che la Francia è paese “giudaico-cristiano e di razza bianca”, è comparsa una copertina in cui essa veniva raffigurata come “la figlia Down di De Gaulle”. Per quanto deprecabili le sue affermazioni, non è certo una simile copertina che possa muovere indignazione nei suoi confronti da parte dell’opinione pubblica.
Questo è un modo distorto e profondamente sbagliato di concepire la satira e la laicità, che dovrebbe essere rispetto per tutti e non disprezzo. Il fatto è particolarmente grave non tanto per il modo in cui si è voluto colpire la Morano, quanto perché De Gaulle aveva veramente una figlia Down, morta ventenne e da lui adorata, mai nascosta agli occhi del mondo e sempre rimpianta.
La satira sulle persone con deficit è davvero il livello più basso di umanità, che ci mette al pari degli estremisti religiosi. Ricordo sempre che, alle scuole medie, un professore redarguì aspramente un compagno che aveva definito mongoloideun altro, probabilmente per pura ignoranza da dodicenni, senza alcun intento realmente offensivo né la consapevolezza della gravità dell’affermazione. Penso che quel ragazzino, come lo ricordo io, ricorderà bene il perché, rispetto a tante altre offese di cui il vocabolario adolescenziale è ricco, quella fosse di una particolare gravità. Se fin da piccoli non educhiamo i nostri figli alla conoscenza e, di conseguenza, al rispetto della diversità, vivremo inevitabilmente in una società in cui la diversità non è concepita come una ricchezza, ma come un peso assistenziale. Quando incontro bambini che mi osservano con un misto di perplessità e interesse e, poi, chiedono ai genitori cos’ho o perché sono in carrozzina, non mi imbarazzo e invito, anzi, i genitori a fare altrettanto e a spiegare senza problemi (ammesso che anche i genitori ci arrivino…) che ci sono persone che, come me, hanno questa caratteristica. Nel mio caso, ce l’ho dalla nascita, in altri casi la carrozzina può diventare un accessorio indispensabile a seguito di eventi traumatici. Mi piacerebbe, ogni volta che càpita, che i genitori non mi definissero malato con i bambini, perché non lo sono. Quindi tento sempre di rispondere io, come posso, alle loro curiosità, spiegando che, come loro sono biondi o castani, alti o bassi, magri o grassi, io sono fatto così. I figli dei miei amici, che spesso vengono a casa mia, dunque sono abituati fin da bambini alla mia diversità, si arrampicano e giocano con la mia carrozzina con grande naturalezza e sembrano non percepire nemmeno la differenza, ovvero non se ne curano, non la considerano una cosa strana.
Mi racconta sempre un’amica che, quando la figlia incontrò al ristorante un signore in carrozzina, lei, che aveva poco più di un anno, gli corse incontro e cercò, tutta sorridente, di arrampicarsi sulle sue ruote. Il signore, fra lo stupito e il divertito, si sentiva quasi preoccupato di non fare paura alla bimba e si interrogava sul perché di tanta, per lui inusuale, naturalezza. Non poteva sapere che la bimba era abituata alla mia presenza e che tentava di replicare col malcapitatoun’arrampicata più volte messa in atto su di me! Altro aneddoto sul genere, una volta avevo un appuntamento con una persona che non avevo mai visto per discutere di un intervento a un convegno. L’amica che ci aveva messi in contatto aveva lungamente parlato di me e dei miei articoli a costui, omettendo un piccolo dettaglio: il mio deficit. Dovendoci incontrare in un luogo pubblico e riconoscerci, la mia amica ci aveva reciprocamente descritti (non era ancora l’epoca degli smartphone, per cui avremmo agevolmente potuto scambiarci una foto!) con le rispettive caratteristiche fisiche: alto, basso, castano, con o senza barba e capelli… aveva completamente omesso il fatto che io giro su quattro ruote. Quando ci individuammo, notai che il mio interlocutore, sulle prime, era decisamente perplesso. Poi, la mia amica mi confessò che lui l’aveva chiamata e le aveva chiesto, come mai, di tutte le caratteristiche mie più evidenti, non aveva elencato la più lampante in assoluto. La mia amica, candidamente, ammise di non averci proprio pensato. Ecco, questa è la vera integrazione, non quella propugnata dalle Istituzioni e anche da molte associazioni, che sa spesso di forzatura: si tratta, invece, di un vero e proprio cambio di mentalità nell’approccio con la diversità.
Quando questa sarà davvero percepita solo come una caratteristica fisica e nulla più, allora avremo la vera svolta. Troppo spesso, ancora oggi, i genitori si sentono quasi obbligati a tenere nascosti i propri figli con handicap, quasi fosse una vergogna e, addirittura, una colpa. Troppo spesso queste madri sono state fatte sentire in difetto persino da qualche medico, come se l’handicap del figlio fosse conseguenza di una qualche azione o, peggio, di gravi peccati commessi dai genitori. Solo l’abitudine alla diversità potrà modificare questo modo di pensare. Fino ad allora, ci saranno tanti “Charlie” convinti di poter far ridere con… un cromosoma in più.

