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Parole extrachiare

di Stefano Toschi

Il tema dell’immigrazione è sempre più in primo piano nel nostro Paese. Esso porta con sé tante implicazioni, sociali, economiche, nel mondo del lavoro, ma, spostando il focus dell’attenzione solo ed esclusivamente sulle persone, vorrei affrontare un argomento che finora è stato poco trattato: il rapporto tra immigrazione e disabilità. Già una decina di anni fa, l’Associazione Beati noi commissionò una ricerca su questa tematica, allora del tutto all’avanguardia.
Emerse, tuttavia, come l’argomento risultasse scarsamente trattato per il fatto che difficilmente il fenomeno migratorio avrebbe potuto riguardare, all’epoca, adulti con disabilità. I pochi anni trascorsi, però, a oggi paiono ormai un’era geologica perché nel frattempo sono cambiate tantissime cose. I migranti non sono più solo giovani uomini in età da lavoro, ma intere famiglie, con anziani a carico (e, si sa, senectus ipsa morbus est) o con bambini piccoli al seguito, sempre più spesso bambini che nascono in Italia. Per i bambini con disabilità si cercano cure migliori nel nostro Paese. Quasi sempre i piccoli sono vittime del pregiudizio e dell’ignoranza nella propria terra d’origine: albini, epilettici, schizofrenici, paralitici, ogni deficit più o meno grave è visto come una maledizione per tutta la comunità, come una caratteristica demoniaca. Il soggetto che manifesta deficit e la sua famiglia, invece di essere accolti e aiutati, vengono spesso allontanati ed emarginati. Non che nella nostra, occidentalissima società le cose vadano molto meglio: tuttavia, per lo meno, il welfare state all’europea rende praticabile un certo tipo di assistenza pubblica. Negli anni mi è capitato di incontrare diversi ragazzi di origine straniera con deficit e le loro mamme. Sì, perché, nella quasi totalità dei casi sono le donne, a qualsiasi categoria sociale appartengano, a farsi carico dell’impegnativo lavoro di cura della prole. Vuoi per reazioni di paura, di rifiuto, vuoi per reale incapacità o per mancanza di fiducia nella società che li accoglie, i padri, spesso, si defilano di fronte a queste difficoltà. Emerge, allora, tutta la forza d’animo di queste madri che combattono per la salute e il benessere dei propri figli. In queste situazioni di doppia fragilità si evidenziano con chiarezza tutte le caratteristiche più significative della condizione di disabilità. Prima di tutto il pregiudizio: la disabilità è vissuta non come una caratteristica dell’individuo, mal che vada come una malattia, ma come risultato dell’essere malvoluti dagli dei, o l’essere oggetto di una maledizione, di un malocchio, di una volontà ultraterrena o, peggio, come il risultato di una colpa compiuta dai genitori, più spesso dalla madre, o come una punizione per l’intera comunità. Da ciò deriva l’isolamento della persona e della famiglia, che non sono sostenuti da una rete solidale, ma abbandonati a se stessi.
L’immigrazione in terra straniera comporta necessariamente il venir meno delle reti solidali di parentela o vicinanza, mettendo a nudo in maniera estremamente evidente la situazione di solitudine che la presenza del deficit porta con sé. Spesso, poi, l’ignoranza di alcune peculiarità antropologiche da parte dei medici, la cattiva comprensione della lingua e l’incapacità di comunicare appieno dall’altra parte rendono molto difficile formulare le diagnosi, facendo perdere tempo prezioso per salvare il salvabile.
Mi raccontò una volta una mamma di come al suo bambino appena nato non fosse stata riconosciuta
in tempo una sofferenza fetale, che se solo fosse stata curata tempestivamente non avrebbe portato con sé danni irreversibili. La neomamma, nordafricana, denunciò ai medici il colorito scuro del suo neonato, ma essi la apostrofarono dicendole che era troppo apprensiva come ogni puerpera e che se suo
figlio era scuro lo doveva, ovviamente, alle proprie origini. La mamma, tuttavia, aveva giustamente rico-