Una risata vi seppellirà

Mi è capitato di leggere sulla rivista superabile magazine di agosto 2015, un articolo dal titolo “ Le nuvole sono noiose”. Raccontava di Stefano un ragazzo che era innamorato di Ludovica, il colpo di scena si ha quando gli chiede di occuparsi di suo fratello down, per un paio di giorni, perché lei doveva stare in ospedale dalla madre appena operata. Stefano era molto perplesso e preoccupato perché per lui questa era una prima volta, all’ inizio tira fuori un sacco di scuse per evitare questa responsabilità che ai suoi occhi è un vero e proprio “pacco”, ma poi Ludovica con qualche promessa e qualche moina lo convince ad accettare, così si ritrova proiettato in un mondo che non conosce, ma che capisce pian piano non essere così triste e difficile come si era immaginato. La prova del nove è al matrimonio della sua ex Alessandra a cui è invitato e dovrà andarci con Andrea, questo era il nome del fratello down di Ludovica.  Andrea si rivelerà l’ invitato più imprevedibile e proprio per questo più divertente di fronte al quale si svelano i sentimenti più repressi e nascosti. Un episodio emblematico è quello in cui Andrea approccia anche fisicamente Giovanna la più avvenente e procace ex compagna di liceo facendo morire di invidia tutti i maschi che avrebbero voluto essere al suo posto e non hanno mai avuto il coraggio di provarci. La lettura di questo articolo mi ha riportato indietro di più di 30 anni, quando ero convinto di dover trovare una ragazza che oltre alla bellezza e alla cultura umanistica dovesse conoscere già il mondo della disabilità, per esempio, avere un fratello o un parente disabile. Il bello è che trovai una ragazza con tutte queste caratteristiche, alla fine riuscii a corteggiarla e a dirle quello che provavo per lei, non disse no, ma pur rimanendo amici le nostre strade si separarono. Questa storia mi ricorda anche un altro episodio molto meno piacevole accaduto durante il matrimonio di mia sorella, quando gli invitati dello sposo vedendomi per la prima volta restarono scandalizzati dalla mia presenza e chiesero ai miei genitori perché mi avessero portato. Vi lascio immaginare la reazione di mia madre e quella un po’ più composta di mio padre che cercava di calmarla e consolarla, io credo che sia stato per loro uno dei giorni più brutti della loro vita. I tempi sono un po’ cambiati, le persone disabili sono più conosciute e “questo mondo” non spaventa più come una volta, o almeno così appare. Ho letto una notizia che mi ha fatto rabbrividire e ricordare altri tempi: nella “civilissima” Danimarca è in vigore un progetto per il quale entro il 2030 grazie all’ aborto terapeutico non nasceranno più bambini down. La Danimarca non è l’ unico paese ad avere adottato delle linee guida che prevedono una vera e propria “soluzione finale” della questione dei portatori di handicap. Anche l’ Inghilterra ha una legge che consente l’aborto di feti “difettosi” fino al nono mese di gravidanza. La giustificazione di questo è il non far nascere persone infelici, ma Andrea nella nostra storia risulterà quello che riuscirà a divertirsi e a far divertire gli altri invitati al matrimonio. Essere imperfetti, almeno secondo certi canoni, non significa essere infelici a priori. Jérôme Lejeune lo scienziato che ha scoperto la trisomia 21 e che ha utilizzato la diagnosi prenatale per aiutare i bambini con la sindrome di Down a curarsi, racconta di un episodio bellissimo: mentre riceveva un premio, un ragazzo Down gli saltò al collo per ringraziarlo per quanto l’avesse aiutato e si fosse sentito amato da lui e anche per questo non nascondeva la sua sofferenza per il fatto che la sua scoperta venisse usata contro i feti affetti da questa sindrome. Lui stesso si chiede:“È preferibile una società di uomini imperfetti ma che si sentono voluti o di persone efficienti che non possono chiedere mai e quindi nemmeno ricevere amore? Ci scandalizziamo giustamente se qualche paese europeo costruisce dei muri anti migranti ma anche questi progetti danesi ed inglesi sono dei muri per impedire ai disabili di entrare nella vita e nella società, è la cultura dello scarto che Papa Francesco denuncia quotidianamente. Questa società crede di poter essere felice se tutti i cittadini non sono portatori di problemi, ma chi può dire di non aver problemi? Josephine Quintavalle, la più nota esponente laica del movimento pro-life britannico, che davanti al tentativo della Danimarca di eliminare la sindrome di Down uccidendo chi ne è affetto, elogia l’imperfezione affermando: “L’uomo vuole essere efficiente per non avere bisogno”. Il problema è che in questo modo non è felice, ma solo Andrea con la sua spensieratezza e la sua allegria abbatte i muri del pregiudizio e dell’ipocrisia. Qualcuno una volta diceva: “Una risata vi seppellirà”; io credo e spero, che sarà così anche per quei muri che la nostra società tenta sempre di ergere. 

Una pizza per due

Di Stefano Toschi

Nell’anno dell’Expo e dell’Enciclica del Papa Laudato Si’, viene spontaneo riflettere sui temi legati al cibo, all’alimentazione, al Pianeta. È di pochi giorni la notizia che gli scienziati avrebbero trovato un pianeta analogo alla Terra: noi facciamo molta fatica a conservare il nostro, chissà se, ora, potremo andare a inquinarne e a sfruttarne un altro. Questi temi, comunque, sono più grandi di noi. Nel mio piccolo, il discorso sull’alimentazione è sempre stato molto complesso. Per una persona disabile, nemmeno un gesto base come nutrirsi è scontato. Io, ad esempio, non posso farlo da solo: ho bisogno di qualcuno che mi aiuti, ma posso scegliere cosa mangiare anche se so che non devo esagerare con la quantità. Quando c’era mia mamma, avevo instaurato alcune abitudini e alcune routine alimentari: essendo lei diventata anziana, era rassicurata da esse. Inoltre, qualora fossi stato male di notte a causa della cena, per lei, negli ultimi anni, sarebbe stato un problema e una fatica. Un piccolo vizio che ci concedevamo era la pizza del sabato sera: ordinata sempre nella stessa pizzeria, ce la dividevamo perché, per entrambi, una intera era troppa. Adesso che mia mamma non c’è più, e che due operatori si alternano nella mia assistenza, il rito della pizza è rimasto, se non fosse che, da pizza del sabato, è diventata pizza del mercoledì. Perché? Perché i miei collaboratori sono filippini. Vi chiederete cosa c’entra. Ebbene, ho scoperto che, nel mondo… Tenetevi forte… Esistono persone a cui la pizza non piace. Incredibile, vero? Però, all’operatore che è con me il sabato sera, la pizza non piace e non la digerisce. Così, la divido con quello del mercoledì. E ho scoperto che, in generale, i filippini preferiscono il riso alla pizza. All’inizio mi sembrava una cosa assurda. Poi, con loro, abbiamo condiviso gusti e abitudini alimentari. Ora il riso abbonda sulla mia bocca, per contro, loro hanno imparato a variare maggiormente il loro menù. Nel tempo, ho avuto collaboratori e amici di tante nazionalità: Albania, Polonia, Costa d’Avorio, Camerun, Romania, Filippine, non le ricordo quasi nemmeno tutte. Con ognuno, la condivisione del pasto è stato un momento di grande conoscenza personale. Per due ragioni: sia per lo scambio di culture e tradizioni diverse, sia perché io, come dicevo, non riesco a nutrirmi da solo: questo gesto, così necessario, è sempre stato quello che ha segnato un passaggio nel livello di confidenza con i miei commensali. Ogni tanto scherzo sul fatto che ho due amici storici, dai tempi del liceo, di cui uno è bravissimo a darmi da mangiare, uno a darmi da bere… Soprattutto il vino! Per me è importante anche come uno mi porge il cibo. Alcune volte, infatti, ho rischiato seriamente di soffocare perché mi era stato porto male un boccone. Dunque, mangiare con me è, insieme, un momento di convivialità e confidenza, ma, anche, un momento che richiede attenzione all’altro e insegna una vera condivisione del pane. Dai miei collaboratori stranieri ho imparato quanto il cibo possa farti sentire un po’ più vicino a casa, quando sei a migliaia di chilometri da essa. Cucinare e condividere il cibo della tradizione è un modo per sentirsi legati alla propria terra e alle proprie origini. Io mi sono abituato a odori e sapori che non conoscevo, che, per essi, sono un po’ come la madeleine di proustiana memoria. Come, per noi bolognesi, i tortellini vogliono dire Natale, così, per tanti migranti, ci sono piatti e profumi che vogliono dire casa. Quando si è lontani dalla famiglia, in un Paese straniero, ogni flebile legame con la propria terra e le proprie tradizioni rappresenta un’àncora alla normalità di quella che è stata la propria vita fino a quel momento. Il cibo, che, per noi occidentali, è sopratutto cultura e socializzazione, e la sua presenza è data per scontata, per molti, in altre parti del mondo, è ancora un problema. Nel 2015 si muore ancora di fame. Sembra incredibile, ma, nel mio piccolo, se posso dare per scontata la presenza di cibo sulla mia tavola, non posso dare per scontato di poterlo mangiare. Trovandomi da solo, non potrei. Ancora di più, dunque, per me cibo significa condivisione e socialità, perché io non posso mai mangiare da solo. D’altra parte, la tavola è anche il luogo di grandi trattative, il momento in cui le parti sono meglio disposte al confronto. Anche per me è sempre stato un momento significativo, perché, se è vero che, come si dice, a tavola non si invecchia, capisco perché io mi mantengo sempre giovane: chi siede con me al desco sa quando inizia, ma non quando finisce, dal momento che, dovendomi imboccare, con i miei tempi, i pasti sono sempre molto lunghi. Anche in questo caso posso fare un elogio alla lentezza, che permette di parlare, conoscersi e, ai miei amici e operatori, di mantenersi giovani con me.