nosciuto che non si trattava di un colorito normale, ma fu l’ignoranza a parlare per quei medici. D’altro canto, le scarse conoscenze linguistiche portano, talvolta, i genitori a non essere in grado di spiegare
correttamente i disturbi e i sintomi manifestati dai loro figli: anche questo rallenta le diagnosi in modo significativo. Da ciò emerge l’importanza della comunicazione, verbale o meno, di fronte alla disabilità, ma anche l’importanza dell’insegnamento della lingua come primo, fondamentale veicolo di integrazione. Ci sono dolori così forti, di fronte alle difficoltà di un figlio, che se, oltretutto, non sai comunicare, non sai come affrontare, non riesci a spiegare, si amplificano a dismisura. Per non parlare di quando il figlio con disabilità nasce proprio nel Paese in cui si è scelto di trasferirsi. Ogni progetto migratorio implica che il Paese di destinazione sia visto come la soluzione, se non a tutti, a gran parte dei propri problemi. Ci si immagina che, trasferendosi, si andrà a stare meglio. Qualora, invece, ci si trovi di fronte alla nascita di un figlio con qualche difficoltà, si vive la situazione come una sorta di doppio tradimento. Si parte per stare meglio e ci si trova ad affrontare una difficoltà non prevista, qualcosa che non dovrebbe mai accadere nell’Eldorado immaginato. Ecco che la presa di coscienza diventa ancora più complessa.
Per non parlare di chi incontra la condizione di disabilità sul lavoro: le morti bianche, altro tema “caldo” dei nostri giorni, gli incidenti sul lavoro, sono tristemente numerosi, specie fra i cittadini immigrati, dal momento che ad essi, più di frequente, viene richiesto di lavorare in situazioni di pericolo, senza adeguati sistemi di sicurezza, spesso in nero, senza garanzie né tutele, per pochi soldi. Si tratta di una vera e propria piaga sociale, difficile da combattere, ma che richiede una grandissima dose di attenzione e impegno da parte dei nostri governanti. Per contro, di fronte a situazioni di duplice difficoltà, si riscoprono o si creano legami sociali insperati, fra immigrati, ma anche fra italiani e non, magari accomunati proprio dalla necessità di assistere un familiare, di lottare per lui. Le reti sociali si consolidano proprio in risposta a questi ostacoli, quasi sempre intorno a qualcuno che trova la forza di reagire. Talvolta sono la fede e la religione a fornire risposte e la capacità, se non di andare avanti, di accettare la situazione. Il conforto lo si trova, talvolta, nelle cose e nelle persone più insperate. La speranza, insieme alla fede, sono un motore di vita e di senso degli accadimenti di essa. Una speranza che, a volte, si fa molto concreta: ad esempio, si ripone fiducia nei progressi della medicina, coltivando la speranza che possa trovare soluzioni adeguate. A volte una diagnosi clinica, per quanto terribile, contiene in sé un germe di speranza, nascosto nella consapevolezza che no, non ci si stava sbagliando sui sintomi di un figlio, che davvero ha qualcosa che non va, che non è colpa sua, che si tratta di una malattia, di un deficit, con un nome proprio, non di un capriccio. Spesso, chiamare le cose col proprio nome aiuta non solo a guardare in faccia la realtà e ad acquisirne consapevolezza, ma anche a poterle affrontare con una sicurezza nuova, quella di chi conosce il nemico da combattere. Anche per questo mi batto da sempre perché la disabilità abbia un nome e un cognome. A ognuno il suo, senza generalizzazioni. Essere ipovedenti o spastici non è equivalente, non si tratta di deficit della stessa natura. Chiamare le cose col loro nome significa conoscerle. Anche la parola extracomunitari proprio perché è generica provoca incomprensioni e pregiudizi. Non si dovrebbe parlare di disabili extracomunitari, ma di quel ragazzo marocchino spastico o di quell’uomo filippino non vedente. Parlare chiaramente e non in modo generico è un grande passo avanti verso la vera accoglienza.



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