Eredità materiali e morali


Di Stefano Toschi

I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie dell’ardore che la Vita ha per se stessa.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme.
Potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri,
poiché essi hanno i propri pensieri.
Potete custodire i loro corpi, ma non le loro anime,
poiché abitano case future, che neppure in sogno potreste visitare.
Potete sforzarvi di essere simili a loro,
ma non cercate di rendere essi simili a voi,
poiché la vita procede e non si attarda su ieri.
Voi siete gli archi da cui i vostri figli come frecce vive,
sono scoccati lontano.
(K. Gibran, Il profeta)

Quando si parla di disabilità, c’è un tema scottante che, spesso, viene sottovalutato dalle famiglie delle persone interessate: il tema del dopo di noi. Purtroppo, i genitori dei disabili crescono nel loro ruolo con la convinzione di dover proteggere e difendere i propri figli da tutto e da tutti (sentimento che, di per sé, nutrono i genitori anche di figli del tutto normodotati) e con l’assunto incontrastabile che nessuno meglio di loro sia in grado di prendersi cura della prole con deficit. Ritengono, a volte anche parzialmente a ragione, che nessun medico, infermiere, operatore, educatore, potrà mai assisterli meglio di loro: anche laddove il paragone sia con professionisti della sanità o del sociale ai massimi livelli, resteranno sempre convinti di compensare le proprie carenze con tutto l’amore che riversano nelle azioni assistenziali. Certamente, come si dice, se c’è l’amore c’è tutto, ma questo vale da un punto di vista strettamente sentimentale e relazionale, mentre, quando si mettono in gioco fattori che richiedono competenze specifiche, il troppo amore rischia di fare danni, anche irreversibili, al corpo e alla psiche dei giovani disabili. Infatti, essi stessi possono crescere con due opposte sensazioni al riguardo: la stretta convinzione che solo i genitori li amino e siano in grado di occuparsi di loro, oppure, al contrario, il senso di ribellione per la costrizione di un rapporto quasi esclusivo con i parenti, con scarsa apertura al mondo esterno e a frequentazioni più variegate e socialmente soddisfacenti. Tuttavia, è nella natura delle cose che i figli sopravvivano, quasi sempre, ai genitori. Il venire meno di questi ultimi, nel momento in cui si trovano a essere gli unici interlocutori, assistenti e punti di riferimento di un figlio disabile, rende la persona con handicap completamente spaesata, timorosa, angosciata da questa nuova condizione di orfano. Tante associazioni, oggi, lavorano sulle e con le famiglie con figli diversamente abili, in primo luogo per garantire una adeguata successione nell’assistenza dopo la morte dei famigliari, ma, ancor prima, per contribuire a modificare la mentalità degli interessati. Il lavoro è arduo: è necessario essere in grado di convincere i genitori di non essere sempre indispensabili, di far loro capire che il figlio è altro da sé, un individuo, spesso in grado di fare cose che nemmeno si immaginano. Poi, bisogna far capire loro che il figlio ha talenti, doti e qualità nascoste, perché soffocate dall’eccessiva apprensione e desiderio di tutela. Talvolta, anche il soggetto disabile stesso va persuaso di possedere tante qualità, perché, laddove gli sia stato in qualche modo impedito, pur in buona fede, di esercitarle, la scoperta di esse diventa sorprendente per tutti. In Italia, esistono esperienze di cohousing per disabili che stupiscono costantemente tutti i soggetti interessati: ragazzi con disabilità più o meno gravi si rivelano in grado di portare avanti progetti di vita autonoma fino a quel momento mai nemmeno immaginati per loro. I genitori sono, quasi sempre, quelli che, di fronte all’uscita di casa del figlio, così come avviene per qualsiasi, normalissimo giovane, restano traumatizzati. Ma, si sa, le mamme italiane sono famose in tutto il mondo per essere particolarmente chiocce! Quando i genitori (tutti!) deresponsabilizzano i figli, cercando di agire per loro, di proteggerli e tutelarli eccessivamente da quelli che percepiscono come i pericoli del mondo esterno, si generano giovani adulti incapaci di provvedere a se stessi, soprattutto nelle difficoltà – inevitabili – della vita. Quando il disabile è stato eccessivamente salvaguardato dal mondo esterno, venendo meno la rete familiare, si verificano più facilmente situazioni spiacevoli come tentativi di truffa per impossessarsi dei beni, soprattutto nei confronti di persone con qualche problema psichico, ma anche i disabili fisici possono essere oggetto di qualche truffa, in quanto non sono in grado fisicamente di controllare i loro possedimenti. Ci sono associazioni meritorie, dicevamo, nate appositamente per aiutare le persone disabili nel passaggio dalla vita familiare a quella autonoma, che fanno un ottimo lavoro (se glielo lasciano fare), ma, a mio avviso, il sistema migliore per la serenità di tutti è creare una rete di amicizie che possano accompagnare le persone disabili nei momenti più difficili della loro vita. Parlando di me, ad esempio, posso dire di avere avuto 3 o 4 amici, che lavorano nel sociale con diverse mansioni, che quando mia madre non era più in grado di assistermi mi hanno aiutato nelle questioni pratiche, mi hanno sostenuto moralmente e mi hanno consentito di trovare dei collaboratori che mi hanno permesso non solo di continuare la mia vita in tranquillità, ma, anzi, sotto certi aspetti di migliorarne la qualità. Ad esempio, mia madre, negli ultimi tempi, essendo molto stanca a causa dell’età e della malattia, non riusciva più a cucinare, mi preparava sempre lo stesso menù e in scarsa quantità, aveva paura che vomitassi, cosa che per lei, soprattutto di notte, sarebbe stato un grosso problema. Adesso non ho più queste preoccupazioni. Sarebbe importante che le persone disabili fossero preparate al momento del distacco dalla famiglia attraverso delle prove di vita autonoma, in cui apprendere e affrontare le piccole cose di ogni giorno. Ad esempio io, anche se non ho mai fatto esperienza di vita autonoma prima della scomparsa di mia madre, andavo sempre in vacanza con i miei amici da quando avevo 20 anni, quindi per 2 o 3 settimane l’anno ero costretto a fare delle scelte: cosa mangiare, come vestirmi, ecc. Questo, pian piano, mi ha abituato alla mia vita autonoma, o meglio a una vita comunitaria, in cui le decisioni piccole e grandi si prendono insieme e le responsabilità sono comuni. Ma, per fare questo, bisogna che i genitori abbiano il coraggio di lasciare i figli disabili alle cure di persone esterne. L’autonomia del proprio figlio, si diceva, spaventa qualsiasi genitore: tuttavia, il genitore della persona con deficit deve essere in grado di superare questo timore, proprio per non far sentire il figlio handicappato, bensì un soggetto degno di fiducia e con la possibilità di costruire un progetto di vita che non si riduca in un mero assistenzialismo, scevro di prospettive di tipo educativo, sociale, affettive.
La vera eredità che i genitori dovrebbero lasciare è proprio questa mentalità, che aiuta ad affrontare le sfide della vita, o, almeno, consente di avere una rete di amicizie in grado di aiutare la persona con deficit nelle proprie scelte di vita. Solo così il dopo di noi può diventare un periodo di vita sereno e soddisfacente, sicuramente diverso da quello precedente, ma non per questo peggiore.